lunedì 31 gennaio 2011

Don Giussani? ma per piacere...

E così, dopo 15 anni ininterrotti di governo ciellino-leghista-missinberlusconiano, 15 anni che sono ormai quasi sedici, siamo ancora al blocco del traffico come misura antismog. In settimana, se non piove o se non nevica, suppongo che salteranno fuori le targhe alterne...
Vediamo un po’ cosa si poteva fare, in questi 15 anni, e che non è stato fatto: incrementare il trasporto pubblico, per esempio. Partendo da quel 1995, primo anno del governo Formigoni in Lombardia, e arrivando fino ad oggi, sarebbe stato possibile togliere dalle strade tutti gli studenti e tutti quelli che fanno orario d’ufficio; se fosse stata attuata una delle proposte che circolavano negli anni ’70 e ’80 (per esempio studiare un sistema di trasporto pubblico sul tipo dei linfonodi del corpo umano, in tutta la Lombardia), solo un pazzo oggi andrebbe da Lecco a Milano negli orari di punta con la propria auto; e invece no, si va nella direzione opposta: tagli delle corse, chiusura delle stazioni e delle biglietterie, aumento del prezzo dei biglietti e degli abbonamenti (fino al 20%).
Si dirà: sono misure impopolari, ai lombardi i mezzi pubblici non piacciono. E’ vero, ma per questo ci sono le campagne stampa, per questo bisognava fare investimenti in modo tale da rendere le corse di bus e treni più frequenti e più confortevoli, invece no: i soldi che si sono trovati sono finiti tutti nei tornelli, nei maxischermi pubblicitari, nell’alta velocità.
Mi ricordo ancora, nel 2002 o nel 2003, il governatore Formigoni farsi bello davanti al tg: «I mezzi pubblici ci sono, e funzionano!», diceva, da perfetto testimonial pubblicitario, ripreso nell’atto di scendere da una carrozza della metropolitana. Subito ci fu chi gli fece notare che, se davvero tutti i pendolari avessero preso il giorno dopo la metropolitana, non ci sarebbero stati mezzi sufficienti; e che, soprattutto, la metropolitana c’è solo a Milano. Che farà un lombardo di Castellucchio, di Oltrona san Mamete, di Chiuro, di Anzano del Parco, di Bagolino, di Vidigulfo, se gli togliete l’automobile privata? (Notate bene: non sono paesini sperduti nelle pampas del Serruchòn...).
Ho incontrato spesso miei coetanei di CL (Comunione e Liberazione) fin dai tempi in cui andavo ancora a scuola, negli anni ’70, quando il movimento era ancora molto giovane. Non sembravano cattolici. Erano diversissimi dai ragazzi che si vedevano in parrocchia, dagli scout dell’Agesci, erano proprio un’altra cosa. Non ho mai approfondito più di quel tanto la figura di don Giussani, fondatore di CL: mi dicono che fosse un’ottima persona, e voglio crederci – anche per il rispetto che si deve a un prete. Però ho visto come è cambiata la mia Lombardia in questi 15 anni di governo ciellino (ciellino, leghista, missino, berlusconiano), e non posso far finta di niente. Se è vero che un albero lo si riconosce dai frutti che dà, 15 anni di governo a marca Comunione e Liberazione hanno il colore e il sapore del cemento, dell’asfalto, dello smog.
Comprerò dunque un’automobile che funziona a fiato, o ad aria compressa: se non c’è me ne fabbrico una, sperando che basti per risolvere il problema dell’inquinamento in Lombardia. Nell’attesa che venga pronto il prototipo, un saluto affettuoso al maestro Claudio Abbado: caro maestro, lo sapevano tutti che in questa Milano, in questa Lombardia, se trovano un albero lo sradicano subito, perché dà fastidio e sporca. Lei ci ha provato, a ricordare che cos’è la civiltà: centomila alberi da piantare a terra, a Milano, subito. Non si farà mai, lo sapevamo, ma è stato molto bello ascoltare la sua proposta.

sabato 29 gennaio 2011

O Cuneo, o Sondrio

«Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Sondrio!» dice Totò in “Sette anni di guai”, anno 1951: resta adesso da vedere (è una questione filologica importantissima) se Sondrio viene prima della più famosa Cuneo; e chissà dove ha fatto veramente il militare, il nostro eroe.
Io propendo per Sondrio, e suppongo che si sia poi virati su Cuneo per questioni fonetiche: forse non tutti lo sanno, ma i librettisti d’opera evitavano di mettere acuti in parole con la o; e Sondrio di o ne ha tante. Provateci voi, a fare un acuto sulla o.
Gli acuti andavano sempre sulla i, come in “All’armi!”, e la u – come quella di Cuneo – era invece ottima per virtuosismi “Abbonda di virtù chi è senza pena...”. In ogni caso, la u è molto più sonora della o: che si presta invece benissimo alle note gravi dei bassi (Donizetti, La Favorita: “ma l’ultim’ora per lei suonò”). L’acuto più famoso nella storia dell’opera è però sulla e: “O teco almeno...” dal Trovatore (nel manoscritto di Verdi questo acuto non c’è, ma “O teco” si presta benissimo, e i tenori ci tengono). La lettera a è invece abbastanza neutra, si può usare oppure no, dipende dalla frase e dal contesto.
Non mi ricordo più quale è il film dove Totò dice “sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo”; però posso dire che in “Sette anni di guai” ci sono anche Carlo Campanini e Renato Castellani, che la regia è di Metz e Marchesi, e che l’azione si svolge in un manicomio, una “casa di matti” che permette molte battute degne di Lewis Carroll, ma in italiano e con ottimi attori (tutti quanti, non solo i tre che ho nominato).
Non è un gran film, ma è piacevole (a Totò si chiede un umorismo alla Buster Keaton, e non è il suo terreno migliore), e ci sono molte belle vedute di Roma e di Marino, le vecchie corti e gli abiti tradizionali delle donne del Lazio, che nel 1951 si usavano ancora.
Una cosa mi stupisce: che ci siano in giro dei film di Totò che non ho ancora visto. Incredibile, ma vero...

(il disegno di Andrea Pazienza viene dal mensile Linus, maggio 1982)

venerdì 28 gennaio 2011

Fare come nel '68

Nel ’68 avevo dieci anni (li compio a settembre, quindi in realtà erano nove e qualcosa) e mia mamma, sentendomi respirare a fatica, mi portava dall’otorinolaringoiatra. Un paio di visite (dolorose, e non è che il gelato alla fine aiutasse molto), e la diagnosi fu: adenoidi, operare. Non è che io avessi dei gran problemi, ma allora si operava, sempre e comunque. Tanto, a cosa servono le adenoidi?
Ieri mattina, gennaio 2011, sono tornato alla mutua (pardon, ASL) e ho trovato una coda enorme: alle dieci il contatore segnava più di seicento persone. Il motivo era questo: il rinnovo della tesserina sanitaria, che qui in Lombardia si chiama CRS, con acclusi il PIN e il PUK, sia per me che per mia mamma. (non sapete cos’è il PIN e il PUK, e la sigla CRS vi suona ostica? non preoccupatevi, è così per tutti meno che per i funzionari della Regione). Ok, c’era da aspettare: ma avevo tempo, e ho aspettato.
Memore del tempo glorioso del ’68, mi ero comunque portato dietro un libro: poco più in là, in un altro ambulatorio, c’erano dei posti liberi, mi sono seduto e mi sono letto il mio libro, così come facevo quand’ero bambino e andavo a fare le visite per le adenoidi. Dopo tre quarti d’ora, per fortuna con impiegati efficienti e cortesi e tra gente educata e abituata a questo e ad altro, è arrivato il mio turno, ho preso il PIN, il PUK, la CRS, mi hanno fatto le fotocopie della mia CI e di quella di mia mamma (non sia mai che ci rubino il PIN e il PUK!) e sono tornato a casa da bravo bambino, proprio come nel ’68. Basta attrezzarsi, insomma; e avere tanto ma tanto tempo libero. Magari si incontra anche qualche persona simpatica che non si vede da tempo, e si fa una bella chiacchierata, proprio come nel ’68.

PS: La Regione Lombardia spiega: per evitare le code, basta procurarsi il lettore di smart card e avere una connessione a internet. Traduco: bisogna comperarsi un apparecchietto apposito (pagandolo) e insegnare agli ottantenni e ai malati ad usare Google, Outlook, Facebook e Twitter – magari si divertono anche, chissà. (Come avrei fatto io? io avrei messo a disposizione di tutti delle apposite postazioni in mutua, o magari avrei delegato il compito ai medici di famiglia, così lavorano un po’ anche loro).
PPS: Il libro l’ho finito, era questo:

mercoledì 26 gennaio 2011

L'istruttoria

Un fatto successo di recente a Como: un uomo uccide un suo conoscente, lo decapita, cerca di bruciarlo in un forno. I carabinieri lo scoprono quasi subito, il processo è in corso in questi giorni. Il fatto suscita orrore, anche perché l’uomo è una persona ben conosciuta, è un comasco doc, ha un bel negozio di armi e articoli sportivi vicinissimo al Duomo, grandi vetrine, insomma l’orrore si mescola alla sorpresa: come è possibile che sia successo?
Lo stesso orrore, a Como e a Milano e a Varese, e non solo a Como, a Milano, a Varese, non suscitano le testimonianze che arrivano da Auschwitz, da Mauthausen, da Treblinka. Quando se ne parla, c’è sempre qualcuno che sbuffa, qualcuno che nega che sia mai successo, e (peggiori di tutti) quelli ci raccontano sopra le barzellette e quelli che si mettono a discutere sul numero dei morti e dei deportati: no, macché sei milioni, erano un milione soltanto – come se un milione di morti fosse una bazzecola, come se non ne bastasse anche uno, uno solo, ucciso e bruciato in un forno, per generare orrore. Figuriamoci se poi si tratta non di una persona sola, ma di dieci, cento, mille, un milione...

