giovedì 28 giugno 2012

Renoir fils

Una pagina famosa, che rileggo sempre volentieri.

Jean Renoir, da «La mia vita e i miei film»
ed. Marsilio (capitoli III e IV)
A mio padre piaceva dipingere i miei capelli. Questa predilezione per i miei boccoli dorati che mi scendevano fino alle spalle mi faceva disperare. A sei anni, nonostante i pantaloni, parecchia gente mi prendeva per una bambina. Per strada i ragazzini mi perseguitavano coi loro frizzi, chiamandomi «signorina» e chiedendomi dove avessi lasciato le sottane. Aspettavo con impazienza il giorno in cui sarei entrato al collegio Sainte-Croix il cui regolamento esigeva una pettinatura più conforme all'ideale borghese. Con mio grande dispiacere mio padre continuava a spostare la data di accesso, che per me significava il felice abbandono di quell'ornamento pilifero. Devo aggiungere che l'«istruzione» gli faceva orrore, al punto da approvare i ragazzi che scappavano scavalcando il muro del collegio. Il Sainte-Croíx gli piaceva per i suoi grandi giardini. La qualità dell'aria gli pareva più importante della qualità dei professori di matematica. (...)
Una mattina come un'altra mio padre dichiarò che mi voleva fare un ritratto. Mi misi a protestare. Tirai fuori che mi faceva male una gamba e per provarlo mi misi a zoppicare ostentatamente. Ma mio padre si era messo in testa di dipingermi e tutta la gente di casa, perché non venisse disturbato nel suo progetto, cercava di persuadermi. A un tratto Gabrielle ebbe un'idea. Io avevo un cammello che adoravo, non un vero cammello ovviamente, un cammello giocattolo, grande come una mano, che non veniva dall'Africa ma da un negozio di rue d'Amsterdam, vicino alla stazione Saint-Lazare. Gabrielle, tra un mio singhiozzo e l'altro, mi propose: «Lo sai, dovresti fare un vestitino al tuo cammello. Fa freddo, tra poco viene l'inverno. Il tuo cammello ha assolutamente bisogno di un vestito». L'idea mi affascinò. Mi sedetti davanti al cavalletto di mio padre e cominciai a cucire. Renoir col terrore che aveva per tutti gli strumenti taglienti o appuntiti si mostrò per un momento inquieto. Mentre incominciava a dipingere ripeteva: «Cadi su un ago che ti entra in un occhio e resti cieco per tutta la vita». Ma quella mattina i miei capelli avevano dei riflessi particolari che suscitavano il suo interesse, così dimenticò assai presto il pericolo degli aghi e si perdette nel suo dialogo con il modello. Risciacquando il pennello in un bicchiere di trementina ripeteva tra sé: «Un po’ d'oro». Capii che si trattava dei miei capelli e un po' alla volta l’idea di essere cinto d'oro prese il sopravvento sugli inconvenienti del mestiere di modello. D'altra parte, rispetto ai figli e le mogli di altri pittori, io ero un privilegiato: Renoir non esigeva l'immobilità assolluta. Ho ancora l'impressione che anzi la temesse.
(pagine 20-21)


Il regno di mio padre era un regno mobile. La ricerca di una luce diversa spingeva spesso Renoir a cambiare luogo di residenza. Così io sono stato di volta in volta un bambino borgognone che arrotava le «erre», un parigino con la erre moscia, e un meridionale dalle esclamazioni sonore.
Uno scenario che mi influenzò molto fu una villa vicino a Grasse che mio padre aveva preso in affitto durante l'inverno del 1900. Il proprietario di quella casa aveva la passione delle piante tropicali; il giardino pareva fosse stato disegnato da Rousseau il Doganiere. Da lì a immaginare che un luogo simile fosse popolato di leoni, di tigri e di serpenti, c'era solo un passo.
Avevo visto più volte una lucertola verde che veniva a godersi l'umidità del giardino. Ingrandito cento volte, quel rettile poteva fornire alla mia immaginazione un coccodrillo accettabilissimo. Gabrielle era estasiata: la sua grande passione erano i leoni, ma dove si trovano i coccodrilli si possono incontrare anche i leoni. Mi ero talmente abituato alla vicinanza del «crocó», nome che avevamo dato alla lucertola, che mi misi a collezionare rettili.
Avevo una gabbietta di vetro, costruita dal figlio del proprietario che faceva lavori di falegnameria, tutta piena di lucertole, bisce, salamandre. Le facevo dormire nella mia stanza e ne avevo sempre una addosso, nascosta sotto la camicia. Questo provocò un penoso incidente che non ho più dimenticato.
Stavamo tornando a Parigi in treno, io, Gabrielle, mio padre e mia madre. A Saínt-Raphael venne ad aggiungersi a noi un'inglese molto magra. Non smetteva un attimo di fissare i miei capelli biondi.
«Che bella bambina! Che bei capelli!» diceva, con un forte accento. Questi attestati di ammirazione mi provocavano le famose arrabbiature intime che cercavo di placare ripetendomi: «Io sono un bambino. Sono un bambino». Una lucertola che mi stavo portando a Parigi sbucò con la testa fuori dal suo nascondiglio, una blusa alla marinara di cui ero molto fiero: non ci sono ragazze in marina. A quella vista l'inglese si mise a gridare con una voce stridula. Renoir cercò invano di calmarla. Lei si precipitò in corridoio e ritornò insieme al controllore. Il funzionario si fece consegnare la lucertola. Me la prese dalle mani senza nessuna delicatezza. La pelle di una lucertola è molto fragile e il contatto di una mano grossolana deve risultarle doloroso. Il controllore senza pietà gettò il mio piccolo amico fuori dal finestrino. L'inglese rassicurata si sistemò in un angolino, insensibile alle mie lacrime, e si mise a leggere la Bibbia. (...)
(pagine 23-24)

Qualche volta andavo a giocare coi ragazzini del vicinato. Uno di loro mi chiese: «Tu fumi?». Credendo di essere furbo, risposi che fumavo sigarette di cioccolato. «Eh, sei un coglione, tu», mi disse.
(pagina 26) (da Jean Renoir, La mia vita e i miei film, ed. Marsilio)
(nelle immagini, due dipinti di Renoir padre e Renoir figlio in La regola del gioco, insieme a Paulette Dubost)

