domenica 30 dicembre 2012

Heine

Anfangs wollt'ich fast verzagen,
und ich glaub't, ich trüg' es nie;
und ich hab'es doch getragen -
aber fragt mich nur nicht, wie?
(Heinrich Heine, da Liederkreis op.24 di Robert Schumann)

(da principio fui quasi disperato, credevo intollerabili simili cose; invece, le ho tollerate. Soltanto, non chiedetemi come... )

venerdì 28 dicembre 2012

Da dove viene lo spam

Lo spam invade ogni cosa, non solo internet ma anche la cassetta della posta (anche quello è spam, ma su carta), il parabrezza dell’auto, la tv (la tv è il trionfo dello spam), il telefonino, il telefono di casa, e tante altre cose ancora; il discorso da fare sarebbe quindi molto ampio. Rimanendo sul piccolo, cioè su questo blog, a me non piace mettere marchingegni antispam particolari, uso solo la moderazione dei commenti. Di solito basta e avanza, l’antispam di Blogger funziona bene; ma poco prima di Natale mi sono trovato dodici (dodici) commenti spam da buttare via, e in meno di mezza giornata; a questo punto mi sono deciso a scriverci un post. Da dove viene lo spam?

Voi magari non avete idea sul “da dove viene lo spam”, io invece comincio ad avere un identikit molto preciso. Ovviamente non posso scendere in particolari: non ne ho i mezzi (interesserà alla polizia postale? temo di no, anche lì imperversano i tagli berlusconiani-bossiani-montianpasseriani), e a far sul serio si rischia poi di passare il tempo fra tribunali e avvocati. E dunque mi limito a mettere insieme le osservazioni che ho fatto nel giro di questi ultimi mesi (ne avevo già accennato in questo post).
Prima di tutto, i post con un titolo inglese: ne fa le spese soprattutto il povero Robert Johnson, grande bluesman degli anni ’30 autore di canzoni indimenticabili, e poi anche Stockhausen (chissà perché), i Jethro Tull, e quasi tutti i post musicali in genere; ma un’origine internazionale dello spam era più che ovvia, me lo aspettavo. Più divertente notare che la funzione di “attira SPAM” arriva anche con l’inglese maccheronico, per esempio “To be back to” non esiste in inglese, me lo sono inventato io – ma lo spam arriva lo stesso. Attirano spam anche i post dove si parla di prodotti in commercio, di tv e cinema, eccetera. Fin qui, dunque, niente di strano.

La parte interessante, che sembrerebbe proprio mirata sulla mia persona, è lo spam su alcuni miei post ben precisi, titoli che non lasciano spazio a dubbi. Ecco dunque l’elenco dei titoli dei post di questo blog che attirano più spam (e probabilmente anche dei virus, se ci si fa clic sopra). Pronti? Uno, due, tre, via: i primi sei sono questi: Una razza superiore, Forza Italia, La marcia su Roma, Don Giussani? ma per piacere..., e ultimamente anche “Da Venezia a Chioggia” e "A proposito di tagli alla cultura".
Aggiungo qualche indizio o spiegazione: “Da Venezia a Chioggia” è un post dove si parla di dialetto, una citazione da Goldoni: la prefazione che Carlo Goldoni scrisse per “Le baruffe chiozzotte”, quindi in pieno Settecento. In questa prefazione, l’autore di “Arlecchino servitore di due padroni” spiega con dovizia di particolari che bastano pochi chilometri per ritrovarsi con gente che parla un idioma sconosciuto: da Venezia a Chioggia, per l’appunto. E’ un’esperienza ben nota a chi conosce davvero i dialetti, non solo a Venezia ma in ogni parte del mondo: il dialetto è una lingua locale, quindi non ha molto senso dire “la lingua veneta” o “la lingua lombarda” (c’è qualcuno che pensa che ci si possa capire se uno parla in bergamasco e l’altro in varesotto?).
Nel mio post su Don Giussani accenno ai ripetuti scandali che coinvolgono esponenti inportanti di Comunione e Liberazione; il post “La marcia su Roma” parte dal film di Dino Risi; e in “Una razza superiore” (ma anche in "L'allenatore dell'Inter e altre storie") ho messo un elenco delle invenzioni che usiamo ogni giorno, molto comode e molto utili, che dobbiamo a scienziati di religione ebraica. Eccetera.
A questo punto mi fermo, considero concluso questo post, e segnalo ai gentili spammers che ho scritto anche un post su Piazzale Loreto, questo: strano che non ve ne siate ancora accorti.
(nell'immagine qui sopra, presa da un antico Corriere della Sera, il dettaglio di una lettera spedita da Albert Einstein - che a Milano aveva abitato un paio d'anni, quindi conosceva l'italiano)

lunedì 24 dicembre 2012

Tablet

Scrivere non era qualificante, nell'India antica, anzi, era considerato un mezzo di comunicazione di serie B, o peggio ancora, rispetto al mezzo principe: la trasmissione orale. E più un testo valeva, per sacralità o prestigio, più scriverlo - almeno fino a una certa epoca - anziché mandarlo (e farlo imparare) a memoria appariva un espediente grossolano e degradante. E poi in India il cambiamento non era di moda: orali o (più raramente) scritti, almeno esternamente i testi tendevano a ribadire la tradizione. Ne deriva che, fra i vari mezzi di controllo e repressione escogitati con grande fantasia nei regni e imperi indiani classici, la censura non avesse troppe ragioni d'essere; certo non era sensato, né salutare, inveire pubblicamente o chiacchierare segretamente contro il re. Anche perché spie e delatori, diversamente dai poco utili censori, abbondavano. (...)
(Giuliano Boccali, da www.golemindispensabile.it)
Giuliano Boccali, professore di indologia e di lingua e letteratura sanscrita all’Università degli studi di Milano, in questo articolo stava iniziando un discorso sul sistema delle caste; in seguito questi articoli sono stati pubblicati in volume, e sono tutti da leggere.

Fatta questa premessa, più che necessaria, l’argomento che mi interessa oggi è proprio quello della memoria, e della trasmissione orale della nostra cultura. A me è capitato di osservare questo: che fino a una decina d’anni sapevo a memoria e senza il minimo problema almeno dieci numeri di telefono, quelli più usati; e impararne uno nuovo non mi costava nessuna fatica. Oggi non ci riesco più, ricordo a malapena il mio telefonino. I numeri sono tutti sulla memoria della sim card, a che mi serve impararli a memoria?
Un’altra osservazione: trent’anni fa esistevano già le calcolatrici tascabili, ma io lavoravo in cucina colori in una stamperia di tessuti, e chi conosce questi posti sa che sporcarsi le mani è molto facile, ci sono momenti in cui qualsiasi cosa si tocchi si rischia di rovinarla per sempre. Di conseguenza, era molto più comodo fare i calcoli a memoria, al volo: percentuali, adattamenti di ricette, anche operazioni complesse. Riuscirci era facile, facilissimo; invece ieri mi sono trovato in difficoltà nel calcolare quante ore sono 311 minuti, vale a dire una divisione molto semplice. Anche del mio periodo da esercente ho un bel ricordo, da questo punto di vista: nessun problema con calcoli e somme, con il resto da rendere al cliente, tutto a memoria e molto velocemente.
Oggi sono ancora abbastanza giovane e non ho nessun problema a ricordare, ma mi trovo molto appesantito e imbranato: è il risultato di dieci o dodici anni passati a evitare di usare ed esercitare la memoria. Pigrizia, insomma: se voglio telefonare a mio fratello è molto più comodo digitare la prima lettera del suo nome, il numero di telefono apparirà immediatamente.

Qui ricordo cosa scrive Boccali, nel brano che ho riportato all’inizio: “Scrivere non era qualificante, (...) anzi, era considerato un mezzo di comunicazione di serie B, o peggio ancora, rispetto al mezzo principe: la trasmissione orale. E più un testo valeva, per sacralità o prestigio, più scriverlo - almeno fino a una certa epoca - anziché mandarlo (e farlo imparare) a memoria appariva un espediente grossolano e degradante (...)” Questa pigrizia, questo nostro diventare sempre più grossolani e faciloni nel ricordare, passa anche attraverso l’uso del tablet, della scrittura elettronica. Lo so che è antipatico da dire, ma scrivere a mano aiuta molto la comprensione di un testo e la sua memorizzazione. Aiuta molto anche NON usare il correttore di testi automatico, io non uso mai nemmeno il dizionario (a meno che non sia quello d’inglese o di tedesco), e vorrei tanto riuscire a ricordare a memoria intere pagine o interi poemi, ma su queste cose mi sono accorto da subito, fin dal tempo della scuola, di non essere particolarmente portato. A pensarci bene, un po’ mi dispiace anche di essere nato nell’epoca dei dischi e delle registrazioni sonore: forse nell’800 avrei imparato a suonare uno strumento, magari non benissimo, invece di star qui ad ascoltare dischi, cd, mp3. Vuoi mettere, saper suonare la chitarra, il flauto, la fisarmonica, il sax, il piano? Avevo iniziato a farlo, ed ero anche arrivato a un buon punto, ma poi la pigrizia – ancora la pigrizia – la comodità di mettere su un disco o di aprire un lettore mp3, vuoi mettere?
Ci si ritrova un po’ rincoglioniti, e chiedo scusa per il termine, alla fine di questo lungo percorso di scrittura elettronica, di calcolo elettronico, di musica registrata da ascoltare. L’Iliade e l’Odissea, la Bibbia e il Mahabharata, vale la pena di ricordarlo, sono arrivati a noi con la trasmissione orale: a memoria, intatti, trasmessi da persona a persona. By heart, come dicono gli inglesi: la traduzione letterale è “col cuore”, ma il significato è proprio quello che si diceva all’inizio: “a memoria”.

