domenica 25 novembre 2012
Ippocastano
Le “castagne matte” dell’ippocastano sono diventate, da molti anni, un piccolo gioco tra me e mia madre. Aveva iniziato a raccoglierle lei, non so più quanti anni fa: tenerne qualcuna in tasca o nel cassetto, tra i fazzoletti, faceva bene contro il raffreddore; o almeno così si diceva. Non è che ci si debba credere per forza, non è detto che funzioni, ma di certo le “castagne matte” (non commestibili) sono un oggetto molto bello, grosse e lucide, rotonde, di un bel color mogano. Da bambino, andando in cerca di castagne, ero rimasto molto deluso quando mi avevano detto che no, che quelle lì non erano mica buone: ma come, così belle, così grosse... E invece no, erano “matte”: oltre alle ortiche e ai funghi velenosi (da starci bene attenti) nel bosco c’erano le castagne matte e anche le fragole matte, belle come le altre ma che bisognava lasciar lì. I nostri vecchi usavano spesso la parola “matto” anche in questo senso, nel senso di qualcosa di non buono, di falso: una moneta falsa era “matta”, esattamente come era “matta” una castagna (o una fragola) apparentemente bellissima ma che non si poteva mangiare. Oggi probabilmente questo modo di dire si è perso, o quantomeno io non l’ho mai sentito da una persona con meno di cinquant’anni.
In seguito avrei scoperto che l’ippocastano è molto usato in erboristeria, ma siccome non mi sono mai interessato di queste cose mi permetto di sorvolare. Quello che mi interessa sottolineare, e il motivo per cui ne parlo, è un altro: fino a una decina d’anni fa gli ippocastani c’erano anche qui in paese, alberi centenari che ad ogni autunno facevano cadere in gran quantità le loro castagnone giocattolo, false ma simpatiche. Poi li hanno tagliati tutti: sorte comune agli ippocastani di molti paesi e città qui vicine. Da qualche anno, le castagne matte le porto a casa io: da Milano. Può sembrare un paradosso, ma ormai ci sono più alberi a Milano che qui; e non nel senso che Milano sia diventata un bosco, ma purtroppo nel senso che qui, tra Como e Varese, se vedono un albero lo tagliano o si danno da fare per tagliarlo, e il cemento e l’asfalto regnano sovrani. Prima non succedeva, ma negli ultimi 10-15 anni è successo e su larghissima scala; dei motivi di questo avanzare dell’asfalto e del cemento si stanno occupando le procure, in Lombardia ci sono già stati molti arresti e condanne, e ci sono moltissimi indagati tra sindaci e assessori (comunali, provinciali, regionali), ma ormai il danno è stato fatto, comunque vada a finire nessuno ci renderà i prati, i boschi, le piante e i giardini che rendevano piacevole la vita qui intorno. Mi dispiace soprattutto per i bambini, che non erano costretti a stare in casa come succede oggi: io non ho figli né nipotini piccoli, non sto parlando per me.
E’ stato quindi con piacere che ho letto, su Repubblica del 16 novembre scorso, che il sindaco Pisapia sta mettendo davvero gli alberi in città, a partire dalla povera e disastrata Stazione Centrale: la piantina la riporto qui sotto, complimenti e speriamo che si continui e che serva da esempio a tutta la Lombardia. Si tratta di settemila alberi, ciliegi, aceri, querce e platani: niente ippocastani, che peccato. A Milano i vecchi ippocastani ci sono ancora, nonostante tutto hanno resistito: ci sono in Piazza Cadorna, per esempio, e anche nel Museo di Scienze Naturali. E’ in Piazza Cadorna che ho raccolto le mie castagne matte (ogni anno vanno cambiate, servono quelle nuove), con estrema cautela, guardandomi intorno e sperando che nessuno venisse a multarmi o ad arrestarmi. Soprattutto, spero di non essere finito su youtube o su qualche programma tv idiota: le videocamere sono ormai ovunque, ma proprio ovunque; anche se vi toccate il naso davanti a una vetrina vi consiglio di stare attenti, non si sa mai.
E’ interessante venire a sapere i criteri con cui vengono scelti gli alberi: le foglie non devono cadere, le radici non devono essere troppo grosse, nei parcheggi portano via spazio – insomma, sono le automobili a fare da urbanisti, le nostre città e i posti dove abitiamo sono state progettate dalle macchine e viene da dare ragione ogni giorno di più a Samuel Butler e al suo “Libro delle macchine” (la prima volta che l’ho letto, tanti anni fa, mi sembrava un paradosso divertente; oggi più mi guardo intorno e più penso che sia tutto vero). Queste operazioni le chiamano infatti “arredo urbano”, mica devono essere alberi alberi, si mettono ma senza convinzione, se si potesse metterli finti (come i lampioni finto gas)...