Di prove ne esistono, e tante. Di testimonianze ne esistono, e tante. Basta aver voglia di ascoltare, di leggere, di informarsi: a me, da bambino, era bastata la visione di una sola foto sui giornali. Avevo chiesto: mamma, cos’è questo? Ed erano foto di cadaveri, poveri corpi ridotti a pelle e ossa: decine, centinaia di morti, ritrovati dai russi e dagli americani al loro arrivo ad Auschwitz.
Molte di queste testimonianze furono raccolte da Peter Weiss nel dramma “L’istruttoria”:
« Dal 20 dicembre 1963 al 20 agosto 1965 si svolse a Francoforte sul Meno un processo contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz. In seguito al movimento di opinione pubblica provocato nel mondo dal processo ad Adolf Eichmann tenuto a Gerusalemme nel 1961, per la prima volta la Repubblica federale tedesca affrontava in maniera impegnativa la questione delle responsabilità individuali, dirette, imputabili a esecutori di ogni grado, attivi nei recinti di Auschwitz. Il processo ebbe dimensioni proporzionate alla sua importanza; nel corso di 183 giornate vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali scelti tra i 1506 sopravvissuti del Lager. La storia del campo o meglio dei campi di Auschwitz, dalla loro apertura, nel giugno del '40, all'evacuazione per l'avvicinarsi delle truppe russe (gennaio 1945) fu rievocata, a un quarto di secolo di distanza da chi vi aveva partecipato come vittima, aguzzino o complice, rimasto a piede libero, degli aguzzini stessi. I volti, gli atteggiamenti; certe battute degli imputati più conosciuti: il vicecomandante Robert Mulka, il Rapportführer: Oswald Kaduk, i funzionari della Sezione politica Wilhelm Boger e Hans Stark, divennero noti in tutto il mondo attraverso servizi giornalistici; una sinistra celebrità acquistarono personaggi che, per singolari dispositivi della macchina della legge, figuravano non tra gli imputati ma tra i testimoni, a fianco delle loro vittime.
Tale categoria era rappresentata soprattutto da medici, dal personale impiegato in Auschwitz per la "selezione", per la scelta, cioè, del materiale umano da eliminare immediatamente o da consegnare all'industria (durata media della vita di un detenuto-operaio: nove mesi). L'operazione di cernita, che comportava l'invio diretto, nelle camere a gas, dei bimbi, dei vecchi, dei deboli, dei malati, apparve forse per la prima volta in maniera così evidente, legata all'accordo tra alcune industrie tedesche e il governo. I grandi industriali del Reich non potevano ignorare il prezzo 'reale' d'una mano d'opera offerta a condizioni estremamente vantaggiose.
Peter Weiss assistette a molte sedute del processo di Francoforte. Vide le figure degli imputati e dei testimoni, assistette al tentativo di fare rientrare negli schemi della giustizia umana crimini non solo senza precedenti, ma inconcepibili. Da note prese durante le sedute, soprattutto dai resoconti redatti da Bernd Naumann per la "Frankfurter Allgemeine Zeitung", lo scrittore ricavò materiali per 'Die Ermittlung, L'Istruttoria" (il titolo italiano rende solo in parte il senso di quello tedesco, il suo aspetto tecnico-giuridico, escludendo il significato di accertamento dei fatti, di verifica, pure essenziale). Il giudice, il difensore, il procuratore, diciotto accusati e nove testimoni anonimi, ognuno dei quali impersona più di un testimone reale, sono i personaggi di questo "oratorio in undici canti"; nel quale non è passata una parola che non sia stata pronunciata nell'aula del tribunale. (...)
(Giorgio Zampa, introduzione a “L’istruttoria” di Peter Weiss)

“L’Istruttoria” l’ho visto in teatro nel febbraio 1994, a Milano, per la regia di Gigi Dall’Aglio: una messa in scena perfetta, di quelle che non si dimenticano. Mi ero segnato queste righe: “Uno spettacolo rigoroso, di grande attualità, con una regia molto bella e un’interpretazione toccante. L’unica cosa che non va, è che nel pubblico c’erano solo persone che non avevano bisogno di ripassare la storia, né di convincersi che il nazismo è stato un orrore e può ripetersi: insomma, mancavano i naziskin, gli ultrà da stadio, quelli che votano a destra, quelli che vogliono eliminare la festività del 25 aprile...”
Un commento del 1994 che potrei riscrivere oggi tale e quale: mi è rimasto in mente, quel pomeriggio passato ad assistere al dramma di Weiss. Perché loro, gli interessati, quelli che avrebbero bisogno di informarsi, stanno molto alla larga dalla verità e se ne costruiscono una su misura per loro. Se incontrano qualcuno che gli mostra i fatti così come sono successi, cambiano strada: so bene che nessuno di Forza Nuova, nessun leghista alla Borghezio, nessun ultrà da stadio (eccetera) si è mai veramente interessato per essere veramente informato sui fatti. Quando si va sull'argomento, recitano puntigliosi quelle quattro parole che si ripetono sempre quando sono tra di loro, e basta: nessuna voglia di confrontarsi, di informarsi, di ascoltare. Nel caso gli venisse voglia di informarsi, basterebbe un’immagine sola, una testimonianza sola, - come accadde a me da bambino - per uscire immediatamente da quei movimenti e da quei partiti, e per starne da quel momento in poi il più lontano possibile.

martedì 25 gennaio 2011

Ewan Mac Coll

Una voce forte, potente, indimenticabile; una voce antica, arcaica, che sembra arrivare da tempi lontani e che invece ci parla direttamente, perché – nel caso non ve ne foste ancora accorti - è dei nostri giorni che ci sta parlando. E’ la voce di Ewan Mac Coll, autore di canzoni magnifiche, bardo antico e voce potente di denuncia politica.

BALLAD OF ACCOUNTING
(Ewan MacColl)
In the morning we built the city;
in the afternoon walked through its streets;
evening saw us leaving.
We wandered through our days
as if they would never end
All of us imagined
we had endless time to spend
We hardly saw the crossroads
and small attention gave
To landmarks on the journey
from the cradle to the grave,
cradle to the grave, cradle to the grave ...
Did you learn to dream in the morning?
Abandon dreams in the afternoon?
Wait without hope in the evening?
Did you stand there in the traces
and let 'em feed you lies?
Did you trail along behind them
wearing blinkers on your eyes?
Did you kiss the foot that kicked you,
did you thank them for their scorn?
Did you ask for their forgiveness
for the act of being born,
act of being born, act of being born?
Did you alter the face of the city?
Make any change in the world you found?
Or did you observe all the warnings?
Did you read the trespass notices,
did you keep off the grass?
Did you shuffle up the pavements
just to let your betters pass?
Did you learn to keep your mouth shut,
were you seen but never heard?
Did you learn to be obedient
and jump to at a word,
jump to at a word, jump to at a word?
Did you demand any answers?
The who and the what and the reason why?
Did you ever question the setup?
Did you stand aside and let 'em choose
while you took second best?
Did you let 'em skim the cream off
and give to you the rest?
Did you settle for the shoddy
and did you think it right
To let 'em rob you right and left
and never make a fight,
never make a fight, never make a fight?
What did you learn in the morning?
How much did you know in the afternoon?
Were you content in the evening?
Did they teach you how to question
when you were at the school?
Did the factory help you,
were you the maker or the tool?
Did the place where you were living
enrich your life and then
Did you reach some understanding
of all your fellow men,
all your fellow men, all your fellow men?
recorded by Ewan MacColl on "Black And White" (1972)
(Nel mattino costruimmo la città, nel pomeriggio camminavamo nelle sue strade, la sera ci vide andar via; vagammo attraverso i nostri giorni come se non dovessero finire mai, noi tutti immaginavamo che il nostro tempo non avesse mai fine. A malapena facevamo caso agli incroci delle strade, facevamo poca attenzione alle pietre miliari che segnavano il nostro cammino dalla culla fino alla tomba, dalla culla fino alla tomba... Hai imparato a sognare nel mattino? Hai abbandonato quei sogni nel pomeriggio? Hai aspettato senza speranza, nella sera?Sei mai rimasto fermo sulle tracce dei carri, a farti nutrire dalle loro bugie?Hai mai seguito quelle tracce, con i paraocchi come i cavalli? Hai mai baciato il piede che ti ha appena dato un calcio, li hai mai ringraziati per il loro disprezzo? Gli hai mai chiesto perdono per il fatto di essere nato, per il semplice fatto di essere nato?....)

Qualche notizia da wikipedia (l’edizione in inglese, in italiano c’è poco o niente): Ewan Mac Coll nasce nel 1915 nel Lancashire, da genitori scozzesi: il suo nome vero è James Henry Miller, Ewan Mac Coll è uno pseudonimo. Suo padre era un fabbro, e dovette abbandonare la Scozia perché non trovava lavoro essendo di idee socialiste.
Mac Coll è un autodidatta, studia da solo alla biblioteca di Manchester dopo aver abbandonato gli studi, mentre svolge lavori saltuari: è il periodo della Grande Depressione (gli anni ’30, quelli che in USA furono descritti da Steinbeck in “Furore”) e trovare un lavoro è molto difficile. Per avere qualche soldo, Mac Coll comincia a esibirsi come musicista di strada. Comincia anche a fare spettacoli, e si iscrive al Partito Comunista. Viene presto schedato dai servizi segreti britannici, e le sue canzoni – ormai famose, come “Manchester rambler” - verranno vietate dalla BBC.
Si sposa con Joan Littlewood, e insieme collaborano in teatro e nella musica; è un periodo di grandi difficoltà e pericoli, anche a causa della guerra. E’ in questo periodo che James H. Miller cambia il suo nome d’arte in Ewan Mac Coll: che è più dichiaratamente scozzese, e che è più facile da memorizzare rispetto a Miller, che è un cognome molto diffuso che si può facilmente confondere con gli altri Miller nel campo dello spettacolo.
Mac Coll viene fortemente influenzato dalle ricerche di Alan Lomax, il musicologo e antropologo americano che è all’origine della riscoperta del folk e delle tradizioni locali (i due Lomax, padre e figlio, furono molto attivi in tutto il mondo e anche in Italia, collaborando con Diego Carpitella ed Ernesto de Martino, e influenzando molto Roberto Leydi).
Nel 1956 inizia la relazione di Mac Coll con Peggy Seeger, che è molto più giovane di lui. Mac Coll era reduce da due matrimoni (la seconda moglie, Jean Newlove, gli ha dato due figli), e la nuova relazione suscita un certo scandalo, ma si tratta di un amore vero che durerà molti anni. Peggy Seeger va in tournée negli Usa, ma Mac Coll non può seguirla perché, in quanto membro del Partito Comunista, gli viene negato il visto d’ingresso negli Usa: questa circostanza è all’origine della canzone “The first time ever I saw your face” che vinse un Grammy Award negli anni ’70, nell’interpretazione di Roberta Flack. “Dirty old town” è stata incisa da molti gruppi e cantanti famosi, i Dubliners, Rod Stewart, the Pogues; molte altre sue canzoni e ballate sono state riprese da Planxty, The Dubliners, Dick Gaughan, The Clancy Brothers, Elvis Presley, Weddings Parties Anything, Johnny Cash; ed è strano, a pensarci oggi, che i Rolling Stones non abbiano mai messo Ewan Mac Coll nel loro repertorio (troppo politicizzato per i ricchissimi Stones?). Mac Coll fu attore alla radio dal 1933 in avanti; negli anni ’60 scrisse molte canzoni per i movimenti di protesta e fu tra i protagonisti del folk revival inglese e americano. Muore nel 1989.
Il copyright sulle musiche e sui testi di Ewan Mac Coll è stato messo solo dopo la sua morte, nel 1992, dalla sua vedova Peggy Seeger.