martedì 26 giugno 2012

Kleiber

«Per tutto il tempo che dura l’ouverture, siete pregati di credere ai fantasmi.»
(Carlos Kleiber agli orchestrali, durante le prove per “Il franco cacciatore” di Carl Maria von Weber)
Ho incontrato Carlos Kleiber agli inizi degli anni ’80: non di persona, s’intende, ma io come spettatore-ascoltatore su in loggione, e lui giù nel golfo mistico, davanti al palcoscenico, a dirigere l’orchestra della Scala. Ho incontrato molti altri grandi musicisti, a quel modo, e a loro devo moltissimo; ma l’esperienza con Kleiber è di quelle da brividi, eventi irripetibili. Chi c’era, lo sa e se lo ricorda.
«Una cosa non è ben chiara (nello spartito), è dove sta scritto: “il cielo si fa buia notte, la tempesta infuria e le fiamme si sprigionano dalla terra”. Oggi in scena non succede gran che, diventa buio e ci sono un po’ di tuoni; ma qui si deve pensare ad una terribile catastrofe naturale. Tetro, nero, nerissimo, più nero del nero.» (ride; anche gli orchestrali ridono; poi dà l’attacco e l’orchestra suona esattamente così, più nero del nero) (Carlos Kleiber agli orchestrali, durante le prove per “Il franco cacciatore” di Carl Maria von Weber)
Nella musica di Weber i fantasmi esistono per davvero, e non si fa certo fatica a trovarli: però attenzione, non è un jingle, non è un tweet da due righe, evocare i fantasmi richiede un minimo di pazienza e di applicazione.
«L’ouverture del Franco Cacciatore, prego. (gli orchestrali si sistemano, Kleiber li aspetta; poi dà il via ma si ferma dopo poche battute) No, un momento. Lasciate sempre che sia l’altro a cominciare. lasciate sempre cominciare il vostro collega.»
(Carlos Kleiber agli orchestrali, durante le prove per “Il franco cacciatore” di Carl Maria von Weber)
In questo modo, un inizio indistinto, un inizio che non è un inizio, comincia “Der Freischütz”: opera romantica in tre atti, musica di Carl Maria von Weber (1786-1826). Siamo nel 1817, in pieno romanticismo, tra il Faust di Goethe e le leggende di diavoli e di di vampiri, e l’argomento è la possibilità di salvarsi da questi pericoli. Ovviamente, solo l’Amore può salvare lo sventurato che si affida al Cacciatore Nero, a Samiel: tutto questo è ben presente non solo nell’opera intera, ma anche nell’ouverture. L’ouverture introduttiva dal “Franco Cacciatore” di Carl Maria von Weber è uno dei brani più belli di tutta la storia della musica; vi si esprime il contrasto fra il soprannaturale e la vita quotidiana, la lotta dell’Amore contro il Male; e il suo inizio è un non-inizio, qualcosa di appena percettibile, un risvegliarsi da un sogno che ci inquieta. Allo stesso modo, Ludwig van Beethoven inizia la sua Nona Sinfonia; allo stesso modo Richard Wagner (che a Weber deve moltissimo) inizierà “L’Oro del Reno”, il mormorio indistinto prima che cominci la Storia.
E’ questo il significato del suggerimento di Carlos Kleiber ai suoi orchestrali: un inizio che non è un inizio, bisogna pur cominciare a suonare, ma “aspettate che sia un altro a iniziare”. Il suggerimento, che in sè è poco più di una battuta, funziona: è la magia continua – una vera magia, non un modo di dire o una frase fatta – che chi ha avuto occasione di ascoltare Kleiber continua a portare dentro di sè.
Da tempo circolano biografie encomiastiche un po’ per tutti, per chiunque si usano sempre le stesse parole, con il risultato che diventa sempre più difficile capire per chi non c’era. Oggi si dice maestro e campione anche al primo che passa, “grande artista” è una definizione che si spreca, per descrivere i veri grandi artisti ormai siamo rimasti senza parole. E’ per questo che vorrei parlare di Carlos Kleiber, ma faccio fatica a parlarne. Un silenzio a cui sono costretto da sempre, fin da quando tornavo a casa, dopo un Otello di Verdi, una Bohème di Puccini diretta da Kleiber, e non potevo parlarne con nessuno. Nessuno mi avrebbe capito.
Forse perché non c’è niente da dire, chi vuole arrivarci ci arriva, nelle cose grandi non c’è niente di segreto ma dobbiamo metterci qualcosa di nostro.
Kleiber interrompe gli orchestrali e indica lo spartito:
«...non sbagliatevi: 5 dopo F è tutto “pianissimo” eccetto i flauti che rimangono in “fortissimo” perché loro (i flauti) non hanno capito. E’ giusto anche così. Domina il pianissimo. Molto lento, molto spettrale: “presto, spiriti, avvolgeteli d’oscurità” (accenna il motivo) è così, vero? Una cosa terribile, ma solo gli apporti dei clarinetti e dell’oboe sono “forte”. Noi invece stiamo sul “pianissimo”, e siamo molto nervosi. Rifacciamo questa parte dei violoncelli. Solo gli archi, 5 dopo F. (suonano i violoncelli, Kleiber sorride). Ora si aggirano gli spiriti. (ferma gli orchestrali) Troppo breve la prima nota, secondo me. E trovo che proseguite con un po’ di ritardo. (...) Stringiamo un po’ le note in mezzo, e la prima nota non così breve. (breve pausa; alza gli occhi dallo spartito e si rivolge agli orchestrali) Credete nei fantasmi? Benissimo, è importante per l’ouverture. Per tutta la durata dell’ouverture, vi prego di credere ai fantasmi. (dà l’attacco)».
(Carlos Kleiber agli orchestrali, durante le prove per “Il franco cacciatore” di Carl Maria von Weber)
Va ricordato che a questo punto, poco prima del concerto, tutto è già quasi pronto: qui non c’è niente di dittatoriale, sono bandite le fesserie del tipo “la musica che nasce da un gesto”; qui si vede il lavoro su ogni dettaglio, seguendo le indicazioni dell’autore. Gli orchestrali sono ottimi, sanno già cosa devono fare, Kleiber sta rifinendo gli ultimi dettagli prima del concerto. E’ la registrazione di una prova con l’orchestra della Radio tedesca, all’inizio degli anni ’70: Kleiber è giovane, atletico, muscoloso, sorridente, disposto allo scherzo. Non è come l’avrei conosciuto io, anni dopo, segnato dalla vita e dalle preoccupazioni; qui si diverte, scherza, ride e fa sorridere gli orchestrali; a un certo punto lo vediamo perfino fare le corna: indica la presenza nella musica di Weber del diavolo, Kaspar e Samiel, il cacciatore nero. La musica di Weber dà davvero i brividi e fa gelare il sangue, in quel punto.
I racconti dei giornali su Kleiber, nei primi anni ’80, erano spesso terribili: pessimo carattere, difficoltà nei rapporti umani, la battuta terribile di un collega illustre: “dirige solo quando ha bisogno di soldi”. La realtà, per Kleiber come per altri grandi artisti (Benedetti Michelangeli, per esempio) era nel perfezionismo spinto all’estremo: poche opere e poche sinfonie in repertorio, l’incisione del Tristano continuamente rinviata, le osservazioni finali di Kleiber che fanno impazzire i tecnici del suono, e infine Kleiber in tv al Concerto di Capodanno, in mondovisione, finalmente felice e sorridente, quasi senza pensieri.
Carlos Kleiber è stato leggendario e indimenticabile, come Glenn Gould - o forse come Yehudi Menuhin, chissà. Di certo, io e quelli della mia generazione, quelli che lo hanno ascoltato dirigere, quelli che lo hanno visto mentre dirigeva, ne porteranno sempre un ricordo indelebile.
da http://www.wikipedia.it/  :
Carlos Kleiber, nato Karl Ludwig Kleiber (Berlino, 3 luglio 1930 - Konjisica, 13 luglio 2004), è stato un direttore d'orchestra tedesco naturalizzato argentino. Nato in Germania, all'età di dieci anni si trasferì in Argentina a seguito del padre, il famoso direttore d'orchestra Erich Kleiber, emigrante dalla Germania per protesta contro il Partito Nazista. In tale occasione cambiò nome da Karl Ludwig a Carlos. Nel 1980 acquisì la cittadinanza austriaca. (...) Dapprima lavorò in piccoli teatri tedeschi di provincia, debuttando nel 1955 come direttore di operette con lo pseudonimo di Karl Keller, ma l'esordio a Monaco (1968) e le stagioni a Vienna (1973) e Bayreuth (1974) gli diedero grande fama. Nel 1976 debuttò alla Scala di Milano con un'interpretazione del Der Rosenkavalier, a cui seguì l'Otello del 1977, e la Bohème del 1979; successivamente diresse repliche memorabili di Otello, Tristano, Bohème, Cavaliere della Rosa. Interprete lontanissimo dallo star system, aveva un repertorio assai ridotto e approfondiva continuamente le interpretazioni degli stessi brani. I suoi pochissimi dischi restano di grandissima importanza. Da ricordare in particolare le registrazioni delle sinfonie di Beethoven da lui affrontate (la quarta, la quinta, la sesta - dal vivo - e la settima), le registrazioni della Seconda e della Quarta sinfonia di Johannes Brahms, della Terza e Ottava di Schubert, delle opere liriche già citate e dei due splendidi Concerti di Capodanno a Vienna del 1989 e del 1992, che restano tra i migliori di sempre. Da un punto di vista strettamente discografico si consiglia vivamente l'ascolto del Tristan und Isolde con riferimento non solo a quello per così dire "ufficiale" della D.G. con la Staatskapelle Dresden, ma anche quelli di Bayreuth (Golden Melodram) e a Milano (Myto Records). Esiste della Fledermaus una doppia edizione, dvd o solo audio, che varia leggermente nel cast, ma è comunque bellissima. Altra pietra miliare il Freischutz di Weber,sempre con etichetta D.G., mentre pareri discordi ha suscitato la sua Traviata. Resta comunque il grande rammarico di non poter disporre di una discografia ben più ampia, frutto comunque di precise scelte di Kleiber stesso. (...) Uomo riservatissimo, soprattutto nella seconda parte della sua carriera Kleiber ha sempre più centellinato le sue apparizioni sul podio. (...) L'ultimo concerto che ha diretto fu a Cagliari, il 24 (la prima) ed il 26 febbraio 1999 (unica replica); l'orchestra - prestigiosa - era quella del Bayerischer Rundfunk[1], ed il programma prevedeva la IV e la VII sinfonia di Beethoven; (...) In entrambe le serate, al termine del concerto Kleiber ha offerto, come bis, l'ouverture dalla Fledermaus, che aveva già diretto durante un Concerto di Capodanno di Vienna[2]. È scomparso il 13 luglio del 2004. Per sua espressa volontà, la notizia è stata resa nota due giorni dopo la sepoltura e ha colto di sorpresa il mondo della musica classica. È sepolto in Slovenia, a Konjisica accanto alla diletta moglie morta sette mesi prima di lui.
da http://www.wikipedia.it/
Erich Kleiber (Vienna, 5 agosto 1890 - Zurigo, 27 gennaio 1956) è stato un direttore d'orchestra e compositore austriaco, padre di Carlos Kleiber, anch'egli celebre direttore d'orchestra. Studiò al conservatorio e all'Università di Praga. Debuttò nel 1911 al teatro nazionale di Praga. Fu direttore all'opera di Darmstadt (1912-1919), a Barmen-Elberfeld (1919-1921), a Düsseldorf (1921-1922) e a Mannheim (1922-1923). Nel 1923 fu nominato Direttore musicale generale dell'opera di stato di Berlino.
Erich Kleiber fu noto per le sue interpretazioni delle opere sinfoniche e liriche di repertorio, ma anche per le opere contemporanee. Diresse la prima esecuzione dell'opera Wozzeck di Alban Berg nel dicembre del 1925. Per protestare contro il regime nazista ed il bando dell'opera Lulu di Alban Berg come "arte degenerata", lasciò l'impiego a Berlino ed emigrò in Argentina. Diresse regolarmente al Teatro Colon di Buenos Aires dal 1936 al 1949 e diventò cittadino argentino nel 1938. Avendo già diretto al Covent Garden di Londra ci tornò dal 1950 al 1953. Gli fu proposta nuovamente la direzione dell'opera di Stato di Berlino nel 1954 ma per disaccordi con il regime comunista rifiutò. Morì il 27 gennaio 1956, giorno del duecentesimo anniversario della nascita di Mozart, in una camera del Grand Hotel Bolder di Zurigo. Anche se la versione ufficiale indica un attacco cardiaco come causa del decesso, non è da escludere che Kleiber, in quel periodo profondamente amareggiato per alcune delusioni professionali, si sia tolto la vita. Erich Kleiber fu anche compositore. Tra le sue opere ci sono concerto per violino ed orchestra, un concerto per pianoforte ed orchestra, variazioni per orchestra, capriccio per orchestra e numerose musiche cameristiche. E' noto che Kleiber non fece nulla per incoraggiare le inclinazioni musicali dei figli, in particolare di Carlos. Quando quest'ultimo, a diciott'anni, gli manifestò l'intenzione di diventare a sua volta un direttore d'orchestra, egli commentò laconicamente che "un solo Kleiber era sufficiente." Dopo aver inutilmente tentato di avviare il giovane agli studi universitari di chimica, riconobbe tuttavia l'immenso talento di Carlos.
(le immagini che ho messo qui vengono da una trasmissione del filmato indicato qui sopra da parte della TSI, Televisione Svizzera Italiana, effettuata nel 2006. Questo filmato di Carlos Kleiber, insieme a molti altri, è disponibile in commercio su dvd).
(nella foto di gruppo, da sinistra, Bruno Walter, Arturo Toscanini, Erich Kleiber, Otto Klemperer, Wilhelm Furtwaengler; per i curiosi, Otto Klemperer sfiorava i due metri di statura)

domenica 24 giugno 2012

Organum

«...i riti possono sussistere, esistevano. Io mi ricordo certe serate ai vespri di certe chiese monastiche, tra le cose più incantevoli della mia giovinezza. Si cantava il gregoriano, cioè si era immersi in una realtà ancora anteriore al cristianesimo: perché il gregoriano è musica romana, è musica ebraica, è musica greca, che si fondono in questa miracolosa creazione dei primi secoli. E quindi si adempivano certi gesti alle necessità del rito, e quindi si era distaccati dal momento presente. Ma, oramai, questo è un ricordo: pochi ce l’hanno, oramai via via che gli anni passano sono sempre meno le persone che si possono rendere conto dell’importanza che ebbe il rituale in Occidente. Ma basta che ci allontaniamo dalle nostre sponde, ed ecco che in Oriente tutti i grandi riti ci sono riofferti (...)»
(Elemire Zolla sul canto gregoriano, da un’intervista TSI ottobre 1997 a cura di W.Weick e A. Andriotto)