Spero proprio che la giunta Pisapia, a Milano, indichi un cambio di direzione; nel frattempo spezzo una lancia a favore degli ippocastani: a me piacevano molto quegli alberi così grandi, le castagne matte erano simpatiche, oggi le si considera solo come spazzatura che ha un costo, la macchina per pulire le strade lavora male accanto agli alberi centenari queste cose deve per forza farle un essere umano e si sa che il lavoro è un costo. Il lavoro è un costo, gli alberi sono un costo, anche gli esseri umani sono un costo – è questo che penso mettendo in tasca le mie annuali castagne matte, dopo averle ripulite dalla terra. A proposito, una volta c’erano in giro le fontanelle per lavarsi le mani: dove sono finite? Disturbavano anche quelle, oppure bisogna proprio pagare per ogni piccola cosa?
(le immagini dell’ippocastano vengono da wikipedia e da un vecchio libro scolastico)
martedì 20 novembre 2012
Nicchiaflop
“Di nicchia” e “Flop” sono due espressioni dei pubblicitari: al di fuori del linguaggio della pubblicità e del marketing, non hanno molto senso. Di sicuro, non servono per dare un giudizio di valore.
“Nicchia” e “Flop” sono due parole ormai di uso comune, le usiamo con una naturalezza che fa supporre che siano sempre esistite. Lo stesso discorso si può fare con “Target”, o con “Top Ten”; ma io sono una persona semplice, l’inglese lo conosco poco, ho il diploma di perito chimico e una formazione da analista (analista chimico, non analista finanziario: non esiste solo la finanza, la finanza è molto importante ma questo mondo è molto più vasto della Facoltà di Economia e Commercio). In laboratorio, da chimico, mi hanno insegnato che nelle cose bisogna guardarci dentro, titolare con la massima precisione possibile, mettere tutti gli elementi a disposizione su un tavolo, cercarne di nuovi, spaccare il capello in quattro se è possibile. E infine non dare nulla per scontato, chiedersi anche perché le mele che cadono dall’albero finiscono per terra e non rimangono sospese a mezz’aria. Lo so, per il “sentire comune” si rischia di passare per idioti e oltretutto è noioso: di una noia così noiosa che non finisce più – ma io sono fatto così e ormai è tardi per cambiare.
Vediamo un po’. “Flop” è facile, una di quelle belle parole inglesi come quelle dei fumetti, bang slurp smack, che si capisce subito cosa significano. “Flop” lo fa il sufflé quando non viene bene: dovrebbe gonfiarsi in forno e rimanere di un bell’aspetto gonfio, invece lo tiri fuori e si affloscia, miserando spettacolo. Non resta che mangiarselo da soli, il soufflé che ha fatto flop. Un flop è qualcosa che al botteghino non ha reso, per esempio un film che è costato molto e che aveva grandi ambizioni ma che ha reso meno di quanto è costato, e che pochi sono andati a vedere pagando il biglietto. “Di nicchia” è qualcosa che è magari bello ma che non fa soldi. La nicchia è lì, in un angolino; magari c’è dentro una Madonna o un altare, ma chi se ne frega. Mica ci si fanno soldi, con le Madonne dentro una nicchia: le Madonne, d’ora in poi, dovranno apparire solo nelle cattedrali (che sono lì apposta) o magari nelle piazze, che c’è tanto di quello spazio e le riprese tv vengono meglio.
“Top ten” sono le prime dieci: le dieci canzoni più vendute, i dieci film che hanno incassato di più. Beh, è un dato importante se sei un produttore; molto meno se sei uno spettatore. Un film lo possono aver visto due miliardi di persone in una settimana, ma se è una ciofeca resta una ciofeca; e un capolavoro possiamo averlo visto in dieci persone, ma se è un capolavoro per davvero, cosa cambia? La finale della Champions League è stata una pena, eppure l’hanno vista in tutto il mondo; la partita della mia squadra al torneo dei bar è stata favolosa, ci siamo divertiti un sacco ma non è venuto nessuno a vederci: e dunque? Il primo bacio con la donna che amavo lo abbiamo visto addirittura soltanto in due, io e lei: ma vi posso assicurare che è stato meraviglioso.