DIRTY OLD TOWN
(Ewan Mac Coll)
I found my love 'neath the gasworks croft falls
Dreamed a dream by the old canal
Kissed my girl by the factory wall
Dirty old town, dirty old town
Clouds are drifting across the moon
Cats are prowling on their beat
Springs a girl in the streets at night
Dirty old town, dirty old town
Heard a siren from the dock
Saw a train set the night on fire
Smelled the spring on the smoky wind
Dirty old town, dirty old town
I'm going to take a good sharp ax
Shining steel tempered in the fire
We'll chop you down like an old dead tree
Dirty old town, dirty old town...
(ho trovato il mio amore tra le “gasworks croft falls”, ho sognato un sogno giù al vecchio canale, ho baciato la mia ragazza al muro della fabbrica, vecchia sporca città, vecchia sporca città...Le nuvole vanno alla deriva attraverso la luna, i gatti vanno a caccia nella loro ronda, salta fuori una ragazza nelle strade di notte, vecchia sporca città, vecchia sporca città...Ho ascoltato una sirena dal porto, ho visto un treno infiammare la notte, ho sentito l’odore della primavera nel vento pieno di fumo, vecchia sporca città, vecchia sporca città...Vecchia sporca città, vado a prendere un’ascia affilata, acciaio splendente temprato nel fuoco, ti faremo a pezzi come un vecchio albero morto, vecchia sporca città, vecchia sporca città...)

(le traduzioni sono mie, un po' improvvisate - chiedo scusa per le imprecisioni ma è difficile trovare materiale su Ewan Mac Coll) (nella foto qui sotto, Ewan Mac Coll è con Peggy Seeger)
(testi e fotografie da http://www.peggyseeger.com/ )


lunedì 24 gennaio 2011

Ingratissimo Amor,

Ingratissimo Amor, perché sì raro
corrispondenti fai nostri desiri?
Onde, perfido, avvien che t'è sì caro
il discorde voler ch'in dui cor miri?
Ir non mi lasci al facil guado e chiaro
e nel più cieco e maggior fondo tiri:
da chi disìa il mio amor tu mi richiami,
e chi m'ha in odio vuoi ch'adori et ami.
( Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto 1°)

Se mi dimanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch'egli è il re di Circassia,
quel d'amor travagliato Sacripante;
( Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto 1°, stanza 45)

Non son, non son io quel che paio in viso:
quel ch'era Orlando è morto, ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l'ha ucciso:
sì, mancando di fè, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
che in quest'inferno tormentandosi erra,
acciò con l'ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza.
(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto 23°)

Con le sue arti magiche, Armida affascina Rinaldo: quando l’incantesimo finisce, Rinaldo scoprirà che la donna che aveva così tanto amato non era bella come aveva creduto. Come è potuto succedere? Facile pensare: per forza, è una maga, le illusioni sono il suo mestiere.
E invece è una cosa molto più normale, qualcosa che capita tutti i giorni e che sta di certo capitando anche in questo momento: quando finisce un amore, si cominciano a vedere i difetti della persona che ci sta accanto. Non è che la cellulite o la calvizie, per esempio, nascano da un giorno con l’altro: c’è tutto il tempo per vederle fin dall’inizio, ma quando si è innamorati non ci si fa caso. E’ dopo, quando si rompe l’incantesimo, che si notano i difetti: anche quelli che non ci sono... (esiste una versione al femminile del mito di Armida e di Rinaldo? Nella vita sì, in letteratura, sul momento, non mi viene in mente niente).
Un altro esempio:
Il paladino Orlando, così come ce lo presentano, non è solo un grande guerriero: è anche una persona saggia e competente, e tutti si rivolgono a lui anche solo per un consiglio. Ma il prode paladino, che ne ha viste di tutti i colori, va fuori di matto per una ragazzina che gli preferisce un ragazzo qualsiasi. Non un prode cavaliere pari a lui, ma un ragazzo come ce ne sono tanti. Angelica ha beffato tutti, ma non l’ha fatto apposta: a lei piaceva quel ragazzo lì, e gli si è concessa - ecco tutto. E così che capiterà anche a noi, e mica una volta sola.
Per sistemare le cose, il paladino Astolfo dovrà volare sulla Luna a cavallo dell’Ippogrifo, e recuperare il senno d’Orlando: Astolfo sull’Ippogrifo è l’immagine che preferisco, ma a questo punto mi sono balzate davanti talmente tante immagini e suggestioni che preferisco fermarmi, anche un po’ spaventato (ma confesso che l’Ippogrifo l’ho conosciuto di persona, è venuto davvero a trovarmi, una decina d’anni fa – a dire il vero ne sento la mancanza, spero sempre che torni a fare una chiacchierata).
La vita riserva molte sorprese: per esempio, che quello che vi capita in amore e nelle relazioni affettive è già stato descritto in passato con la massima precisione, e mica una volta sola.
Si potrebbe partire dalla mitologia più antica, o da Eschilo e Euripide, o dalla Bibbia: ma non ho competenze così vaste, e dunque mi fermo all’Ariosto. Anzi no, vado avanti ancora per qualche riga:
«La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessissimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale.»
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, Firenze 4 dicembre 1832)

(l'illustrazione è di Gustave Doré) (per chi ancora non lo sapesse, "ire" è "andare": "non mi lasci andare là dove è facile attraversare il fiume...)

domenica 23 gennaio 2011

Fotocopia

- Non parlare male degli uomini, io debbo difenderli...
- Perché schiaffeggiano i loro amici?
- Non sanno fare di meglio!
- Istruiamoli! Vuoi? Insieme con me!
- Non si lasciano istruire!... Oh, se il nostro lamento potesse raggiungere gli dèi del cielo...
- Raggiungerà il Trono!... Sai cosa vedo in questo specchio?... Il mondo per dritto!... Sì, perché in sé è a rovescio!
- Come fu rovesciato?
- Quando ne fecero la copia...
- Ecco, l'hai detto! La copia... Ho sempre dubitato che fosse una copia sbagliata... E via via che ricordavo i modelli, diventavo scontento di tutto... Gli uomini chiamarono questo insoddisfazione, il vetro del diavolo nell'occhio, e altro ancora...

(August Strindberg, Il sogno)
(dialogo tra l’avvocato e la figlia di Indra, pag.43 edizione Adelphi Piccola Biblioteca)

giovedì 20 gennaio 2011

La musica classica, cioè Haydn

Si sa come vanno le cose: basta che si intravveda un violino o un pianoforte, ed è subito “musica classica”; ma le cose non stanno così, col violino e col pianoforte si può suonare di tutto, e se una musica è stata composta dieci minuti fa di certo non è un classico. Senza voler complicare troppo le cose, e senza ricorrere alla definizione precisa di “classico” (per questo, esistono ottimi libri e bravi insegnanti: per esempio, si può ricorrere a Salvatore Settis e alle sue lezioni trasmesse anche da Rai Storia, di recente), qualcosa si può comunque dire.

Quando si dice “musica classica” ci si riferisce soprattutto a due compositori: uno è Johann Sebastian Bach, l’altro è Franz Joseph Haydn. Bach vive fra il 1685 e il 1750, ed è importante non perché ha scritto della bella musica (questo lo hanno fatto in tanti), ma perché è stato il compositore che ha dato forma definitiva alla scrittura musicale come la intendiamo oggi, compresi Vasco Rossi, i rappers e i Rolling Stones: tutti scrivono musica secondo il “sistema temperato” del quale J.S.Bach è stato il punto d’arrivo. Ma per parlare di questo servirebbe un trattato di teoria musicale, e quindi mi fermo – sottolineo solo la presenza dei tasti neri sul pianoforte, e anche dei tasti sulla chitarra. E’ di questo che si parla, quando si parla di Bach come di un “classico”: l’ideatore di qualcosa a cui tutti faranno poi riferimento, per secoli e non per una moda passeggera.
L’altro compositore “classico” per eccellenza è Franz Joseph Haydn (1732-1809), punto di riferimento per tutti i musicisti che sono seguiti: e si intende Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, fino ai giorni nostri.
Bach è stato importante per quel che riguarda la parte teorica, scientifica, mentre Haydn è l’ideatore delle forme musicali: parole come Sonata e Sinfonia, per esempio, prima di Haydn avevano un significato diverso, più generico. Una Sonata prima di Haydn è solo un termine per indicare “qualcosa da suonare” (il termine è italiano, l’italiano è una lingua importante in musica), con Haydn diventa un modo comodo ed esemplare per esprimere al meglio un’idea musicale e il suo sviluppo.
Anche per scrivere una canzone di tre minuti, è importante mettere in ordine le idee, la melodia principale, il punto in cui in metterla, preparare un’introduzione, fare una variazione, e concludere con un buon finale. Di queste cose si è occupato Haydn, ma con molta discrezione, senza voler fare il professore, e senza scrivere manifesti teorici, semplicemente facendo musica.

La “forma sonata” secondo Haydn, poi divenuta classica, è in tre tempi; la Sinfonia secondo Haydn è in quattro tempi, e per la loro descrizione rimando ai manuali di musica, perché io non sto parlando di teoria ma sto solo tentando di spiegare che cosa si intende davvero per “musica classica”.
La ragione del successo dei modelli messi a punto da Haydn è nella loro comodità: seguendo l’esempio di Haydn tutto diventa più facile e scorrevole, non solo per il compositore ma anche per chi ascolta. Gli schemi messi a punto da Haydn verranno seguiti da quasi tutti i compositori, anche nei secoli seguenti; comincerà a distaccarsene Beethoven, che con la sua Nona Sinfonia non riuscirà più a rimanere dentro ai quattro movimenti “classici” e si inventerà un finale enorme e magnifico, non più solo con gli strumenti musicali ma anche con le voci soliste e con il coro. Siamo in pieno Romanticismo, con Beethoven: non è più l’epoca del classicismoe del neoclassicismo.
Eppure, Beethoven assomiglia moltissimo a Haydn; le sue prime due sinfonie sembrano scritte da Haydn, e anche la Nona di Beethoven per molti tratti assomiglia moltissimo a Haydn. La stessa cosa si può dire per Mozart, per Schubert, per tutti i musicisti più importanti e più famosi; ed è anche la difficoltà che si incontra oggi nell’ascoltare Haydn, perché ascoltando Haydn si pensa a Mozart, a Schubert, a Beethoven – ma Haydn è arrivato prima, è stato il loro punto di riferimento, ed per questo che viene definito come un classico.