Ho incontrato il canto gregoriano a Como, nella chiesa millenaria di Sant’Abbondio, non con i monaci di un’abbazia, ma con un concerto dell’Ensemble Organum, un gruppo di musicisti specializzato nella musica di quel periodo. Era il 30 aprile 1993, “Canti della Chiesa di Roma, secoli VII-XIII”: poco più di un’ora, musica densa e profonda, erano solo sei cantanti, ma sembrava un coro di cento persone; pareva di ascoltare le canne dell’organo, era il bordone delle voci.
Sono esperienze che non si dimenticano. La chiesa era piena di gente, tutti in silenzio e in ascolto, in sintonia con i musicisti, e anche con le antiche pietre.
“Organum” , come spiega la Garzantina della Musica, è “la denominazione generica delle forme polifoniche in uso dal IX al XIII secolo”; la voce è ovviamente molto più dettagliata ma non sto qui a riportarla per esteso. All’epoca mi ero segnato questo appunto: che forse si poteva eseguire qualcosa di più pirotecnico, come il Gloria dalla “Messa di Tournai”, ma sarebbe stato fuori dal tema e del programma della serata.
Questi concerti non si tengono più: manifestazioni come l’Autunno Musicale di Como e Il Canto delle Pietre (che si teneva in tutto il Nord Italia: la Padania, per l’appunto) sono tra le cose belle tagliate dal governo Bossi-Berlusconi; dicevano che costava troppo e che non ci andava nessuno, la realtà è che a loro, ai Bossi e ai Berlusconi e anche ai loro elettori, queste cose non interessavano e le vedevano anzi con molto fastidio.
Sul fatto che ai concerti non ci andasse nessuno, non era vero, non sempre: per questo concerto, Sant’Abbondio era strapiena, così come era strapiena San Vincenzo a Cantù per il concerto dell’Ensemble Micrologus. Forse bastava scegliere con più attenzione luoghi e date, e magari fare un po’ più di pubblicità ai concerti (in fin dei conti, non era quello il governo dei maghi della pubblicità?), ma forse era un po’ troppo chiedere attenzione alle nostre radici culturali e cristiane a un governo dove ci si vantava “non ho mai letto un libro negli ultimi vent’anni” (Tremonti) o dove si parla col gesto dell’ombrello e con il dito medio alzato (Umberto Bossi in persona, ma non solo lui). Ritorneranno i concerti come questo? Ne dubito molto, ma è comunque bello che ci sia qualcuno, magari in altri Paesi, che mantiene viva la nostra memoria.

Elemire Zolla, nato nel 1926, di madre inglese, è stato docente universitario di letteratura anglo americana, ma è molto più famoso per la sua eccezionale conoscenza e capacità divulgativa nella Storia delle Religioni. Zolla parlava di queste esperienze in prima persona: oltre ad essere una vera enciclopedia vivente è stato un grande viaggiatore, in tempi in cui non viaggiava quasi nessuno. L’intervista della Televisione Svizzera Italiana risale al 1996, e si svolge nella casa di Zolla, a Montepulciano davanti alla chiesa seicentesca di Santa Lucia. Zolla vi parla della scomparsa del rito: dice con molta serenità, quasi sorridendo, che il rito non c’è più perché è stato cancellato dal Concilio Vaticano II, ma che molte sono anche le responsabilità del Concilio di Trento. Il parere di Zolla sul Concilio Vaticano II è molto positivo, per la sua apertura verso il prossimo e verso i fedeli; ma ricorda che il rito per sua natura deve essere gerarchico: «il rito o è gerarchico o non è». Il parere negativo verso il Concilio di Trento è invece dovuto al fatto che furono aboliti e perseguiti i molteplici riti locali, unificando “in modo militare” liturgie e riti che rendevano più ricca la Chiesa e la rendevano più vicina alle sue origini. All’epoca di quest’intervista, Zolla aveva appena compiuto i settant’anni, vi appare in buona forma e sorridente; non sapeva ancora che anche in Oriente le aure sarebbe presto scomparse.
«...fuorché tra antiche pietre abbandonate, non si cerchino aure in Occidente; le aure vive il Tempo le ha consumate tutte, macabro sarebbe se risorgessero.» (Elemire Zolla, da "Aure", ed.Marsilio)

da wikipedia.it :
L'Ensemble Organum è un gruppo musicale di musica antica specializzato nell'esecuzione di musica vocale e strumentale del medioevo. Il gruppo venne fondato nel 1982 da Marcel Pérès nell'Abbazia di Sénanque sita nei pressi di Gordes in Provenza. Nel 2001, la sede del gruppo è stata trasferita nell'Abbazia di Moissac, nella regione dei Midi-Pyrénées, dove è stato creato un centro di studio sulla musica antica (Centre Itinérant de Recherche sur les Musiques Anciennes). L'ensemble ha un organico flessibile, in funzione del repertorio da eseguire, che conta interpreti di diverse nazionalità e con diverse esperienze musicali. (...) L'ensemble è specializzato nell'esecuzione di musiche religiose risalenti ai primi tempi del Cristianesimo, prima del canto gregoriano, fino alla musica sacra del XVIII secolo. Comprende pertanto il canto romano antico, il canto ambrosiano e quello beneventano. Una delle caratteristiche peculiari del gruppo è la ricostruzione della prassi di esecuzione canora del periodo, con speciale attenzione agli ornamenti e agli intervalli usati all'epoca. A questo proposito sono state effettuate approfondite ricerche sul modo di cantare in alcune regioni della Francia, in particolare nei siti monacali più defilati dove la tradizione si è mantenuta più viva. (...)
Le immagini (da http://www.wikipedia.it/ ) sono tutte dell’antica chiesa di Sant’Abbondio, a Como: anch’essa non se la passa molto bene. Poco tempo fa gli insigni architetti e urbanisti che governano la città si sono chiesti se fosse giusto costruire qualcosa che andasse a coprire e nascondere questa chiesa, e ovviamente si sono risposti di sì, che si poteva (tempo passato tra la domanda e la risposta: venticinque secondi e tre decimi). (Sant’Abbondio non va confusa con il Duomo, e nemmeno con San Fedele, che invece sono proprio in centro città, vicine al lago)

sabato 23 giugno 2012

Jethro Tull

Dire “i Jethro Tull” e pensare al flauto è una cosa automatica, non si fa nemmeno in tempo a finire la frase che Ian Anderson, col suo fantastico flauto traverso e la sua aria beffarda, è già qui davanti a noi. Già, che ci fa un flauto traverso nel mondo del rock? In effetti fu un impatto straordinario, qualcosa di fantastico e di inaspettato. Ancora oggi, non sono molti i flauti nel rock: ogni tanto qualcuno ci prova, flauti violini violoncelli, ma poi finiscono per non sentirsi, per essere semplici elementi decorativi. Invece con Ian Anderson il flauto è la musica, suona alla pari con gli altri strumenti, incurante perfino dell’amplificazione: è qualcosa che riesce bene solo a quelli bravi. Bisogna saper bilanciare i suoni, lo spiegava Berlioz nel suo trattato di orchestrazione ma è anche qualcosa che si capisce a orecchio – però bisogna averlo, l’orecchio. Insomma, si finisce sempre lì: come diceva un grande filosofo mio contemporaneo (e conterraneo), “bisogna avere orecchio”.
Ma di Ian Anderson, della sua voce e del suo flauto, si sa già tutto: lo riascolto sempre con lo stesso piacere, e con grande affetto; detto questo penso di aver detto abbastanza, e non sto qui a perderci altro tempo. Piuttosto, riascoltando i primi due dischi dei Jethro Tull, sono rimasto colpito dal bassista, dai ritmi sempre diversi della chitarra basso: è una cosa a cui non siamo più abituati, le canzoni di oggi hanno sempre gli stessi bassi, sempre quelli, invece qui c’è una variazione continua, c’è molta fantasia. C’è chi dà la colpa di tutto questo appiattimento alle percussioni computerizzate, che imperversano da più di vent’anni; può darsi, non lo discuto, ma in teoria con il computer i ritmi da scegliere potrebbero essero infiniti, si potrebbe mettere una base ritmica anche di quelle difficili da eseguire. Insomma, secondo me la ragione è un’altra: le percussioni registrate sono comodissime ed è giusto che vengano usate, ma qui c’è sotto una mancanza di cultura e di curiosità che non finisce mai di colpirmi. Faccio notare un dettaglio: il bassista a cui mi riferisco si chiama Glen Cornick (suona in “Stand up”), e non è certo uno dei più noti e celebrati: se Glen Cornick suonava così, significa che quei suoni e quei ritmi sono alla portata di molti musicisti. Come mai non succede?
La risposta sta nell’ascolto di tutto quel disco per intero, di “Stand up” dei Jethro Tull: questi si sono ascoltati di tutto, dal blues più puro e antico fino al jazz e al folk inglese; la “Bourrée”, famosissima, è davvero Johann Sebastian Bach, appena un po’ arrangiata. Ian Anderson e i suoi compagni di strada non erano mica musicisti improvvisati, anche a diciott’anni, e anche con quell’aria da fanigottoni, avevano dietro studi, cultura, interessi personali notevoli. Insomma, non tutto quello che hanno fatto i Jethro Tull è memorabile, spesso l’ispirazione latita, ma a me fa un gran piacere rivedere Ian Anderson in giro, in tour, anche oggi. Ripensando alla musica di quegli anni, non solo ai Jethro Tull ma anche ai Pink Floyd, ai Soft Machine, ai King Crimson, a Tim Buckley e a Nick Drake e a Robert Wyatt, mi viene da pensare che sia diventato vero quello che cantava Ian Anderson in quel 1969: «it was a new day yesterday, and it’s an old day now», ieri era un giorno nuovo, oggi è un giorno vecchio.
Con quella sua voce sempre un po’ beffarda, che a me piace parecchio, Ian Anderson sembra sempre che voglia prenderci in giro. Ed è sicuramente vero, ma ogni tanto, invece, saltano fuori cose come queste:
What a sight for my eyes to see you in sleep...
Could it stop the sun rise hearing you weep?
You're not seen, you're not heard
but I stand by my word.
Came a thousand miles
just to catch you while
you're smiling.
What a day for laughter
and walking at night...
Me following after,
your hand holding tight.
And the memory stays clear
with the song that you hear.
If I can but make
the words awake
the feeling.
What a reason for waiting
and dreaming of dreams.
So here's hoping you've faith
in impossible schemes,
that are born in the sigh
of the wind blowing by
while the dimming light brings
the end to a night of loving.
(Reasons for waiting, da Stand up dei Jethro tull)
Dovevano essere veramente così, come Ian Anderson, i trovieri medievali: da far innamorare, un po’ giullari e un po’ maghi, un po’ acrobati e un po’ cantastorie, ma soprattutto – è un obbligo – dovevano essere ottimi musicisti (peccato solo per quell’arrangiamento con gli archi, del tutto fuori posto: ma è colpa sicuramente del produttore)
La foto qui sopra è di Roland Kirk, punto di riferimento dichiarato di Ian Anderson: gli strumenti che ha appesi al collo riusciva a suonarli davvero tutti, e molto bene: li suonava anche tutti insieme, flauti compresi, due o tre alla volta, se necessario usando anche il naso. Il signore qui sotto invece è il vero Jethro Tull, scienziato e agronomo inglese (1674-1741): pare che la band di Ian Anderson usasse cambiare il nome molto spesso, e quindi bisognava avere molta fantasia nella scelta dei nomi. Quando arrivò il successo avevano questo nome e dato che aveva portato bene lo conservano ancora oggi. (l'immagine viene da wikipedia in inglese)

