mercoledì 28 dicembre 2011

Il libro delle macchine ( IV )

Nel capitolo successivo, il secondo dedicato al "Libro delle Macchine" trovato a Erewhon, Samuel Butler comincia a diventare un po’ apocalittico: d’altronde, il genere del suo romanzo è questo, lo stesso del “Gulliver” di Swift. Ho tagliato qualche pagina, il ragionamento comunque funziona, e visto da oggi fa anche un po’ impressione. Molta più impressione che nel 1872, quando “Erewhon” fu pubblicato per la prima volta: perché nel frattempo le macchine si sono davvero evolute, e non di poco.
Samuel Butler, da “Erewhon“:
(...) A questo punto l'autore ridiventava così disperatamente oscuro che fui costretto a tralasciare parecchie pagine. Poi riprendeva: «Si può rispondere che, anche se le macchine riuscissero a sentire perfettamente e a parlare col massimo buon senso, il loro udito e la loro favella sarebbero al nostro servizio, e non al loro; che l'uomo sarà sempre la mente direttiva, e la macchina la sua serva; che appena la macchina non rende più il servizio che l'uomo si aspetta da essa, è destinata a morire; che la macchina si trova, rispetto all'uomo, nella stessa posizione degli animali inferiori, perché persino la locomotiva altro non è se non una specie di cavallo più economico; cosicché, lungi dall’essere destinate a raggiungere, nella loro evoluzione, una forma di vita superiore a quella umana, le macchine devono la loro stessa esistenza e il loro progresso unicamente alla capacità che hanno di soddisfare i bisogni dell'uomo, e di conseguenza sono e saranno sempre inferiori a lui.
Tutto ciò non farebbe una grinza: ma in realtà, pian piano, attraverso impercettibili mutamenti, il servo finisce per diventare padrone; e già siamo arrivati al punto in cui l'uomo, se fosse costretto a fare a meno della macchina, soffrirebbe terribilmente. Se tutte le macchine venissero distrutte nello stesso istante, e all'uomo non restasse né un coltello, né una leva, né uno straccio di vestito, nulla di nulla, tranne il corpo nudo e crudo con cui è venuto al mondo; se ogni nozione delle leggi meccaniche gli venisse tolta, ed egli non fosse più capace di fabbricare macchine; se tutto il cibo prodotto dalle macchine venisse distrutto, e la razza umana. si trovasse spoglliata di ogni cosa come su un'isola deserta, nel giro di sei settimane scompariremmo dalla faccia della terra. Pochi infelici, forse, sopravviverebbero, ma anch'essi, in un paio d'anni, diventerebbero peggio di scimmie.
L'anima stessa dell'uomo è dovuta alla macchina, è un prodotto della macchina; perché l'uomo pensa come pensa, prova le sensazioni che prova per l'influsso e l'azione delle macchine su di lui, e la loro esistenza è la condizione sine qua non della sua, come la sua della loro. Questo ci impedisce di chiedere la distruzione totale delle macchine, ma allo stesso tempo ci dimostra che è necessario distruggere tutte quelle che non ci sono indispensabili, per non diventare ancora più schiavi della loro tirannia.
Da un punto di vista bassamente materialistico si direbbe che abbia vita più prospera chi adopera le macchine quando gli fa comodo e gli conviene. Ma è proprio questa l'astuzia delle macchine: servono per poter comandare. Se l'uomo distrugge per intero una loro razza, non gli serbano alcun rancore, purché ne crei un'altra più perfetta; e anzi lo ricompensano generosamente per aver così accelerato il loro sviluppo. E’ quando le trascura che egli si espone alla loro collera, o quando non fa sforzi sufficienti per inventarne di nuove, o quando le distrugge senza sostituirle con altre. Eppure è proprio questo che dobbiamo fare, e al più presto; perché anche se la nostra ribellione contro il loro potere nascente provocherà infinite sofferenze, dove andremo a finire se aspetteremo ancora a ribellarci?

Esse hanno approfittato dell'ignobile preferenza dell'uomo per i suoi interessi materiali di fronte a quelli spirituali, e lo hanno vilmente indotto a prestar loro quell'elemento di lotta e di competizione senza cui nessuna specie può progredire.  Gli animali inferiori progrediscono perché lottano fra di loro: il più debole soccombe, mentre il più forte si riproduce e trasmette la propria forza. Le macchine, incapaci di lottare esse stesse, hanno spinto l'uomo a lottare in loro vece: finché egli compie il proprio dovere regolarmente, tutto va bene per lui (almeno così crede) ; ma appena cessa di combattere per favorire il progresso delle macchine, incoraggiando le buone e distruggendo le cattive, egli resta indietro nella corsa per il potere; e ciò significa che si troverà a soffrire mille disagi e forse perirà. Quindi, già adesso le macchine servono l'uomo solo a patto di essere servite, e pongono loro stesse le condizioni di questo mutuo accordo. Non appena l'uomo viene meno ai patti esse insorgono e si autodistruggono, distruggendo contemporaneamente tutto quello che possono, oppure si imbizzarriscono e si rifiutano di lavorare.

Quanti uomini vivono oggi in stato di schiavitù rispetto alle macchine? Quanti trascorrono l'intera vita, dalla culla alla tomba, a curare giorno e notte le macchine? Pensate al numero sempre crescente di uomini che esse hanno reso schiavi, o che si dedicano anima e corpo al progresso del regno meccanico: non è evidente che le macchine stanno prendendo il sopravvento su di noi?
La macchina a vapore assorbe il cibo e lo consuma col fuoco, esattamente come l'uomo. Alimenta la combustione con l'aria, esattamente come l'uomo. Ha un polso e una circolazione, come 1'uomo. Per ora, lo ammetto, il corpo dell'uomo è ancora il più versatile, ma è anche più antico. Date alla macchina a vapore solo metà del tempo di cui l'uomo ha potuto disporre, fate che essa approfitti ancora del nostro cieco amore per lei, e a quali vette non giungerà fra breve?
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)
(continua)

lunedì 26 dicembre 2011

La crisi dell'euro

E la Turchia, la facciamo poi entrare in Europa? Verrebbe quasi da ridere, se la situazione non fosse così grave: sono passati due anni, forse meno, da quando se ne parlava ogni giorno, da quando Borghezio e la Lega facevano le barricate contro gli islamici – possibile che non se ne ricordi più nessuno? L’euro era la moneta di riferimento, nuovi Paesi lasciavano la loro moneta per l’euro, gli arabi dell’OPEC cominciavano a dire che bisognava misurare il prezzo del petrolio in euro invece che in dollari. D’improvviso, o quasi, tutto questo non conta più niente. Come è possibile?

Qui c’è qualcosa che non mi torna e che non capisco, e se non capisco la colpa è sicuramente mia che non ho studiato abbastanza e di economia ne capisco poco o niente; però ho ascoltato tutte le spiegazioni, ho letto quello che ho potuto leggere, compresi i discorsi (molto tecnici) sul fatto che sono le banche a stampare la moneta e non gli Stati, come si faceva fino agli anni ’60, e che quindi gli Stati non sono i veri padroni della loro moneta, eccetera. Tutto giusto, adesso ne so qualcosa in più, mi sento anche di concordare, eppure.
Di tutte le considerazioni che ho ascoltato, e anche mettendo in conto le autentiche grida di panico sulla situazione in Europa (le mie comprese, molto sommesse ma anch’io ho una gran paura di quel che potrebbe succedere ai miei quattro soldi messi in banca, e anche di tutto il resto), mi sono segnato due o tre cose che ho ascoltato in mezzo a questa confusione di grida e di pareri, e sulle quali mi piacerebbe ragionare. Per esempio:
1) in Europa non c’è più al governo nessuno dei politici che contribuirono a fondare la moneta unica. Per dirla tutta: fino agli anni ’90 l’Europa era in gran parte socialdemocratica, oggi l’Europa è tutta di destra. Per dirla ancora più chiaramente: questa destra è fatta quasi tutta di “euroscettici”, quelli che nell’euro non ci credevano fin dal principio. Al loro fianco, nazionalisti e regionalisti, come la nostra Lega Nord, o come Le Pen in Francia. La domanda è dunque questa: come potrà mai reggersi l’euro, se è in mano a persone che non ci credono?
2) in Europa stanno rinascendo localismi e nazionalismi, per tacere del razzismo. Le generazioni di politici precedenti avevano lottato per abbattere le frontiere, i politici di oggi lottano per tirar su confini anche dove non ci sono mai stati, e per creare Stati sempre più piccoli. In queste condizioni, con questi politici, mi sembra naturale che la moneta unica (l’euro) incontri qualche difficoltà.
3) di tutti i commenti che ho sentito, quello che più mi ha colpito è stato questo: “davvero pensavate che gli Usa sarebbero stati fermi e passivi nel veder minacciata la supremazia mondiale del dollaro?”. Non è che lo abbiano detto in molti, e se lo hanno detto sono stati relegati in un angolino, ma la domanda mi sembra più che legittima, e anche un tantino inquietante. Tra le altre cose, spiegherebbe bene come mai fino a poco tempo fa noi tutti ignoravamo l’esistenza delle agenzie di rating, e oggi invece sembra che non si possa nemmeno respirare senza la loro approvazione.

E via dicendo: il discorso è lungo e complesso, non sarò certo io a trovare la soluzione, si parla così per passare il tempo; ma un’altra considerazione terribile è questa: in altri tempi, metà delle cose che sono successe in questi ultimi due anni, comprese le rivolte arabe, avrebbero condotto alla guerra.
Tocchiamo ferro e facciamo gli scongiuri, ma per intanto aggiungo ancora qualche considerazione: queste cose erano in gran parte prevedibili, a partire dai problemi derivanti dai bilanci in rosso di molti Stati: come mai non si è fatto niente? Non so bene cosa sia successo in Germania, in Francia, in Lussemburgo o nel Montenegro, ma qui da noi basta avere un po’ di memoria per ricordarsi di cosa si è parlato. Taccio per brevità e per estenuamento sulle mille leggi “ad personam” e sui mille condoni fiscali ed edilizi, ma si è per esempio perso molto tempo a parlare dei terroni degli zingari e degli extracomunitari (che sono magari un problema ma non certo il problema più grosso), e della secessione, e anche del federalismo fiscale che fatto in questo modo è un ottimo metodo per affossare l’economia e che invece è stato presentato come il Messia che avrebbe risolto ogni problema (la primissima cosa da fare, con il federalismo fiscale, era responsabilizzare i sindaci e gli assessori: se mandano in fallimento il loro Comune, che vadano in galera). E poi, con il governo Monti sono usciti i dati su cosa si è speso negli ultimi anni, con i soldi pubblici: maggiori beneficiati ne sono stati la TAV, il Ponte sullo Stretto, le autostrade, le spese militari. Per queste cose si è continuato e si continua a spendere; si è invece tagliato su pensioni, scuola, sanità, treni locali e trasporti pubblici, navigazione verso le isole, difesa dell’ambiente (frane e alluvioni), eccetera. Insomma, si sono spesi soldi nei giocattoli e non nelle cose che servivano veramente al Paese: anche con questo si spiega la crisi, quella dell’euro e quella di noi tutti.
E soprattutto c’è una cosa di cui non sentirete mai parlare: dopo la “morte del comunismo” nel 1989, adesso siamo alla morte del liberismo reaganiano e thatcheriano. Vi ricordate? “Il comunismo ha portato povertà e crisi economica nei Paesi dove ha governato”. Invece noi siamo stati furbi, abbiamo votato a destra...

domenica 25 dicembre 2011

Giorgio Bocca

Uno dei primi giornalisti che ho imparato a riconoscere e che ho sempre seguito è stato Giorgio Bocca. Il che significa che lo leggo da una vita, cioè da quando mio fratello comperava "Il Giorno" (fine anni '60) e anch'io gli davo un'occhiata. Giorgio Bocca e Walter Tobagi sono stati i primi giornalisti che mi hanno fatto capire qualcosa, su come funzionava il mondo; Tobagi me lo hanno tolto subito (gli ha sparato un figlio di papà che giocava alla rivoluzione, negli anni '70), Bocca invece è rimasto con noi fino a ieri, meno di un mese fa scriveva ancora, e lo leggevamo in tanti: lucidissimo, anche a 91 anni. Non sempre ero d'accordo, non sempre mi convinceva, era diversissimo da me, ogni tanto mi ci arrabbiavo, ma dopo aver letto i suoi articoli avevo sempre qualche informazione in più.
Metto qui qualche estratto dai suoi articoli, preso a caso: ne ho conservati molti, sono tutti da rileggere, spesso sono sorprendenti, altre volte sorprende il fatto che Bocca sia stato criticato: perché raccontava quello che era sotto gli occhi di tutti.