Haydn aiuta anche a pensare che tutte le cose hanno avuto un inizio, anche parole come “classico” e “tradizione” hanno un punto di partenza, spesso più recente di quello che si pensa. Per esempio, la danza classica viene associata alle ballerine che danzano sulle punte: ma anche questo “classico” ha avuto un inizio, per la precisione nel 1832 con Maria Taglioni all'Opéra di Parigi. Sembra che sia sempre stato così, e invece non è vero. Bisognerebbe ricordarsene sempre, non solo per la musica e il balletto ma anche per la politica, per la religione, per ogni minima cosa della nostra vita: c’è un prima e c’è un dopo, e ragionare su cosa c’era prima, o su dove comincia una tradizione, o sull’origine di una legge o di un regolamento, è uno dei punti più importanti in una società che sia davvero civile.

Di per sè, la musica di Haydn è sempre molto bella, chiara, perfino luminosa; Haydn assomiglia molto a uno di quei signori eleganti e composti, ma anche molto simpatici e divertenti. L’umorismo di Haydn è di ottima qualità, sottile e sempre ben percepibile, ma bisogna saper essere attenti per coglierlo. Insomma, non è da tutti; e anch’io ho impiegato diversi anni per arrivare a capire davvero Haydn.
Le sue Sinfonie sono moltissime, più di cento: alcune partono da un tema musicale che è l’imitazione di qualcosa di esistente, il ticchettio di un orologio, l’andatura di una persona o di un animale (l’orso, la gallina...), il Big Ben di Londra, un rullo di timpani improvviso. Direi che sono tutte da ascoltare, forse le più belle sono quelle dette “londinesi”, perché composte durante un soggiorno di lavoro a Londra (Haydn era viennese). E’ molto bella anche la “Sinfonia degli addii”, che ha un’origine curiosa: i musicisti erano stanchi di fare tardi ogni sera, e chiesero aiuto a Haydn; Haydn scrisse la musica in modo che gli orchestrali potessero lasciare il loro posto a uno a uno durante l’esecuzione. L’ultimo orchestrale, rimasto ormai solo, salutava e andava via anche lui.
Da ascoltare sicuramente l’inizio della “Creazione” (una premonizione del big bang, in musica), e la magnifica musica orchestrale scritta per “Le ultime parole del Nostro Redentore in Croce”, una serie di tempi lenti e meditativi conclusi dal terremoto e dall’oscurità che accompagnano la morte di Gesù sulla Croce.

La vita di Haydn segna un momento storico importante, al di là della musica: anche quando era già un maestro riconosciuto e acclamato in tutta Europa, il suo status sociale rimane quello di servitore del Conte Esterhazy, a Vienna. Così era sempre stato per tutti i musicisti, servitori alla Corte di qualcuno; così non sarà più, né per Mozart né per Beethoven. Era arrivata la Rivoluzione Francese, anno 1789: Haydn aveva passato i cinquant’anni, Mozart era poco più che trentenne, Beethoven stava per compiere diciannove anni, l’era moderna stava per cominciare e da allora nessun musicista sarebbe più stato considerato come un servitore.

mercoledì 19 gennaio 2011

Telepatia

La telepatia come qualcosa di arcaico, sostituita dalla parola: lo spiegava Emilio Servadio (uno dei grandi psicoanalisti italiani), in questo articolo. Nei vent'anni seguenti, le neuroscienze hanno fatto passi da gigante; mi sembra comunque che il ragionamento di Servadio sia ancora un ottimo punto di partenza. Gli animali hanno spesso comportamenti che sembrano telepatici: in realtà, come si è scoperto da tempo, hanno sensi diversi dai nostri. Il cane ha l'olfatto molto più sviluppato del nostro, l'elefante emette e percepisce suoni di frequenza molto bassa, eccetera. Il più delle volte, quello che ci sembra misterioso ha una spiegazione ben precisa.
Un fenomeno paranormale da sempre in bilico fra superstizione e scienza. Forse si tratta di un carattere arcaico risalente a prima dell’acquisizione della parola
TELEPATIA NON È TRASMISSIONE DI PENSIERO
di Emilio Servadio, corriere della sera 19 luglio 1988
(...) Sarà bene dichiarare e a scanso di equivoci, che tutti i cosiddetti esperimenti teatrali di «trasmissione del pensiero», e ripetiamo tutti, sono trucchi. In quali modi si procede per tentar di «provare» la telepatia, e, ciò che ormai conta ancor più, capire qualcosa del suo funzionamento? Le tecniche variano, anzitutto, a seconda che si basino sulla «qualità» o sulla «quantità». Nel primo caso, ciò a cui si mira è che un soggetto, posto in determinate condizioni (di veglia, di sonno, di ipnosi, di trance, eccetera) riproduca un determinato stimolo, quasi sempre un disegno, o comunque un'immagine senza il tramite della normale percezione. Il disegno, o l'immagine, fanno storia a sé, ossia non appartengono ad alcuna serie: sono, ad esempio, tracciati seduta stante da chi sperimenta, o scelti fra un numero indefinito di fotografie, o d'illustrazioni di riviste. Naturalmente, è il ripetersi di questo tipo di esperienze, e sono i ripetuti confronti fra le immagini che danno alla lunga l’impressione, se non la certezza matematica, della telepatia. (...)
Dall'ormai spettacolosa raccolta di prove a favore della telepatia, tanto spontanea quanto sperimentale, è lecito trarre alcune conclusioni di massima su questo fenomeno, che dal limbo di millenarie tradizioni è stato portato su un piano di dignitosa e obiettiva indagine scientifica.
Primo punto: la telepatia, contrariamente a quanto in genere si crede, non è trasmissione di pensiero». Nella telepatia non si «trasmette» propriamente nulla, e il suo oggetto non consiste in pensieri!
«Non si trasmette nulla»: con questo vogliamo dire che il concetto abituale, secondo cui nel fenomeno telepatico c'è Tizio che trasmette, e Caio che riceve, è stato sistematicamente smentito dall'osservazione e dall'esperimento. L'indipendenza della telepatia dal fattore distanza (essa avviene indifferentemente nella stessa camera o dall'America all'Australia), le distorsioni e le frammentazioni delle immagini, la mancanza di qualsiasi equivalente meccanico, e altre caratteristiche lungamente indagate, permettono ormai di considerare la telepatia come la «messa in comune» di elementi psichici fra due o più persone, e di metter da parte, come gratuito, qualsiasi paragone con le trasmissione della radio, e con le onde elettromagnetiche.
La telepatia è sintonia di immagini e di affetti, è un fenomeno assai più «viscerale» che non «cerebrale». Può darsi che abbia un substrato fisico, che un giorno si riuscirà a dimostrare: ma, per ora, il suo aspetto è quello di qualche cosa che è a un tempo immateriale, e appartenente a livelli elementari, vitali, dello psichismo umano.
Secondo punto: l'evento telepatico, anche il più apparentemente «spontaneo», non avviene per caso: esso è in qualche modo condizionato dai rapporti e dai legami affettivi dei partecipanti, i quali appaiono avere, sempre e comunque, qualche cosa di reciproco e di complementare che tende a sintonizzarsi o a fondersi. Con la telepatia appare provvisoriamente cancellato un dualismo, e ristabilita per qualche istante una «unità nella pluralità».
Terzo punto: la telepatia non ha nulla di progressivo e di superiore rispetto ai modi consueti, evoluti e normali di comunicazione fra gli uomini. Paragonati a un «incontro» telepatico, una telefonata o un telegramma sono di gran lunga più particolareggiati, e psicologicamente più adeguati e convenienti.
Appare dunque sempre più plausibile l'opinione, formulata da vari studiosi, secondo cui la telepatia sarebbe un mezzo «arcaico» di comunicazione, proprio a un certo livello evolutivo degli esseri viventi (si suppone che essa costituisca il modo tipico di comunicare in vari aggruppamenti animali), ma che viene grado a grado soppiantato da sistemi più articolati e specifici come il linguaggio mimico, verbale o scritto. Tale mezzo potrebbe tuttavia ripristinarsi per qualche istante, in particolari condizioni di «regressione psicoaffettiva», nelle quali due o più personalità sembrano parzialmente confondersi in un oceano psichico che le ingloba e le trascende.
(Emilio Servadio, corriere della sera, 1988)