venerdì 22 giugno 2012

It's my life

«It’s my life, and I do what I want
It’s my mind, and I think what I want...»
Il mondo che ho trovato era così, come lo cantavano Eric Burdon e il suo gruppo, The Animals. Io ero un bambino, quando uscì questa canzone, e quindi escludo che si possa parlare di nostalgia, non per me quanto meno. Per me, e per quelli della mia età, appartevano al passato non solo Eric Burdon ma anche i Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, Janis Joplin. Jimi Hendrix morì nel 1970, io stavo per compiere dodici anni.
Però quel mondo, quel modo di pensare, è durato molto tempo; e non c’è da stupirsi, da che mondo è mondo i giovani hanno sempre sognato la libertà, quella personale intendo: poter viaggiare, poter vivere la loro vita, fare ciò che era giusto. Anche una certa dose di egoismo e di narcisismo (“è la mia vita, ne faccio quello che voglio”) è concessa, specialmente a diciott’anni.
Ancora negli anni ’80, all’inizio degli anni ’80, erano molti i ragazzi e le ragazze che prendevano e andavano. Era una cosa normale: si riempiva lo zaino, una rapida occhiata all’orario dei treni, e col primo treno si andava. Venezia, Londra, Amsterdam, dove ti pare. Vi sembra impossibile, strano, anormale? Significa che siete vecchi dentro, e forse è tardi per rimediare.
Oggi il mondo è diverso, ma è diverso solo da qualche anno, non da un’eternità. Oggi il viaggio si prenota, e si pretendono tutte le comodità: si prenota con giorni e magari con mesi di anticipo, anche per andare da qui a lì devi avere la tesserina, essere fidelizzato, avere il numerino della coda. Oggi se vai in giro così, come si è sempre fatto, va a finire che ti arrestano, per non dir di peggio (il peggio è già successo, purtroppo, e più di una volta).  Io ho perfino smesso di andare al cinema: ho smesso quando, con la sala vuota, due spettatori come me mi hanno fatto alzare per andare a raggiungere il loro posto, quello corrispondente al numerino che avevano in mano. Non credevo ai miei occhi, ma mi sono alzato e li ho fatti passare: il film stava per cominciare, la sala era già mezza buia e quasi vuota, che importanza aveva quel numerino?
Un’altra canzone famosa degli Animals, un enorme successo, è stata “House of the rising sun”. Ne ho ascoltata di recente una versione disco, molto sdolcinata, e mi sono chiesto se c’era almeno qualcuno che sapeva l’inglese, se lo insegnavano ancora nelle scuole: il testo di quella canzone è terribile, come si fa a cantarla come se fosse la sigla di Candy Candy? Eppure così succede; negli anni ’60 era perdonabile che non si capisse cosa cantavano gli inglesi e gli americani, oggi mi sembra strano. La voce di Eric Burdon, forte e arrabbiata, gli rendeva piena giustizia; l’arrangiamento degli Animals era in chiave rock, e quindi commerciale, ma dava ancora il senso della tragedia raccontata nel testo, che è un testo di denuncia sociale.
Riascoltando “It’s my life”, e ripensando a quella versione disco-idiota di “House of the rising sun” mi sono venute molte domande, quelle che ho trascritto qui sopra e molte altre che provo a riassumere. Cos’è cambiato, nel frattempo? Cos’è successo, a questo mondo libero? Come è possibile che sia arrivata questa ondata di giovani sempre pronti ad abbassare la testa, ben felici di infilarsi nelle forche caudine, sempre pronti a dire “eh, è il regolamento”...Già, ma chi lo ha fatto quel regolamento? Un regolamento ferroviario non è la Costituzione, non è il Vangelo, dietro un regolamento postale o ferroviario c’è quasi sempre un burocrate ottuso e invadente. Ma ormai vale la regola del mai fermarsi a pensare, e del mai contestare; questi sono nati servi, già pronti ad ubbidire. Sia ben chiaro, non c’è niente di male a fare il servitore, il cameriere, il maggiordomo, l’addetto alle pulizie, lo stalliere: l’importante è la nostra dignità personale, l’importante sono le tutele sanitarie, la paga, i riposi, le ore di lavoro. L’altro giorno, ripensando di “L’invasione degli ultracorpi”, mi è venuto da dire che una prima generazione (quella cresciuta negli anni ’80) è stata rincoglionita dalle tv commerciali e dai cartoons di Bonolis, un’altra generazione (quella cresciuta negli anni ’90) è stata rovinata dai videogames e dai telefonini, e oggi...Un’analisi molto rozza, ne convengo, ma guardandosi in giro, semplicemente fotografando la realtà, viene da pensare che sia davvero così. Una generazione così servile e conformista credo che non si sia mai vista, non in tempi moderni; la paura è che per contrappasso ne nasca, di seguito, qualcosa di molto pericoloso e di violento.
Ma qui mi fermo, non posso pensare sempre a queste cose e mi consolo come posso: oggi lo faccio con la voce di Eric Burdon, vocalist di grande forza e potenza, se si vuole un po’ brutale, ma vuoi mettere? Non è la mia generazione, lo ripeto, e non ho nostalgie da hippy, io sono sempre stato un tipo tranquillo, perfino noioso, sedentario. Non ho mai fumato nemmeno una sigaretta, per dire, e anche con vino e birra ci sono sempre andato piano (credo di non essermi mai ubriacato, anche perché se bevo troppo io dormo), e quindi non ho nostalgie personali verso quegli anni, io nel 1964 facevo sì e no le elementari. Ma, santo Cielo, qui si accetta tutto supinamente...che generazione è, quella che accetta tutto “perché lo dice il regolamento”? Ma chi li ha scritti, quei regolamenti?
(le immagini: il disco colorato viene qui dai miei scaffali; l'altra copertina l'ho presa da wikipedia in inglese)

martedì 19 giugno 2012

L'invasione degli ultracorpi

Fino a qualche anno, per me era solo un bel film, di quelli che fanno paura ma poi sai che non è vero: anche da bambino, mi bastava uscire per strada per ritrovare le persone così come le avevo lasciate. Da qualche anno in qua, però, non è più così. Da quel film non riesco più a uscire, e mi sembra sempre più realtà ad ogni giorno che passa.
Sto parlando di “L’invasione degli ultracorpi”, girato nel 1956 da Don Siegel, tratto da un romanzo di Jack Finney di un paio d’anni precedente (titolo originale “The body snatchers”); un film ancora oggi molto bello ed avvincente (Don Siegel è stato uno dei grandi del cinema d’azione, maestro dichiarato di Clint Eastwood con il quale ha lavorato molto).
Il soggetto è questo: d’improvviso, ci si rende conto che qualcosa è successo, nella piccola città dove si conoscono tutti. Una donna non riconosce più suo padre, dice che è una persona diversa che gli somiglia in tutto, ma non è lui; un bambino dice sua madre non è sua madre. Il medico a cui si rivolgono da principio non ci fa caso, poi questi fatti si moltiplicano. Cosa ancora più strana: dopo una notte o due, le persone che si erano allarmate vanno a dirgli che ora è tutto a posto, di non preoccuparsi più.
Andando avanti nel film, si vede che cosa è successo: qualche misterioso agente alieno si è impadronito dei corpi degli abitanti, rimpiazzandoli in modo impercettibile. Una sola cosa tradisce gli alieni: la mancanza di emozioni. Di questa mancanza di emozioni, un bambino si accorge subito; ma poi anche il bambino verrà rimpiazzato. Che fine facciano le persone vere, nel film non è detto.
Paesi come Santa Mira, il luogo dove si svolge l’azione del film, una volta erano comunissimi. Fino a tutti gli anni ’70, anche da noi era così: un mondo a misura d’uomo, dove ci si conosce tutti (nel bene come nel male) e non c’è bisogno di mostrare pass, tesserini, smart card; dove vigili e poliziotti svolgono egregiamente il loro compito senza dare multe e senza togliere punti dalla patente, semplicemente usando il buon senso. Così è stato, ma poi è finita: ed è storia recente, recentissima. Forse i ragazzi di vent’anni non lo sanno, e se glielo si racconta non ci credono; e se provi a raccontarlo in giro, anche alle persone di cinquant’anni, neanche loro se lo ricordano più e ti danno del nostalgico. Eppure un altro mondo è possibile, e anzi questo mondo c’era, ma è stato spazzato via in meno di quindici anni.
Guardandosi in giro, viene spesso da pensare che nel frattempo gli alieni si siano fatti furbi, e usino mezzi più sottili e perfezionati rispetto ai baccelloni e agli ultracorpi. La politica di successo, in questi ultimi 10-15 anni, è stata quella che ha puntato ai nostri istinti più tirchi e più gretti, facendo leva sulle persone senza sentimento, intente solo a badare a se stesse, indifferenti anche di fronte al naufragio di una nave con più di cento persone a bordo (“ma sì, erano tutti negri e marocchini”).
Ormai anch’io, come il protagonista del film, faccio fatica a riconoscere le persone con cui parlo: qui si è accettato tutto, le legislazioni sul lavoro, sulla scuola, sulla sanità, sui trasporti; le distruzioni dell’ambiente, i regolamenti bancari e postali, tutto, ogni cosa è passata su di noi, e sono stati ben pochi a protestare.
Un film curiosamente gemello a quello di Siegel è “Vip mio fratello superuomo”, di Bruno Bozzetto. Un film del 1968, cartoni animati. Come tutti i cartoni animati, si tratta di un film buffo e divertente; eppure c’è un personaggio che inquieta: si chiama Happy Betty, è l’equivalente dei cattivi nei film di James Bond, e ha in programma non la distruzione del mondo ma la trasformazione degli umani in servi obbedienti. Il metodo usato è proprio da cartone animato: “un missile nel cervello”, con canzoncina che spiega (il film è in parte musicale). Il missile, piccolo, penetra nelle teste delle persone e viene telecomandato: niente di brutale o di doloroso, dall’esterno poi si vede solo qualcosa come un fiocco, molto grazioso. Il risultato è lo stesso di “L’invasione degli ultracorpi”: le persone smettono di pensare con la propria testa.
Ora, i missili e i baccelloni che vediamo nei due film sono due trovate da film, o da cartone animato; il dubbio che sia arrivato qualcosa di più raffinato però mi prende sempre più spesso – mi basta uscire di casa, parlare con qualcuno, esseri umani veri ne trovo sempre di meno. Una volta ne trovavo a centinaia, oggi non è più così.
Non ho ancora trovato i baccelloni in giardino o in cantina, dubito che siano mai esistiti veramente; ho invece individuato qualcosa di molto simile al “missile nel cervello” di Bruno Bozzetto, ce lo hanno in mano tutti, non se ne separano mai. Chiedo scusa per la mia conclusione, molto dura e magari in molti casi immotivata; ma la mia impressione è che non si sia molto lontani dalla verità, dicendo che la generazione degli anni ’80 è stata rincoglionita dalle televisioni e radio commerciali, quelle degli anni ’90 sono state rincoglionite dai telefonini e dai videogames, e oggi sta succedendo la stessa cosa con i tablet, i social network, con il mito del web che risolverà tutto anche in politica, eccetera.
Sono un po’ drastico, lo so; e forse anche un po’ maleducato ed eccessivo. Chiedo scusa, in fin dei conti sono solo un essere umano ancora non formattato; prima o poi anch'io smetterò di preoccuparmi.