Un altro fatto sensazionale, e a suo modo erotico, della mia prima infanzia fu l'apprendimento di una poesia intitolata Il faro. La studiava mia sorella Mary, la imparai io con preoccupante facilità, assaporando il gusto sottilmente malato che promana dall'incongruo, dalla clandestinità e - appunto - dalla precocità. Nacque di sicuro da quell'evento il germe della mia successiva impazienza per chi stenti ad apprendere mnemonicamente. Gli attori che non sanno la parte, che non la sanno subito, anzi paradossalmente che non la sanno «già da prima», li ho sempre apparentati a quella mia sorella maggiore, per un verso adorata e stimata, per un altro recisamente esclusa dalla dimensione euclidea, quella dei bambini capaci di incamerare nella memoria qualsiasi parola captata, specie quelle di cui non si comprenda il significato (...)
(Vittorio Gassman, da “Un grande avvenire dietro le spalle”, ed. Longanesi, pag.8)

giovedì 20 dicembre 2012

"Passami il coso"

Georges Perec, da "La vita istruzioni per l’uso"
Un quadernetto parzialmente riempito di note spesso incomprensibili era scampato al fuoco. Alcuni studenti dell'Istituto di Etnologia si accanirono a decifrarle e, aiutandosi con le rare lettere che Appenzzell aveva inviato a Malinowski e a qualcun altro, con informazioni provenienti da Sumatra e testimonianze recenti raccolte presso coloro ai quali aveva, in occasioni eccezionali, riferito di sfuggita qualche particolare della sua avventura, riuscirono a ricostruire per sommi capi quello che gli era successo e ad abbozzare uno schematico ritratto di quei misteriosi "Figli dell'Interno".
Dopo parecchi giorni di cammino, Appenzzell aveva finalmente scoperto un villaggio Kubu, una decina di capanne su palafitte disposte a cerchio sul ciglio di una piccola radura. Il villaggio gli era sembrato all'inizio deserto poi aveva scorto, sdraiati su stuoie sotto la gronda dei capanni, parecchi vecchi immobili che lo guardavano. S'era fatto avanti, li aveva salutati secondo l'usanza malese con il gesto di sfiorargli le dita prima di portarsi la mano destra sul cuore, e aveva deposto accanto a ciascuno di loro un sacchetto di tè o di tabacco in segno di offerta. Ma quelli non risposero, non chinarono il capo né toccarono i doni. Poco dopo, dei cani si misero ad abbaiare e il villaggio si popolò di uomini, donne e bambini. Gli uomini erano armati di lance, ma non lo minacciarono. Nessuno lo guardò, né parve accorgersi della sua presenza.
Appenzzell trascorse vari giorni nel villaggio senza riuscire a mettersi in contatto con i suoi laconici abitanti. Esaurì in pura perdita la piccola scorta di tè e tabacco; nessun Kubu - nemmeno i bambini - prese mai uno di quei sacchetti che a sera i temporali quotidiani avevano già reso inservibili. Tutt'al più poté guardare come vivevano i Kubu e cominciare a mettere su carta quello che vedeva. La sua osservazione principale, così come la descrive brevemente a Malinowski, conferma che gli Orang-Kubu sono proprio i discendenti di una civiltà evoluta la quale, cacciata dai suoi territori, si sarebbe poi sepolta nelle foreste dell'interno regredendovi. Così, pur non sapendo più lavorare i metalli, i Kubu avevano ferri alle lance e anelli d'argento alle dita. Quanto alla lingua, era molto simile a quelle del litorale e Appenzzell la capì senza troppe difficoltà. Quello che lo colpì maggiormente, fu l'utilizzazione di un vocabolario estremamente ridotto, che non superava poche decine di parole, e si domandò se per caso, a imitazione dei loro lontani vicini, i Papua, i Kubu non avessero volontariamente impoverito il loro vocabolario, sopprimendo delle parole ogni qualvolta nel villaggio un membro moriva. Una delle conseguenze di questo fatto era che la stessa parola indicava un numero di oggetti via via più grande. Per cui Pekee, la parola malese che significa caccia, voleva dire indifferentemente cacciare, camminare, portare, la lancia, la gazzella, l'antilope, il maiale nero, il my'am, specie di spezia molto piccante abbondantemente usata nella preparazione di alimenti carnei, la foresta, l'indomani, l'alba, eccetera. Come pure Sinuya, parola che Appenzzell accostò alle parole malesi usi, la banana e nuya, la noce di cocco, indicava mangiare, pasto, zuppa, zucca, spatola, stuoia, sera, casa, vaso, fuoco, selce (i Kubu accendevano il fuoco sfregando due selci una sull'altra), fibula, pettine, capelli, hoja' (tintura per i capelli basata sul latte di cocco mischiato a terre e piante varie), eccetera.
Se, di tutte le caratteristiche della vita dei Kubu, questi aspetti linguistici sono i più noti, è perché Appenzzell li descrisse minutamente in una lunga lettera al filologo svedese Hambo Taskerson che, conosciuto a Vienna, lavorava allora a Copenaghen con Hjelmslev e Brondal. Fece anche notare, al volo, che tali caratteristiche potrebbero adattarsi benissimo a un falegname occidentale che servendosi di strumenti menti dal nome molto preciso - truschino, incorsatoio, sponderuola, pialla, bedano, barlotta, eccetera - li chiedesse al suo garzone dicendogli semplicemente: "Passami il coso". (...)
(Georges Perec, da “La vita istruzioni per l’uso”, pag.120 ed. BUR-Rizzoli 1989)
Due note mie personali:
1) questa storia della tribù che si allontana sempre più verso l’interno man mano che viene rintracciata e raggiunta mi ricorda molto “Lord Jim” di Joseph Conrad, anche per l’ambientazione malese o indonesiana; ma mi ricorda anche molto la mia attuale situazione personale. Non so cosa sia successo agli Orang-Kubu (orang in malese significa “uomo”), ma per quanto mi riguarda lo spazio per tirarmi indietro ormai è finito.
2) Non sono sicuro che il libro di Georges Perec mi piaccia per davvero, ogni volta che lo sfoglio vi trovo sempre molti difetti; detto questo, devo però confessare che “La vita istruzioni per l’uso” è esattamente il libro che avrei voluto scrivere io.

martedì 18 dicembre 2012

Amminoteca

- C’è il pesce in mensa, oppure sei tu che stai caricando l’ammina?
Il dubbio sorgeva, e sorge ancora, nella ditta dove ho lavorato per molti anni: la Dimetillaurilammina ha infatti un caratteristico odore di pesce, molto marcato. Non propriamente una puzza, ma l’odore esatto del banco del pesce al mercato. Altre ammine hanno odori diversi, o non ne hanno affatto; ma la DMLA è un liquido incolore che puzza di pesce, ed è quindi facilmente riconoscibile anche a distanza, anche se non la si vede.
Dimetillaurilammina” è una parola così complicata che si fa fatica perfino a leggerla, però per me era diventata familiare, e se la si scompone diventa più facile da capire: dimetil-lauril-ammina, un’ammina costruita su un olio o su un grasso.  E’ qualcosa con cui avete avuto sicuramente a che fare, anche se non sembra: si tratta di un intermedio per la produzione di uno dei principali antibatterici in commercio. Basta prendere un collirio e questo antibatterico ce lo trovate, magari in fondo alla lista degli ingredienti perché ne serve pochissimo: «benzalconio cloruro» (che in realtà è l’abbreviazione di un nome ancora più complesso). Il principio attivo del collirio è sempre un altro, il benzalconio cloruro (dimetillaurilammina in reazione con cloruro di benzile) serve solo per evitare contaminazioni batteriche.
Una volta detto che “lauro” è l’alloro, e che dunque si indica un punto di partenza vegetale (l’acido laurico è presente anche nell’olio di cocco e un po’ in tutto l’olio di semi), e che la metilazione (di-metil) serve per preparare l’olio alla reazione successiva, resta da spiegare che cos’è un’ammina, impresa tutt’altro che semplice. Eppure, le ammine e i gruppi amminici sono presenti ovunque, per esempio nel DNA e negli amminoacidi; ma dato che a scuola la chimica viene ostinatamente presentata come una cosa astrusa e incomprensibile, siamo veramente in pochi a saperlo: il che è veramente un peccato, al quale cercherò di rimediare come posso.
Il punto di partenza è l’Azoto, cioè l’aria in cui siamo immersi: l’aria che respiriamo è per tre quarti Azoto. L’azoto dell’aria, così come l’ossigeno, è di per sè inerte, ma può reagire e dà luogo a un’infinità di composti. I più comuni sono tutti i gas di combustione, per l’azoto ma anche per l’ossigeno dell’aria. L’azoto è presente in natura anche nel mondo dei minerali, soprattutto nei nitrati (usati come fertilizzanti), ed è uno dei quattro elementi alla base della vita sul nostro pianeta: Carbonio, Idrogeno, Ossigeno, Azoto. Il tristemente famoso monossido di azoto, causa di intossicazioni se una stanza non è ben aerata, è il primo passo verso la formazione dell’ammoniaca e delle ammine, dei nitrati, e di tutti i composti azotati. Questo avviene regolarmente tramite il nostro metabolismo e quello delle piante, e fa parte del ciclo di trasformazione della materia, che è la cosa che abbiamo in comune con minerali, vegetali, animali. Nel nostro organismo, i composti azotati non utilizzati dal metabolismo finiscono nelle urine; dalle urine si genera ancora ammoniaca, e il ciclo ricomincia. L’ammoniaca è quindi un composto molto importante nel ciclo di trasformazione della materia.
A scuola insegnano che le ammine si costruiscono a partire dall’ammoniaca: non è così nell’industria, ma per far capire funziona perfettamente. Per chi non sa niente di chimica, la molecola dell’ammoniaca si può infatti immaginare come una sfera (l’azoto) dove vengono inserite tre palline più piccole (gli atomi di idrogeno). Sostituendo uno degli idrogeni (una delle palline più piccole) si avrà un’ammina primaria; sostituendone due si avrà un’ammina secondaria, sostituendo tutti e tre gli atomi di idrogeno inseriti nell’atomo d’azoto (quello più grande) si avrà un’ammina terziaria. C’è un’ulteriore possibilità, dovuta alla conformazione dell’atomo di azoto: in questo caso si arriva alle ammine quaternarie, che nell’industria e nell’uso quotidiano sono ben presenti come disinfettanti e come ammorbidenti per i tessuti, nel lavaggio. Va ricordato, en passant, che tutte le sostanze che disinfettano sono anche un po’ veleni. Una cosa da tenere sempre ben presente: quando ci si sterilizzano le mani con un disinfettante (uno qualsiasi) si assorbe sempre anche un po’ di veleno.
Tornando alla mia ammina “di pesce”, quella da cui ero partito, per arrivare al disinfettante la si fa reagire con il cloruro di benzile, che è un altro liquido dall’odore particolare: non un odore cattivo, ma un po’ stucchevole e dolciastro. Il risultato finale, il benzalconio cloruro, ha un odore più lieve che a me ricorda quello della coccoina, la colla che si usava molto a scuola (spero che la si usi ancora, ne ho un buon ricordo) – però non so bene con cosa sia fatta la coccoina, dovrò informarmi. E, soprattutto, il benzalconio cloruro si usa sempre in quantità minime, sotto l’uno per cento: in queste condizioni non si sente ovviamente nessun odore.
Per finire la mia chiacchierata sulle ammine (faticosissima da scrivere, una delle più difficili di questa serie) aggiungo ancora due nomi, giusto per l’inventario: la ciclammina, ammina ciclica (niente a che vedere con i ciclamini, of course) e le ammidi, che sono invece molto presenti nella nostra vita e che sono parenti strette delle ammine; ma qui il discorso si farebbe troppo specialistico, veramente da chimico, e adesso che ci penso non mi ricordo più nemmeno io come è fatta un’ammide – però so dove se ne possono trovare, per esempio in cosmetica o nel nylon (che è una fibra poliammidica). Ma, niente paura: anche le ammidi sono composti ben presenti in natura, soprattutto nel mondo vegetale.
Le immagini: una cartolina d’epoca vittoriana (dal sito http://mudwerks.tumblr.com  ), una vignetta di Bruno D’Alfonso dedicata a Jacovitti (dal mensile Linus, 1983), alcuni estratti dal mio libro di chimica organica di quando andavo a scuola, per chi volesse approfondire (Stocchi-Mesiani, Chimica organica razionale, ed.La Prora 1974), e una vignetta di Jacovitti quello vero, che non c’entra niente con le ammine ma che qui sta a rappresentare le bastonate che mi merito quando scrivo questi raccontini così imprecisi.