lunedì 17 gennaio 2011

L'eterno ritorno

Può ripetersi due volte lo stesso avvenimento? I matematici ne parlano spesso, ed essendo abituati (a differenza dei filosofi) a ragionare su fatti e cifre e non su pensieri e illazioni, una risposta tangibile l’hanno data.
La risposta è dunque nei numeri irrazionali, il più famoso dei quali è il pigreco: che si abbrevia in 3,14 ma che ha così tante cifre dopo la virgola che diventa impossibile da calcolare con esattezza. Forse le cifre che vengono dopo 3,14 sono davvero infinite: il che significa che il pi greco non è mai uguale a se stesso.
Il pi greco regola la misura delle circonferenze, che quindi sono per forza di cose approssimate. Dato che costanti "irrazionali" simili al pi greco governano le orbite dei pianeti e il moto delle stelle, ne consegue che la rotazione celeste è solo apparentemente uguale; il che spiega il fatto che le cose non si ripetano sempre esattamente allo stesso modo. Forse, anche nelle nostre vite ci sono dei numeri irrazionali, e forse sono messi lì apposta per non farci tornare indietro a ripetere esattamente le stesse cose. Una minima differenza, quindi, c’è anche nell’eterno ritorno: è forse per questo che talvolta ci sembra di ricordare cose che sono invece nuove, appena successe.
Ma qui mi fermo perché il discorso è complesso, e anch’io mi sto ingarbugliando: non sono un matematico, che tristezza, e non sono nemmeno Italo Calvino o Primo Levi, che ai discorsi scientifici sapevano dare chiarezza.
Provo quindi a completare il ragionamento che ho iniziato riportando qui un frammento da un articolo del matematico Paolo Zellini, che insegna Analisi numerica a Roma Tor Vergata. Chi volesse leggere l’articolo per intero lo può trovare sull’archivio di http://www.repubblica.it/
Il senso del ripetersi degli avvenimenti celesti
COME È NATO L’ETERNO RITORNO
di Paolo Zellini, Repubblica 01.09.2006
(...) Immaginando una corrispondenza tra cielo e terra, tra il moto degli astri e gli avvenimenti a noi più vicini, ci troviamo costretti fare i conti con la fondamentale ambiguità o incertezza dell'attimo. Il sorgere e il tramontare eliaco, la prima apparizione della Luna o di Marte, la congiunzione tra Giove e Saturno, sono infatti definibili soltanto in modo approssimato. Da una descrizione geometrica, da una cosmografia come quella di Keplero, (...) ricaviamo l'impressione che possa trattarsi di avvenimenti esattamente definibili; ma da una descrizione analitica, che operi con formule trigonometriche e tavole numeriche, equazioni e serie infinite, sappiamo che, in generale, valori numerici esatti non esistono e che dobbiamo invece accontentarci di approssimazioni per eccesso o per difetto.
Con i numeri possiamo stare soltanto al di qua o al di là dell'evento, soggetti a un'ambiguità o amphibolia, nel senso dello stare attorno o dell'essere gettati da una parte e dall'altra rispetto a un istante che non riusciamo a definire esattamente. (...)
Ora, da tempi immemorabili, sono proprio gli eventi puntuali del mondo celeste, gli istanti in cui accadono fatti notevoli che riguardano stelle e pianeti, a definire una struttura del tempo in termini di cicli e ricorrenze. E può sembrare che il tempo scandito da continue ripetizioni imponga alla nostra esistenza, più di quanto saremmo disposti ad ammettere, ritmi e cadenza regolari. Anche Plutone, pur declassato ora dalla dignità di un pianeta, è un esempio di questa vita circolare e continua a girare intorno al sole, compiendo la sua rivoluzione in circa 248 anni. Declassato o meno, bisognerà comunque continuare a tenerne conto se vogliamo ritornare all'antica domanda: possono gli eventi di questo mondo ripetersi nello stesso identico modo in cui sono già accaduti? Esiste e che senso ha l'Eterno Ritorno?
La questione potrebbe andare oltre il mero calcolo di tempi, orbite o inclinazioni di pianeti e offrirsi a una cognizione di tipo diverso, pur correndo il rischio - come è stato detto - di assumere i tratti di un “ingannevole e beffardo mistero". Nietzsche avrebbe esteso il senso dell'eterno ritorno ben al di là dell'indicazione positiva di un ripetersi di avvenimenti celesti. «Tutte le cose diritte mentono», si legge nel suo Zarathustra; « Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo.»
Ma, rinunciando al mistero filosofico o poetico, ci si limiti ora a immaginare, nello spirito del più pedante contabile, un Demiurgo che tenti di realizzare un tempo ciclico con la massima precisione possibile. Avremo allora un ritorno all'uguale, nel senso più letterale, solo se una data configurazione di tutti i corpi celesti, fotografata in un certo istante, si ripeterà identica in un istante successivo, non importa quanto lontano nel tempo.
La questione del ritorno all'uguale dipende allora, in modo stringente, dalla questione se i movimenti circolari risultano tra loro commensurabili, o multipli di uno stesso periodo assunto come comune unità di misura. Per questo motivo i filosofi del Medioevo che riflettevano sui concetti di libertà o di giustizia, di ordine o di contingenza, dovevano tener conto dell'idea di incommensurabilità elaborata fin dai tempi dell'Accademia platonica.
Come si sa, i periodi di Giove e di Saturno stanno circa nel rapporto di 2 a 5; ovvero dopo circa 5 rivoluzioni di Giove i due pianeti ritornano quasi nella stessa configurazione iniziale. Ma questo non implica né che i periodi di Giove e Saturno sono commensurabili, né tanto meno che lo sono altri periodi.
Il rapporto 2 a 5 è soltanto un'approssimazione, e soltanto di approssimazioni, in generale, possiamo disporre. In altri termini, un ritorno all'uguale, letteralmente inteso, si rivela impossibile perché si intromettono i numeri irrazionali, che hanno un numero infinito di cifre e non sono rappresentabili con una frazione. (...)
(Paolo Zellini, da La Repubblica 1.9.2006)

sabato 15 gennaio 2011

Notizie sulla fine del mondo

dal volume di Primo Levi e Tullio Regge, “Dialogo” (pubblicato da Edizioni Comunità nel 1984, poi da Mondadori):
TULLIO REGGE:  ...Uno spazio ugualmente esteso in tutte le undici dimensioni è uno spazio instabile. In uno spazio del genere basterebbe un piccolo campo gravitazionale per creare un collasso locale: questo spazio si deformerebbe rapidissimamente verso uno degli spazi in cui sette dimensioni sono corte e tre sono lunghe. Lo studio di queste instabilità è uno dei capitoli più interessanti della fisica teorica d'oggi. L'idea è quella di dimostrare che solo uno spazio fatto in quel modo è veramente stabile, e gli altri sono instabili, in quanto sviluppano al loro interno delle mostruosità che li fanno morire.
Però non mi stupirei se lo spazio in realtà avesse infinite dimensioni, di cui vedremmo sempre soltanto una quantità finita. E non mi stupirei se la storia più interessante non fosse quella che avviene adesso. Forse nei primi 10 elevato a 40 secondi potrebbe essere vissuta una razza di esseri a dieci dimensioni i quali avevano una scala di energie immensamente più elevata di quella odierna, e quindi una scala di tempi inversamente molto più breve. Forse la loro esistenza è stata compressa in quella che per noi è una frazione evanescente di secondo, ma per loro psicologicamente è durata un centinaio di milioni di anni.
Freeman Dyson ha pubblicato un lavoro in cui cerca di estrapolare quello che capiterà al mondo in un futuro estremamente remoto. Un Dyson nato tra quegli esseri ipotetici di cui parlavo prima ha forse cercato di anticipare l'esistenza dell'uomo in un futuro in cui l'universo si è espanso lungo un certo numero di dimensioni. Dyson avanza un'ipotesi in cui la materia è stabile, in cui cioè il protone non decade, ma se il protone si disintegrasse scomparirebbe la materia, e rimarrebbe soltanto la luce. Il primo fenomeno immediato è la morte delle stelle: fra cento miliardi di anni o anche meno il Sole sarà finito, avrà consumato il suo combustibile, le stelle cominceranno a radunarsi verso il centro della galassia, perché questa è gravitazionalmente instabile. C'è una tendenza all'evaporazione delle stelle, per cui il 10 per cento delle stelle lascerà la galassia. Le braccia a spirali della galassia finiranno per sparire, si addenserà sempre di più il nucleo della galassia, con la formazione di un gigantesco buco nero al suo centro. Ci saranno in giro moltissimi buchi neri, dovuti al collasso delle varie stelle.  Tutte le stelle catalizzano fino al ferro, che è la cenere ultima delle reazioni termonucleari; o bruciano direttamente l'idrogeno fino a divenire ferro. Se io prendo questo piatto, dice Dyson, lo lascio qui per un tempo immenso, 10 elevato a 30 anni, anzitutto assumerà una forma sferica, perché la forza reciproca di gravità delle varie parti dell'oggetto induce transizioni atomiche lente, per cui un atomo si muove sempre di più verso il baricentro dell'oggetto.   Su tempi così lunghi qualunque oggetto è praticamente liquido e prende una forma sferica: non esistono oggetti rigorosamente solidi. Su un tempo ancora più lungo c'è sempre una probabilità piccolissima ma finita di catalisi delle reazioni termonucleari, per cui nuclei contigui ma non sovrapposti di atomi diversi possono fondersi e dare luogo al ferro con sviluppo di energia. Un corpo del genere sviluppa sempre un po' di energia, convertendosi lentamente in ferro.
Così l'universo si riempie di biglie di ferro: la Luna diventa una biglia di ferro, e altrettanto fanno la Terra e i pianeti. Queste biglie finiranno per sbattere una contro l'altra. Ma c'è un processo di una lentezza ancora più esasperante che neanche Dyson riesce a scrivere come un numero normale (se lo volessi scrivere in maniera normale non mi basterebbe tutto l'universo). In un tempo pari a circa 10 elevato a 30 anni, qualunque corpo celeste si catalizza a buco nero, con emissione di energia come conseguenza di questa catalisi. Alla fine tutto si trasforma in radiazione.
Come potrebbe sopravvivere l'umanità, in queste circostanze? L'idea di Dyson è che l'intelligenza umana dovrebbe migrare in altre strutture che usano meno energia, ma che per raggiungere questo scopo dovrebbero rallentare la loro percezione psicologica del tempo.
Si dovrebbe arrivare a esseri per cui lo scorrere di cento anni dei nostri significherebbe psicologicamente soltanto il passaggio di una frazione di secondo. Esseri enormemente estesi, che catturano la luce anche tenue di stelle molto distanti, e si riscaldano con quella, accumulando energia e avendo poi scambi occasionali di segnale nell'interno. Una struttura del genere potrebbe sopravvivere per un tempo indefinito.
PRIMO LEVI: È la situazione della Nuvola nera di Hoyle.
TULLIO REGGE: Sì, con la differenza che la "nuvola nera" di Hoyle aveva tempi di reazione molto veloci, umani cioè; mentre questi esseri sarebbero pachidermici, di una lentezza esasperante (...)
(pagine 48-50 edizione Oscar Mondadori 1994)

Questo libro, di poche pagine e molto bello, meriterebbe una ristampa aggiornata e annotata. Ma, anche così, si legge d'un fiato: Levi e Regge svariano tra notizie scientifiche certe e libri di fantascienza, passando per i classici latini e i libri d'avventura, e alla fine sono molte le notizie che rimangono dentro e che mettono voglia di saperne di più. Ricordo, per chi non lo sapesse o se ne fosse dimenticato, che Primo Levi era chimico di professione, e alla chimica ha dedicato molti dei suoi libri più belli; mentre Tullio Regge fu più volte vicino al Nobel per la Fisica.