domenica 17 giugno 2012

Barriere architettoniche

Le barriere architettoniche sono aumentate a dismisura, negli ultimi dieci-quindici anni: ne sono state costruite anche dove prima non c’erano. Fateci caso: stazioni, piazze, treni, manti stradali, accesso ai servizi igienici... E’ vero che hanno messo degli scivoli, qua e là, ma nel frattempo sono stati eretti muri, murelli, gradini, barriere di tornelli, ovunque: e quasi sempre con soldi pubblici, quelli delle tasse. Anche l’abolizione e la chiusura delle biglietterie nelle stazioni è stato un duro colpo per chi ha un handicap fisico ma si ostinava a voler viaggiare senza chiedere aiuto.

L’ultimo esempio in proposito l’ho avuto pochi giorni fa, a Milano: lì per lì sembrerebbe una cosa di nessun conto, ma vi prego di far attenzione a un dettaglio. Ecco cosa è successo: un turista giapponese, tra l’altro non handicappato, è caduto a corpo morto proprio davanti al Duomo; io ho visto la scena da lontano, l’uomo è stato subito soccorso da un passante, per fortuna non si è fatto niente e tutto è finito lì. Ma cos’era successo, di preciso? Chi passa spesso da Piazza del Duomo (e anche da molte altre piazze e vie rifatte di recente) lo sa bene: nella pavimentazione appena rifatta ci sono delle vere e proprie trappole. Uno pensa di camminare in piano, si convince che è tutto stato rifatto per camminare senza problemi, senza inciampi, e invece l’inciampo c’è: arrivando in piazza con il Duomo di fronte, il gradino impercettibile è alla vostra sinistra, di fronte all’ingresso della Galleria. Ma ce ne sono altri, seminati un po’ ovunque, come le trappole dei castelli medievali; ne posso segnalare altri a Como tra Piazza Volta e via Garibaldi, ma poi ognuno di noi (le persone attente e presenti) di questi inciampi nuovi e nuovissimi, appena realizzati, hanno già fatto conoscenza personale, e ognuno ha le sue esperienze. Raccontando questi fatti, ti ridono in faccia: ma dai, un vecchietto giapponese, un turista, guardava in aria ed è caduto... Ma, di grazia, se siete in Piazza del Duomo, e soprattutto se è la prima volta che ci arrivate, guardare in alto tra le guglie e le statue è cosa normalissima. Se poi vi siete convinti, camminando, che gli amministratori hanno spianato tutto e reso tutto liscio, ecco che l’inciampo nascosto scatterà pronto ed efficace come una trappola medievale. Una volta, qui, c’erano degli onesti e antichi gradini: il gradino, il basèll, si vedeva, si percepiva, e anche i ciechi lo trovavano facilmente. Oggi no, nell’epoca in cui tutti dovrebbero aver ben presenti le barriere architettoniche, si fanno di queste meraviglie.

Ci pensavo l’altra sera, davanti all’ennesimo dibattito su handicap, barriere architettoniche, gente che ti spiega che la legge è così e così; ma poi basta uscire di casa, guardarsi intorno, e c’è da mettersi le mani nei capelli: non guardando le case vecchie e gli antichi monumenti, ma trovandosi alle prese con le ultimissime novità in fatto di restyling e di risistemazioni (quasi sempre costosissime).
Io per fortuna di handicap non ne ho, almeno per ora; ma un handicap può colpire tutti, anche i ventenni, malattia o incidenti. Queste cose riguardano tutti, e vedere che si peggiora invece di migliorare è davvero una cosa terribile.
PS: l’odissea degli handicappati, da quando è arrivata Trenitalia dell’amministratore Moretti, è stata descritta in molti blog, in lettere ai giornali; ma qui se ne fregano tutti. La priorità di questi manager è sempre la solita: licenziare e ridurre il personale. Esiste qualcosa d’altro, al mondo?

sabato 16 giugno 2012

Musica e matematica

Non è che numeri. Ecco cos'è tutta la musica a pensarci bene. Due moltiplicato per due diviso per un mezzo fa due volte uno. Vibrazioni: quelle sono accordi. Uno più due più sei fa sette. Fai quel che ti pare coi giochi di prestigio delle cifre. Si scopre sempre che questo è uguale a quello, tutto è calibrato come quel tale che calibra il camino del crematorio del cimiterio. Non si accorge che sono in lutto. Incallito: non pensa che al suo stomaco. Musimatematica. E tu credi di sentire le voci eteree. Ma supponiamo che ti dica qualcosa come: Marta, sette volte nove meno x fa trentacinquemila. Sgonfierebbe tutto. È per via dei suoni è.
Per esempio lui ora sta suonando. Improvvisando. Potrebbe essere qualsiasi cosa finché non si sentono le parole. Bisogna aprir bene le orecchie. Tenderle. Comincia tutto bene: poi si sentono accordi un po' fuori squadra: ci si sente un po' sperduti. Dentro e fuori da sacchi, sopra botti, attraverso fili spinati, corsa agli ostacoli. Il tempo fa il motivo. Tutta questione dell'umore. Però sempre piacevole sentire. Meno le scale ascendenti e discendenti, ragazzine che imparano. Due insieme vicine nella casa accanto. Dovrebbero inventare dei pianoforti muti per questo. Blumenlied
che comprai per lei. Per il nome. Lo suonava lentamente, una ragazza, la sera che tornai a casa, la ragazza.
(James Joyce, Ulysses, traduzione di Giulio de Angelis, pag.256 edizione Oscar Classici Mondadori da me comperata il giorno 11.03.1976).
L’aria citata da Joyce, a dire il vero più sottintesa che citata, viene dall’opera “Martha” di Friedrich von Flotow, contemporaneo di Verdi. L’originale (1847, come il Macbeth) è in tedesco, ma la si ascolta quasi sempre in italiano e la versione tedesca è rarissima: la melodia è molto bella, molto semplice, ed è da sempre il cavallo di battaglia di tutti i più grandi tenori. Ovviamente, Joyce sa benissimo che l’autore di “M’apparì” non è italiano: sono i suoi personaggi che non lo sanno o che se lo sono dimenticato. (La differenza fra quello che pensa l’autore e quello che dicono o pensano i suoi personaggi è una cosa che sfugge troppo spesso, non solo a noi lettori ma anche ai critici letterari...). L'altro brano citato è il "Blumenlied" di Schubert, una canzone per canto e pianoforte: il cognome di chi sta parlando è "Bloom", stesso significato e stessa pronuncia del tedesco "Blum" ma scritto all'inglese.

Il 16 giugno, per i lettori di James Joyce, è un giorno particolare: fu in questa data, nel 1904, che lo scrittore irlandese – nato nel 1882 - ebbe il primo appuntamento con quella che poi sarebbe diventata sua moglie. In seguito, Joyce scelse questa data per farvi svolgere l’azione di “Ulysses”.
Con Joyce mi sono trovato subito bene: avevo 16-17 anni, studiavo da perito chimico e avevo sentito dire che Ulysses era difficilissimo. Quindi, era una sfida e dovevo provarci: l’unica difficoltà seria era la storia dell’Irlanda, non ne sapevo nulla di nulla (continuo a saperne poco ancora oggi) ma per il resto sono arrivato subito fino in fondo senza troppi problemi. Di seguito, avrei saccheggiato la Biblioteca di Como in cerca di testi di Joyce e su Joyce, credo di averli presi in prestito tutti; il punto di partenza per questa mia passione era stato ovviamente Italo Svevo; e siccome Joyce non faceva parte del programma, dal punto di vista del rendimento scolastico non ne ebbi grande giovamento. Però sono contento di essere ancora qui a leggere Joyce, con tutto il tempo che è passato. Ogni volta è come ritrovare un vecchio amico.
E’ per questo motivo, per la facilità del mio incontro con Joyce, che mi stupisco sempre quando trovo chi ne parla come di un autore ostico e illeggibile: magari è gente che ha fatto il liceo classico, ma non capiscono Joyce. Possibile? A dire il vero, non è questo che mi stupisce (capita a tutti di non essere in sintonia con questo o quello), quanto il fatto che ci sia chi se ne vanta, come ha fatto di recente Michele Serra su Radio 24 (ne ha parlato lui stesso nella sua rubrica su Repubblica, il mese scorso). Voglio dire: a me è capitato con Proust, ho letto Joyce e Musil, Goethe e Borges, ho letto due volte per intero “Guerra e Pace”, ho letto il Don Chisciotte tutto di fila e con grande piacere, ma con Proust mi sono fermato presto; lo ritengo un mio limite, e me ne dispiace molto. Non andrei mai in giro a vantarmi di non aver letto un autore che so essere importante, eppure c’è chi lo fa: non solo Serra, ma anche molti altri. Temo che sia un po’ l’effetto Fantozzi: "io non ci ho capito niente e quindi è una cazzata". Paolo Villaggio lo faceva dire a Fantozzi riguardo a uno dei punti fermi nella storia del cinema, "La corazzata Potiomkin" di Sergej Eisenstein (se non capite perché è un capolavoro è solo perché siete un po' ignoranti) c’è chi lo ripete in altri ambiti; io continuo a pensare che se non capisco un capolavoro la colpa è solo mia, che dovrei studiare di più, o che magari devo solo aspettare il momento giusto. Insomma, ho imparato ad avere rispetto anche per quello che non capisco: che sia merito della mia formazione da chimico?
Ma, insomma, oggi è tornato il 16 giugno: buon “Bloomsday” a tutti.