sabato 15 dicembre 2012

Forza Italia

(vignetta di Altan del 29 aprile 2010, quasi tre anni fa, da L'Espresso) (basterà una vita per ripulire il nostro Paese? temo proprio di no)

venerdì 14 dicembre 2012

Full HD, 3D, Widescreen, al plasma.

"MASH" è stato un grande successo commerciale: la Fox ci guadagnò una cifra intorno al miliardo di dollari, e la serie tv che ne fu tratta è stata a lungo replicata, circola ancora in tv, e continua a dare profitti.
- Come sei riuscito a conferire al film quell'aria grezza?
- A eccezione della scena della partita di football, sulla macchina da presa mettemmo i filtri nebbia numero tre, in modo da distruggere l'immagine a colori rendendola sporca e togliendole nitidezza e luminosità. All'epoca di Combat giravamo in bianco e nero, ed era più facile evocare quel genere di cose. Con il colore era tutta un'altra storia.
(Robert Altman, pag.58 di “Altman racconta Altman”, a cura di David Thompson, ed. Feltrinelli 2010)
(per il film “MASH”)
- La fotografia di Vilmos Zsigmond è molto inusuale, con i suoi toni sul giallo. Hai ottenuto questo effetto esponendo la pellicola alla luce prima di svilupparla?
- Sì. È stato un grosso rischio, probabilmente un'idiozia. Era però l'unico modo per ottenere quell'effetto, visto che all'epoca non c'erano tutte le tecniche di post-produzione che ci sono adesso, non si poteva fare dopo. E, avendolo fatto sul negativo, lo studio non aveva scelta: doveva accettare il fatto compiuto. La ragione principale per cui l'ho fatto, e poi l'ho ripetuto nel Lungo addio, è che volevo distruggere la nitidezza del film, ricorrendo perfino all'uso di filtri nebbia numero tre. (...)
(Robert Altman, pag.70 di “Altman racconta Altman”, a cura di David Thompson, ed. Feltrinelli 2010)
(per il film “Mc Cabe & Mrs.Miller, in Italia uscito col titolo “I compari”)

Voi cosa ci guardate, con la tv HD? Bruno Vespa, le partite dell’Inter, X factor, L'isola dei famosi?
(nelle immagini: Karen Black in “Nashville”, e Robert Altman alla premiazione per l’Oscar)

giovedì 13 dicembre 2012

Il digitale terrestre come metafora dell’Italia intera


La settimana scorsa parlavo con un antennista mio amico; mi ha detto che fra un paio d’anni saremo da capo con i decoder. No, non quello che avete in casa: un altro. Per consentire ai possessori di tablet di vedere la tv ovunque, infatti, bisognerà andare a toccare un’altra volta le frequenze. Serviranno decoder, ritocchi alle antenne condominiali e private, e forse altro ancora; o forse non ce ne sarà bisogno, chissà, vedremo, boh. Ecco dunque un’altra delle costanti di questo inizio di millennio: l’incertezza.
Si parte con progetti di riforme, che siano piccole o epocali, e poi si comincia ma non si sa mai a che punto siamo. L’ultima è quella del taglio delle Provincie: non se ne fa niente, ma abbiamo già iniziato. E dunque? E dunque si rimane a metà strada, qualcuno nel fango qualcuno all’asciutto, altri in bilico, qualcuno già in casa sua al caldo.

Il digitale terrestre è dato tranquillamente per acquisito, cosa fatta. Non è che sia proprio così, anzi; è poi penosa la qualità di quello che vi viene trasmesso (centinaia di canali, quasi nessuno che abbia il minimo di cultura e preparazione necessaria per fare una programmazione decente), ma non sto qui ad approfondire altrimenti dovrei aprire un blog solo per questo argomento. Mi interessa piuttosto sottolineare questo aspetto della politica degli ultimi 15-20 anni, la voglia di mettere etichette “fatto!” sopra ogni cosa, dal federalismo alla riforma scolastica passando per il lavoro, per la sanità e per le vie di comunicazione. La realtà, e spiace molto dirlo, è che le cose vanno sempre peggio.
Sorvolerò sul Ponte sullo Stretto, sorvolerò sulla Salerno-Reggio Calabria, sono disposto anche a sorvolare sulla ‘ndrangheta infiltrata nel Consiglio Regionale della Lombardia (grazie Bossi, grazie Lega, grazie Maroni: c’eravate o stavate dormendo?)
Sorvolerò su tante cose, anzi vorrei sorvolare ma in fin dei conti io non sono né un pilota d’aereo né un uccello, che sorvolo a fare? Le forze non mi reggono, anzi a dirla tutta non ce la faccio nemmeno a finire a post. L’ho iniziato, è vero, ma adesso lo pianto qui a metà e lo lascio finire a chi passa di qui: come il digitale terrestre, insomma, che è una perfetta metafora dell’Italia intera in questo inizio di millennio. Non vedete più la tv? Xxxxx vostri, io a casa mia la vedo benissimo, e questo vi dovrà bastare.
E così è di noi tutti. Amen.

mercoledì 12 dicembre 2012

«Il proprietario della strada»


Le gomme da neve sono obbligatorie, ma alcune marche di gomme da neve non vanno bene. Come si fa a saperlo? Come mai le vendono, se non sono a norma?
L’altro giorno ho letto di lunghe code sulle strade statali: provocate non dal maltempo, ma da agenti della stradale che fermavano tutti per controllare se avevano le catene a bordo. E’ successo un po’ dappertutto, un lettore di Repubblica ha segnalato il fatto raccontando che è arrivato in ritardo allo spettacolo che aveva prenotato da tempo; Aldo Giovanni e Giacomo lo hanno consolato, che vuoi farci, è così.
E, infine, le gomme da neve costano. Costano poco o tanto? Dipende da quanto guadagnate al mese: se vi danno trecento euro al mese il costo delle gomme da neve è spaventoso; e siccome ormai sono tanti, ma davvero tanti, ad essere in questa condizione (trecento euro questo mese, il prossimo niente, quello dopo chissà), è chiaro che il problema esiste. Che si fa, si continua a dare multe anche se c’è il sole e le previsioni del tempo danno il sole per tutta la settimana?
Questa storia delle multe è una delle prime a cui dovrà mettere mano il nuovo governo, dopo le elezioni. Non se ne può più, bisogna recuperare un rapporto corretto tra le amministrazioni e i cittadini: la multa deve essere proporzionata al danno fatto, e se il danno non c’è non ci deve essere nessuna multa. Sembrerebbe una banalità, ma si è invece andati per anni nella direzione opposta, con i risultati che ormai sono sotto gli occhi di tutti.

Il bello è che, se dici queste cose in giro, ti rispondono spiegando l’utilità delle gomme da neve: ma questo lo so, lo si dava per scontato. Il fatto è che costano, non te le regalano mica, e se guadagni trecento o cinquecento euro al mese...Insomma, è difficile cominciare un dialogo con chi non vuole ascoltare: io dico che c’è un grosso problema sociale, loro mi rispondono con il ghiaccio sulle strade. E allora provo ad aggirare l’ostacolo: il ghiaccio sulle strade c’è sempre stato, mio padre nel 1971 acquistò un’automobile e insieme acquistò le catene (forse lo fece anche prima, ma io ero piccolo e non mi ricordo), così facevano tutti, oggi ci sono le gomme invernali, benone, ma fino a qualche anno fa c’erano stipendi migliori, ti dice niente questa frase? No, non gli dice niente e ricomincia con gomme, tute fosforescenti, casco, pitpitpit quando metti la retro, l’etilometro obbligatorio, il navigatore satellitare obbligatorio, il tutor stradale, cos’altro ancora? Anche andare in bicicletta è diventato un problema, anche il digitale terrestre ha obbligato tutti a spendere soldi inutili (guai a chi lo dice, però), ci sono multe ovunque, ovunque devi sottostare a obblighi in ogni minimo istante della tua vita, spendere soldi, e intanto comincia a crescere la protesta.
Attenzione, non ho detto che sono d’accordo con chi spacca tutto e va in piazza con intenti violenti: dico solo che il problema esiste, ma voi continuate a ripetermi che le gomme da neve sono fondamentali per la mia sicurezza. Ecco, lo scrivo anch’io: che le gomme da neve sono fondamentali per la mia sicurezza. Adesso che l’ho scritto, potreste almeno per un attimo dimenticarvi delle automobili e occuparvi di quello che succede nel resto del mondo?