venerdì 14 gennaio 2011

Derrick

Un giorno ero proprio in cima alla torre con la chiave a stella per verificare il serraggio dei bulloni, e mi vedo arrivare lassú il committente, che tirava un po' l'ala perché trenta metri è come una casa di otto piani. Aveva un pennellino, un pezzo di carta e un'aria furba, e si è messo a raccogliere la polvere dalla placca di testa della colonna che io avevo finito di montare un mese prima. Io lo stavo a guardare con diffidenza, e dicevo fra di me "questo è venuto a cercare rogna". Invece no: dopo un po' mi ha chiamato, e mi ha fatto vedere che col pennello aveva spazzato nella carta un pochino di polvere grigia.
" Sa cosa è? " mi ha chiesto.
“Polvere", ho risposto io.
"Sí, ma la polvere delle strade e delle case non arriva fin qui. Questa è polvere che viene dalle stelle".
Io credevo che mi pigliasse in giro, ma poi siamo scesi, e lui mi ha fatto vedere con la lente che erano tutti pallini rotondi, e mi ha mostrato che la calamita li tirava, insomma erano di ferro. E mi ha spiegato che erano stelle cadenti che avevano finito di cadere: se uno va un po' in alto in un posto che sia pulito e isolato, ne trova sempre, basta che non ci sia pendenza e che la pioggia non le lavi via. Lei non ci crede, e neanche io sul momento non ci ho creduto; ma col mio mestiere capita sovente di trovarsi in alto in dei posti come quelli, e ho poi visto che la polvere c'è sempre, e piú anni passano, piú ce n'è, di modo che funziona come un orologio. Anzi, come una di quelle clessidre che servono per fare le uova sode; e io di quella polvere ne ho raccolta un po' in tutte le parti del mondo, e la tengo a casa in uno scatolino; voglio dire a casa delle mie zie, perché io una casa non ce l'ho. Se un giorno ci troviamo a Torino gliela faccio vedere, e se ci pensa è una faccenda malinconica, quelle stelle filanti che sembrano le comete del presepio, uno le vede e pensa un desiderio, e poi cascano giú, si raffreddano, e diventano pallini di ferro da due decimi. (...)
(“Clausura”, da “LA CHIAVE A STELLA” di Primo Levi, ed. Einaudi 1978)

L’altra sera in tv hanno fatto una domanda da settantamila euro: che cos’è un derrick?
Io lo sapevo e l’ho detto: il signor Derryck, che nel ‘500 era il boia di Londra che era anche un po’ ingegnere, e diede il nome a un marchingegno che servì di modello per i tralicci dei pozzi petroliferi. «Come fai a sapere queste cose??» mi hanno chiesto, e poi mi hanno detto che dovrei andarci anch’io, a uno di quei quiz che regalano milioni.
Ai quiz non ci andrò mai, primo perché non mi prenderebbero (non sono telegenico), secondo perché mi deprime pensare che studiare ed essere informati venga considerata roba buona solo per i quiz: studiare ed informarsi, anche sulle cose apparentemente inutili, lo si fa per il proprio piacere, e proprio perché è una cosa bella, che dà piacere. Le cose che danno piacere si fanno gratis, senza star lì a pensarci troppo e senza pretendere ricompense.
La risposta è comunque molto semplice: so cos’è il derrick perché ho letto Primo Levi, e me lo ricordo perché Primo Levi è così bravo che ti fa ricordare tutto quello che leggi: anche le cose più strane o difficili diventano belle da leggere e da ricordare, con Primo Levi.

PS: la spiegazione del derrick è nel racconto “L’aiutante”, sempre su “La chiave a stella”; che è un libro che amo in modo particolare, perché qualcuno di quelli che vanno in giro a costruire impianti l’ho conosciuto anch’io, ed è bello stare ad ascoltare la gente che lavora.

giovedì 13 gennaio 2011

Dibattito in tv ieri sera


(c'è altro da aggiungere?)
PS: la vignetta di Bucchi (dal Venerdì di Repubblica, http://www.repubblica.it/ ) è del 2001, dieci anni fa. E' di quelle che non hanno mai scadenza...

mercoledì 12 gennaio 2011

Fracastoro

« (...) Una abilità analoga aveva un altro veronese, questa volta nel Cinquecento, Gerolamo Fracastoro, nell'assaggiare le urine. I medici di allora procedevano a questo esame "di laboratorio" per diagnosticare un diabete (urine dolci) o una nefrite (urine acide) e poiché in una occasione gli presentarono un campione di urine di mulo al posto di quelle del paziente, su cui fece una precisa diagnosi e fu ovviamente ridicolizzato, si esercitò sulle urine di ogni specie animale diventando super esperto. (...)»
(da un articolo su Lombroso dello psichiatra Vittorino Andreoli, Corriere della sera 26 luglio 1992)
Questo aneddoto, di per sè divertente, mi è rimasto impresso anche per un altro motivo: spesso la gente scambia gli studiosi (e gli analisti di laboratorio) per degli indovini o dei maghi veggenti. Invece chi fa un’analisi, prima di cominciare, ha bisogno di indicazioni chiare e di sapere il maggior numero di informazioni possibile: poco tempo fa le cronache riportarono una storia analoga a quella di Fracastoro, ma in chiave moderna. All’analista (in questo caso un laboratorio clinico) diedero del tè spacciandolo per urina; il laboratorio fece le analisi richieste e consegnò il referto con i dati richiesti, senza accorgersi di niente. La storia finì sui giornali, perché per questo motivo era stata organizzata, ma la sua conclusione potrebbe sorprendere: il laboratorio fece causa agli autori dello scherzo, e vinse la causa. Il laboratorio aveva ragione, e la cosa può stupire solo chi ignora cosa fa un analista di professione: fa le analisi che gli vengono richieste. Infatti, se ci fate caso, nella maggior parte dei casi le analisi richieste sulle urine sono l’aspetto, il peso specifico, il pH, l’eventuale presenza di tracce di sangue, e poco più. Non viene richiesto di identificare le urine, perché si dà per scontato che di urine si tratti. Il peso specifico può variare (se si beve molta acqua, le urine saranno simili all’acqua), il pH è quasi sempre leggermente acido (come quello del tè), eccetera. Nel tè, ovviamente, sarà ben difficile trovare tracce di sangue... Inoltre, identificare che cos’è un campione porta via molto tempo, e si rischia – se il campione è di piccola quantità – di distruggerlo completamente con analisi che possono essere evitate.
Anche a me era capitato qualcosa di simile, in fabbrica. Siccome un prodotto presentava un aspetto poco consono a quello consueto, avevo chiesto al capoturno: “Sei sicuro di aver messo la materia prima giusta?”, perché sapevo per esperienza diretta che era facile confondersi. La risposta era stata: “Che analista sei tu se mi vieni a chiedere cosa c’è dentro”. E io avevo spiegato: l’unica analisi richiesta era il residuo fisso, il “secco” come veniva comunemente chiamato. E cioè: si fa evaporare l’acqua, e si pesa quanto rimane, facendo poi il rapporto percentuale rispetto al peso originario. Di più non serviva, secondo le istruzioni ricevute dall’alto: si dava per scontato che nel prodotto finissero sempre gli ingredienti giusti, e non qualcosa di più o meno simile. In questo caso, dato che l’aspetto fisico non era quello richiesto, furono necessarie analisi più approfondite.
Se su quelle false urine fosse stata richiesta la glicemia, per esempio, il dubbio sarebbe sorto immediatamente...ma nessuna persona di buon senso, oggi, andrebbe in giro ad annusare o ad assaggiare le urine; tantomeno in un laboratorio clinico.
E’ per motivi come questi che, dopo aver letto questo ritaglio di giornale, ho messo immediatamente Gerolamo Fracastoro nella mia galleria di personaggi notevoli; se lo merita perché di sicuro con quegli assaggi ha potuto fare diagnosi migliori, e magari salvare qualche persona - e poi, con quel nome e cognome da cartone animato, come fa a non essere almeno un po’ simpatico?
(la foto qui sotto viene dal film “Le cronache di Narnia”: non c’entra niente ma questi castori, marito e moglie, sono per me un’attrazione irresistibile – e infatti non sono riuscito a resistere...).

martedì 11 gennaio 2011

Precisione

Come si può governare il mondo senza forza, senza potere e senza leggi (o quasi senza leggi)? Confucio inventa un sistema di governo semplice e complicato. La prima cosa da fare, in qualsiasi società, è di rettificare i nomi. Ogni persona e ogni oggetto debbono corrispondere al proprio nome: il signore deve essere un signore, il suddito un suddito, il padre un padre, il figlio un figlio, la rosa una rosa. Se non esistono più i nomi e le parti, se il signore diventa suddito, il padre figlio, il figlio padre, la rosa garofano, il mondo precipita nel disordine e nel caos. Nessuno di noi può più agire o governare o scrivere libri: perché se usiamo parole imprecise e inesatte, scriveremo un libro pessimo, che dovremo subito gettar via.
(Pietro Citati su Confucio, La Repubblica 25 luglio 2006)

(bisognerà spiegare: un signore deve dimostrare di essere davvero un signore, e un suddito deve voler essere un suddito; ma non è questo che mi importava qui, mi importava il discorso sull'esattezza delle parole che usiamo. C'è una gran confusione in giro: cosa significa dirsi cristiano, per esempio? Cristiano secondo il Vangelo, secondo l'Opus Dei, secondo Comunione e Liberazione, secondo Lefebvre... Qui si dicono tutti cristiani, ma cristiano cosa significa davvero? - idem per tante altre parole che di sicuro vi verranno in mente, per esempio sicurezza, biologico, ecologico, Patria, Libertà...) (converrà a tutti riprendere in mano il dizionario) 

lunedì 10 gennaio 2011

Il Novara in serie A

Nello stadio di Novara c’è l’erba artificiale. Se il Novara calcio (che se lo merita) arriverà in serie A, sarà il via libera per tutti: niente più erba nemmeno negli stadi.
Qualcuno ne sarà contento, qualcuno non ci farà caso, qualcuno di sicuro ha trovato il suo guadagno: a me fa impressione, giocare sul sintetico, e per di più a Novara. Non a Trapani, dove l’acqua potabile scarseggia e dove sarebbe più che giustificato, ma a Novara, terra di risaie, ricchissima d’acqua, a un passo dalle Alpi. Non in Qatar o nel deserto della Libia, ma in un posto dove far crescere l’erba dovrebbe essere la cosa più facile del mondo. Sul piano puramente organizzativo, faccio i miei complimenti al Novara calcio, che è una squadra ben gestita a livello societario, ma mi chiedo come sia stato possibile arrivare a questo punto.
Si cominciò, qui da noi, nel 1990: con il terzo anello dello stadio di Milano, l’erba smise di crescere. Ci sono ancora i filmati di Baggio, Van Basten, Gullit, Ancelotti (i più grandi campioni dell’epoca) intenti a rimettere a posto quel prato: gesto identico allo stendere giù un pezzo di moquette nel quale si era appena inciampati, perché l’erba (l’ho imparato in quegli anni) si stende giù come una moquette, negli stadi. Poi attecchisce, mette radici: o meglio, “attecchiva”, “metteva radici”. Bisognava cominciare ad usare i verbi al passato: il terzo anello dello stadio, che aveva portato più spettatori, aveva anche nascosto il sole: che sul prato non arrivava più. Mancando il sole, e probabilmente anche il ricambio d’aria, l’erba moriva pochi giorni dopo essere stata piantata; e interi pezzi di “moquette” si sollevavano durante le partite, costringendo i calciatori a rimetterle a posto perché altrimenti rischiavano di farsi male. E tutto questo a Milano, non nel deserto del Qatar: Milano non è diversa da Novara, è ricchissima d’acqua, Milano sorge addirittura sopra una grande falda. Sotto Milano c’è l’acqua, a Milano arrivano torrenti e fiumi, fu Leonardo a incanalare nei Navigli tutta quell’acqua, nel ‘400, e ad evitare che i milanesi finissero impantanati. Ma adesso, dal 1990, a Milano (e a Novara) non sono nemmeno più capaci di far crescere cento metri di prato.