“Target” significa bersaglio. Il bersaglio delle freccette, per intenderci: il pubblicitario, o l’esperto di marketing, fissa il suo target e in quella direzione dirige i suoi sforzi. Una cosa più che giusta, ma che target poteva avere uno come Tarkovskij?
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
( Andrej Tarkovskij, intervista con Irena Brezhnà, 1982)
Il grande regista russo poteva permettersi questo atteggiamento, negli anni ’70 e ’80 era ancora possibile: lavoravano tutti, grandi e piccoli, alti e bassi, ognuno con il proprio stile. I produttori famosi badavano al sodo e facevano film commerciali, ma li affidavano a grandi artisti e solidi professionisti (Vittorio De Sica, Comencini, Risi, Monicelli, Mastrocinque, Mattoli...) e lasciavano sempre spazio ai grandi matti, a quelli “strani”: Fellini, Antonioni, Petri, Rosi, Rossellini; ed erano ripagati anche in termini di cassetta, perché per i film di quei “matti” c’era sempre molta attesa. In tv e sui giornali c’era altra gente che spiegava, che aiutava a capire, che segnalava film e romanzi difficili ma meritevoli di attenzione.
Il critico cinematografico è una figura estinta, scomparso, come quello di teatro: reso inutile dalla cultura dello spot. Stanno facendo la stessa fine anche i critici letterari: in un mondo di flop, di topten, di nicchie e di target, una persona che ti racconta un film e prova a spiegarti i punti che non hai capito diventa del tutto inutile. Facile immaginarselo: magro, calvo, brutto, storto, non fa sesso da trent’anni, sempre chiuso fra cinema e biblioteca, una piaga mortale. Così viene dipinto chi perde il suo tempo dietro a libroni e filmacci noiosi: alle volte capita, ma non è detto. Come se fossero poi tanto più belli, a proposito, i magnati della finanza e della politica: li avete mai guardati bene, i Ricucci, le Marcegaglia, i Briatore, i Moratti, i Berlusconi?
Tutto questo, ovviamente ha avuto un inizio, e io so anche chi è stato a cominciare, dando il via libera. Lo spiegava molto bene Giovanni Raboni:
Ho chiesto all'amico e collega Gastone Geron di poter pubblicare una lettera che mi ha appena inviato. Eccola: « Caro Giovanni, nei giorni scorsi mi è pervenuta la disdetta del contratto di collaborazione come critico teatrale del "Giornale", della cui iniziale società di redattori sono stato uno dei soci fondatori. Accenno appena ai cinquant'anni di militanza critica, iniziata nella mia Venezia, e ai ventidue anni di critico drammatico del "Giorno", per richiamare la tua attenzione sui motivi che hanno determinato il provvedimento "punitivo". Nel corso di un colloquio da me sollecitato, il direttore Vittorio Feltri mi ha spiegato di essere giunto a tale decisione ritenendo che i lettori non siano più interessati alle recensioni di teatro, cinema, musica classica, danza. E' per questo che ti segnalo non tanto un caso personale quanto un esempio inquietante del sempre minor spazio - o addirittura del silenzio - imposto alla cosiddetta critica militante su tanta "carta stampata" ormai allineatasi sui criteri puramente d'immagine del mezzo televisivo Il mio caso diventa addirittura emblematico ove si consideri che il "Giornale" appartiene al fratello del proprietario delle tre maggiori reti televisive private. La vicenda può suggerirti qualche riflessione?».
Mi sembra che ci sia ben poco da aggiungere a ciò che Geron racconta e ai collegamenti che stabilisce. Forse soltanto questo: che la tendenza a ghettizzare e, in fase di soluzione finale, cancellare tutto quanto non sia etichettabile a priori come "di massa" pone, a ben guardare, un autentico problema politico. Non c'è futuro vivibile in una società dove si disprezzano le minoranze: nella fattispecie, non una minoranza etnica o religiosa, ma quella costituita dalle molte centinaia di migliaia di persone che a dispetto degli ordini superiori si ostinano ad amare il teatro più dei telequiz e la musica da camera più della musica rock o leggera.