PS: sulle gomme da neve “deciderà il proprietario della strada”, ha scritto un quotidiano importante. Le strade hanno un proprietario? Mamma mia, siamo tornati al tempo dei dazi e delle città fortificate...Ma, almeno, a quei tempi là bastava pagare il dazio una volta sola, quando varcavi la porta delle città, poi dentro le mura eri libero. Adesso si paga tutto, ogni piccola cosa va pagata, se esci di casa non bastano cinquanta euro (se sei da solo...), se anche hai soldi e carta di credito non bastano perché ci vuole l’apposita smartcard o l’apposito grattaesosta (ma perché non fanno un grattaesosta solo, che vale dalla Sicilia e dalla Sardegna fino in Val d’Aosta e a Bolzano e Trieste?) – insomma, “il proprietario della strada”, ecco la novità vera di questo inizio di millennio. L’avreste mai detto, dieci anni fa?

AGGIORNAMENTO al 2 febbraio 2013: i vigili di Milano forniscono questo dato, dopo controlli recenti: un automobilista su cinque non paga più l'assicurazione auto. L'assicurazione, non le gomme da neve.

martedì 11 dicembre 2012

Un tòpos cinematografico

Magari a vederlo non si direbbe, ma Jean Renoir è stato pilota d'aereo, in guerra. La Grande Guerra, 1914-18: i tempi del Barone Rosso, i pionieri dell'aviazione. Renoir fu ferito in un'azione di guerra, fu una lunga convalescenza e la ferita non guarì mai del tutto, lasciando il grande regista leggermente claudicante per tutta la sua vita.
Durante la convalescenza, a Parigi, Jean Renoir scopre il cinema.
Jean Renoir, da "La mia vita e i miei film":
Qualche volta di pomeriggio la sala era vuota. Mi ricorderò sempre di una proiezione in un cinema dei Boulevards che si chiamava Parisiana. Quella sala era stata un café-concerto di successo, vi avevano calcato le scene vedette come Spinelli. Io ci ero andato attratto da un film americano, evitavo i film francesi, troppo intellettuali per i miei gusti. In sala ero solo, o almeno così credevo. Dopo alcuni minuti di proiezione ebbi la sensazione di una presenza, in una poltrona non lontana dalla mia. Eppure, nonostante la semioscurítà potevo constatare che ero davvero l'unico spettatore. Mi alzai, deciso a penetrare quel mistero. Il film che proiettavano era sul fantasma di una signora assassinata che perseguitava i suoi assassini con continue apparizioni. Per quanto si rifugiassero nei nascondigli più inverosimili, il fantasma li ritrovava infallibilmente. Ormai mi aspettavo quasi di trovarmi faccia a faccia con qualche creatura dell'aldilà. Invece mi ritrovai davanti a un grosso topo che, comodamente sistemato su una poltrona, stava seguendo lo spettacolo. Ebbe una gran paura di me e fuggì via. Io potei tornare al mio fantasma.
(Jean Renoir, da "La mia vita e i miei film", ed. Marsilio, pag.40)


lunedì 10 dicembre 2012

Wagneriana ( VI )

Dall'alto ho sorpreso la vita segreta dell'orchestra durante le lunghe ore dell'Anello del Nibelungo. Gli archi, dai violini ai contrabbassi, non hanno mai riposo, si estenuano su pagine e pagine di figurazioni eguali, simmetriche, e che nemmeno riescono a udire gli esecutori stessi, tanto son destinate a fondersi in una sola pasta fonica. (Beniamino Dal Fabbro, da “ I bidelli del Walhalla” ,frammento n.32)
Nei dodici anni d'interruzione del progetto della Tetralogia Richard Wagner ha avuto molto tempo per pensare e per fare esperienze. Forse si rende conto che nell'impianto previsto c'è qualcosa che non va, e che non può certo essere un Sigfrido a salvare il mondo. E' una domanda che, evidentemente, Wagner si pone: e andrà molto vicino alla risposta con il Parsifal, la sua ultima opera. E sì che la risposta alla domanda su chi può salvare il mondo non era molto difficile: al tempo in cui viveva Wagner era già nota da 19 secoli...
Comunque sia, nel Crepuscolo degli dèi Sigfrido non fa una gran figura. Difatti saluta Brunilde, perchè sa che deve rimettersi in viaggio; ma appena tocca terra viene drogato dai Ghibicunghi, e diventa una marionetta nelle loro mani. I Ghibicunghi sono Hagen e Gunther: fratelli, ma solo per parte di madre. Infatti Hagen viene da una relazione adulterina: e suo padre è Alberico. Hagen sa chi è Sigfrido, e ne informa il fratello appena l'eroe giunge al loro castello. Lo drogano, e quindi lo mandano a prendere Brunilde, come sposa per Gunther. Sigfrido esegue, come sotto ipnosi: per effetto dell'elmo assume le sembianze di Gunther, e porta al castello la walkiria. Brunilde capisce che c'è qualcosa che non va: come può un Gunther qualsiasi compiere l'impresa? Per ricompensa, Sigfrido avrà in sposa Gutrune, sorella di Gunther. Gutrune ha un carattere dolce, e ama davvero Sigfrido. Così ora l'Oro è di nuovo nelle mani di un discendente dei Nibelunghi. Quando Hagen capisce che non ha più bisogno di Sigfrido, decide di sbarazzarsene: gli fa bere un altro filtro, e pian piano l'eroe ritorna in sè. Ma, quando nomina Brunilde come sua sposa (e Gunther se ne stupisce, perchè non conosce tutta la verità), Hagen finge di voler vendicare l'onore tradito e lo uccide. Sigfrido, morente, ripercorre la sua storia in una delle più grandi pagine di tutta la storia dell'opera.
Torniamo quindi nel castello dei Ghibicunghi: Gutrune attende invano che il suono del corno annunci il ritorno del suo sposo. Teme Brunilde, che dorme nella stanza accanto... Ma ecco il suono di un corno: non è Sigfrido, ma Hagen, che irrompe nella stanza e mostra brutalmente alla ragazza il corpo dell'eroe morto.
Ormai la giornata è compiuta: dal fondo della valle giunge il lamento delle Figlie del Reno, s'avanza sulla scena Brunilde, che recita un lungo e drammatico monologo; quindi sale col suo cavallo sulla pira predisposta per il funerale di Sigfrido, e, dalle fiamme, getta l'Anello là dove doveva restare fin dal principio: nelle acque del Reno. Hagen fa un ultimo tentativo per riprenderlo, ma ormai è tardi. In orchestra, in una delle più belle pagine sinfoniche di Wagner, tutti i principali motivi conduttori riemergono e si fondono l'uno nell'altro, e da essi emerge un tema nuovo, dolcissimo, che è detto "della Redenzione attraverso l'Amore". Sul rogo, e sulla Natura placata, si chiude l'opera e la Tetralogia.
Ho dovuto sintetizzare, spesso brutalmente, perché il Crepuscolo è un'opera densa di musica e di significati. Inizia con le tre Norne, che tessono il destino del mondo: ma il filo si spezza. Siamo ormai passati definitivamente dal mondo mitologico a quello degli uomini, e la tragedia a cui assistiamo è tutta umana.
Il lavoro di Wagner si chiude col Parsifal , 1882. La vicenda del ragazzo innocente e ignorante che diventerà il salvatore del Graal è famosa; Wagner ne realizza una versione straordinaria, della quale bisognerebbe parlare a lungo, e magari lo farò un'altra volta.
Wagner muore nel 1883: non ha lasciato molte altre composizioni. Le più importanti sono i Wesendonck Lieder , meravigliosi, e l' Idillio di Sigfrido. L' Idillio non ha niente a che fare con la Tetralogia: si tratta di una pagina orchestrale composta per la nascita del figlio (1870), che riprende temi dall'opera omonima (il figlio naturalmente si chiamava Sigfrido).  Mathilde Wesendonck era una signora con la quale pare che Wagner abbia avuto una relazione: si tratta di 5 lieder per soprano e orchestra (Richard Strauss viene da queste cose qui...), scritti poco prima del Tristano; e in uno di essi la melodia triste verrà poi ripresa per l'inizio dell'ultimo atto del Tristano.
Le biografie dicono che Wagner fu quasi un autodidatta, con molti interessi anche letterari e filosofici. Difatti scrisse tutti i libretti delle sue opere, e anche libri e saggi. Intorno ai vent'anni scrive alcune opere, "Le nozze" (1832) "Le fate" (1834) e "Il divieto d'amare" (1835, da Shakespeare). Sono tutte fuori repertorio da sempre, e si eseguono ogni tanto giusto per curiosità.  La prima vera opera di Wagner è il "Rienzi" (1840), sulla vita di Cola di Rienzo, un operone d'impianto meyerbeeriano nel quale c'è già molto del Wagner maturo. Ma già nel 1841 è pronto "L'Olandese volante" (Der fliegende Holländer): e siamo al primo capolavoro. E' la cupa leggenda dell'Olandese, navigatore che maledice Dio durante una tempesta ed è perciò condannato a navigare in eterno, col suo vascello e l'equipaggio, finché non troverà una donna disposta a sacrificarsi per lui. Un altro titolo dell'opera è appunto "Il vascello fantasma". Bellissima l'ouverture, la Ballata di Senta, e i cori spettrali dell'ultimo atto. Nel 1845 c'è il Tannhäuser : è la storia del trovatore medievale tedesco (personaggio storico), dedito a canti pagani e redento da Elisabetta d'Ungheria (futura santa: vedi 17 novembre). Ti sembra strano? invece è proprio così: famosissima l'ouverture, e il coro dei pellegrini. Wagner comincia ad avere successo, e mostra sempre più la sua personalità, distaccandosi definitivamente dal modello francese dl grand-opéra. Nel 1848 ecco dunque il Lohengrin . Le note di scena dicono che siamo vicino ad Anversa, e che siamo alla presenza di re Enrico I, detto l'Uccellatore, personaggio storico (876-935). In realtà, siamo nel Paese delle Fiabe, o del Mito, se si preferisce. Il giovane principe del Brabante sparisce misteriosamente; il conte Telramund, spinto dalla sua compagna Ortrud, accusa la sorella del principe, Elsa, di averlo fatto scomparire con arti magiche. Il re Enrico è chiamato a dirigere il giudizio; l'opera inizia in una vasta radura, con l'Araldo che legge il bando d'accusa. Il re chiama Elsa a discolparsi: è un re paterno, molto disponibile. " Cos'hai da dire a tua discolpa? " le chiede; ma la principessa tace, l'unica cosa che dice, quasi impercettibile, è: " ... mein armer Bruder... "(il mio povero fratello...). Il re si commuove, ma il processo deve andare avanti: si decide per una specie di "giudizio di Dio", come era normale all'epoca. La principessa ha dunque diritto di scegliersi un cavaliere, che la difenderà in duello contro Telramund. E il re si rivolge ancora ad Elsa: " ...chi scegli come tuo difensore? " E la principessa, tra la meraviglia dei presenti, risponde così: che ha visto in sogno un cavaliere, e che sarà lui il suo difensore... Il re è imbarazzato e confuso, ma dà ordine all'Araldo di chiamare il cavaliere del sogno. E il cavaliere, mistero ! - arriva veramente, e sconfigge Telramund; poi si rivolge ad Elsa e le dice: posso restare con te, e diventare tuo sposo; ma tu non devi mai chiedere il mio nome. Dopo le nozze, Elsa non resiste: e il cavaliere le dice che si chiama Lohengrin, figlio di Parsifal; e che ora dovrà lasciarla... Nel finale, Lohengrin ritorna dunque da dove è venuto; ma non prima di aver rimesso a posto tutto quello che era rimasto in sospeso, compreso il fratello di Elsa che ricompare miracolosamente: era il cigno che aveva accompagnato l'arrivo di Lohengrin.  Richard Wagner scrisse il Lohengrin tra il 1845 e il 1848, e mise insieme, nella storia, due miti diversi: quello dei cavalieri del Graal e quello, più antico e misterioso, di Amore e Psiche. E' una bella storia, e anche la musica è bella. Wagner è vittima di grossi pregiudizi; è vero che non è una figura particolarmente simpatica (più che altro, mi disturbano l'opportunismo e una certa supponenza), ma la sua musica è spesso di una delicatezza sorprendente, e nel Lohengrin la delicatezza wagneriana è al suo culmine. E' comunque un'opera impegnativa, molto lunga; all'inizio del terzo atto c'è il matrimonio di Elsa e Lohengrin, con la famosissima marcia nuziale.
In questo periodo Wagner comincia a pensare ai "Maestri Cantori di Norimberga", e inizia a scrivere la Tetralogia, cioè "l'Anello del Nibelungo". Pubblica inoltre i suoi famosi saggi: L'arte e la rivoluzione, L'opera d'arte dell'avvenire , Opera e Dramma. In essi espone la sua teoria di una fusione delle arti, che devono confluire in un nuovo modello di Wort-Ton-Drama, (dramma di parole e musica) cioè l'opera totale. Leggendo le didascalie alle sue opere, a me viene da pensare che Wagner intendesse qualcosa di molto simile al cinema; e molto spesso è fuori dalla realtà del palcoscenico, specialmente quando pretende che si realizzino cose come la salita degli dèi al Walhalla su un arcobaleno evocato dal martello di Thor (pardon, Donner): ci sarebbe voluto il Walt Disney di Fantasia ! In musica tutto funziona benissimo, sul palcoscenico si è visto di tutto - purtroppo. In questi anni conosce anche Liszt e Schopenhauer. Nel 1852 il piano completo della Tetralogia è pronto, e nel 1854 finisce il prologo (cioè un'opera di tre ore!): che è L'Oro del Reno (Das Rheingold).
Sigfrido torna da Brunilde, ma le parla con voce lontana, neutra ed assente; in più, è sotto le sembianze di un'altra persona, Günther, a lei sconosciuta. Brunilde in fondo sa che è lui, ma stenta a riconoscerlo... (chi sa da quali tempeste coniugali nasce quest'episodio del Crepuscolo...)  (Beniamino Dal Fabbro, da “ I bidelli del Walhalla”, frammento n.7)
(La foto di Wagner con la moglie Cosima e i due disegni di Gustav Doré - il pubblico dei wagneriani all'inizio e alla fine dell'opera - vengono da vecchi programmi di sala; le due copertine sono di registrazioni molto belle, forse le migliori in assoluto; in mezzo c'è un allestimento della Walkiria o del Sigfrido assolutamente realistico e molto credibile, magari ce ne fossero di più, bei tempi!)