AGGIORNAMENTO al giugno 2013: a giudicare dai risultati, si direbbe proprio che il campo in sintetico porta sfiga. Pensate un po': Novara retrocesso e poi fuori dai playoff due anni dopo; Cesena sempre in B; l'Inter un'annata da dimenticare; il Milan in Champions ma per un pelo (San Siro è solo parzialmente sintetico...non sono né interista né milanista, quindi posso tifare per un San Siro tutto sintetico, ma proprio tutto tutto)

domenica 9 gennaio 2011

Il dialetto bergamasco

Il dialetto bergamasco divenne famoso, girò il mondo e vinse premi importanti, a partire dall’anno 1978: ancora oggi se ne parla. Il film è “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi e io – come già mi accadde con Dario Fo, premio Nobel padano, - mi chiedo come sia possibile che un movimento nato per esaltare la Pianura Padana si sia completamente dimenticato di Ermanno Olmi (da Treviglio, Bèrghem) e dei suoi film. Perché non c’è solo “L’albero degli zoccoli”, con le sue storie di contadini: c’è “Il posto”, milanesissimo; c’è “E venne un uomo”, sul bergamasco più famoso nel mondo; ci sono i suoi film sul mondo del lavoro, sulle tradizioni locali... Olmi ha lavorato molto, e quasi sempre bene; molti dei suoi film sono capolavori che lasciano ancora oggi commossi e ammirati, soprattutto per chi conosce bene la Lombardia, Bergamo e Brescia, le montagne, il Trentino.
Cosa c’è dunque che non va, perché anche Olmi non piace ai leghisti, che pure dovrebbero farne una bandiera? Olmi non è comunista, è anzi cattolico convinto; ma anche questo non basta. Il difetto vero di Olmi, agli occhi di queste persone, è proprio quello che difetto non è e non può essere: lo sguardo attento e partecipe verso gli altri, l’amore per il prossimo, e l’amore per la tradizione e la gente antica: un atteggiamento però che non nasconde mai la realtà. E la realtà può essere amarissima, come in “L’albero degli zoccoli”: chi se ne ricorda il finale capirà di cosa sto parlando.
In “L’albero degli zoccoli”, ambientato a fine Ottocento e per la precisione nel 1898 (a Milano, in quell’anno, le cannonate di Bava Beccaris sulla folla dei manifestanti) un contadino ha un figlio che è bravo a scuola: il prete gli consiglia di mandarlo a studiare, il contadino dice che la cosa lo preoccupa ma a suo figlio vuole molto bene e quindi provvederà. Il padrone, come vedremo nel film, metterà fine anche a questo piccolo sogno: ed era una storia molto comune.
La Lega Nord, i Bossi, i Maroni, i Borghezio, i Calderoli, non amano Ermanno Olmi e non possono amarlo proprio perché sono della stessa pasta di quel fattore e di quel padrone. Chiedo scusa per la sintesi un po’ brutale, ma ogni tanto queste cose vanno dette.
Erano bergamaschi sia il padrone che il fattore che i contadini, e anche tra i contadini – come mostra bene Ermanno Olmi in “L’albero degli zoccoli” – non tutti erano brave persone. Alla fine, quando Battistin (che voleva solo un avvenire migliore per il suo bambino) viene mandato via con tutta la sua famiglia, gli altri contadini si chiudono in casa e lo lasciano da solo: è la stessa cosa che sta succedendo oggi, e non meraviglia quindi più di tanto (una considerazione ben triste) che la Lega Nord prenda tanti voti anche in quelle zone.
Pietà l’è morta, insomma: ma chissà come si dice in dialetto bergamasco.

venerdì 7 gennaio 2011

Bufala cosmica

"Bufala cosmica" è il nome di un piccolo gruppo di autori che furono pubblicati dal mensile Linus negli anni '90, nella rubrica di Ennio Peres, di Giampaolo Dossena, dei Wutki - insomma uno di loro, ma adesso non ricordo bene chi era di turno in quel momento (magari Zrcadlo?) (magari già Enzo Baldoni?).
Ne riporto qui qualcosa, perché si tratta di cose divertenti. Forse uno di loro necessita una spiegazione, perché è da tempo immemorabile che non sento recitare gli scioglilingua, del tipo "tigre contro tigre, tre tigri contro tre tigri" oppure "trentatré trentini entrarono trotterellando in Trento". Lo metto comunque, e avverto che ho dovuto ricostruirlo a memoria perché non ho ritrovato dove lo avevo appuntato. (Bufala Cosmica mi scuserà, spero; o almeno spero che mi scusino Alessandra Berardi e Marco Ardemagni, che forse si possono reperire on line - quasi quasi ci provo...)

Bufala cosmica:

VICO
Cosa sarà che tragici
eventi rende comici ?
Cinici adeguamenti,
o atteggiamenti topici?
Le polveri lunari, o accadimenti cosmici ?
Appuntamenti ciclici, o pensieri pletorici ?
Cari, son solamente
morsi e rimorsi storici.
(Alessandra Berardi)


L'UVA PASSA
L'uva passa,
veloce più dei treni;
il vino resta,
e si deposita sui reni.
(Alessandra Berardi)


Dei trentatré de Trent
non s’è savù pù gnent :
i starà ancora andando
tutti trotterellando?
(Silvana Mongioj, da Linus ottobre 1994)


NOEMI
Nemmeno un uomo amò,
o ne amò uno;
e io, un omonimo...
non mi ammonì, ma non mi nominò.
ANNA
Un anno, una nenia:
è una iena, e io un inane.
MIMMA
Mimò mia mamma,
ma mai m'amò.
(Marco Ardemagni: composizioni bi- e monoconsonantiche)


T'AMO PIO BO'
T'amo pio bo',
più ancor santo un incanto
di vigoria tranquilla al cor m'infondi
quando posato, tipo un grosso impianto,
guardi i prodotti d'anarchici fondi,
o di pigliar il giogo ti fai vanto
dal vispo al cui bisogno corrispondi:
colui pungola, aizza, tardo intanto
con l'occhiata paciosa gli rispondi. (...)
( Ruggero Campagnoli - Yves Hersant,
lipogramma in « e » , da Carducci )

giovedì 6 gennaio 2011

In Tremonti we trust

Nel 2001 e nel 2002, eccetera, il ministro Tremonti premeva per avere la banconota da un euro. Aveva infatti individuato con grande precisione la causa dei principali problemi: “Con la moneta da un euro la gente non ha la percezione del valore...” (eccetera).
Un sito che non sono più riuscito a ritrovare (peccato!) aveva pubblicato alcune ipotesi grafiche su questa nuova banconota: dato che sulle altre ci sono ponti in pietra con grandi arcate, e di porte monumentali (una metafora molto chiara), ecco che sulla banconota da un euro ci sarà un ponte di corde. Nel frattempo, in Francia è stata coniata una moneta da dieci euro: è per i collezionisti, ma può avere circolazione legale. (Il mio parere, per quel che vale, è che la crisi dell’euro sia dovuta soprattutto a questo: che tutta l’Europa è ormai a destra, ed è la destra peggiore. Fino al 2000, c’erano ancora a Bruxelles molti politici che venivano dai tempi di guerra, e che proprio per questo avevano lavorato per abbattere i confini e migliorare l’unione dei popoli. Oggi prevalgono i localismi e i nazionalismi, a Bruxelles e nei governi locali ci sono politici che lavorano per tirar su confini anche dove non ci sono mai stati: ognuno pensa solo per sè, e questi sono i risultati.)

Un altro obiettivo centrato da Tremonti (nel 2008) è stata la social card: che ha definitivamente e facilmente risolto ogni problema, come ormai possiamo constatare.
Oggi, 6 gennaio 2011, Tremonti ci dice che bisogna stare attenti, la crisi non è ancora passata e anzi il peggio potrebbe ancora venire: chi l’avrebbe mai detto o anche solo pensato – comunque grazie per l’avvertimento, mo’ me lo segno.
PS: nel frattempo, il quotidiano dei vescovi “Avvenire” sobbalza scandalizzato davanti alle bestemmie in diretta tv su Canale5. Che dire, benvenuti, era ora: qui sotto al pero ormai siamo in tanti, c’è Fini, c’è Casini, c'è Antonio Martino, c’è Dino Boffo, comincia a vedersi anche qualche leghista... Benvenuti giù dal pero, cari vescovi della CEI: è dal 1994 che vi aspettiamo, qualora vi siate veramente decisi a scendere (ma dal pero, si sa, c’è sempre un gran via vai, c’è chi scende e c’è chi sale...).


mercoledì 5 gennaio 2011

Swarowski

Le interpretazioni di Swarowski sono un gioiello. Di lui dice wikipedia:
Hans Swarowsky (Budapest, 16 settembre 1899 – Salisburgo, 10 settembre 1975) è stato un direttore d'orchestra austriaco. Originario d'antica famiglia viennese, studiò teoria con Arnold Schönberg e Anton Webern, pianoforte con Moritz Rosenthal e Ferruccio Busoni e direzione d'orchestra con Richard Strauss, che divenne poi il suo nume protettore. Decisivo per la sua scelta artistica fu, negli anni dell'Università a Vienna, l'ascolto dell'esecuzione della 3ª sinfonia di Gustav Mahler diretta dal giovane Wilhelm Furtwängler al Musikverein. Da Vienna andò all'Opera di Stato di Stoccarda dove salì tutti i gradi gerarchici fino ad essere Direttore Principale. Fu scritturato poi all'Opera di Stato e all'orchestra Filarmonica di Amburgo e alla Staatskapelle di Berlino. Per ragioni politiche, dal 1936 al 1945 si trasferì al teatro dell'Opera di Zurigo, ove svolse quell'attività direttoriale che gli era stata negata in patria. Poté comunque tornare nel "Terzo Reich" grazie alla protezione di Strauss, occupandosi però soltanto dell'attività didattica e drammaturgica. A tale epoca risale anche la fondazione di una scuola di direzione d'orchestra, concepita assieme a Strauss, e che si è sviluppata sino a diventare la celebre Scuola di direzione d'orchestra dell'Opera di Stato di Vienna, dando avvio nel contempo ad un'intensa carriera internazionale come Direttore ospite.
In stretto contatto con molti musicisti, da Schönberg a Puccini, Bartók, Ravel, Stravinskij, ecc., ebbe in repertorio i maggiori lavori della produzione tardo-romantica e del classicismo viennese. Aveva un gesto sobrio, essenziale, ma di grande comunicativa. Dalla sua scuola sono usciti Direttori come Claudio Abbado e Zubin Mehta.