Dietro a Letizia Moratti la città dei danée
MILANO, LA CITTÀ FEROCE
di Giorgio Bocca, Repubblica 13 maggio 2011
La "moderata" Letizia Moratti che affonda i denti su Pisapia affilati dalla lama di una falsa accusa mi ha fatto riflettere sulla Milano della mia vita, i suoi cambiamenti, il suo diventarmi straniera. Chi arriva a Milano da Torino, insomma da Ovest, vede alla sua sinistra due torri color cioccolato, una dritta al cielo e una storta come quella di Pisa. Perché?
L'unica ragione di chi le ha costruite è che la gente si chieda il perché, dato che anche in quella pendente i piani abitativi sono orizzontali. Poi chi entra in città per uno stradone a curve larghe va per il paese delle meraviglie balorde: edifici colossali a triangolo, a rombo, tanto per stupire, e ci si chiede perché nell'era moderna migliaia di persone vi si debbano rinchiudere nelle ore di lavoro.
Per cominciare Milano è questa, una città come le altre città moderne dove fra le case e chi ci abita e lavora non c'è più un rapporto logico, naturale, di bisogni e di utilità, ma una pretesa ridicola di apparire creativi, originali, ultramoderni. Insomma il rovesciamento della logica millenaria per cui una casa serviva per abitarci e per lavorarci.
Procedendo verso il centro si presenta un'altra domanda senza risposta: perché gli uomini moderni metropolitani devono stare tutti insaccati in una megalopoli e non nell'ampiezza naturale del territorio, tanto più adesso che con i mezzi di telecomunicazione ognuno potrebbe lavorare a casa sua? Questa è una domanda che un provinciale come me, nato e vissuto fino ai vent'anni in una città alpina fra due fiumi dove non c'era una giornata di nebbia, dove, lo diceva Dino Buzzati, ogni mattina dalla mia finestra apparivano le montagne bianche di neve, si pone.
Ma perché allora noi milanesi dobbiamo vivere qua, lungo il fetido Lambro e sotto la sua fetida politica? Perché siamo qui per partecipare a un "tavolo", per fare la trattativa fra le varie corporazioni produttive e burocratiche. Perché è stata creata quest'immagine del tavolo? Cosa è, una metafora?
No, in tutte le direzioni aziendali e manifatturiere, amministrative e politiche c'è veramente un tavolo nel salone delle riunioni, tavoli ovali lunghi decine di metri con tutte le sedie attorno. È chiaro che queste riunioni hanno un puro significato simbolico, sono fatte per far credere che la scelta era corale, democratica, mentre tutti sanno che a decidere sono solo i pochi che contano veramente. Il culto del tavolo di cui si parla di continuo significa che la Milano di oggi è soprattutto una società urbana condiscendente e concorde. La dirigono, come in un'aristocrazia, le famiglie ricche, i gruppi finanziari potenti non sono legati solo da parentele e da interessi economici, ma anche da legami sportivi, i Moratti dall'Inter e i Berlusconi dal Milan, legami che non sono soltanto affettivi ma anche politici.
I"dané" nella Milano di oggi contano come in quella di ieri, di sempre, la Moratti sindaco spende per la campagna elettorale quanto tutti gli altri candidati messi insieme, e il Moratti presidente dell'Inter ha speso in questi anni per la squadra milioni di euro, che ai gonzi sembrano spese folli da ricco ambizioso in cerca di popolarità, e invece sono strumenti di consenso politico più convenienti di qualsiasi campagna pubblicitaria.
Ma che cos'è in questa vigilia elettorale questa Milano? Una metropoli feroce del capitalismo avanzato in cui sotto varie forme comandano i ricchi che hanno il favore e la fedeltà della maggioranza benestante o soddisfatta del suo stato, diciamo il sessanta percento degli abitanti. Gli altri quaranta, che in teoria dovrebbero stare all'opposizione, sono rassegnati a essere cittadini di serie B, per non parlare dei poveri che sono come la pula del grano che vola a ogni soffio di vento; un po' ridicolo che questa società autoritaria dei pochi ricchi e potenti abbia la fedeltà sicura dei benestanti e dei comunque soddisfatti. Ma così è e i signori di Milano non hanno il carisma dei principi e dei sovrani ma sono sopra ogni critica, possono governare la città senza essere criticati da un elettorato che rappresenta la nuova classe unica della borghesia allargata che bada ai suoi interessi, provvede alle opere indispensabili. E che i poveracci vadano a togliere il disturbo dove vogliono, possibilmente isolati.
Milano è l'immagine perfetta di una società che si crede democratica perché rispettosa di alcuni princìpi, sia chiaro importantissimi, ma non al punto di poter condizionare o sostituire il potere del denaro. Il governo dei ricchi e dei potenti nella società democratica occidentale è, sia ben chiaro, una conquista. Ma il decadimento civile del paese, a cominciare da quello della lingua ridotta a una serie di luoghi comuni, di etichette mandate a memoria, questo è un prezzo durissimo che stiamo pagando alla generale mancanza di indignazione, di protesta a ogni violazione pretesa dal dominio economico e pubblicitario.
Salvo poche eccezioni non c'è più un politico, un amministratore pubblico, un operatore economico che sappia parlare una lingua, non diciamo corretta, ma decente. Si preferiscono sfilze di luoghi comuni appiccicati alla memoria. Nei livelli inferiori della cronaca e in una gran parte delle cronache sportive si parla come selvaggi da poco arrivati al mondo civile, immagini stereotipe, aggettivi esagerati, congiuntivi omessi. Siamo arrivati al rimpianto dei dialetti come unica fonte di lingua creativa, del loro vigore e chiarezza descrittiva, si preferisce l'obbedienza alle pressioni e ai controlli degli interessi economici. Sarà effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma mi sorprendo spesso a pensare e a parlare in piemontese, a chiamare le cose con un nome, con il loro nome nativo.
Chi ha paura del cardinal Bagnasco
di Giorgio Bocca, L’espresso 31 maggio 2007
Che ne pensa del Family day ? Un certo fastidio per il nome in inglese, da provinciali dell'impero anglosassone, da mercato globale per vendere di più che con "il giorno della famiglia". Poi lo strumentalismo politico cui non poteva mancare Silvio Berlusconi con il suo teorema imbecille: «Il Family day è di destra, solo i dementi sono di sinistra». E poi il trionfalismo, la retorica sulla famiglia bene supremo della società. Non sempre per fortuna. La famiglia per la continuazione della specie, per la formazione e l'esistenza della nazione, d'accordo, ma anche la famiglia come freno della perenne rivoluzione sociale, come ostacolo alla conoscenza.
Chi ha raccolto le sfide della vita sa che nei momenti decisivi ha dovuto disattendere o disobbedire ai legami della famiglia. La sera che me ne andai da casa per raggiungere la guerra partigiana dissi ai miei: «Sappiate che se vi arrestano o vi perseguitano io non scenderò dalla montagna per costituirmi».
Le famiglie hanno giocato un ruolo ambiguo durante il terrorismo più vicino ai legami del sangue che alla legalità. Le lodi alla famiglia cattolica, in parte condivisibili, sono parse fastidiose e acritiche nella loro ignoranza delle famiglie non cattoliche e nel silenzio sui freni e sui limiti che le famiglie hanno posto agli individui ardimentosi e generosi, rosi, anche se cattolici o santi che allargavano le umane conoscenze.
Di fronte alla manifestazione di piazza, e alle cervellotiche definizioni politiche su chi è un familista di destra o di sinistra, ci è parso di cogliere nella società italiana una diffusa diffidenza verso la democrazia intesa come convivenza e tolleranza fra i diversi. Per i cattolici ogni affermazione di laicismo è vista come una ostilità al mondo cattolico. Ogni riconoscimento di un diritto civile agli omosessuali come l'avvento del regno di Satana e, all'opposto, ogni difesa dei cattolici in materia religiosa come un ritorno alla caccia alle streghe o come una crociata sanfedista.
Chi vedeva nel cardinale Camillo Ruini un asfissiante difensore di privilegi clericali aveva le sue buone ragioni, ma quelli che promettono morte al cardinal Bagnasco perché fa le sue prediche sono afflitti da mania di persecuzione.
Che l'Italia sia un paese cattolico nei suoi meriti e nei suoi difetti è un fatto accertato, che la televisione pubblica sia al servizio del Vaticano, dei papi e delle loro pubbliche cerimonie è altrettanto evidente, ma non è una ragione per dire che la Repubblica italiana è una teocrazia in cui i laici sono schiavi dei preti.
In tutta la mia avventurosa vita non ho mai avuto ragione di temere un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Le ferree regole del capitale, gli infiniti delitti che vengono permessi e perdonati in nome dei soldi, sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo. I preti di adesso si fan vedere nelle nostre case solo per la benedizione pasquale e quando ci servono per confessioni e olio santo.
Si ha l'impressione che queste paure esagerate, queste contrapposizioni spesso fantastiche nascano dal sentimento generale che non si può andare avanti così, senza principi e senza regole, affidati soltanto alla moltiplicazione dei consumi e al dilagare della corruzione.
Non si può andare avanti con il rovesciamento dei valori che il capitalismo selvaggio sta operando. Da capo del governo Berlusconi dichiarava che l'evasione fiscale era un diritto dei cittadini, un modo di resistere allo Stato esoso. Finanziere di livello mondiale, il signor Briatore padrone del Billionaire ricorda con rimpianto i giorni in cui fu arrestato per gioco d'azzardo come inizio della sua fortuna. E allora i casi sono due: o un ritorno a un minimo di ordine o un nuovo cataclisma sociale.