domenica 9 dicembre 2012

Wagneriana ( V )

Nell'aria di democrazia artistica instaurata ai suoi tempi dal romanticismo, Wagner ha fatto una grandiosa leva di gente negata alla musica, chiamandola a sè e al suo teatro con ogni sorta di pretesti filosofici, letterari, medievali, mistici, erotici ed esoterici; e a quei catecumeni immersi nel buio egli ha offerto la sacra macchina dei suoi drammi, i cui ingranaggi non chiedevano altro che di essere smontati e consegnati agli ascoltatori come altrettante chiavi per penetrare nei difficili dominii della musica. Il miracolo non consiste nei risultati ottenuti, che tuttavia perdurano sino ad oggi, ma nel fatto che Wagner, con tante preoccupazioni estranee alla musica, sia anche riuscito, sovente, a comporne di vera e propria. (Beniamino Dal Fabbro, da “ I bidelli del Walhalla” ,frammento n.19)
(...) ... ma dopo una mezz'ora o un'ora, durante un amareggiato sermone di Wotan o un complesso riassunto agnatizio di Sigmundo, o nel bel mezzo d'un groviglio di temi conduttori, vien sempre un minuto in cui nella nostra disattenzione si determina una fessura, uno spiraglio: di qui la musica di Wagner penetra in noi, fa strage dei nostri sentimenti personali e c'impone la sua legge di sproporzione e di crudeltà, di sangue e d'istinto. Siamo perduti, ormai Wagner fa di noi quel che vuole, a tradimento c'insuffla il suo enorme respiro per costringerci al suo passo inumano, per tenerci immoti nelle tenebre del teatro, mentre lui ogni tanto sale a lambirci tempestosamente la faccia con le sue acque sinfoniche. (Beniamino Dal Fabbro, da “ I bidelli del Walhalla” ,frammento n.21)
"Tristan und Isolde" è finito nel 1859. Non sto a riassumere la storia perché è famosa; il suo preludio viene indicato come l'inizio della musica del '900 (una "melodia infinita" che per molte battute sembra non volersi appoggiare sulla teoria musicale fin lì usuale...). E' un'opera estenuante ed affascinante, bellissima.
Nel 1867 Wagner ultima "I maestri cantori di Norimberga": è un grande affresco storico sulla musica medievale tedesca, una commedia con un humour tutto teutonico che ruota intorno alla figura storica di Hans Sachs, poeta e calzolaio (1494-1576). Famosissimo il preludio, e la grande scena finale con la marcia delle corporazioni. Molto bella, ma bisogna essere tedeschi e ben ferrati in storia (e in storia della musica ) per capire tutto...
In questo periodo, Wagner si separa dalla prima moglie, viaggia e studia; inoltre conosce Ludwig II di Baviera, suo ammiratore. Conosce Nietzsche, e si risposa con la figlia di Franz Liszt, Cosima. Riprende a lavorare alla Tetralogia, e nel 1871 finisce il Siegfried. (la foto qui sotto, Cosima con Wagner e figlio, viene da un vecchio programma di sala).
"Sigfrido", protagonista dell'opera omonima, è il figlio di Siegmund e di Sieglinde (la loro storia d'amore è nell'opera precedente, "La Walkiria"); è l'eroe che dovrebbe salvare il mondo... All'inizio lo vediamo, poco più che un bambino, presso Mime, il fratello di Alberico che lo ha allevato. Mime non ama il ragazzo; lo ha cresciuto solo perché sa che è l'unico che può arrivare all'Oro e all'Anello, custoditi dal gigante Fafner. Infatti, il giovanissimo Sigfrido, in una scena famosa e musicalmente un po' goffa, rimette insieme i pezzi della spada Notung; si sbarazza del perfido Mime e si mette in viaggio.  Va da Fafner, che grazie al potere dell'elmo magico si è trasformato in drago, e lo uccide. Adesso l'oro, l'Anello e l'elmo sono in sua mano. Dal sangue del drago, Sigfrido ottiene il dono di comunicare con gli animali; un uccellino gli farà da guida. Sulla sua strada incontrerà il Viandante, che è Wotan stesso (non il padre ma il nonno, in un certo senso: non so che significato psicoanalitico possa avere, un conflitto con il nonno in Freud non c'è, a quanto mi risulta); saprà superare anche lui, e si inoltra sulla montagna dove il fuoco custodisce Brunilde. La risveglia, e i due si uniscono in matrimonio.
Qui finisce il Sigfrido; è l'opera più brutta della Tetralogia, e risente dei ripensamenti e della lunga gestazione. Però contiene delle cose belle: su tutte, il "mormorio della foresta", dove l'eroe impara a comunicare con la Natura. A me piace molto il momento in cui incontra il drago; gli rivolge la parola, e il drago è seccato perché sta dormendo. "ich lieg' und besiegt, lass mich schlafen..." gli risponde : "io giaccio e posseggo, lasciami dormire...", traduce un po' goffo ma preciso il Manacorda. Mi piace vedere una forte metafora anticapitalista in queste parole del drago.
Nel 1872 Wagner si trasferisce in Baviera alla corte del famoso Ludwig; nel 1874 finisce Götterdämmerung (Il crepuscolo degli dèi) e nel 1876 è pronto il teatro di Bayreuth, dono del principe, dove ancora oggi continua il festival wagneriano per eccellenza. In questo teatro, Wagner attua alcuni dei suoi progetti: sue invenzioni sono la fossa orchestrale, il buio in sala, i posti numerati, e il carattere sacrale che accompagna ancora oggi il teatro in musica (prima era tutto più approssimativo, ma forse ci si divertiva di più e c'era più vita...).
(continua)

sabato 8 dicembre 2012

Wagneriana ( IV )