lunedì 11 giugno 2012

Milano Galleria

Quattro passi in Galleria,
per veder se alfine ha chiuso
qualche altra libreria...
Rispetto a quando l’ho conosciuta io, a metà anni ’70, la Galleria appare ormai vuota, ci sono solo negozi di lusso e megastore, negozi tutti uguali, cose “pensate per stupire”: vale a dire che visto uno li hai visti tutti, i negozi di scarpe ci sono anche vicino a casa mia.
Mi si obietterà che in Galleria i libri ci sono e sono tanti, ma il problema è che, arredamento a parte, è difficile distinguere la Feltrinelli dalla Rizzoli o dalle Messaggerie (eccetera): i libri che vi si trovano sono gli stessi, se non trovate un libro alla Rizzoli non c’è neanche alla Feltrinelli, e viceversa. Non è sempre stato così, anzi; ma questa società è sempre più omologata e standardizzata, stavo per dire formattata, e se ho fatto l’esempio delle librerie per iniziare a parlare della Galleria è perché mi sembra un’ottima metafora di quello che è successo qui a Milano e in tutta la Lombardia, e un po’ ovunque. Non sono solo i negozi ad essere stati “sterilizzati e formattati”, purtroppo; e non credo che il vento possa girare tanto presto.
Milano è una città in gran parte ottocentesca, risorgimentale; o magari settecentesca, o leonardesca, o bramantesca. Ai nuovi arrivati questa Milano non piace, preferiscono i grattacieli e il cemento. Non è successo solo a Milano, altrove si è fatto anche di peggio: a Parma, per esempio, o magari a Como, dove sono nato e dove ho studiato. L’Italia è fatta in gran parte di edifici storici, antichi; ogni città è diversa dall’altra, e questa è sempre stata la sua forza e la sua bellezza. I nuovi governanti, invece, non sopportano quest’idea delle città come memoria storica, non sopportano l’idea della continuità nel tempo, loro vogliono “rivoltare l’Italia come un calzino”, e purtroppo in gran parte questo è stato fatto. Marco Paolini in uno dei suoi spettacoli ha detto che “l’Italia è un Paese di montagna e di collina, ma i suoi abitanti si ostinano a pensare che sia tutta pianura”; concordo, e potrei completare la frase così: “l’Italia è un Paese antico e di grande storia, ogni città è diversa dall’altra, ma gli italiani pensano che siano meglio i megastore e le autostrade”. Insomma, basta con Milano, con Parma, con Mantova, con Pavia, con Verona, con Treviso, con Urbino e Viterbo: il futuro è Las Vegas, è Los Angeles. Vicino a Las Vegas e a Los Angeles c’è il deserto, ed è per questo che sono così ampie e hanno strade così larghe; qui da noi è tutto un saliscendi, bisogna fare i tunnel; qui da noi ci sono città con strade costruite pensando ai carri e ai cavalli, che sfiga. Il deserto non c’è? Ebbene, lo facciamo: detto e fatto, ormai non manca molto, si lavora 24 ore su 24 a questo scopo (e non è una battuta, attenzione).
La preoccupazione per il futuro è ancora più grande. Per esempio, basta guardare in su, in Galleria, e si vede subito che tutti i palazzi avrebbero bisogno di un bel restauro: a volte basterebbe una mano di tinta, altre volte viene il dubbio che dietro, dentro, sia tutto molto peggio di quello che appare dall’esterno. I negozi magari sono belli, perché li hanno appena risistemati; ma il resto?
E’ quindi con con uno spirito diviso che vado a leggere dei progetti sulla Galleria, e del suo futuro. Il pavimento, la zona dove si cammina, è stato appena risistemato (quanto durerà?); il tetto viene controllato periodicamente e si spera che sia un lavoro fatto bene; di tutto il resto, cioè dei palazzi e dei negozi, si sta discutendo in queste settimane. Le sensazioni contrastanti nascono dal tipo di proposta che viene fatto, cioè la cessione di gran parte della Galleria ai big della moda: un progetto che sembra appartenere a un’altra epoca, a un’altra giunta, e invece ci stanno pensando il sindaco Pisapia e l’architetto Boeri. L’obiezione numero uno è che per sistemare la Galleria servono soldi, e tanti; quindi ben vengano i ricconi, ma a patto che a comandare siano i cittadini. Se così non è, se il centro di Milano diventerà sempre più un deserto, a che cosa servirà tutto questo?
I centri storici delle nostre città erano abitati: pieni di vita, di persone, di cose, di animali. Se guardate con attenzione i film degli anni passati, potreste stupirvi: rispetto ad allora noi sembriamo tutti omini del Lego, ognuno nella sua pista, tutti finti, come nei rendering degli architetti. Non so a voi, a me ha fatto una terribile impressione negli ultimi 10-15 anni vedere spuntare tutte queste barriere, tutti questi divieti, tutte queste multe; e la nuova giunta milanese, che in teoria dovrebbe essere di sinistra, alternativa, si sta muovendo più o meno allo stesso modo delle giunte precedenti, dei Moratti, gli Albertini, eccetera. L’ultima novità: adesso nelle stazioni e nella metropolitana bisogna timbrare anche in uscita. In futuro, metteranno i tornelli anche per entrare in Galleria? Non si può mai dire, la burocrazia trionfa ovunque, è uscita da tempo dagli uffici e sta invadendo ogni più piccolo angolo della nostra vita (anche un tornello in più è burocrazia, anche un'obliterazione in più è burocrazia...)
Ci sarà mai una vera alternativa, si tornerà a una città abitata da esseri umani e non da automi o da zombies? Io non ci spero più, anche perché non è mica solo una questione di politici, sindaci e assessori sono eletti e rispecchiano i loro elettori. Basta guardarsi in giro: sono sempre di più le persone che camminano con le orecchie tappate (cuffie), con gli occhi chiusi (guardano il tablet), o che parlano da sole ad alta voce (auricolari e viva voce). Cosa sono, persone o automi? Non so più cosa dire, ogni volta che passo in Galleria mi sento sempre più a disagio, forse sono io l’intruso, ormai penso sempre più spesso che per loro non esisto nemmeno più: “I’m the legend” come direbbe Richard Matheson.
Io in Galleria ci metterei come prima cosa un negozio di ciclista, di quelli di una volta, prezzi bassi e riparazioni veloci. Ce ne sarebbe un gran bisogno, e poi sarebbe un gran bel messaggio: altro che i tornelli e le obliteratrici da timbrare, vuoi mettere?
(le immagini vengono da vecchi giornali e quotidiani, è passato molto tempo da quando le ho raccolte, non riesco più a recuperare le fonti e me ne scuso; la vignetta viene da La Settimana Enigmistica www.aenigmatica.it  e non è originariamente collegata a Milano, si tratta di una mia libera interpretazione)

domenica 10 giugno 2012

Fare a meno del calcio per due anni

La settimana scorsa mi è capitato di leggere qualcosa che non mi sarei aspettato, non certo da due grandi giornalisti come Deaglio e Maltese. Enrico Deaglio, che seguo a apprezzo da molti anni, scrive un articolo sulla crisi della Fiat a Mirafiori; inizio a leggerlo e proprio all’inizio trovo due o tre righe di battute molto grevi contro una squadra di calcio, la Juventus. Mirafiori sta per chiudere, e Deaglio si mette a fare battute sul calcio? Il tifo fa brutti scherzi, quelle tre righe immotivate finiscono con il rendere poco credibile tutto l’articolo; se io non sapessi chi è Enrico Deaglio, avrei smesso di leggere.
Ma non è finita, perché sullo stesso giornale Curzio Maltese, uno che leggo sempre con interesse, dedica un’intera pagina della sua rubrica all’allenatore di calcio Zdenek Zeman, presentandolo con toni elogiativi come se fosse uno dei grandi della cultura; invece è solo un allenatore di calcio, che dopo decenni di magre figure in categorie minori è riuscito a tornare alla ribalta. Buon per lui, ma che dire di Maltese? Nella settimana del terremoto in Emilia, con i campanili crollati e con l’economia distrutta, con i capannoni crollati sugli operai, mi sarei aspettato qualcosa di diverso. Anche volendo alleggerire, per fare solo un esempio, un giornalista come Curzio Maltese avrebbe potuto parlare di Claudio Abbado, che ha sospeso tutti i suoi impegni (ne ha molti, in tutto il mondo) ed è arrivato a Ferrara dove dirigerà un concerto per raccogliere fondi per il terremoto; ma gli esempi da fare, le cose di cui parlare, sono moltissime, sia tra le persone famose che tra la gente comune, quella che oggi vive nelle tendopoli tra Cavezzo, Medolla, e Finale Emilia. Invece no, eccoci ancora una volta a parlare di calcio. Devo dire che non se ne può più.