Non c'è una sola falce e martello
Giorgio Bocca su la Repubblica (2005)
La prima falce e martello che vidi fu nel gennaio del ´43 su un marciapiedi di corso Dante a Cuneo, appena imbiancato dalla neve. Una piccola falce e martello nera nel candore della neve fatta da un comunista, come dire una specie allora rarissima, che ne aveva lo stampo in una scarpa; tante falce e martello nere come piccoli scorpioni pungenti, per una ventina di metri. Da lasciarti senza fiato all´idea che anche in una provincia dell´Italia fascista c´era uno con quello stampo in una scarpa, forse un compagno di Germanetto il comunista di Cuneo fuggito in Russia.
E lo stupore, lo scompiglio fra i fascisti delle Federazioni nel palazzo Littorio, la corsa a cancellarle e il pensiero, chi sarà, dove sarà l´uomo con il marchio, come se le distanze e i silenzi del regime si fossero squarciati e fosse apparsa l´immensa, misteriosa, minacciosa Russia di Stalin. Poi nella guerra partigiana le falci e martello sulle bandiere dei garibaldini, sulla carta intestata delle loro brigate e poi nella Torino della liberazione e della ricostruzione le falci e martello della Camera del Lavoro, delle sedi comuniste, dei cortei comunisti che ci erano diventati familiari, che facevano parte definitiva, si pensava, del paesaggio politico italiano. Quel simbolo per noi italiani non era e non è evocativo del terrore staliniano, come è nei Paesi che furono schiacciati dal tallone sovietico, era il simbolo di una lotta di classe che il fascismo aveva nascosta ma non cancellata, di lotte che avevano segnato le nostre campagne e le nostre città. Faceva parte della faticosa costruzione di un Paese unito. Un simbolo graficamente bellissimo, il simbolo delle fabbriche e delle mietiture proletarie, un simbolo tragicamente ambiguo, per gli uni promessa di rivincita, per gli altri, nella Russia della dittatura, di dolore e di pena.
C´era fra i garibaldini della Val Varaita un operaio torinese che era stato guardia del corpo di Gramsci all´Ordine nuovo. Si parlava del fascismo, della repressione, dei comunisti che si erano rifugiati nell´Unione Sovietica e il suo ricordo dominante era la sera in cui era arrivato per la prima volta sulla Piazza Rossa e in alto aveva visto la grande falce e martello illuminata, ed era caduto in ginocchio, gli occhi pieni di lacrime, sotto quel simbolo di liberazione della "schiava umanità". La richiesta da parte di deputati lettoni o polacchi di equiparare la falce e martello alla svastica nazista non è accettabile storicamente. La falce e martello della rivolta contadina e sociale italiana non ha nulla a che vedere con la falce e martello dell´espansionismo sovietico, e anche dentro le storie di popoli come il polacco o il lettone il rigorismo è sconsigliabile. Sia in Polonia che negli Stati baltici la collaborazione popolare alla persecuzione degli ebrei fu spontanea, popolare durante l´occupazione nazista. La storia è diversa da Paese a Paese; i partigiani baltici, i comunisti baltici erano degli stalinisti che appoggiavano le misure annessioniste dell´Urss, la loro falce e martello non era simbolo di autonomia e di libertà, ma di collaborazionismo e di asservimento.
La falce e martello del socialismo italiano è cosa ben diversa e l´Italia democratica non può rinunciare alla sua memoria e alla tradizione. Dopo la liberazione dell´Italia nel 1945 il blocco agrario tra latifondisti e alta borghesia era ancora dominante. L´autarchia, l´industria di Stato del fascismo avevano tenuto il Meridione nel suo immobilismo. Il grande latifondo esisteva ancora, basta pensare ai Baracco e ai Berlingieri che possedevano nella campagna di Catanzaro trentamila ettari. La paga giornaliera di un bracciante era di cinquanta lire, paga da fame, le condizioni di vita identiche a quelle scoperte dai piemontesi nei giorni dell´annessione, il fascismo delle conquiste coloniali e della guerra era passato nelle campagne del sud senza cambiarne la miseria. Il sud era ancora quello del feudo: villaggi e città arroccati sulle montagne da cui ogni mattino all´alba a dorso di mulo i contadini partivano per raggiungere i campi delle colture estensive. Il quarantasei per cento del voto contadino alla Repubblica nel ´46 è un evento quasi miracoloso e lo accompagnano le bandiere rosse con la falce e martello che nel socialismo italiano significano l´unione del movimento contadino con quello operaio, la nascita della democrazia italiana. … Teniamocelo questo simbolo - in questo senso - fin che sarà possibile.

(le immagini vengono da vecchi numeri dell'Espresso o di Repubblica, non ricordo più: sono molto belle e spero che non ci siano problemi nel pubblicarle qui, si tratta solo di un gesto di affetto e di riconoscenza da parte mia. Purtroppo, non ho foto mie di Giorgio Bocca: e in effetti, dato che non lo conoscevo di persona, non sarei mai e poi mai andato a rompergli le scatole, né a lui né a nessun altro, del resto...)

venerdì 23 dicembre 2011

Il libro delle macchine ( III )

Un computer di cinquant’anni fa, primi anni ’60, è ben visibile nel film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick: guardatelo bene, occupa un’intera stanza ma ha meno memoria del vostro telefonino. Il vostro smartphone, o anche un telefonino di dieci anni fa, sta nel palmo di una mano ma è infinitamente più potente di questo armadio a dodici ante. Stavo per dire: è molto più vivo – ma poi mi sono fermato.
Samuel Butler, da “Erewhon“:
«O si deve riconoscere» continuava «che molti atti finora considerati puramente meccanici e inconsci contengono più elementi di coscienza di quanto si ammetta (e in tal caso germi di coscienza si riscontreranno anche in molte operazioni delle macchine superiori) oppure (accettando la teoria dell'evoluzione ma negando contemporaneamente la coscienza all'azione dei vegetali e dei cristalli) la razza umana discende da esseri assolutamente privi di coscienza. Nel secondo caso non è da escludere a priori che dalle macchine attualmente esistenti discenderanno in avvenire macchine coscienti (e più che coscienti), anche se l'apparente assenza di un sistema riproduttivo nel regno meccanico fa sembrare la cosa improbabile. Quest'assenza, comunque, è solo apparente, e lo dìmostrerò.
Non vorrei che si pensasse, tuttavia, che io abbia paura delle macchine attualmente esistenti. Probabìlmente tutte le macchine conosciute sono solo prototipi della vita meccanica futura. Rispetto alle macchine dell'avvenire quelle di oggi sono come i primi dinosauri rispetto all’uomo. Le più grandi, con tutta probabilità, si rimpiccioliranno molto. Alcuni dei primi vertebrati avevano proporzioni molto maggiori di quelle ereditate dai loro discendenti, dotati di organismi più perfetti; allo stesso modo che le macchine, a mano a mano che si sviluppano e progrediscono, si riducono di dimensioni. Prendete ad esempio l'orologio; osservate il suo meccanismo perfetto, il giuoco intelligente delle minuscole parti che lo compongono; eppure questa piccola creatura è solo un perfezionamento delle ingombranti pendole che l’hanno preceduta, non una degenerazione.
Verrà un giorno in cui le pendole, che certo finora non si sono rimpicciolite, verranno soppiantate dall'uso universale dell’orologio: la loro diverrà quindi una specie estinta, come quella degli ittiosauri, mentre l'orologio, che da qualche anno tende a rimpicciolirsi piuttosto che a fare il contrario, rimarrà l'unico tipo sopravvissuto di una razza estinta. Ma, per tornare al nostro argomento, nessuna delle macchine attuali, ripeto, mi spaventa. Ciò che mi spaventa è la straordinaria rapidità con cui esse si stanno trasformando in qualcosa di ben diverso da quello che sono oggi. Nessuna specie animale o vegetale ha mai fatto, in passato, simili passi da gigante. Non dobbiamo dunque sorvegliare gelosamente il loro progresso, e arrestarlo finché siamo ancora in tempo? E per far ciò non è forse necessario distruggere le macchine più progredite oggi in uso, anche se sì ammette che di per sé esse non costituiscono un pericolo? Per ora le macchine ricevono le impressioni attraverso il veicolo dei sensi dell'uomo. Una locomotiva in moto lancia un grido acuto di allarme per avvertirne un'altra, e costei immediatamente si ritira: ma è attraverso le orccchie del conducente che la voce dell'una ha avvertito l'altra. Senza il conducente la macchina avvertita sarebbe stata sorda al grido di richiamo. Un tempo, certo, sembrò molto improbabile che le macchine apprendessero a manifestare i loro bisogni coi suoni, sia pure attraverso l'orecchio dell'uomo. Non possiamo, dunque, immaginare che verrà un giorno in cui quell'orecchio non sarà più necessario, e le macchine saranno capaci di cogliere il suono grazie alla loro stessa delicata struttura, un giorno in cui il loro linguaggio si sarà evoluto fino a diventare, da strillo, animalesco, un discorso complesso come quello umano? È possibile che a quell'epoca i bambini imparino il calcolo differenziale (come ora imparano a parlare) dalla madre o dalla nutrice; o che conoscano il linguaggio ipotetico o la regola del tre; ma non è probabile. Non possiamo sperare in un progresso delle capacità intellettuali o fisiche dell'uomo che regga il confronto col molto maggiore sviluppo cui sembrano destinate le macchine. Alcuni potranno dire che l'influenza morale dell'uomo basterà a dominarle: ma non mi sembra prudente contare molto sul senso morale di qualsiasi macchina. Fra l'altro, la maggiore gloria delle macchine non potrebbe consistere proprio nella mancanza del tanto vantato dono della parola? "Il silenzio," ha detto uno scrittore "è una virtù che ci rende graditi ai nostri simili"».
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)
(continua)
(le immagini vengono da “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick: il computer alle spalle di Peter Sellers è vero, era quello in uso alla Nasa al tempo dei primi viaggi nello spazio).

giovedì 22 dicembre 2011

Il libro delle macchine ( II )

Che la si consideri dal punto di vista dei creazionisti (la Genesi, la nascita di Adamo) o dal punto di vista scientifico, la vita nasce sempre da qualcosa di inerte, di inanimato: un sasso, il fango di una pozzanghera, queste cose qui. Difficile pensare, guardando in una pozzanghera, che anche noi veniamo da lì: eppure è successo. Ci sono voluti miliardi di anni, ma adesso ci siamo. Difficile anche trovare una pozzanghera, adesso che ci penso: ormai ci sono solo buche nell’asfalto, qui intorno, ed è ancora più difficile pensare alla vita che nasce da una buca nell’asfalto. Eppure...