Il "tema del Walhalla" con i suoi squilli attutiti, misteriosi, ha una suggestione davvero magica. Esso avvia a concepire un sogno di grandezza astratta, di solitudine chiusa in se stessa. Ci si domanda cosa potrebbe fare Wotan nelle mille alte stanze del suo divino castello.  (Beniamino Dal Fabbro, da "I bidelli del Walhalla", frammento n.9)
La seconda opera della Tetralogia (cioè il primo atto, secondo la terminologia usata da Wagner) è La Walkiria (Die Walküre, 1856). Wotan è andato da Erda, e ne ha avuto 9 figlie: le valchirie, appunto. Ma tutto questo è già successo da molto tempo, e noi non lo vediamo: Wagner fa iniziare l’opera con Siegmund (un personaggio nuovo) che sta fuggendo, inseguito dal terribile Hunding. Ed è proprio a casa di Hunding, senza rendersene conto, che lo stremato Siegmund si ripara. Ma Siegmund è protetto da Wotan, che ha fatto in modo che proprio lì andasse a capitare: in quella casa c'è infatti il frassino del mondo (parte importante del mito nordico), e nel frassino c'è la spada Notung, che lo renderà invincibile. Siegmund è soccorso dalla moglie di Hunding, che gli somiglia moltissimo: è infatti sua sorella, Sieglinde. Hunding ritorna a casa, riconosce l'ospite ma lo tratta appunto come un ospite (per ora). Di notte, Siegmund estrae la spada; e fugge con Sieglinde, che sarà sua sposa (sono due gemelli, ma anche questo fa parte del mito...).
Nel Walhalla, la moglie di Wotan (Fricka) viene a sapere la cosa e s'infuria: chiede la testa di Siegmund. Wotan cerca di opporsi, ma poi dà ordine alla valchiria preferita, sua figlia Brunilde, di eseguire il compito: Siegmund morrà per mano di Hunding. Tra gli altri loro compiti, infatti, le Walchirie apparivano agli eroi in punto di morte e li portavano nel Walhalla. Nella scena culmine dell'opera, la valchiria si commuoverà davanti a Siegmund e a Sieglinde, e deciderà di scendere in campo a fianco dell'eroe, contravvenendo (ma è davvero così?) all'ordine paterno. Ma Wotan interviene di persona, spezza la spada Notung e ristabilisce il suo volere. Così finisce il secondo atto; all'inizio del terzo, le valchirie si riuniscono su una montagna, ma ne manca una: è Brunilde, che infine appare con Sieglinde, e la nasconde dopo averla protetta. Wotan giunge poco dopo: è molto arrabbiato, e deve punire la figlia ribelle. Ma sa che, in fin dei conti, Brunilde ha seguito la sua vera volontà: quindi attenua la sua punizione. Con un lungo bacio sugli occhi, le toglie la divinità; quindi la pone delicatamente su una pietra, ed evoca Loge, che creerà intorno a lei una barriera di fuoco, superabile solo da un eroe - o meglio, per essere più sinceri, dall'uomo che il padre avrà scelto per lei. Anche la Walchiria è un'opera molto bella, anche dal punto di vista drammatico. In quanto alla musica, ci sono momenti di poca ispirazione ma nel complesso siamo sempre su livelli eccezionali.
Quindi Wagner inizia a scrivere la terza opera della Tetralogia, il Siegfried: ma s'interrompe subito, e per 12 anni non riprende più in mano il progetto. In questi 12 anni, però, scriverà il Tristano e i Maestri Cantori di Norimberga.
(la vignetta è di Ronald Searle, viene dal mensile "Linus", anno 1966)
(continua)

venerdì 7 dicembre 2012

Wagneriana ( III )

Mi piace Wotan quando volta le spalle al pubblico per qualche mezz'ora: sono i suoi momenti più dignitosi. (Beniamino Dal Fabbro, da "I bidelli del Walhalla", frammento n.6)
L'Anello del Nibelungo si compone di quattro parti, dette da Wagner "giornate". La prima si chiama "L'Oro del Reno", ed è, propriamente, un Prologo; e non importa se è un'opera di tre ore e passa, quindi già molto più lunga della media.
Nel Prologo, Alberico ruba l'Oro e maledice l'Amore; con l'Oro farà forgiare da suo fratello Mime, grande fabbro e orefice, l'Elmo e l'Anello. L'elmo è quello famoso, l’elmo di tante fiabe, quello che consente di prendere mille forme e di essere invisibili; e l'Anello è l'Anello del Potere, fonte di mali e di corruzione. Appena forgiato già provoca passioni e delitti; il gigante Fafner uccide il fratello Fasolt per averlo, e Wotan - cioè Odino, il Giove nordico - deve scendere molto in basso, fino alla reggia dei Nibelunghi, e rubarlo. In quest'impresa lo aiuta Loge, cioè Loki: il Mercurio del romani, che tra le tante cose è anche protettore dei ladri. Loge e Wotan non si fanno tanti problemi: a loro serve l'Anello, e lo rubano ad Alberico. Alberico non la prende bene e maledice l'anello; ma poi gli dèi entrano nella loro nuova reggia. Ma non entrano tutti, Loge decide di rimanere fuori. Non si fida, c’è qualcosa che non gli torna; e poi gli si addice stare sulla soglia, “borderline”: è per metà un dio e per metà un démone, quindi né l’una né l’altra cosa. La sua parte recitata e cantata finisce qui, nella Tetralogia: ritroveremo Loge non più come personaggio ma in quella che è forse la sua vera natura, il fuoco. Tutto questo accadrà nel finale della prossima opera della Tetralogia, “La Walkiria”; per intanto bisogna rendere conto della breve apparizione di quella che è una dei personaggi chiave di tutto l’Anello del Nibelungo: Erda, dea della Terra.
Poco prima di entrare nel Walhalla, dalla terra sorge Erda; si rivolge a Wotan e ne segue un breve discorso, rivolto a lui soltanto. La parte più importante è questa: che tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine. Dunque anche gli dèi sono destinati a scomparire, a morire? Anche questa reggia, appena costruita, è destinata a scomparire?
Erda torna subito da dove è venuta, ma la sua apparizione ha lasciato Wotan non solo molto inquieto ma anche affascinato. Wotan sa che Erda, in quanto dea della Terra, conosce il futuro; e decide di andare a interrogarla; ma, per intanto, entrerà ugualmente nella nuova dimora.
(nella fotografia, la cantante Martha Mödl nel ruolo di Brünnhilde)

giovedì 6 dicembre 2012

Wagneriana ( II )

Amo gli angoli morti dell'Anello del Nibelungo, dove i temi ristagnano, i personaggi tacciono immoti nella penombra del palcoscenico, e nemmeno Wagner sa più a che cosa appigliarsi... Wotan ci volta le spalle, il cielo si oscura, e i detriti dei temi vagano in orchestra, alla ricerca d'uno strumento qualsiasi che abbia ancora voglia di enunciarli. (Beniamino Dal Fabbro, da "I bidelli del Walhalla", frammento n.4)
L'Anello del Nibelungo inizia così: con il caos originario, o qualcosa di simile. Una melodia nasce come dal nulla, lentamente; pian piano la penombra scompare, le nebbie si dissolvono e il Reno splende nella luce piena. Nel letto del fiume c'è l'Oro, il rosso oro che è metafora e simbolo potente; a sua guardia ci sono tre ninfe, le Figlie del Reno. Lo spettacolo è quello della natura incontaminata, ma dura poco: dalle viscere della terra arriva Alberico (un Nibelungo, per l'appunto) che con un tremendo giuramento rinunzierà all'amore e ruberà l'Oro. Da questo gesto nasceranno seri problemi, o, se preferite, la Storia così come la conosciamo: una serie di problemi e tormenti che avranno termine solo alla fine delle Quattro Giornate della Tetralogia, più di sedici ore di musica e dramma al termine delle quali Brunilde, la Valchiria ribelle, renderà l'Oro al Reno, placando così la Creazione.
Esistono delle profezie dei nativi americani, citate nel film Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, secondo le quali chi preleva i beni dalla Terra provocherà grandi catastrofi. Ci siamo vicini, ed è ben strano che sia un autore come Richard Wagner a ricordarcelo.
(l'illustrazione è di Arthur Rackham, 1910 - per L'anello del Nibelungo di Richard Wagner)

mercoledì 5 dicembre 2012

Wagneriana ( I )