Forse Maltese voleva staccare la spina, raccontare la storia di un italiano esemplare: ma viene invece da pensare che nel suo orizzonte, così come in quello di quasi tutti gli italiani, ci siano solo il calcio e le canzonette. Spero che non sia così, voglio sperare che anche in questo caso il tifo calcistico abbia fatto ombra alla ragione: semel in anno insanire licet, dicevano i latini. Vale sia per lui che per Deaglio che per tanti altri.
Dovendo per forza di cose parlare di calcio, e Dio solo sa quanto se ne sia parlato in queste settimane, la prima cosa da dire, soprattutto nei TG, era: NON SCOMMETTETE. Io sono sempre più impressionato dalla quantità di persone che giocano d’azzardo e che scommettono, non si può entrare in un bar senza vedere persone intente con il videopoker, non si può entrare dal giornalaio senza fare la fila dietro a persone che comperano i gratta e vinci; ma i giornalisti parlano solo di calcio, e per di più da tifosi.
E’ vero, bisogna rimarcare il fatto che alcuni calciatori famosi sono stati sorpresi a spendere soldi, un’enormità di soldi, in scommesse: scommesse legali in molti casi, ma – santo Cielo – come si fa a buttar via un milione di euro in scommesse? E’ vero che i calciatori di serie A guadagnano molto e possono permetterselo, ma (sempre per fare un solo esempio) Bill Gates guadagna dieci o mille volte più di Gigi Buffon, ma sta girando il mondo per aiutare con i suoi soldi le persone che ne hanno bisogno. Ma forse anche Bill Gates sta antipatico ai nostri giornalisti, che gli preferiscono un allenatore di calcio.
In tutto questo contesto, ho trovato più che sensate le parole di Mario Monti, per una volta mi sono trovato d’accordissimo. Attenzione, però: Monti non ha detto “facciamola finita con il calcio”, come invece è stato riferito (con molta malafede e molta disattenzione): si è invece chiesto se, ragionando da appassionati, non sarebbe meglio fermarsi un paio d’anni – non per il calcio, che è sempre divertente, ma per tutto quello che gravita attorno al calcio. Ed è su tutto quello che gravita attorno al calcio, sui giornalisti e sui tifosi e sulle scommesse e sulle violenze e il fanatismo, che bisognerebbe concentrare l’attenzione. Ma tutto questo non succede, e mi tocca constatare che anche i migliori giornalisti, quelli che pensavi seri, hanno il tifo calcistico come personale motivo conduttore. E non al bar o in pizzeria, come sarebbe lecito, ma anche quando si tratta di scrivere un articolo su cose serie.
PS: Il mio pensiero su Zdenek Zeman, se può interessare, è questo: è una persona rancorosa e inutilmente polemica, ogni domenica ci saranno veleni e risse, grazie a Zeman il clima calcistico peggiorerà di molto. Lo stesso difetto di Josè Mourinho, e di molti giornalisti e proprietari di club: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento sono i veleni, le polemiche, i rancori. Prepariamoci: ci aspetta un altro anno di discorsi inutili e di polemiche assurde; potendo scegliere, io sceglierei volentieri un altro Zeman, che di nome faceva Karel e che negli anni '60 faceva dei bei film a cartoni animati. Nessuna tv è disposta a trasmetterli di nuovo?

sabato 9 giugno 2012

Luddismo

Ogni volta che comincio a parlarne, di questi argomenti, c’è sempre qualcuno che tira in ballo il luddismo. Direi quindi che è il caso di andarsi a leggere la definizione: che cos’è il luddismo?
LUDDISMO: movimento popolare britannico ostile all’introduzione delle macchine nell’industria, ritenuta causa di disoccupazione e di bassi salari. Nato a inizio Ottocento, negli anni fra il 1811 e il 1816 effettuò numerosi atti di vandalismo contro macchinari industriali, e subì sanguinose repressioni. Il nome deriva da Ned Ludd, che nel 1779 avrebbe infranto un telaio meccanico per questi motivi. (fonte: Enciclopedia Universale Garzanti, “Garzantina”).
Direi che c’è molto di cui parlare, queste poche righe d’enciclopedia rischiano di essere molto più chiare, sull’attualità di questo 2012, di quasi tutti i commenti e le analisi degli economisti e degli editorialisti più influenti.

Dalla lettura di questa definizione nascono in me due pensieri contrastanti fra loro: il primo è che la disoccupazione è un dramma, il secondo è che le nuove tecnologie sono quasi sempre belle e utili. Belle e utili, ma producono disoccupazione: soprattutto il computer ha provocato lo svuotamento di fabbriche e uffici, quanti licenziamenti ci sono stati a causa dell’informatizzazione, e quanti ce ne saranno ancora? Di queste cose la politica deve interessarsi, e preoccuparsi.
E’ troppo facile dire che si fa prima e si è più comodi, questo lo vede anche un bambino: ma che si fa quando hai centinaia di migliaia di disoccupati e di disperati? Il mio pensiero è che era sbagliato essere luddisti ai tempi di Ned Ludd, perché i telai meccanici portarono benessere, e perché le macchine agricole alleviarono la fatica dei contadini e permisero maggiore produzione, sconfiggendo le carestie: ma anche questo mi sembra un pensiero scontato. Così come mi sembra ovvio dire che i televisori di oggi sono molto meglio di quelli con il tubo catodico (per spostarne uno, servivano due persone) e che se negli anni ’70 avessi avuto un i-pod invece del mangianastri sarei stato molto contento (altrettanto ovvio). Però queste sono riflessioni molto facili e molto superficiali, perché in giro si vedono cose molto preoccupanti ed è obbligatorio tenerne conto, altrimenti sarà la realtà, quella che noi cerchiamo di ignorare, ad occuparsi di noi; e anzi lo ha già fatto ampiamente.

La disoccupazione crescente è la prima grande preoccupazione, ed è qualcosa di enorme e di terribile; ma ce ne sono altre più o meno piccole, una delle quali è l’entusiasmo eccessivo per twitter: pochi giorni fa c’è stato un terribile terremoto, al tg parlavano solo di twitter e di come è utile twitter, dimenticandosi che in quelle zone le comunicazioni telefoniche sono rimaste interrotte per diverse ore. L’entusiasmo per twitter, che pure è una tecnologia buona e utile, non riesco a provarlo per almeno due buoni motivi: 1) il fatto che magari fra due anni di twitter non si ricorderà più nessuno, verrà di moda qualcos’altro e mi diranno “ah, ma tu hai ancora twitter?” 2) il fatto che si enfatizzi la forma di scrittura breve, i 140 caratteri. Non è che lo si presenti come un’opportunità, lo si indica come forma unica ed eccellente di comunicazione.
Anche la recente notizia che si vendono sempre più suv è vista come cosa positiva, ma più i mezzi che circolano sono grossi e pesanti (e potenti) più aumenta la distruzione del suolo, crescono le famigerate pm10 (che vengono in gran parte dai dischi dei freni e dalle gomme delle auto, ma guai a dirlo). Gli esempi sarebbero infiniti, ma se si comincia a mettere in discussione l’eccessivo entusiasmo (e in certi casi perfino il fanatismo) verso la nuova tecnologia, ecco tirare in ballo il Luddismo. Davanti all’evocazione di Ned Ludd e dei moti del 1811, si sa, bisogna rimanere ammutoliti, ti guardano male, vorrai mica spaccarmi il tablet nuovo di pacca che ho appena comperato? No, però l’idea di togliere il giocattolo di mano a questa e quello mi è venuta più volte, lo ammetto (in casi come questi, sia ben chiaro, mi limito a togliere il disturbo e a non farmi più vedere).
In questo contesto, mi ha divertito ma non stupito un piccolo incidente della settimana scorsa fra la conduttrice di Radio Popolare (Telefono aperto, dalle ore 20) e la telefonata in cui le si diceva “non voglio essere costretta a comperare un computer”: l’ascoltatrice era stata molto maleducata, ma la questione esiste. Non si tratta solo di essere moderni e all’ultima moda (quanto durerà l’entusiasmo per Twitter e Facebook? Due anni? Tre?) ma di prendere atto del fatto che tablet, cellulari e computer sono prodotti costosi, e molte persone, sempre di più, con le paghe di oggi non arrivano nemmeno a pagarsi le spese di casa. E qui siamo tornati al tema di partenza, il luddismo e la disoccupazione crescente.

L’altra accusa frequente, dopo quelle di luddismo e di essere vecchi e un po’ rincoglioniti, è legata al catastrofismo: ma andate a chiedere a Cavezzo, a Mirandola, a Medolla, a Finale Emilia; o magari nelle Cinque Terre, o nei paesi del Messinese, o nei paesi alluvionati del Veneto. Il futuro potrebbe essere anche questo, e non dovremmo mai dimenticarcelo: i nostri nonni, anche in caso di terremoto, potevano raccogliere le macerie e intanto continuare a mungere le vacche, ma oggi a Cavezzo e a Finale Emilia questo non è più possibile. Anche a New York, nell’ultima grande nevicata (l’inverno scorso, non duecento anni fa) i telefoni cellulari non funzionavano: di queste cose dovremmo imparare a tenere conto, la tecnologia è utile ma rischia di lasciarci tutti un po’ troppo imbranati. Un ultimo esempio: ottima cosa la chirurgia endoscopica, ma ci sarà ancora un chirurgo capace di fare un intervento di fortuna, d’emergenza? Se manca la corrente, per un’appendicite o una tracheotomia, o magari solo per cucire una piccola ferita, dovremo rivolgerci ai chirurghi di Emergency e di Medecins Sans Frontieres?