Samuel Butler, da “Erewhon“:
Poi, tornando alla coscienza, e tentando di scoprirne le prime manifestazioni, l'autore prosegue:
«Esiste una pianta che si nutre di materie organiche per mezzo dei propri fiori; quando una mosca si posa sul calice i petali si chiudono e la rinserrano finché la pianta non l'ha divorata e assimilata; ma quegli stessi petali imprigionano soltanto ciò che può nutrirli. Di una goccia di pioggia o di una scheggia di legno non fanno alcun caso. Curioso: una cosa tanto incosciente sa distinguere tanto bene il proprio utile! Se questa è incoscienza dov'è che c'è la coscienza? Dovremmo dire che la pianta non sa quello che sta facendo semplicemente perché non ha occhi, orecchi e cervello? Se diciamo che agisce meccanicamente, e solo meccanicamente, non saremmo costretti ad ammettere che anche molte altre azioni, apparentemente deliberate, sono meccaniche? Se a noi sembra che la pianta uccida o mangi la mosca meccanicamente, perché alla pianta non può sembrare che l'uomo uccida e mangi meccanicamente l'agnello? Ma si potrà dire che la pianta è priva di ragione, perché la sua crescita è involontaria. In determinate circostanze ambientali della terra, dell'aria, e a una certa temperatura, la pianta deve crescere: è come un orologio, che una volta caricato continua a funzionare finché non si esaurisce la carica o non viene arrestato da cause esterne; è come la nave, che quando il vento soffia e gonfia le vele è costretta a solcare il mare. Ma un ragazzo sano può forse fare a meno di crescere, quando mangia, beve, ed è ben coperto? Esiste qualcosa che può fare a meno di procedere finché dura la propria carica, o di fermarsi quando essa si esaurisce? Non scorgiamo in ogni cosa una molla, come nell'orologio? Persino una patata in una cantina buia possiede una sua bassa astuzia che sfrutta a dovere. Conosce perfettamente il suo scopo, e come realizzarlo. Sente la luce entrare dalla finestra e protende verso di lei i suoi germogli; eccoli strisciare raso terra, arrampicarsi su, lungo il muro, fino al davanzale, e fuori della finestra. Se da qualche parte lungo il percorso, c'è un po' di terra, la pianta riesce a rintracciarla e ad adoperarla per i suoi fini. Quali attente riflessioni essa faccia una volta piantata nella terra per dirigere le sue radici, lo ignoriamo, ma possiamo immaginarla tutta intenta a ragionare più o meno così: "Metterò un tubero in questo punto e un altro un poco più in là, in modo da assorbire ciò che mi serve fra quanto mi circonda. Questa pianta vicina la soffocherò con la mia ombra, e quest'altra la scalzerò alle radici; e ciò che potrò fare sarà il limite di ciò che farò. Chi è più forte di me ed è meglio situato mi vincerà, mentre chi è più debole io lo vincerò". La patata esprime tutto ciò nel farlo. Non è forse questo il migliore dei linguaggi? Che cos'è la coscienza se questa non è coscienza? Non ci riesce facile simpatizzare con le emozioni di una patata o con quelle di un'ostrica, perché la patata non fa chiasso quando la lessano, come non fa chiasso l'ostrica quando viene aperta: mentre nulla per noi è più eloquente del chiasso; ne facciamo tanto sulle nostre sofferenze! E siccome ostriche e patate non ci infastidiscono con manifestazioni di dolore, pretendiamo che non sentano nulla. Ed effettivamente non sentono nulla dal punto di vista del genere umano: ma il genere umano non è tutto. Se poi qualcuno obietta che l'azione della patata è soltanto chimica e meccanica, e dovuta agli effetti chimici e meccanici della luce e del calore, bisognerebbe chiedere, per tutta risposta, se ogni sensazione non è forse un processo chimico e meccanico; se le cose che noi riteniamo puramente spirituali non sono forse mutamenti di equilibrio in una serie infinita di leve, a partire da quelle troppo piccole per essere visibili al microscopio fino ad arrivare al braccio dell'uomo e agli strumenti di cui si serve. Chi ci dice che non esista un movimento molecolare del pensiero da cui si può dedurre una teoria dinamica delle passioni? In altre parole, non dovremmo chiederci di quali specie di leve è composto un uomo invece di domandarci quale sia il suo carattere? In quale equilibrio sono quelle leve? Quanto di questo e di quello ci vorrà per farle funzionare e spingerle a fare così e così?».
L'autore proseguiva dicendo che verrà un tempo in cui, esaminando con un potente microscopio anche un solo capello, sarà possibile accertarsi se colui a cui quel capello apparteneva può venire insultato impunemente. Poi il testo diveniva sempre più oscuro, al punto che rinunciai a tentare di tradurlo, perché non riuscivo a seguire il filo dei suoi ragionamenti. Quando, proseguendo la lettura, trovai nuovamente un passaggio intelligibile, mi accorsi che aveva cambiato tattica (...)
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)
(continua)

mercoledì 21 dicembre 2011

Il libro delle macchine ( I )

Siamo noi che governiamo le macchine, o è piuttosto vero il contrario, cioè che sono le macchine che governano su di noi?

Samuel Butler, da “Erewhon“
CAPITOLO XXIII Il libro delle macchine
L'autore comincia così: «Vi fu un tempo in cui la terra, almeno per quel che ne sappiamo, mancava completamente di vita vegetale e animale e, a detta dei nostri migliori filosofi, era solo una sfera incandescente coperta da una crosta che andava gradatamente raffreddandosi. Ora, se a quell'epoca fosse esistito un essere umano che, sprovvisto di ogni nozione scientifica, avesse potuto vedere la terra come un qualsiasi altro mondo a lui completamente estraneo, non gli sarebbe forse parso impossibile che da quella specie di tizzone ardente potessero nascere e svilupparsi creature dotate di una qualche sorta di coscienza? Non avrebbe egli negato che potesse contenere un germe qualsiasi di coscienza? Eppure, col volgere dei millenni, la coscienza apparve. Perché, allora, non esisterebbero nuove strade attraverso cui essa giungerà a manifestarsi, anche se per ora quelle strade sono invisibili ai nostri occhi ? E ancora. Se la coscienza, in tutte le accezioni attuali del termine, si è manifestata a un certo punto come cosa nuova e, per quanto ci è dato sapere, posteriore persino alla comparsa di un centro individuale di azione e di un sistema riproduttivo (quali vediamo esistere nelle piante anche in assenza di coscienza apparente), perché non potrebbe prodursi una nuova fase dell'intelligenza tanto diversa da tutte le fasi finora conosciute quanto l'intelligenza degli animali è diversa da quella dei vegetali? Sarebbe assurdo tentare di definire un tale stato spirituale (o comunque lo si voglia chiamare) in quanto è così estraneo all'uomo che la sua esperienza non può aiutarlo in alcun modo a concepirla Ma certo, quando pensiamo alle molteplici fasi attraverso cui la vita e la coscienza si sono evolute fino ad oggi, non possiamo affermare con sicurezza che non possano prodursene altre, né che la vita animale sia il limite estremo di tutte le cose. C'era un tempo in cui il limite di tutte le cose era il fuoco, e un tempo in cui lo erano l'acqua e le rocce».
Dopo aver dissertato per diverse pagine su questo argomento, l'autore passa a chiedersi se oggi si possano scorgere segni precursori di questa nuova fase di vita; se si notino circostanze ambientali che potranno, in un lontano futuro, favorirne lo sviluppo: se, in pratica, oggi, sulla terra, si possa rintracciare la cellula primordiale che la produrrà. Nel suo trattato egli risponde a questo interrogativo affermativamente, e indica come corrispondenti di quella cellula le macchine più perfezionate.
«Il fatto che attualmente le macchine posseggano ben poca coscienza, non ci autorizza affatto» cito le sue parole «a ritenere che la coscienza meccanica non raggiungerà col tempo il massimo sviluppo. Un mollusco non possiede gran che di coscienza. Pensate alla straordinaria evoluzione delle macchine in questi ultimi secoli, e osservate con quale lentezza progrediscono il regno vegetale e quello animale. Le macchine più altamente organizzate sono creature non di ieri, ma addirittura degli ultimi cinque minuti, oserei dire, di fronte alla storia dell'universo. Supponiamo che gli esseri coscienti esistano da venti, venticinque milioni di anni: guardate quali passi da gigante hanno fatto le macchine nell'ultimo millennio! Il mondo non può forse durare altri venti milioni di anni? Ma se dura altri venti milioni di anni, che cosa finiranno per diventare le macchine? Non è più prudente distruggere il male all'inizio e impedire loro di progredire ulteriormente?
«Chi può dire che la macchina a vapore non possieda una qualche sorta di coscienza? Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissare il limite? Chi può fissare un qualsiasi limite? Non sono forse le cose intessute tutte l'una nell'altra? E le macchine non sono legate in mille nodi alla vita animale? Il guscio di un uovo è fatto di una materia bianca e fragile, e rappresenta a suo modo una macchina non meno di un portauovo; il guscio è uno strumento per contenere l'uovo come il portauovo è uno strumento per contenere il guscio: sono entrambi fasi della stessa funzione; la gallina fabbrica il guscio dentro di sé, ma ciò non toglie che il guscio sia un semplice recipiente. La gallina si fabbrica il nido all'esterno per ragioni di comodità, ma anche il nido è una macchina né più né meno del guscio. Una "macchina" è soltanto uno "strumento"». (...)
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)

Quando Samuel Butler scriveva queste pagine, cioè nel 1872, le macchine disponibili erano ancora poche: congegni meccanici, locomotive a vapore, e poco più. Oggi siamo arrivati al computer, all’ipad, allo smartphone: l’evoluzione delle macchine è continua e sempre più rapida.
(1. continua)

martedì 20 dicembre 2011

L'equivoco di fondo con Casa Pound (e con la Lega)

Dopo gli omicidi di Firenze, con un uomo di cinquant’anni che si mette a sparare addosso agli immigrati africani, ne ammazza due e ne ferisce altri tre, Casa Pound è finita per attirasi addosso molta attenzione. Alcuni hanno detto: bisogna chiudere Casa Pound (e anche le sedi di Forza Nuova, si aggiunge in altri commenti).
Come molte altre persone, ieri sera ho visto anch’io la trasmissione di Gad Lerner su La7, dove si parlava di quest’argomento; ed è stata una bella discussione, tra i presenti una rappresentanza dei senegalesi di Firenze (i due morti erano senegalesi), il deputato europeo della Lega Nord (che fu candidato vicesindaco di Milano) Salvini, e molti altri. Io ho ascoltato, ho cercato di seguire il dibattito meglio che potevo, e posso garantire che è stata una bella trasmissione, un ottimo esempio di giornalismo dove si sono capite le ragioni di tutti i presenti. Non è che succeda spesso, anche da Gad Lerner alle volte si fa una gran confusione oppure gli ospiti non sono chiarissimi, ma non è questo il punto di cui vorrei parlare. Il punto di cui vorrei parlare è questo: che quando ha aperto bocca il rappresentante di Casa Pound (vice presidente, mi pare) mi sono messo a contare fino a dieci e prima di arrivare al quattro sapevo già cosa sarebbe saltato fuori: un riferimento alla RSI, a Salò, al “fascismo delle origini”.

Capita sempre così, e ogni volta mi chiedo: possibile che non ci siano altri riferimenti culturali, ma solo e sempre il fascismo e solo e sempre la RSI? Butto lì qualche nome di persone a cui ci si potrebbe ispirare, limitandosi al Novecento: che so, Gandhi, Schweitzer, De Gasperi, Keynes, magari il generale De Gaulle, o magari filosofi, musicisti, Gramsci, Toscanini, don Milani, fate voi.
Conosco a memoria da molti anni questi ritornelli sulla “Repubblica di Salò”, che si possono riassumere in questa frase: “continuare a combattere dalla stessa parte in cui avevamo iniziato”. Come a dire: chi molla è un traditore. Eh no, quella guerra non andava nemmeno iniziata. Quella guerra è stata combattuta a fianco di autentici criminali, non prendiamoci in giro: ne cito uno per tutti, il dottor Mengele. Vi sembra giusto combattere una guerra a fianco di persone così? Questa è stata la Repubblica di Salò, possibile che sia l’unico costante riferimento culturale di queste persone? E per quanto riguarda il “fascismo delle origini”, si tratta del 1919-1922: pestaggi e olio di ricino a chi non la pensava come lorsignori.
Di fronte a queste cose, tutti i riferimenti culturali tirati fuori da Lerner e dai suoi ospiti mi sembrano ininfluenti. C’è qualcuno che pensa davvero che a Casa Pound si discuta dell’opera poetica di Ezra Pound, o del suo pensiero economico o filosofico? No, l’unica cosa che interessa a queste persone è l’amicizia ventennale di Pound con Mussolini, la sua esaltazione del fascismo. Della poesia, di Pound o di Céline, non gliene frega niente a nessuno: interessa solo che siano stati fascisti.