Atto secondo. Una formosissima Siglinda entra di corsa in palcoscenico e si dirige a precipizio su Sigmundo. Un errato calcolo di peso o di misura nella corsa, o lo scivolamento d'un tappeto di finta erba, determina la caduta d'ambedue i cantanti, che invano hanno dimenato le braccia per tenersi in equilibrio... Passano alcuni penosi minuti, mentre la musica di Wagner prosegue impassibilmente in orchestra. La prima frase di Siglinda è pronunciata mentre Sigmundo riesce, con piccoli movimenti, a farla sedere in terra, da prona ch'essa era. La faticosa operazione prosegue lentamente; prima un ginocchio, poi l'altro; una mano, l'altra mano, che fa da perno sul quale evolve la canora mole caduta... I wagneriani dei palchetti chiudono gli occhi gemendo, e invidiano i correligionari del loggione, i quali, almeno, non hanno veduto nulla. (Beniamino Dal Fabbro, da "I bidelli del Walhalla", frammento n.27)
Ci sono tanti luoghi comuni, e tanti pregiudizi, sull'opera di Richard Wagner. Tanto per cominciare: Wagner nasce nel 1813 (come Verdi) e muore nel 1883. L'omino coi baffi nasce nel 1889, sei anni dopo la morte di Richard Wagner, che quindi non ha alcuna implicazione con il nazismo. Gravi colpe hanno, invece, a questo proposito, i discendenti di Richard Wagner, figli nuore e nipoti: ma questo è un altro discorso, che ha ben poco a che fare con la musica. Tra l'altro, il nazismo fece grande uso anche della musica di Beethoven e di Bruckner, due grandi anime che erano proprio all'opposto di un'ideologia così nefasta. Wagner era un uomo dell'800, con tutti i difetti dell'epoca, come è ovvio; ma la sua opera, e la sua musica, sono un po' diverse da come siamo abituati a pensare evocando il suo nome.
Per esempio, la lista delle sue opere, e dei soggetti, tenendo presente che Wagner faceva tutto da solo, sceglieva i soggetti e si scriveva anche i versi: il Lohengrin è una rilettura del mito di Amore e Psiche; il Tannhäuser racconta la storia di Elisabetta d'Ungheria (futura santa) che redime il protagonista dal paganesimo; il Tristano è la storia di un grande amore, anche se infelice; e via dicendo.
La"Tetralogia", il famosissimo Anello del Nibelungo, ed è questa forse la sorpresa più grossa per chi non sa nulla di Wagner, è una favola ecologica con risvolti anticapitalistici; e la famosa Cavalcata delle Valchirie, che ne fa parte, non è affatto un brano trionfalistico ma lugubre e cupo. In questo senso, la usò benissimo Francis Ford Coppola - da uomo di cultura come è davvero - nella scena più famosa del suo film Apocalypse now; la usò invece malissimo Silvio Berlusconi, al suo primo anno da presidente del Milan, scegliendola per un ingresso personale e trionfale a San Siro: quell'anno il Milan andò malissimo, e forse fu il peso degli eroi morti da trascinare nel Walhalla a fare da zavorra alla squadra di calcio.
(continua)

lunedì 3 dicembre 2012

Si prega di prestare attenzione agli annunci sonori

«Si prega di prestare attenzione agli annunci sonori» è la scritta che appare su in alto, dove sto guardando per cercare di capire se il mio treno è in ritardo (lo è) e di quanto (lo saprò di preciso solo quando arriva). Prestare attenzione agli annunci sonori? Mi prendono in giro, immagino: come si fa, se sui binari sono sommerso dalla pubblicità a tutto volume?
Tolgano la pubblicità, levino di mezzo quegli orrendi megaschermi, in una stazione c’è già abbastanza confusione e sarebbe utile pensare alla sicurezza come prima cosa, invece di digitare annunci inutili o ineseguibili.
Mi sono sempre chiesto a cosa servono veramente questi megaschermi: ci sono da pochi anni, meno di dieci. Prima non c’erano, non c’erano mai stati. Me lo sono sempre chiesto, e infine forse ho trovato una risposta, nelle pagine di cronaca del quotidiano La Repubblica. La metto qui sotto, precisando che non si parla propriamente di ferrovie, e che probabilmente in questi ultimi 10-15 anni mi sono dovuto abituare a pensare male. Del resto, la cronaca giudiziaria è quella che è, da 10-15 anni in qua; e se penso male non è certo tutta colpa mia.

domenica 2 dicembre 2012

Rime ( V )

...non è vero che il nome di Margrit o di Ana sorgesse in seguito o che sia ora un modo di distinguerle nella scrittura, cose come questa si davano per decise istantaneamente nel gioco, voglio dire che in alcun modo il riflesso nel vetro del finestrino poteva chiamarsi Ana, così come non poteva neppure chiamarsi Margrit la ragazza seduta di fronte a me e che non mi guardava ed aveva lo sguardo smarrito nella noia di quell'interregno in cui tutti paiono consultare una zona che non è quella circostante, eccetto i bambini che fissano e in pieno le cose fino al giorno in cui gli viene insegnato a collocarsi anch'essi negli interstizi, a guardare senza vedere con quell'ignoranza civile di ogni vicina apparenza, di ogni possibile contatto, ognuno installato nella propria bolla d'aria, allineato fra parentesi, preoccupato della validità della minima aria libera fra ginocchi e gomiti altrui, rifugiandosi in « France Soir » o in tascabili (...)
(Julio Cortàzar, da “Manoscritto trovato in una tasca” in “Ottaedro”, ed.Einaudi 1974)

Chiudi in una stessa gabbia uccelli di specie e linguaggio diversi, e vedrai che in principio tacciono tutti allo stesso modo.
(Robert Musil, L'uomo senza qualità, pag. 164 ed.Einaudi )

sabato 1 dicembre 2012

Normalità

Esistono interpretazioni psicoanalitiche della religiosità e del misticismo come malattia; senonché morbosa è, anzitutto, nella psicoanalisi volgare, la mancanza di un'idea dell'uomo normale, l'assenza, cioè, d'un centro, e ancor più morbosa la rude teoria che vuole sano colui che non abbia atteggiamenti critici verso la società in cui si trovi a vivere.
I mistici invero descrivono appunto ciò che la psicoanalisi a suo modo indica per esclusione, elencando forme di patologica immaturità, ossia la adeguazione alla norma, all'essere che è come dovrebbe essere normativo. La confusione che fa apparire paradossale questa coincidenza nasce dall'uso di un gergo semplicista da parte della psicologia moderna (...)
(Elémire Zolla, nota introduttiva a “I mistici dell’Occidente” ed. Adelphi)

domenica 25 novembre 2012

Ippocastano


Le “castagne matte” dell’ippocastano sono diventate, da molti anni, un piccolo gioco tra me e mia madre. Aveva iniziato a raccoglierle lei, non so più quanti anni fa: tenerne qualcuna in tasca o nel cassetto, tra i fazzoletti, faceva bene contro il raffreddore; o almeno così si diceva. Non è che ci si debba credere per forza, non è detto che funzioni, ma di certo le “castagne matte” (non commestibili) sono un oggetto molto bello, grosse e lucide, rotonde, di un bel color mogano. Da bambino, andando in cerca di castagne, ero rimasto molto deluso quando mi avevano detto che no, che quelle lì non erano mica buone: ma come, così belle, così grosse... E invece no, erano “matte”: oltre alle ortiche e ai funghi velenosi (da starci bene attenti) nel bosco c’erano le castagne matte e anche le fragole matte, belle come le altre ma che bisognava lasciar lì. I nostri vecchi usavano spesso la parola “matto” anche in questo senso, nel senso di qualcosa di non buono, di falso: una moneta falsa era “matta”, esattamente come era “matta” una castagna (o una fragola) apparentemente bellissima ma che non si poteva mangiare. Oggi probabilmente questo modo di dire si è perso, o quantomeno io non l’ho mai sentito da una persona con meno di cinquant’anni.
In seguito avrei scoperto che l’ippocastano è molto usato in erboristeria, ma siccome non mi sono mai interessato di queste cose mi permetto di sorvolare. Quello che mi interessa sottolineare, e il motivo per cui ne parlo, è un altro: fino a una decina d’anni fa gli ippocastani c’erano anche qui in paese, alberi centenari che ad ogni autunno facevano cadere in gran quantità le loro castagnone giocattolo, false ma simpatiche. Poi li hanno tagliati tutti: sorte comune agli ippocastani di molti paesi e città qui vicine. Da qualche anno, le castagne matte le porto a casa io: da Milano. Può sembrare un paradosso, ma ormai ci sono più alberi a Milano che qui; e non nel senso che Milano sia diventata un bosco, ma purtroppo nel senso che qui, tra Como e Varese, se vedono un albero lo tagliano o si danno da fare per tagliarlo, e il cemento e l’asfalto regnano sovrani. Prima non succedeva, ma negli ultimi 10-15 anni è successo e su larghissima scala; dei motivi di questo avanzare dell’asfalto e del cemento si stanno occupando le procure, in Lombardia ci sono già stati molti arresti e condanne, e ci sono moltissimi indagati tra sindaci e assessori (comunali, provinciali, regionali), ma ormai il danno è stato fatto, comunque vada a finire nessuno ci renderà i prati, i boschi, le piante e i giardini che rendevano piacevole la vita qui intorno. Mi dispiace soprattutto per i bambini, che non erano costretti a stare in casa come succede oggi: io non ho figli né nipotini piccoli, non sto parlando per me.
E’ stato quindi con piacere che ho letto, su Repubblica del 16 novembre scorso, che il sindaco Pisapia sta mettendo davvero gli alberi in città, a partire dalla povera e disastrata Stazione Centrale: la piantina la riporto qui sotto, complimenti e speriamo che si continui e che serva da esempio a tutta la Lombardia. Si tratta di settemila alberi, ciliegi, aceri, querce e platani: niente ippocastani, che peccato. A Milano i vecchi ippocastani ci sono ancora, nonostante tutto hanno resistito: ci sono in Piazza Cadorna, per esempio, e anche nel Museo di Scienze Naturali. E’ in Piazza Cadorna che ho raccolto le mie castagne matte (ogni anno vanno cambiate, servono quelle nuove), con estrema cautela, guardandomi intorno e sperando che nessuno venisse a multarmi o ad arrestarmi. Soprattutto, spero di non essere finito su youtube o su qualche programma tv idiota: le videocamere sono ormai ovunque, ma proprio ovunque; anche se vi toccate il naso davanti a una vetrina vi consiglio di stare attenti, non si sa mai.
E’ interessante venire a sapere i criteri con cui vengono scelti gli alberi: le foglie non devono cadere, le radici non devono essere troppo grosse, nei parcheggi portano via spazio – insomma, sono le automobili a fare da urbanisti, le nostre città e i posti dove abitiamo sono state progettate dalle macchine e viene da dare ragione ogni giorno di più a Samuel Butler e al suo “Libro delle macchine” (la prima volta che l’ho letto, tanti anni fa, mi sembrava un paradosso divertente; oggi più mi guardo intorno e più penso che sia tutto vero). Queste operazioni le chiamano infatti “arredo urbano”, mica devono essere alberi alberi, si mettono ma senza convinzione, se si potesse metterli finti (come i lampioni finto gas)...
Spero proprio che la giunta Pisapia, a Milano, indichi un cambio di direzione; nel frattempo spezzo una lancia a favore degli ippocastani: a me piacevano molto quegli alberi così grandi, le castagne matte erano simpatiche, oggi le si considera solo come spazzatura che ha un costo, la macchina per pulire le strade lavora male accanto agli alberi centenari queste cose deve per forza farle un essere umano e si sa che il lavoro è un costo. Il lavoro è un costo, gli alberi sono un costo, anche gli esseri umani sono un costo – è questo che penso mettendo in tasca le mie annuali castagne matte, dopo averle ripulite dalla terra. A proposito, una volta c’erano in giro le fontanelle per lavarsi le mani: dove sono finite? Disturbavano anche quelle, oppure bisogna proprio pagare per ogni piccola cosa?