Questo post, lo ammetto, può essere un tantino enigmatico: per me Swarowski non significa molto, sono troppo giovane per ricordarmi di lui, e ci ha lasciato anche poche incisioni, pochi dischi. Caso mai, avrei dovuto parlare di Abbado, di Kleiber, di Sawallisch, di Chailly, di Muti, di Boulez, e di tutti i direttori che ho ascoltato più volte quando andavo alla Scala (per vent’anni, come loggionista, ogni volta che ho potuto). Avrei potuto dedicare un post a Wilhelm Furtwängler, del quale ho moltissimi dischi, o ad Arturo Toscanini, o magari a Tullio Serafin.
La scelta di Swarowsky, invece – e me ne scuso subito – è dovuta al divertimento che mi provoca mandare in tilt i motori di ricerca e quei siti che si appoggiano al mio blog, e a tutti gli altri. Chiunque abbia un blog e un contatore di visite (io ne ho uno piccolo, che mi ha rifilato Blogger) si accorge infatti presto che la maggior parte delle visite sono casuali, arrivano a visitarti perché cercano altro; e oltretutto le parole da cercare sono scelte fatte in automatico: non da una persona, ma dal computer.
Per esempio, ogni volta che clicco su “pubblica”, Blogger mi manda una finestra (piccola, grazie al cielo) con su collegamenti a quello che ho pubblicato – il più delle volte collegamenti assurdi. Come tutti i blogger sanno, ci sono parole e nomi che è meglio evitare: Casanova, per esempio (non me ne frega niente di Casanova, ma Fellini gli ha dedicato un bel film), oppure come è successo ieri, pubblicare alcune pagine da un bel romanzo di James Hilton (il cognome Hilton è subito collegato a Paris Hilton, che io non so nemmeno riconoscere ma che ha molti fans).
In questo senso, per mandare almeno un po’ in confusione tutto questo sistema, dedicare un post a Swarowski, o Swarowsky, o Svaroschi, o Swarowskij, e iniziare dicendo che le sue interpretazioni sono un Gioiello, un Cristallo, un Diamante, è stata per me una tentazione irresistibile. E difatti, eccomi qui.
Qualche anno fa, non molti, un’amica mi avevo invitato a vedere la mostra di Swarowski. La cosa mi aveva stupito molto: non si era mai interessata di musica, come faceva a conoscere Swarowsky? Hans Swarowsky, il maestro di cui Claudio Abbado parlava sempre con tanta ammirazione?
Poi ho capito, era l’inizio di un’epoca, ed io ero ormai tagliato fuori. Qualche giorno dopo, in mensa, in fabbrica, un amico si rivolge a me e mi dice con aria partecipe e commossa: “Hai visto che si è fatto male Salvatore??”. E io trasalisco, mi vengono i sudori freddi: Salvatore, ma dove, ma quando? Come sta adesso?
Non avevo capito: non Salvatore il ragazzo che lavorava in magazzino, ma Salvatore, quello del grande fratello in tv. E non Swarowski il grande direttore d’orchestra, ma Swarowsky quello dei cristalli e dei gioielli. Ah, ecco.
E’ da allora che ho smesso di parlare, e ho cominciato a scrivere.


lunedì 3 gennaio 2011

Prigionieri del passato

James Hilton è uno scrittore inglese, famoso per "Addio Mr.Chips" e per "Orizzonte perduto". Dai suoi libri furono tratti film un tempo molto famosi, oggi quasi dimenticati. Per me è stato una scoperta recente, ho trovato i suoi libri su una bancarella e mi sono messi a leggerli convinto che si trattasse di un qualsiasi autore di bestsellers, e invece James Hilton si è rivelato una sorpresa molto piacevole. Qui sotto porto due pagine da "Prigionieri del passato".
Siamo nel 1939: Blampied è un sacerdote inglese, un parroco di campagna (ma il protagonista del libro non è lui) , e la Lega delle Nazioni è l’antenata dell’ONU. Il titolo originale del libro è “Random Harvest” dove harvest è la mietitura (il raccolto), e random significa “a caso, casuale”.

« Segua quella visione, » disse una volta Blampied. « La segua dovunque ne sarà guidato. Ci rifletta. Ne scriva. La predichi, le direi, se questa parola non fosse stata profanata da tanti miei confratelli. »
« Non potrei predicare, sa? Dopo quell'unica volta non mi presenterò mai più al pubblico. »
« Ma non occorre un pubblico per predicare. Occorre solo quello che lei ha già, una fede. »
« La sua è la stessa fede? »
« Lei ha la sua visione dell'Inghilterra, io ho la mia del mondo, ma la sua Inghilterra si adatterà al mio mondo. » Aggiunse, dopo una pausa: « Le sembro arrogante. Non a torto forse. Ma non dobbiamo aver paura di una segreta speranza. Dopo tutto siamo le spie di Dio e il nostro compito è di esplorare un territorio rubatoci dal nemico quando la fede era perduta. » Si toccò il colletto con gli occhi : brillanti di malizia. « Non le parlo così, sa, per via di questo. La religione è solo una delle cose che possono morire senza fede. Prendiamone un'altra, qualcosa che secondo lei io possa discutere con maggiore imparzialità : la Lega delle Nazioni, per esempio. La Lega soffre ora della più mortale delle moderne malattie, l'approvazione popolare senza la fede privata; morrà perchè esigeva una crociata e noi le demmo invece una campagna sui giornali, perchè merita la nostra passione e noi la sommergiamo con voti di fiducia e atti d'indifferenza. Sarebbe uscita viva dall'anima di un santo; ma una clausola di un trattato poteva mettere solo al mondo un nato morto. Avrebbero dovuto predicarla finchè non ne fossimo tutti infiammati; l'hanno invece esaltata e gonfiata finchè oramai ne siano quasi tutti stufi. Ho perfino pensato qualche volta che avremmo dovuto darle un rito, un gesto da farsi ogni volta che se ne citava il nome, il Segno della Croce per i fedeli mettiamo, o, per gl'infedeli, il fiammifero che si spegne dopo avere acceso due sigarette. » Come ricordandosene a quel punto tirò fuori la pipa e cominciò a riempirla. « Questo è il momento giusto per dirvi come sarei felice che rimaneste con me sempre - voi due - se qui siete felici, si capisce. »
« Siamo molto felici. Ma io devo trovare il modo di guadagnarmi la vita. »
« La vita è più importante che il modo di guadagnarsela. Una quantità di gente che si guadagna la vita non vive, ma muore lentamente. Non la imiti mai. Sono i becchini della nostra civiltà, gli uomini prudenti, quelli che cercano i compromessi, i fabbricatori di denaro, gl'impiccioni. La politica è piena di gente così, e anche gli affari, e anche la Chiesa. Sono popolari, hanno successo, alcuni di essi lavorano duro, altri se la prendono comoda, ma sono tutti dei gran parolai. Non ci sono mai stati nella storia del mondo dei becchini così affascinanti, e il loro fascino viene in gran parte dal fatto che essi non sanno chi sono, come ignorano quello che siamo noi. Ci definiscono dei matti, degli stravaganti, dei relitti della società, dei pazzi innocui che non è possibile comprare col denaro o blandire coi complimenti. Ma verrà forse il giorno in cui noi, gli uomini pericolosi, saremo uccisi o fatti re, perchè verrà forse anche un tempo in cui non basterà amare l'Inghilterra come uno stanco uomo d’affari ama il suo sonnellino dopo i pasti. (...)»
(James Hilton, Prigionieri del passato, pag.257 ed. Garzanti 1965)


« Biffer se ne infischia », era un modo inadeguato di esprimere l'entusiasmo col quale egli aveva accettato la proposta di Paola. L'ex pugile era in realtà felice di contribuire a mettere nel sacco le autorità, il maligno potere che da quando era scoppiata la guerra continuava a ostacolare in tutti i modi la sua amministrazione del « Barbagianni ». Gioviale, obeso e un po' torpido d'ingegno dopo le centinaia di collisioni che il suo cranio aveva dovuto sopportare negli anni passati, Biffer rimaneva un prodotto di un'educazione antiquata che gli aveva insegnato a leggere con difficoltà le parole stampate e a crederle con facilità; così che egli aveva più fiducia nelle cose che leggeva meno difficilmente : per esempio, la cronaca sportiva dei quotidiani, le predizioni di « Old Moore » e gli « articoli poderosi » dei giornalisti più banali del momento. Aveva alcuni odi veementi (per esempio, per la burocrazia, per le interferenze del governo e per l'opinione pubblica) e alcuni affetti non meno veementi tra l'altro per Horatio Bottomley, per « il buon vecchio » (ossia il defunto Edoardo VII) e per Oxford durante le regate. S'inorgogliva dell'affermazione diffusa che « non c'è in tutta Londra un locale più signorile del Barbagianni, e il fatto che il «Barbagianni» avesse la ventura di ospitare una vittima delle cose da lui più odiate, aggiungeva sapore a un naturale impulso generoso. (...)
(James Hilton, Prigionieri del passato, pag.193 ed. Garzanti 1965)