Per dire le cose come stanno, queste associazioni, Casa Pound e Forza Nuova ma anche molte sedi della Lega Nord, mi sembrano come quei circoli culturali o quelle bocciofile in apparenza tranquilli e civilissimi, ma dove c’è sempre una porticina che conduce a una bisca, al gioco d’azzardo, a qualche rito più o meno satanico. Oppure, uno di quei club in apparenza di tifo calcistico, dove però (anche qui) basta aprire una porticina, scendere in cantina, e si trovano manganelli, esplosivi, magari anche armi.
Ecco, appunto, le armi: l’uomo che ha fatto quella strage, a Firenze, era armato. Armi sofisticate, come il giovane neonazista Breivik in Norvegia, come il tiratore scelto che poco fuori Roma, un paio d’anni fa, si mise a sparare sui passanti (aveva anche i lanciafiamme)... Mi vengono in mente le invettive dei Salvini e dei De Corato, a Milano, contro i centri sociali “dove si spaccia la droga”: spacciare droga è un reato grave, ma poi chi si droga fa del male solo a se stesso, e alla sua famiglia. L’impressione, forte, è che con la scusa dell’associazione culturale a Casa Pound e dintorni (Forza Nuova) si stia costruendo qualcosa di molto brutto, che prima o poi finiremo col vedere di persona.
Che fare, dunque, chiudere le sedi di Casa Pound, di Forza Nuova? Non lo so, ho paura di quello che potrebbe succedere: sono persone rancorose, inclini al vittimismo, forse quello che vogliono veramente è vedersi contrastati. Insomma, sono vent'anni che si va avanti su questa strada, ci sono responsabilità politiche precise, ormai il danno è stato fatto; e francamente ho paura anche del giorno in cui la Lega Nord comincerà a perdere consensi e passerà all’opposizione. In fin dei conti, e anche qui bisogna parlar chiaro, il deputato Salvini e il deputato Borghezio (che in più di un’occasione ha giustificato violenza e razzismo) siedono vicinissimi, uno di fianco all’altro, nel Parlamento Europeo.

PS. chiedo scusa agli abitanti della città di Salò, un posto bellissimo sul lago di Garda, che non merita di essere sempre associato a una pagina così nera della nostra storia: un po’ come se a uno che viene da Firenze gli si dicesse “ah sì, la città del mostro di Firenze”. Vorrei che ci si potesse dimenticare di quegli anni, purtroppo non dipende da me, e sembra proprio che non sia possibile smettere di parlarne, nemmeno davanti all’evidenza della Storia.

AGGIORNAMENTO al 2019: mi chiedono: "ma tu conosci Casa Pound, Forza Nuova?" e io rispondo: "sì, quelli che hanno messo le bombe in Piazza Fontana, in Piazza della Loggia, alla stazione di Bologna, sui treni come l'Italicus...". Lo so, Casa Pound negli anni '70 non c'era ancora; c'erano però Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, eccetera eccetera. La base politica è la stessa, i ragionamenti sono gli stessi. Io ho la stessa età di Giusva Fioravanti, quei ragionamenti me li ricordo e li ritrovo tali e quali in Casa Pound e Forza Nuova. Vi piacciono le bombe in piazza e le stragi nelle stazioni? Ci sono sentenze precise e indagini condotte per decenni, basterebbe informarsi. Che si passino sotto silenzio le stragi fasciste e neofasciste è davvero grave.

domenica 18 dicembre 2011

Samuel Butler, Erewhon

Prima di Natale avevo trovato a poco prezzo un libro con una piccola antologia di Samuel Butler (1835-1902, inglese). Si tratta di un piccolo libro pubblicato con uno dei soliti titoli improvvisati e un po' fessi, e contiene estratti dai suoi diari e quaderni e d'appunti. Per esempio, cose come questa:
Non sono che io faccio i libri, sono loro che crescono; vengono da me e insistono per essere scritti e vogliono essere scritti a modo loro. Io non avevo intenzione di scrivere Erewhon, volevo continuare a dipingere ed è stata una insopportabile seccatura essere trascinato, mio malgrado, a scriverlo. Allo stesso modo, per tutti i miei libri, i soggetti non sono mai stati una mia scelta; si sono imposti a me con una forza a cui non potevo resistere. Se questi soggetti non mi fossero piaciuti, mi sarei tirato indietro e niente al mondo avrebbe potuto costringermi a prenderli in considerazione. Ma questi soggetti mi piacevano e i libri venivano a dirmi che dovevano essere scritti; così ho brontolato un po' e li ho scritti.
Non credo che Samuel Butler diventerà mai uno dei miei primi scrittori preferiti; però mi sono voluto togliere una curiosità e leggermi Erewhon, visto che è un libro che viene spesso citato (Borges, mi pare). E così me lo sono portato a casa.
Innanzitutto il titolo: se lo si legge alla rovescia viene fuori Nowhere (più o meno). Ed è infatti la descrizione di un "mondo alla rovescia" , nello stile di Swift e dei viaggi di Gulliver. I primi capitoli sono quelli di un libro d'avventura, e sono piuttosto belli: il giovane che parte alla ricerca di un mondo inesplorato e affronta avventure per arrivare non sa bene dove. Il punto d'arrivo (e naturalmente per arrivarci bisogna perdere la strada e ci si arriva solo per caso...) è il paese di Erewhon, nel quale il giovane arriva con un po' di timore, ma poi scopre che è abitato da gente bella e cordiale, e che somiglia molto all'Inghilterra, ma tutto è leggermente diverso. Il resto del libro è la descrizione degli usi e costumi di questo popolo misterioso.
Non sto a spiegare tutto: ma il protagonista, pur essendo stupito dall'avvenenza e dalla gentilezza degli abitanti di Erewhon, parla spesso della loro "morale aberrante". Cosa succede a Erewhon? Succede, per esempio, che la malattia è considerata come un crimine, da punire con il carcere; e che invece il furto e in genere quelli che da noi sono considerati dei crimini vengono considerati con più attenzione e meritano le cure di un "raddrizzatore" (invece i medici come li intendiamo noi sono considerati individui loschi e pericolosi) e le attenzioni amorose dei parenti e degli amici, in atttesa che chi è caduto in quella tentazione si ristabilisca. Butler sa scrivere molto bene, la descrizione nei dettagli di questi paradossi è molto fine e spesso esilarante. Pezzi forti, per esempio, la descrizione del processo a un tisico (gravissimo criminale) nel corso del quale l'avvocato difensore cerca di far credere che l'imputato si finge malato per frodare l'assicurazione (crimine molto più lieve...).

E ancora: il rapporto con la religione, dove la religione ufficiale è molto rispettata ma solo a parole, e gli edifici di culto sono splendidi ma sempre vuoti ( e in realtà tutti seguono un culto "nascosto" che - ufficialmente - aborriscono e deridono). E il rapporto con la nascita è questo: in Erewhon si crede che esista un mondo di "non nati", esseri spirituali che hanno un loro mondo organizzato più o meno come il nostro. I non nati vanno a disturbare gli uomini, e sono così noiosi ed insistenti che alla fine gli umani cedono e li fanno nascere; ma, siccome nel mondo dei non nati si vive molto bene (e loro ci conoscono benissimo, perché vivono fra di noi) solo gli stupidi ed i folli fra di loro decidono di lasciare il loro mondo. Il che spiega molte cose...
Tra le parti finali c'è "Il libro delle macchine" , che è appunto la parte più citata. Ad Erewhon le macchine sono proibite, da secoli; ce ne sono e le conoscono benissimo, ma stanno nei musei e nessuno si sogna di usarle. Ad esempio, il protagonista viene accolto molto bene, nel suo soggiorno ad Erewhon, ma se passa qualche guaio lo deve soprattutto all'orologio che aveva con sè, e che lo rende sospetto. Come si è arrivati a questo lo spiega negli estratti da un libro del filosofo (vissuto secoli prima) al quale si deve tutto questo. In breve (ma questi capitoli sono tra i più belli da leggere): il filosofo vede con un certo sgomento la grande velocità del progresso della tecnica, e si chiede se le macchine non abbiano una loro coscienza, che a noi sfugge, e che le porterà prima o poi a prendere su di noi il sopravvento. Con grande logica e buon senso, smonta tutte le obiezioni possibili, e il suo ragionamento è così ben portato che convince. Per esempio: anche noi siamo fatti di miglioramenti successivi. E' vero che le macchine attuali sono ingombranti e poco funzionali, ma anche le prime creature viventi erano rozze e limitate (l'ostrica, per esempio) o enormi e pesanti (i dinosauri), ma poi sono state perfezionate fino ad arrivare ai livelli che vediamo oggi. E, continua, non ha senso dire che le macchine non si riproducono: certo, non lo fanno come gli esseri viventi, ma lo fanno con altri mezzi. E, più precisamente, lo fanno tramite nostro: siamo noi che provvediamo al loro desiderio di evoluzione e di riproduzione... Conclude il filosofo erewhoniano: allo stato attuale, le macchine non fanno certo paura. Ma in futuro, cosa potrà succedere? Non è forse meglio intervenire ora, finché possiamo? E così fecero a Erewhon, anche se a prezzo di guerre e di lutti; ma ora è passato tanto di quel tempo che tutto ciò pare naturale, e l'interesse verso le macchine è solo di tipo archeologico, lo stesso che proviamo noi verso gli utensili in selce, per esempio, e a nessuno verrebbe in mente di rimettere in funzione una locomotiva o un orologio...

Insomma, leggendo questo libro un po' si ride e un po' viene la pelle d'oca. Considerando anche l'epoca in cui è stato scritto, Erewhon è anche il capostipite di tutti i romanzi cyborg - e che una cosa così sia stata pensata 150 anni fa dà da pensare. Butler è davvero un bravo scrittore, e questo mondo dove chi si ammala è colpevole e viene messo in galera non sembra un vero e proprio "Nowhere", ad essere sinceri. Esemplari anche i capitoli sulle "Scuole dell'Irragionevolezza" , dove ai giovani si insegnano le cose che veramente contano: non le tecniche per dipingere, per esempio, ma quali sono i quadri che si potranno vendere. E quel passo dove si accenna a chi si arricchisce, anche con mezzi illeciti: se si supera un certo livello, e si diventa davvero ricchi, si viene lasciati in pace, e anzi si viene guardati con rispetto e con stupore, perché essere così ricchi è gran merito, ed è considerata un'espressione artistica. Anche a voi Erewhon ricorda qualcosa?