PS: «Quella nave passeggeri non doveva essere lì, così vicina alla costa. Non posso che pensare a una grave negligenza da parte del personale in servizio alla plancia di comando, a meno di un imprevisto di natura tecnica», dice il comandante Giuseppe Baici, nato a Cherso 71 anni fa, comandante di navi da crociera, all'epoca per conto della Società Adriatica. «Non capisco come sia stato possibile uscire dalla rotta in quel modo». Baici conosce bene quel tratto di mare e ha solcato infinite volte il corridoio tra l'Argentario e l'isola del Giglio. «Si parla di inconvenienti tecnici, ma ritengo che tutto possa essere ovviabile: se in plancia c'è attenzione, questi incidenti non succedono. L'unità è uscita dalla rotta e il personale di guardia alla plancia di comando se ne sarebbe dovuto accorgere». E ancora: «E’ buona regola non affidarsi completamente alla tecnologia. Un marinaio esperto mantiene sempre il controllo. Ai miei tempi i turni di guardia in plancia prevedevano almeno la presenza di un ufficiale, un sottufficiale e un timoniere».
(articolo di Paolo Rumiz per il naufragio della Costa Concordia, dal Venerdì di Repubblica del 3 febbraio 2012 http://www.repubblica.it/  )

giovedì 7 giugno 2012

Mangiare le alghe

Le alghe, in fin dei conti, sono un alimento comunissimo e le abbiamo mangiate tutti fin da bambini: se non ci credete, date un’occhiata alla confezione di gelato che avete nel freezer, che sia in vaschetta o in altri formati cambia poco. La lista degli ingredienti è scomoda da leggere, ma è molto probabile che ci sia scritto “alginato”. Direi che la parola è chiarissima: farina di alghe, che serve come addensante. Se nella lista degli ingredienti manca l’alginato, ci sarà di sicuro un’altra farina; se siete fortunati si tratta di farina di carrube, altrimenti chissà, una farina si può fare con tante cose, per esempio la carragenina: ancora alghe. Infatti, la differenza fra un gelato vero e uno da conservare nel freezer è proprio questa, la presenza di farine e di altri additivi. Un gelato vero, preparato come si deve, se messo nel freezer, gela e forma piccoli cristalli di ghiaccio; quando si sgela, diventa acquoso. E’ per evitare questo inconveniente che si usano farine ed emulsionanti nella preparazione dei gelati a lunga conservazione.
La carruba non è un’alga ma roba che cresce su una pianta: un grosso baccello marrone scuro, che si può mangiare e che ha un sapore simile alle castagne, ma di solito la si dava da mangiare ai cavalli; e comunque non cambia la sostanza delle cose, perché il gelato vero non si può conservare in freezer, diventa ghiaccio. Ecco dunque che sono necessarie le farine: quella di alghe è una delle migliori.
da http://www.wikipedia.it/  :
Gli alginati sono sali che derivano dalla parete cellulare delle alghe brune Laminaria e Ascophillum diffuse in Europa e negli Stati Uniti. Se ne estrae l'acido alginico, polimero dell'acido D-mannuronico, che può essere convertito nel suo sale (alginato) di sodio o di calcio. Il primo, solubile in acqua, è usato come addensante e stabilizzante in industria alimentare e farmaceutica. Il secondo, insolubile, trova impiego in medicamenti ed in garze emostatiche. Le mucillagini preparate con gli alginati solubili sono instabili ad un pH inferiore a 4 ed in presenza di ioni calcio e di metalli pesanti. In soluzione acquosa all'8-16% l'alginato di sodio forma dei gel che possono essere impiegati come eccipienti per pomate. Ultimamente vengono utilizzati sotto forma di capsule, sciroppi o gel per il controllo della sintomatologia nella malattia da reflusso gastroesofageo (...).
Ho imparato a conoscere gli alginati quando andavo a scuola e mi facevano studiare gli addensanti, che sono quasi sempre farine o derivati; un po’ come quando si fa il budino in casa, insomma. Nell’industria, gli addensanti si usano per gli inchiostri, e per la stampa dei tessuti; il mio insegnante aveva spiegato che l’alginato è uno dei migliori, ma che costa caro perchè è per uso alimentare. Dato che questo mio ricordo è vecchio ormai di quasi quarant’anni, si capirà che l’uso dei derivati da alghe è ormai antico, e molto comune. Gli alginati, l’agar-agar, e altre simili stranezze, sono stranezze solo in apparenza: in realtà le mangiamo da decenni, ma siamo distratti e anche un po’ ignoranti. Nelle gelatine, nelle caramelle, nei budini, nello yogurt, nella maionese industriale, nelle minestre in busta, un po’ ovunque, agar-agar e alginati sono ingredienti molto comuni.
da http://www.wikipedia.it/  :
L'agar-agar (noto anche come agar, più noto ai giapponesi col nome di kanten) è un polisaccaride usato come gelificante naturale e ricavato da alghe rosse appartenenti a diversi generi (tra i quali Gelidium, Gracilaria, Gelidiella, Pterocladia, Sphaerococcus). Dal punto di vista chimico, è un polimero costituito principalmente da unità di D-galattosio (è quindi detto poligalattoside). Il galattosio è uno dei due componenti del lattosio, lo zucchero presente anche nel latte.
È catalogato tra gli additivi alimentari codificati dall'UE col numero E 406. (...)
L’agar agar serve soprattutto per le gelatine, che hanno preso il posto della colla di pesce:
da http://www.wikipedia.it/  :
La colla di pesce è una gelatina essiccata in fogli, generalmente utilizzata in cucina come addensante, in particolare per la preparazione di dolci. Il nome nasce dalla procedura di produzione originaria della Russia, dove viene prodotta partendo dalla vescica natatoria dello storione e/o pesci affini e dalla cartilagine di pesce; conosciuta anche come "ittiocolla" viene fatta essiccare al sole, ma è poco usata in commercio. Essendo questa costituita in maggior parte da tessuto connettivale e quindi da collagene possiamo considerarla una fonte proteica, ma il valore biologico del tessuto connettivale è del tutto simile a quello della matrice ossea, quindi molto basso. Oggi sul mercato sono presenti principalmente gelatine, impropriamente note come colla di pesce, prodotte prevalentemente utilizzando la cotenna del maiale insieme a ossa e cartilagini anche di origine bovina, che hanno un contenuto proteico rilevante: 86 g per 100 g di prodotto. L'80% della gelatina alimentare di origine animale prodotta in Europa è derivata dalla cotenna del maiale. (...) Le gelatine sono messe in commercio in fogli sottili, trasparenti, inodori e insapori, che posti in acqua rigonfiano, al contrario della ittiocolla che non aumenta di molto il suo volume. Nelle etichette dei prodotti alimentari spesso è denominata E441. Alternative vegetariane sono rappresentate dall'agar-agar e dalla pectina.
La pectina, che si usa per fare più velocemente le conserve e le marmellate (una scorciatoia che io personalmente non amo), viene quasi sempre dalla frutta, soprattutto mele e pere, nelle quali è presente naturalmente. Infatti, ma qui sto uscendo dal tema che mi ero posto in partenza, molte marmellate hanno da sempre come base la mela cotogna. Voi pensate di mangiare la marmellata di arance o di fragole, e invece è in gran parte mela cotogna o pectine: in questi casi, è una procedura più che corretta, perché arance e fragole, limoni e lamponi, non vanno troppo scaldati e una base densa è necessaria.
Dato che stiamo parlando di gelati, e dato che in queste settimane la tv è strapiena di pubblicità di gelati confezionati, dopo gli addensanti si può dare un'occhiata agli emulsionanti. Una domanda che mi sono posto spesso, guardando queste pubblicità, è la seguente: è vero, oggi quando si tira fuori la vaschetta dal freezer il gelato rimane morbido. Come mai? Qualcosa devono pur averci messo dentro...
da http://www.wikipedia.it/ :
Gli emulsionanti sono ampiamente utilizzati come additivi alimentari, classificati con le sigle da E400 a E499 (addensanti, stabilizzanti e emulsionanti). Esempi di emulsionanti alimentari sono la lecitina, contenuta nel tuorlo d'uovo o ricavata dai semi di soia, e i semi di senape, che devono la loro proprietà emulsionante a una varietà di sostanze presenti nella mucillagine che circonda la parte esterna del seme; sono comuni anche emulsionanti proteici e a basso peso molecolare. Sia la maionese che la salsa olandese sono emulsioni olio in acqua stabilizzate dalla lecitina contenuta nel tuorlo d'uovo. I detergenti sono prodotti commerciali contenenti tensioattivi che diminuendo l'energia all'interfaccia olio/acqua consentono la pulizia favorendo la dispersione dello sporco unto in acqua. Un'ampia varietà di emulsionanti viene utilizzata in farmacia per la preparazione di emulsioni sotto forma di creme e lozioni. (...)
Tornando alle alghe, a Dario Bressanini ( http://www.lescienze.espresso.repubblica.it/  ), che ha una magnifica rubrica su chimica e alimentazione, piacciono molto sia l’agar-agar che la gelatina in generale, a me invece la gelatina fa un po’ senso e preferisco fare il budino con un cucchiaio di farina e il cacao, ma capisco che possa sembrare faticoso e impegnativo (cioè, non capisco, ma certo si fa prima ad aprire un vasetto). E qui lo confesso, sperando di non incappare in problemi legali: sono molto goloso, ma al gelato industriale io ci rinuncio volentieri, e tutto quello che è gelatina mi fa passare la voglia di mangiare.
Di alghe però io non ne so molto, quasi nulla. Perciò chiudo, almeno per oggi; mi accontento di aver iniziato il discorso e cedo la parola a un grande scrittore che io ho scoperto da poco.
Eduardo Galeano, da “Le labbra del tempo” (ed. Sperling & Kupfer)
Il professore e il giornalista passeggiano in giardino. D'un tratto, Jean-Marie Pelt, il professore, si ferma, indica col dito e dice: «Le presento le nostre nonne». E il giornalista, Jacques Girardon, si china e scopre una pallina di schiuma che emerge in mezzo al foraggio.
È una colonia di microscopiche alghe azzurre. Nei giorni di grande umidità, le alghe azzurre si fanno vedere. Così, tutte assieme, sembrano uno sputo. Il giornalista storce il naso: non c'è che dire, l'origine della vita non ha un aspetto molto attraente, ma da quella bava, da quella porcheria veniamo tutti noi che abbiamo gambe, zampe, radici, pinne o ali.
Prima del prima, ai tempi dell'infanzia del mondo, quando non c'erano né colori, né suoni, loro, le alghe azzurre, esistevano già. Emettendo ossigeno, diedero colore al mare e al cielo, e poi, un bel giorno, un giorno che durò milioni di anni, a molte alghe azzurre venne lo sghiribizzo di trasformarsi in alghe verdi, e le alghe verdi iniziarono a generare lentissimamente licheni, poi funghi, muschi, meduse e tutti i colori e i suoni che vennero dopo, con noi, a scompigliare il mare e la terra. Invece altre alghe azzurre preferirono restare com'erano. E così continuano a essere.
Dal mondo remoto che fu, loro guardano il mondo che è. Non si sa che cosa ne pensino.
(Eduardo Galeano, da “Le labbra del tempo”, ed. Sperling & Kupfer; il racconto “Testimoni”, pagina 3).
Le immagini di questo post vengono dal film “Solaris” di Andrej Tarkovskij: non credo che c’entrino molto con le alghe e con il tema che ho scelto, ma sono bellissime e ho una grande nostalgia del tempo in cui al cinema si potevano vedere dei film come questo. Io sono cresciuto in un mondo così, voi accontentatevi pure delle gelatine, delle lecitine, del gelato di soia e dell’agar-agar, se vi basta.