(le immagini dell’ippocastano vengono da wikipedia e da un vecchio libro scolastico)

martedì 20 novembre 2012

Nicchiaflop

“Di nicchia” e “Flop” sono due espressioni dei pubblicitari: al di fuori del linguaggio della pubblicità e del marketing, non hanno molto senso. Di sicuro, non servono per dare un giudizio di valore.
“Nicchia” e “Flop” sono due parole ormai di uso comune, le usiamo con una naturalezza che fa supporre che siano sempre esistite. Lo stesso discorso si può fare con “Target”, o con “Top Ten”; ma io sono una persona semplice, l’inglese lo conosco poco, ho il diploma di perito chimico e una formazione da analista (analista chimico, non analista finanziario: non esiste solo la finanza, la finanza è molto importante ma questo mondo è molto più vasto della Facoltà di Economia e Commercio). In laboratorio, da chimico, mi hanno insegnato che nelle cose bisogna guardarci dentro, titolare con la massima precisione possibile, mettere tutti gli elementi a disposizione su un tavolo, cercarne di nuovi, spaccare il capello in quattro se è possibile. E infine non dare nulla per scontato, chiedersi anche perché le mele che cadono dall’albero finiscono per terra e non rimangono sospese a mezz’aria. Lo so, per il “sentire comune” si rischia di passare per idioti e oltretutto è noioso: di una noia così noiosa che non finisce più – ma io sono fatto così e ormai è tardi per cambiare.
Vediamo un po’. “Flop” è facile, una di quelle belle parole inglesi come quelle dei fumetti, bang slurp smack, che si capisce subito cosa significano. “Flop” lo fa il sufflé quando non viene bene: dovrebbe gonfiarsi in forno e rimanere di un bell’aspetto gonfio, invece lo tiri fuori e si affloscia, miserando spettacolo. Non resta che mangiarselo da soli, il soufflé che ha fatto flop. Un flop è qualcosa che al botteghino non ha reso, per esempio un film che è costato molto e che aveva grandi ambizioni ma che ha reso meno di quanto è costato, e che pochi sono andati a vedere pagando il biglietto. “Di nicchia” è qualcosa che è magari bello ma che non fa soldi. La nicchia è lì, in un angolino; magari c’è dentro una Madonna o un altare, ma chi se ne frega. Mica ci si fanno soldi, con le Madonne dentro una nicchia: le Madonne, d’ora in poi, dovranno apparire solo nelle cattedrali (che sono lì apposta) o magari nelle piazze, che c’è tanto di quello spazio e le riprese tv vengono meglio.
“Top ten” sono le prime dieci: le dieci canzoni più vendute, i dieci film che hanno incassato di più. Beh, è un dato importante se sei un produttore; molto meno se sei uno spettatore. Un film lo possono aver visto due miliardi di persone in una settimana, ma se è una ciofeca resta una ciofeca; e un capolavoro possiamo averlo visto in dieci persone, ma se è un capolavoro per davvero, cosa cambia? La finale della Champions League è stata una pena, eppure l’hanno vista in tutto il mondo; la partita della mia squadra al torneo dei bar è stata favolosa, ci siamo divertiti un sacco ma non è venuto nessuno a vederci: e dunque? Il primo bacio con la donna che amavo lo abbiamo visto addirittura soltanto in due, io e lei: ma vi posso assicurare che è stato meraviglioso.
“Target” significa bersaglio. Il bersaglio delle freccette, per intenderci: il pubblicitario, o l’esperto di marketing, fissa il suo target e in quella direzione dirige i suoi sforzi. Una cosa più che giusta, ma che target poteva avere uno come Tarkovskij?
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
( Andrej Tarkovskij, intervista con Irena Brezhnà, 1982)
Il grande regista russo poteva permettersi questo atteggiamento, negli anni ’70 e ’80 era ancora possibile: lavoravano tutti, grandi e piccoli, alti e bassi, ognuno con il proprio stile. I produttori famosi badavano al sodo e facevano film commerciali, ma li affidavano a grandi artisti e solidi professionisti (Vittorio De Sica, Comencini, Risi, Monicelli, Mastrocinque, Mattoli...) e lasciavano sempre spazio ai grandi matti, a quelli “strani”: Fellini, Antonioni, Petri, Rosi, Rossellini; ed erano ripagati anche in termini di cassetta, perché per i film di quei “matti” c’era sempre molta attesa. In tv e sui giornali c’era altra gente che spiegava, che aiutava a capire, che segnalava film e romanzi difficili ma meritevoli di attenzione.
Il critico cinematografico è una figura estinta, scomparso, come quello di teatro: reso inutile dalla cultura dello spot. Stanno facendo la stessa fine anche i critici letterari: in un mondo di flop, di topten, di nicchie e di target, una persona che ti racconta un film e prova a spiegarti i punti che non hai capito diventa del tutto inutile. Facile immaginarselo: magro, calvo, brutto, storto, non fa sesso da trent’anni, sempre chiuso fra cinema e biblioteca, una piaga mortale. Così viene dipinto chi perde il suo tempo dietro a libroni e filmacci noiosi: alle volte capita, ma non è detto. Come se fossero poi tanto più belli, a proposito, i magnati della finanza e della politica: li avete mai guardati bene, i Ricucci, le Marcegaglia, i Briatore, i Moratti, i Berlusconi?
Tutto questo, ovviamente ha avuto un inizio, e io so anche chi è stato a cominciare, dando il via libera. Lo spiegava molto bene Giovanni Raboni:
Ho chiesto all'amico e collega Gastone Geron di poter pubblicare una lettera che mi ha appena inviato. Eccola: « Caro Giovanni, nei giorni scorsi mi è pervenuta la disdetta del contratto di collaborazione come critico teatrale del "Giornale", della cui iniziale società di redattori sono stato uno dei soci fondatori. Accenno appena ai cinquant'anni di militanza critica, iniziata nella mia Venezia, e ai ventidue anni di critico drammatico del "Giorno", per richiamare la tua attenzione sui motivi che hanno determinato il provvedimento "punitivo". Nel corso di un colloquio da me sollecitato, il direttore Vittorio Feltri mi ha spiegato di essere giunto a tale decisione ritenendo che i lettori non siano più interessati alle recensioni di teatro, cinema, musica classica, danza. E' per questo che ti segnalo non tanto un caso personale quanto un esempio inquietante del sempre minor spazio - o addirittura del silenzio - imposto alla cosiddetta critica militante su tanta "carta stampata" ormai allineatasi sui criteri puramente d'immagine del mezzo televisivo Il mio caso diventa addirittura emblematico ove si consideri che il "Giornale" appartiene al fratello del proprietario delle tre maggiori reti televisive private. La vicenda può suggerirti qualche riflessione?».
Mi sembra che ci sia ben poco da aggiungere a ciò che Geron racconta e ai collegamenti che stabilisce. Forse soltanto questo: che la tendenza a ghettizzare e, in fase di soluzione finale, cancellare tutto quanto non sia etichettabile a priori come "di massa" pone, a ben guardare, un autentico problema politico. Non c'è futuro vivibile in una società dove si disprezzano le minoranze: nella fattispecie, non una minoranza etnica o religiosa, ma quella costituita dalle molte centinaia di migliaia di persone che a dispetto degli ordini superiori si ostinano ad amare il teatro più dei telequiz e la musica da camera più della musica rock o leggera.
(da un articolo di Giovanni Raboni - Corriere della Sera - domenica 29 dicembre 1996)
Una volta, aspettando che cuocesse il risotto (si sa che è un’arte che richiede tempo e attenzione) ho ascoltato un dialogo da una sitcom tv. La ragazza che un tizio voleva rimorchiare portandola al cinema rispondeva allegramente così (non era una scusa, il suo personaggio lo prevede):  «Oh, sì, bene, però devono essere film iraniani o coreani, in lingua originale con i sottotitoli. Io vado a vedere solo i film iraniani e coreani in lingua originale e con i sottotitoli. Se non sono i film iraniani o coreani in lingua originale e con i sottotitoli non mi interessa.» Errore, caro sceneggiatore da spot: lo ammetto, io sono davvero piccolo, brutto, storto, magro, mingherlino, ho la pelle verdastra-grigiognola e non faccio sesso da trent’anni: però non vado mai a vedere "i film iraniani e coreani". Adesso ti spiego, prendi nota e prova a capire: io vado a vedere i film di Kim Ki-duk, di Abbas Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf, di Samira Makhmalbaf, di Amir Naderi. Sembra la stessa cosa, ma è diverso.
(10 luglio 2008)
(nelle immagini, fotogrammi da tre film di Andrej Tarkovskij: Stalker, Solaris, Lo specchio)