PS: questo mio riassunto è del 2003, lo avevo pubblicato su un altro blog che adesso non è più on line. In questi giorni ho riletto "Il libro delle macchine", e ho deciso di portarne qui alcune pagine: comincerò nei prossimi giorni.

giovedì 15 dicembre 2011

Baccalite

La prima materia plastica sintetica messa in commercio, e diventata di uso comune, è stata la bachelite, o “baccalite” secondo una dizione italiana molto popolare. Si tratta di una resina che solidifica con il calore, e che si può stampare in modo molto simile alla creta e alle resine naturali. La baccalite fu molto usata per ottenere piccoli oggetti, portalampade, manopole per le radio, manici per coltelli, a tutti gli effetti un sostituto del legno; ed in effetti non si poteva fare molto di più con questo materiale. La vera rivoluzione avverrà a partire dai primi anni ’60, dopo la scoperta della “polimerizzazione stereospecifica” (scoperta nel 1954, premio Nobel per la Chimica nel 1963 a Giulio Natta e K.Ziegler) che porterà dapprima al moplen e poi a materie plastiche di sintesi sempre più raffinate. Fino a tutti gli anni ’50, oggetti di uso comune come secchi e catini erano ancora tutti di metallo, o di metallo smaltato: la baccalite non era abbastanza resistente per questi usi. La Garzantina della Chimica la descrive così: «Bachelite: nome commerciale di un gruppo di resine sintetiche termoindurenti, ottenute per policondensazione di un fenolo con un'aldeide e appartenenti alla classe dei fenoplasti (resine fenoliche). La bachelite è stata la prima materia plastica della storia; fu ottenuta nel 1906 dal chimico belga L. Baekeland (1863-1944), dal quale prende il nome. Buon isolante elettrico, è tuttora impiegata per la fabbricazione di interruttori, spine, zoccoli di valvole, isolatori ecc.»
Una definizione che rischia di mettere in crisi chi non ha studiato almeno un po’ di chimica: per far capire qualcosa si può dire molto brevemente che il fenolo (acido fenico) esiste in natura e si può distillare dal catrame, ha un odore pungente, puro è in cristalli, è velenoso e caustico. La formaldeide (formalina, o aldeide fòrmica - che è il nome chimicamente più preciso) è stata molto usata come conservante, prima di scoprire che è cancerogena; si produce industrialmente a partire dal metanolo, cioè l’alcool metilico. A scuola mi hanno insegnato la differenza tra una materia artificiale e una sintetica: artificiale è ciò che si produce a partire da qualcosa di già esistente in natura, come la cellulosa del legno che viene sciolta con acidi e ridotta a una pasta filabile o stampabile (come accade con il rayon e con il cellofan, quasi coetaneo della bachelite); sintetico è invece qualcosa di completamente nuovo, che si ottiene a partire da sostanze completamente differenti dal prodotto finale. In questo caso (la bachelite), il fenolo e la formaldeide; in altri casi (polietilene, PVC, eccetera) il punto di partenza è un gas, come l’etilene o il propilene. Se avete in mano qualcosa di plastica, una biro o un telefonino, un ipad o la manopola di un cassetto, all’origine c’è un gas, una molecola minuscola derivata magari dalla decomposizione di qualche organismo vivente.
La bachelite, così come le materie plastiche oggi di uso comune, ha infatti questo marchio di nascita: è qualcosa che non esiste in natura, opera dell’uomo e non della creazione divina.
Il ritratto del signor Baekeland sulla copertina di Time, viene dal sito http://www.projectgreenbag.com/ ; le formule chimiche vengono dalla Garzantina della Chimica. L’immagine qui sopra viene da una storia a fumetti pubblicata su Alterlinus nel 1980: il grande disegnatore francese Moebius (Jean Giraud) si è inventato in questa storia un personaggio che si chiama Bakalyte. Il perché non ve lo so dire, ma quando me ne sono ricordato non ho potuto fare a meno di metterlo qui.

lunedì 12 dicembre 2011

Cellofan

Siamo così abituati a chiamare “cellofan” qualsiasi pellicola trasparente che ci siamo quasi dimenticati di che cos’è veramente il cellofan (o cellophane). Penso che molti ignorino completamente il significato di questa parola, e anch’io l’altro giorno mi sono accorto di aver scritto impropriamemente “cellofan” in uno di questi post, ma non intendevo affatto scrivere cellofan – appena mi ricordo di dove l’ho scritto vado a correggere.
Mia mamma dice addirittura “carta”, e intende la pellicola trasparente, che è quasi sempre polietilene (il pvc è stato vietato per gli usi alimentari): ma se serve per avvolgere qualcosa è carta, si tratta un riflesso condizionato del tutto naturale. Ho pensato più volte di correggerla, ma la cosa in sè non mi dispiace, e poi nel contesto usato si capisce subito cosa si intende; e in fin dei conti, e ragionando da chimico, dire “carta” intendendo il cellofan non è poi così sbagliato. A patto che sia veramente cellofan, e non polietilene o un’altra materia plastica più recente.

Il cellofan è infatti un derivato della cellulosa delle piante, esattamente come la carta: è una delle primissime materie plastiche, però artificiale e non di sintesi. Le materie plastiche sintetiche nascono infatti molto più tardi, e vengono commercializzate all’inizio degli anni Sessanta: più o meno cinquant’anni fa. Il polietilene o polipropilene che usiamo normalmente per avvolgere i cibi è un’invenzione degli anni '50 che ha portato al Premio Nobel per la Chimica un chimico italiano, Giulio Natta: nel 1963, per la scoperta della “polimerizzazione stereospecifica” (premiato insieme a K. Ziegler).  Ma parlare di questo porterebbe ad allargare troppo il discorso, perciò torno subito al cellofan; che http://www.wikipedia.it/  descrive così: «Il cellophane o cellofan è una pellicola sottile e trasparente costituita da idrato di cellulosa. È un materiale molto usato per imballaggi e confezioni alimentari in quanto è resistente all'aria, all'acqua e non viene intaccato da microorganismi. Fu inventato nel 1908 da Jacques Edwin Brandenberger (1872-1954), un ingegnere chimico svizzero. Il termine cellophane, che è diventato un termine di uso comune, fu creato da Brandenberger dall'unione delle parole "cellulosa" e "diaphane" (diafano, che lascia passare la luce e permette di vedere attraverso esso). Il procedimento di fabbricazione consiste nel far passare della viscosa attraverso una sottile fessura posta in un bagno di acido: la viscosa si trasforma in un film di cellulosa. In modo analogo facendo passare la viscosa entro piccoli fori si possono ottenere dei lunghi fili di fibre artificiali come il rayon.
La produzione industriale di cellophane è iniziata attorno al 1920 e continua ancora ai giorni nostri, in quanto viene utilizzato, oltre che per gli imballaggi alimentari, anche per ottenere membrane semipermeabili (usate in campo medico per le dialisi) o nastri adesivi. In particolare, nel 1929, il conte Paolo Orsi Mangelli fondò, a Forlì, con capitali in parte suoi ed in parte di investitori esteri, la prima ditta italiana per la produzione di cellophane. Tuttavia negli ultimi anni il cellophane è stato sostituito in alcuni utilizzi dal polipropilene orientato, meno costoso.»
Si può aggiungere che per “viscosa” si intende la pasta di cellulosa (dal legno) lavorata e pronta per essere filata, da cui si ottiene il filato del rayon viscosa, una fibra artificiale simile al cotone che oggi non è più usata così tanto come in passato, ma che mantiene comunque una sua importanza.

Giusto per curiosità, si può ricordare ancora la celluloide: le pellicole fotografiche e per il cinema hanno anch’esse la stessa origine vegetale. La capacità di produrre un supporto trasparente è dunque fondamentale; supporti simili si possono ottenere facilmente anche con altri mezzi naturali e non solo con il legno, per esempio con il formaggio fuso (dalla caseina si possono produrre anche fibre tessili, come il lanital degli anni ’30); diventa però difficile farne un uso industriale perché queste pellicole sono molto fragili. Piuttosto fragile, e infiammabile, era anche la cellulosa (nitrato di cellulosa) usata per le pellicole cinematografiche fino agli anni '30 e poi sostituita dall'acetato di cellulosa.
A proposito di infiammabilità (ma bisogna starci attenti) per riconoscere la cellulosa se ne può bruciare un pezzettino: brucia esattamente come la carta, con lo stesso odore e le stesse ceneri di un foglio di quaderno. Quando andavo a scuola e me lo avevano spiegato, tanti anni fa, avevo provato con l’involucro trasparente di un pacchetto di sigarette di mio padre: bruciava esattamente come la carta – però non saprei dire con cosa vengono avvolti oggi i pacchetti di sigarette, ed è più che probabile che bruciando la pellicola trasparente si ottenga invece la caratteristica puzza della plastica bruciata, e che la pellicola si arricci e si annerisca invece di lasciare le ceneri. Meglio lasciar perdere, fino agli anni Settanta il cellofan si trovava dappertutto, ma oggi è ormai diventato una rarità.
PS: sulla grafia di cellofan, o cellophane, ognuno si senta libero di fare le sue osservazioni. A me stanno bene tutte e due anche se preferisco la prima (e infatti l’ho messa nel titolo); però a dirla tutta mi piacerebbe chiamarlo “cellofant”, con la t finale ben evidenziata. Qui dalle mie parti, a nord di Milano, i più vecchi dicevano (e dicono ancora) tutti così, “cellofant”; e io alle parole dei miei vecchi sono molto affezionato. Anzi, magari, già che ci sono, propongo questa grafia: celofant, con una elle sola. Così siamo molto vicini alla pronuncia effettiva: per me era e rimarrà sempre celofant, anche se purtroppo non posso scriverlo se no poi chi mi capisce.

domenica 11 dicembre 2011

Pascal

La frase più famosa e citata di Blaise Pascal è probabilmente questa. «Tutta l'infelicità degli uomini deriva da una cosa sola: dal non sapersene stare tranquilli in una stanza.»
Ho il massimo rispetto per Pascal, ma posso assicurare che non è così. Stare tranquilli in una stanza è la cosa che so fare meglio, fin da bambino: non si direbbe, ma crea un sacco di problemi.

giovedì 8 dicembre 2011

Ubriaco al volante

Uno dei luoghi comuni più frequenti sull’ex governo Maroni-Berlusconi è questo: che ha fatto solo due cose giuste, la legge sul fumo e il nuovo codice stradale, cioè la patente a punti. Siamo sicuri che sia proprio così? Siccome a me non piace quando si ripetono troppe volte le cose “a pappagallo”, e comincio piuttosto a pensare che sia invece giusto il contrario, provo a mettere qui qualche ragionamento contro questa convinzione.
La legge contro il fumo nei locali pubblici è stata approvata con il ministro Sirchia, quindi uno dei governi Bossi-Berlusconi; ma è stata preceduta da trent’anni di campagne contro il fumo. La bacchetta magica non ce l’ha nessuno, se bastasse promanare una legge per sistemare ogni cosa non avremmo più né ladri né assassini. Onore dunque a chi ha messo nero su bianco, ma nei decenni passati l’approvazione di questa legge sarebbe stata impossibile: quando fu vietata la pubblicità alle marche di sigarette, una ventina d’anni fa, ci fu una forte protesta. Gli appassionati di motori se lo ricordano bene: le multinazionali del tabacco erano i principali sponsors della F1, e ancora oggi basta cercare una foto di Niki Lauda o di Clay Regazzoni per rendersi conto del lavoro che è stato fatto (da molte persone e molte organizzazioni, su scala mondiale) per arrivare al divieto di fumo nei luoghi pubblici.

Anche della patente a punti si parlava da molto tempo: le ipotesi erano di questo tipo, dieci punti da togliere uno alla volta in caso di infrazioni gravi. Invece sulle patenti abbiamo venti punti, ma li tolgono a grappoli di cinque o di dieci, con multe spaventose, anche in caso di infrazioni non gravissime. Inoltre, ed è un particolare che fa spavento, sono arrivate anche le truffe ai danni dei cittadini: la più grossa è quella dei semafori taroccati. Un semaforo dove il giallo dura pochissimo consente di fare introiti notevoli sia ai Comuni che ai gestori (privati) del semaforo: non è bello da dire, ma le multe sono spesso servite per pareggiare i bilanci e arricchire i soliti noti, in quest’ultimo decennio.
Tenendo comunque validi i princìpi ispiratori del nuovo Codice della Strada, bisogna purtroppo aggiungere che, quando si parla di Leggi, è molto importante vedere come vengono scritte. Se vengono scritte male, cominciano i guai per i cittadini.
Il discorso sarebbe lunghissimo, io non sono un esperto ma solo un semplice cittadino e mi limito a porre qualche domanda, come per esempio quella sugli etilometri e sull’alcol quando si guida. Premesso che io non ho preso multe e ho ancora tutti i miei punti (quando si va a finire sul personale mi dà un gran fastidio, perciò questa noiosa premessa sono costretto a farla), quando vedo titoli del tipo “ubriaco al volante” comincio a dare segni di insofferenza e cerco sempre di andare a vedere che cosa è successo veramente. Perché ormai comincio a dubitare che si parli tutti la stessa lingua: in italiano, “ubriaco” è qualcuno che non sta in piedi, che farnetica, che vede doppio. Il legislatore ha stabilito invece una soglia sopra la quale il consumo di alcool etilico è dannoso per la guida: non serve quindi essere ubriachi per prendere le multe, ed è importante dirlo. La questione diventa importante, oltre che per fini educativi e per una maggiore comprensione della legge (“ma io sto benissimo, non sono ubriaco”) anche per capire come è stata stabilita questa soglia, da misurare con l’etilometro. Mi ha spaventato molto, l’ultima volta che se ne è parlato quest’estate, l’idea di una “tolleranza zero”: zero alcol quando si guida, e multe salate per tutti! Per fortuna è arrivato qualcuno a spiegare che l’etanolo (alcool etilico) è un prodotto normale del metabolismo del nostro corpo, della digestione: anche se mangiate solo frutta e verdura, un po’ di etanolo si produce sempre e nel sangue lo si trova. Quindi, una legge che sarebbe stata mal scritta, e che è stata corretta solo in extremis: il dubbio che altre parti di questo nuovo Codice siano sfuggite all’intelligenza del legislatore è più che legittimo.

Il discorso sull’attenzione e sulla lucidità di chi guida andrebbe esteso: molti farmaci danno sonnolenza, e dovrebbe essere cosa nota. Non è necessario essere drogati o alcolizzati per avere problemi di calo dell’attenzione. Per esempio, le allergie: gli antistaminici danno sonnolenza, è scritto anche sulla confezione. Per esempio, i diabetici: i cali di zucchero possono dare cali di attenzione. Eliminati dalla strada tutti i diabetici e tutti gli allergici, ci sarebbero in giro molte meno automobili e metà dei problemi della circolazione sarebbero risolti. Però non basta, e io – non essendo né diabetico né allergico né drogato o alcoolizzato – non vorrei comunque starne fuori: anche a me un paio di volte è capitato di avere cali d’attenzione e di rischiare di finire fuori strada. Il motivo è questo: il lavorare a turni, e i turni di notte. Alle sei del mattino, all’uscita del turno di notte, siamo tutti pericolosissimi. Alle sei meno un quarto, prima che cominci il turno del mattino, ci sono in circolazione migliaia di insonni che sono stati svegliati all’improvviso da un suono sgradevole: vogliamo tenerne conto?
Non sto scherzando, e non sto esagerando: ho ancora ben presente di quando mi capitò di leggere sul giornale la notizia della morte di un tizio come me, che stava rincasando dal turno di notte ed era finito fuori strada, per fortuna da solo e senza coinvolgere terze persone. Era uno che abitava a una decina di chilometri di distanza da casa mia, su una strada che conoscevo bene anch’io, apparentemente senza pericoli. Né piante né fossi né traffico, eppure.
Bene, adesso che ho svuotato le strade da tutti questi pericolosissimi soggetti, e senza dimenticare i turnisti della Fiat di Pomigliano d’Arco (dopo otto o dieci o dodici ore di quella vita, quando ti lasciano andare sei per forza di cose rincoglionito), e senza dimenticarsi di quella signora multata con etilometro e decurtata di dieci punti sulla patente perché andava in bicicletta dopo aver mangiato un babà al rhum, posso anche chiudere e fermarmi qui. Tanto, a cosa serve parlarne? Abbiamo passato una decina di minuti insieme, vi avrei offerto volentieri un caffè, ma qui via internet purtroppo non è possibile. Alla prossima, dunque.

PS: tutta la mia solidarietà e un abbraccio alle persone che non amano andare in automobile e che lo fanno solo perché sono costrette a farlo. A loro non pensa mai nessuno, sono in tantissimi (la maggioranza, suppongo) ma non contano niente, e per oggi provo io a dar loro una voce.
PPS: un contributo notevole a queste leggi malfatte lo ha dato il federalismo della Lega Nord, legge malfatta come poche altre. Uno dei prodotti avvelenati di queste leggi e leggine da veri burocrati è per esempio questa: che nel comune A devi avere le catene o le gomme da neve anche se c’è il sole e venti sopra zero, invece nel comune B (due chilometri di distanza) tutto questo non serve. Eccetera: il resto di queste scemenze lo lascio compilare a chi mi sta leggendo.

mercoledì 7 dicembre 2011

Esproprio e privilegio

Mi ha fatto una certa impressione, lunedì sera da Gad Lerner (su La7) vedere Eugenio Scalfari definire “un privilegio” le pensioni come ci sono sempre state dal dopoguerra in qua, e che oggi vengono definite “retributive”. E mi ha fatto una brutta impressione vedere, accanto a lui, una giovane donna di cui non ricordo il nome (esperta di qualche cosa) dire queste parole: che lei ha iniziato a lavorare a metà anni ’90, già col sistema contributivo, e che quindi le sembra normale che tutti abbiano il contributivo. Gad Lerner, lì vicino, non ha trovato nulla da obiettare: o forse lo ha fatto più in là, ma io a questo punto ho spento la tv e sono andato a leggermi un libro di Achille Campanile (ne tengo sempre uno da leggere per quando incappo in questi momenti).
Che dire: un secolo di lotte operaie buttate nel cestino. Passi per Scalfari (che non è mai stato di sinistra e che è ricco di famiglia) ma vedere questi ragionamenti, “io guadagno poco e faccio fatica e quindi è giusto che guadagni poco e faccia fatica anche lui”, mi ha sempre dato una gran tristezza, per non dire di peggio. Io invece, guarda un po’, avrei voluto che anche ai nati dopo il 1980 fosse consentito di vivere una vita senza troppi patemi d’animo, di poter guadagnare abbastanza per tirar su due figli, di comperarsi una casa, di aver accesso a un mutuo...Ho sbagliato qualcosa? A questo punto, visto che stanno buttando anche me nel cestino, direi proprio di sì.

“Privilegio” la pensione a cinquant’anni per un muratore, un operaio di un’acciaieria, un idraulico, un piastrellista, un contadino? Io li ho visti, ci ho vissuto in mezzo, sono anch’io uno di loro, so bene come si vive e cosa succede: la pensione a cinquant’anni, o magari a cinquantacinque, è stata una conquista di civiltà. Il fatto che oggi venga messa in discussione, o considerata un privilegio, è un ritorno alla barbarie.
Ci sono stati e ci sono ancora dei privilegi? Si intervenga: magari con gli espropri, per le pensioni e le liquidazioni spropositate che sono state date a manager e ministri nei decenni passati. Non si espropriano forse case e giardini ai cittadini comuni, per costruire case e strade e aeroporti? In questi casi, quando parte l’esproprio (o la militarizzazione, come in Val di Susa) c’è poco da fare se non accettare quei quattro soldi (non negoziabili) e far fagotto. E dunque, si vadano a prendere le liquidazioni e le pensioni stratosferiche dei manager che hanno prodotto gli ammanchi di bilancio a Ferrovie, Poste, Trasporti, Sanità, li si espropri o li si paghi d’ora in avanti con BOT e CCT, ma senza interessi e non indicizzati al costo della vita. Non si può fare? Io dico di sì; e comunque il discorso mi serve per suggerire di smontare un altro luogo comune che circola da troppo tempo, e cioè che il sistema retributivo delle pensioni abbia contribuito al deficit statale. No, è stata la corruzione unita all’incapacità dei manager e dei ministri. E anche dei sindaci, bisogna aggiungere oggi: perchè il federalismo proposto dalla Lega Nord sta scavando buchi spaventosi nei nostri bilanci pubblici, e senza nemmeno dare benefici ai cittadini come è avvenuto in passato.
Insomma, invece di mettere in Costituzione il pareggio del bilancio direi che bisognava prima proporre il carcere per chi manda in dissesto le finanze del suo Comune o dell’Ente che governa. Il resto è ideologia, idee preconcette spacciate per verità assolute, e con il consenso di tutta la stampa che conta, La Repubblica compresa.

Ai giovani, e a tutti quelli sotto i quarant’anni (ma non solo a loro) consiglio un esercizio molto utile: pensare al mondo com’era prima che loro nascessero. Com’era questo posto prima che ci costruissero il cavalcavia e l’uscita dell’autostrada? Come si faceva a vivere prima? E anche domande piccole, del tipo: come si faceva quando non c’erano le obliteratrici nelle stazioni, quando bastava recarsi in biglietteria, quando non c’erano i tornelli per entrare ed uscire? Sono passati meno di dieci anni dalla “tornellizzazione” delle stazioni, prima si entrava e si usciva senza problemi – e si stava molto meglio, credetemi. E’ anche da queste piccole cose, così come dalle pensioni prima che si diventi troppo vecchi, che passa la differenza tra una vita di merda e una vita che vale la pena di essere vissuta.

lunedì 5 dicembre 2011

Pubblicità 23

I film interrotti dalla pubblicità, a capocchia, a metà di un dialogo o di una scena d’amore: pensavo che fossero cose degli anni ’80, cose del passato, e invece sono tornati. Ne ho già trovato qualche bell’esemplare, su La7, su Raimovie, sugli sceneggiati di Raipremium, un po’ ovunque. Per adesso in sordina, sottotraccia, per la serie “vediamo se qualcuno se ne accorge”. E se nessuno protesta, via alla grande, come ai vecchi tempi degli anni 80.  Tanto, chi se ne frega dei film e degli sceneggiati: la tv si fa per vendere spazi pubblicitari, la radio si fa per vendere spazi pubblicitari, i giornali si stampano per vendere spazi pubblicitari, la città esiste per metterci i cartelloni pubblicitari, le strade, le stazioni, le sale d’attesa, i bancomat, la nostra vita, dunque tutto esiste solo in funzione della pubblicità? A volte mi viene il dubbio che sia proprio così. Forse sarebbe il caso di cominciare a insegnarlo a scuola, magari anche al catechismo, sulle immagini sacre mettere un po’ di spot – ah no, hanno già cominciato, i cartelloni con uomini e donne in mutande belli grandi sul Duomo di Milano non me li sono mica sognati, c’erano davvero.

A me fa impressione vedere come tutti si siano ormai adeguati, e sembra impossibile immaginare un mondo senza spot. Mi fa impressione vedere tutti, ma proprio tutti, dire “è il momento della pubblicità, la pubblicità è importante, ci consente di vivere”. Lo dicono perfino Gad Lerner su La7, perfino Michele Santoro, perfino su Radio Popolare, non solo sulle tv di Mr. Spot (Silvio Berlusconi e figli), e io mi chiedo se vale la pena di vivere, se dobbiamo vivere solo per la pubblicità.
Ormai anche internet pare che sia diventata impossibile, senza la pubblicità: non solo le finestre che si aprono e ti impediscono di leggere (cari signori, io non comprerò mai quella macchina lì e non andrò mai a vedere quel film lì, è inutile che me li sbattiate davanti), ma anche i rallentamenti quando partono i video pubblicitari. E poi mi tocca anche leggere, che so, che “Explorer rallenta”: no, non raccontiamoci balle, almeno tra di noi; non è un browser che rallenta la navigazione, sono i cookies e i video pubblicitari che intasano la rete. E non c’è wcnet che tenga, ormai siamo oltre ogni limite.
Chiedo scusa per lo sfogo, mi rendo conto che sono stato un po’ eccessivo, ma non avrei mai creduto che la nostra vita diventasse così ingorgata dalla pubblicità. E vorrei che fosse ben chiara la mia posizione: non sono affatto contro la pubblicità, che se ben fatta può essere utile e divertente, ma vorrei soltanto che ognuno stesse al suo posto, che ognuno facesse solo il suo mestiere.
Sarebbe un enorme passo avanti: i pubblicitari facciano i pubblicitari, e non i direttori artistici o la programmazione delle tv, che non è nelle loro competenze. E i dottori in Economia facciano quello che a loro spetta: tenere d’occhio i bilanci. E’ una funzione molto importante, hanno le competenze per farlo, ma si fermino lì. Gli economisti dicano: non ci sono i soldi per questa spesa. E i pubblicitari e gli addetti al marketing dicano: pensiamo noi a trovarli. E poi, per piacere, la guida di questo Paese lasciamola a persone che abbiano una visuale un po’ più ampia.
PS: a voler essere gentili e ottimisti, il 30-40% degli spot che passano in tv danno informazioni errate o gravemente errate (anche dannose per la salute), oppure sono volgari e disturbanti (la pulizia del wc all’ora di pranzo). Possibile che nessuno se ne preoccupi?
(le vignette vengono dalla Settimana Enigmistica, http://www.aenigmatica.it/ )

lunedì 28 novembre 2011

E' un momento di passaggio


Questa vignetta di Massimo Bucchi è del 2002. Cosa è cambiato da allora? E’ cambiato questo: che fin qui hanno disboscato e buttato il diserbante; adesso sta per arrivare la schiacciasassi. Lo sentite il rumore, sempre più vicino?
PS: un omaggio al grande Massimo Bucchi (www.repubblica.it) e un’enorme preoccupazione non solo per il futuro ma anche per il presente. (non sto parlando né di tasse né del governo nuovo, sia ben chiaro).

Furbetti

Uno dei luoghi comuni che non reggo proprio più è quello sui “furbetti”. Si era iniziato in maniera accettabile, perfino divertente, quando pochi anni fa furono arrestati alcuni truffatori, tra Milano e Roma (la Popolare di Lodi, se non ricordo male, le immobiliari, la speculazione edilizia, e tante altre cose ancora), che avevano come dato in comune di essere giovani e molto sicuri di sè. Così sicuri e così spavaldi da muoversi senza troppe precauzioni: avevano appoggi importanti, si sentivano intoccabili, era giusto definirli “furbetti”.
Ma adesso leggo che vengono descritti come furbetti e approfittatori le persone che dopo quarant’anni pensavano di aver maturato il diritto alla pensione; e su giornali e tv (e internet, e dintorni) leggo titolazioni bizzarre, come quella dell’altro giorno sul quotidiano di Como “La Provincia”, in prima pagina a nove colonne, secondo la quale ci sarebbero migliaia di furbetti che non hanno pagato il bollo auto e stanno per essere smascherati. Quattromila, se non ricordo male, o forse quarantacinquemila, chi può dirlo: spero di non essere anch’io nel numero, perché io il bollo auto l’ho sempre pagato e conservo regolare ricevuta. Via, siamo seri: come si fa a evadere il bollo auto, o il canone Rai? Quando l’hai pagato la prima volta, sei sistemato per sempre: più che furbetti bisognerebbe essere un po’ coglioni, se si pensa di farla franca e che nessuno se ne accorga. Molto più facile, e difatti lo fanno in tanti, è evadere l’assicurazione auto: i rischi che si corrono sono enormi, ma qui non esiste un database, il contratto si fa tra privati, si può tentare di fare il furbo. Cosa può essere dunque successo? Visto l’altissimo numero di bolli auto non pagati, facile che ci sia stato qualche disguido (o peggio) alle Poste o alle agenzie predisposte alla riscossione. Il che significa noie e grane anche per i contribuenti onesti, e purtroppo non sarebbe la prima volta.
A pensarci bene, è l’idea stessa del “furbetto” che mi disturba. Perché mai dividere il mondo in furbi e fessi, come nelle barzellette? Il mondo è molto più vasto, e basterebbe poco per accorgersene. Per fare solo un piccolo esempio, davvero minuscolo, anni fa un amico mi confessò di essersi dimenticato una scadenza delle tasse: gli era nata una bambina. Tutto il resto, di colpo, non esisteva più. Quando gli venne in mente quella scadenza, era tardi e dovette pagare una multa. Lo vorreste chiamare furbetto? Di eventi simili, felici e tristi, è piena la nostra vita; e a me non va di essere chiamato furbetto quando invece ho magari – ed è solo un altro dei mille possibili esempi – malattie e dispiaceri in casa, o magari una gioia suprema che ti manda all’aria tutte le scempiaggini burocratiche e amministrative. Non esistono solo i furbi e i criminali, insomma.
Prima di fare quei titoli, per cortesia, ci si fermi un attimo a pensare. Per quel che mi riguarda, ho preso nota e so già che se leggo o ascolto la parola “furbetto” sto avendo a che fare con un giornalista pigro o disattento: pessimo giornalismo dunque, da evitare.

sabato 26 novembre 2011

Grana Padano e Gazzettino Padano

L’altro giorno un deputato leghista, o comunque una delle teste pensanti della Lega, ha dichiarato in pubblico che la Padania esiste, perché ci sono il gazzettino padano e il grana padano; aggiungendo che “si sa che da noi si mangia bene”. Tutto questo è stato filmato, il filmato gira in rete e sembra che susciti molta ilarità, con battute del tipo “sì, come l’insalata russa”. Io trovo invece tutto questo molto avvilente, e – visto che fin qui non lo ha ancora fatto nessuno - mi vedo costretto a spiegare che cos’è il Grana Padano, e magari anche il Gazzettino Padano.
Da tempo immemorabile, più di mille anni, lungo il corso del Po si produce un formaggio stagionato chiamato grana. Non si riesce a produrlo altrove: non così buono. Si sa che per i prodotti alimentari la geografia e l’orografia sono importantissimi: le cipolle di Tropea vengono così buone solo a Tropea in Calabria, se le trapiantate e le coltivate a casa vostra il sapore cambia, e di molto. La stessa cosa capita per i vini, per quasi tutti i formaggi (l’Asiago viene buono solo sull’altipiano di Asiago, l’Emmenthal buono è solo quello svizzero, eccetera), per i prosciutti (il prosciutto di Parma viene così buono solo in determinati paesi della provincia di Parma, per via dell’aria, dell’umidità, eccetera). Tutto questo è risaputo, o almeno dovrebbe esserlo.
Il grana prodotto nella Pianura Padana è diviso in due grandi consorzi: il Parmigiano-Reggiano, che si produce in un’area ben delimitata tra le provincie di Parma e di Reggio Emilia, e il Grana Padano, che si produce nelle zone limitrofe, a Cremona ma anche nel sud del Piemonte, per esempio. Non è solo una questione di geografia: i due consorzi hanno regole diverse sull’alimentazione delle mucche che danno il latte per il formaggio. La descrizione completa sarebbe molto lunga, e rimando per questo ai siti ufficiali o magari a wikipedia; qui si può dire per brevità che il consorzio del Parmigiano-Reggiano ha norme molto restrittive, le mucche possono mangiare solo il fieno e l’erba dei pascoli, niente mangimi preparati. Così facendo, si vede anche solo a occhio cosa stanno mangiando le mucche: il sapore del latte dipende moltissimo da quello che mangiano le mucche. Nel consorzio del Grana Padano la qualità è sempre garantita, ma le regole su cosa mangiano le mucche sono meno restrittive: è per questo che c’è una differenza di prezzo fra i due formaggi.
Esistono caseifici che producono il grana anche al di fuori dei due consorzi, e spesso è anche buono, ma non possono usare né il marchio “parmigiano-reggiano” né il marchio “grana padano”: sono le stesse regole del DOC e del DOCG dei vini, a volte discutibili (bastano pochi chilometri al di là del confine geografico per negare il marchio?), il più delle volte essenziali per mantenere alta la qualità del prodotto. Non è una cosa da poco: è grazie a queste norme, per esempio, che l’Italia è rimasta fuori dal problema della “mucca pazza” (in altri Paesi europei alle mucche si davano da mangiare cose ignobili), o da altre gravi degenerazioni.

Il discorso sul Gazzettino Padano invece è molto più breve: si chiama così, da tempo immemorabile, il giornale radio RAI per la Lombardia. Lo ascoltavo sempre con mio papà, negli anni ’60: la sigla risorgimentale della “bella gigogìn” ne avvertiva l’inizio, ma si tratta di un giornale radio regionale e nulla di più. Invece, a me pare che i leghisti intendano per padania qualcosa che va da Sondrio a Ferrara ad Aosta a Belluno, località dove i notiziari milanesi non sempre arrivano e non sempre interessano.
Mi dispiace perdere tempo a specificare cose note e stranote, ma la Lega Nord è fatta così: mi ricordo bene, per esempio, quando a Umberto Bossi chiesero l’origine del suo federalismo, e lui rispose: «Ma sì, Carlo Cattaneo», come se fosse cosa ovvia e scontata. Dato che Carlo Cattaneo fa parte dei programmi scolastici, mi sono sempre meravigliato che nessuno lo fermasse per chiedergli: «Ma lei sta parlando di quel Carlo Cattaneo nato nel 1801 e morto nel 1869? Quello che nel 1848 voleva unire l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia?”.

Se ci fate caso, e se vi capita di percorrere la Milano-Bologna, troverete molte nuove uscite dell’autostrada. Sono le zone in cui si produce il Grana Padano, il Parmigiano-Reggiano, il prosciutto di Parma, il culatello, il salame di Felino, il lambrusco, i tortellini, la salama da sugo...Forse non ci avete mai pensato, ma ad ogni nuova uscita dell’autostrada corrisponde una lottizzazione implacabile. Tutti i campi dove si producono quelle cose che fanno dire “da noi si mangia bene” stanno per scomparire. E, per questo, bisogna ringraziare le amministrazioni leghiste e berlusconiane, i loro infiniti condoni edilizi nel governo nazionale, e via elencando (perfino Sassuolo, provincia di Modena, ha oggi un’amministrazione berlusconiana-leghista).
Ma qui mi fermo, non ne posso più di quest’alluvione di scemenze e di inesattezze da correggere, spacciate per verità e per ovvietà, e che nessuno mai corregge (nemmeno La Repubblica, nemmeno L’Unità, nemmeno il TG3). Mi stupisce piuttosto una cosa: che dal consorzio produttore del Grana Padano non sia arrivata una denuncia per violazione del copyright, o per abuso del marchio.Di solito ci stanno molto attenti, ma si sa che la Lega Nord è oggi molto potente e che con i potenti bisogna stare attenti a quel che si dice.
Avremo ancora il Parmigiano-Reggiano, il Lambrusco, il Prosciutto di Parma, nei prossimi anni? La vedo dura, e il primo a sparire sarà proprio il Grana Padano, ormai completamente accerchiato da superstrade, autostrade, centri commerciali, speculazioni edilizie, discariche, inceneritori.

PS: se i leghisti ci stessero più attenti, si sarebbero accorti che la Padania ha perfino avuto il Premio Nobel per la Letteratura. Indovinate chi... (un ghigno, uno sberleffo, uno sghignazzo, in purissimo dialetto padano: già ai tempi di Mistero Buffo, e forse ancora prima, c'era Dario Fo che usava questa benedetta parola)