(da un articolo di Giovanni Raboni - Corriere della Sera - domenica 29 dicembre 1996)
Una volta, aspettando che cuocesse il risotto (si sa che è un’arte che richiede tempo e attenzione) ho ascoltato un dialogo da una sitcom tv. La ragazza che un tizio voleva rimorchiare portandola al cinema rispondeva allegramente così (non era una scusa, il suo personaggio lo prevede): «Oh, sì, bene, però devono essere film iraniani o coreani, in lingua originale con i sottotitoli. Io vado a vedere solo i film iraniani e coreani in lingua originale e con i sottotitoli. Se non sono i film iraniani o coreani in lingua originale e con i sottotitoli non mi interessa.» Errore, caro sceneggiatore da spot: lo ammetto, io sono davvero piccolo, brutto, storto, magro, mingherlino, ho la pelle verdastra-grigiognola e non faccio sesso da trent’anni: però non vado mai a vedere "i film iraniani e coreani". Adesso ti spiego, prendi nota e prova a capire: io vado a vedere i film di Kim Ki-duk, di Abbas Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf, di Samira Makhmalbaf, di Amir Naderi. Sembra la stessa cosa, ma è diverso.
(10 luglio 2008)
(nelle immagini, fotogrammi da tre film di Andrej Tarkovskij: Stalker, Solaris, Lo specchio)
“Nicchia” e “Flop” sono due parole ormai di uso comune, le usiamo con una naturalezza che fa supporre che siano sempre esistite. Lo stesso discorso si può fare con “Target”, o con “Top Ten”; ma io sono una persona semplice, l’inglese lo conosco poco, ho il diploma di perito chimico e una formazione da analista (analista chimico, non analista finanziario: non esiste solo la finanza, la finanza è molto importante ma questo mondo è molto più vasto della Facoltà di Economia e Commercio). In laboratorio, da chimico, mi hanno insegnato che nelle cose bisogna guardarci dentro, titolare con la massima precisione possibile, mettere tutti gli elementi a disposizione su un tavolo, cercarne di nuovi, spaccare il capello in quattro se è possibile. E infine non dare nulla per scontato, chiedersi anche perché le mele che cadono dall’albero finiscono per terra e non rimangono sospese a mezz’aria. Lo so, per il “sentire comune” si rischia di passare per idioti e oltretutto è noioso: di una noia così noiosa che non finisce più – ma io sono fatto così e ormai è tardi per cambiare.
Vediamo un po’. “Flop” è facile, una di quelle belle parole inglesi come quelle dei fumetti, bang slurp smack, che si capisce subito cosa significano. “Flop” lo fa il sufflé quando non viene bene: dovrebbe gonfiarsi in forno e rimanere di un bell’aspetto gonfio, invece lo tiri fuori e si affloscia, miserando spettacolo. Non resta che mangiarselo da soli, il soufflé che ha fatto flop. Un flop è qualcosa che al botteghino non ha reso, per esempio un film che è costato molto e che aveva grandi ambizioni ma che ha reso meno di quanto è costato, e che pochi sono andati a vedere pagando il biglietto. “Di nicchia” è qualcosa che è magari bello ma che non fa soldi. La nicchia è lì, in un angolino; magari c’è dentro una Madonna o un altare, ma chi se ne frega. Mica ci si fanno soldi, con le Madonne dentro una nicchia: le Madonne, d’ora in poi, dovranno apparire solo nelle cattedrali (che sono lì apposta) o magari nelle piazze, che c’è tanto di quello spazio e le riprese tv vengono meglio.
“Top ten” sono le prime dieci: le dieci canzoni più vendute, i dieci film che hanno incassato di più. Beh, è un dato importante se sei un produttore; molto meno se sei uno spettatore. Un film lo possono aver visto due miliardi di persone in una settimana, ma se è una ciofeca resta una ciofeca; e un capolavoro possiamo averlo visto in dieci persone, ma se è un capolavoro per davvero, cosa cambia? La finale della Champions League è stata una pena, eppure l’hanno vista in tutto il mondo; la partita della mia squadra al torneo dei bar è stata favolosa, ci siamo divertiti un sacco ma non è venuto nessuno a vederci: e dunque? Il primo bacio con la donna che amavo lo abbiamo visto addirittura soltanto in due, io e lei: ma vi posso assicurare che è stato meraviglioso.
“Target” significa bersaglio. Il bersaglio delle freccette, per intenderci: il pubblicitario, o l’esperto di marketing, fissa il suo target e in quella direzione dirige i suoi sforzi. Una cosa più che giusta, ma che target poteva avere uno come Tarkovskij?
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
( Andrej Tarkovskij, intervista con Irena Brezhnà, 1982)
Il grande regista russo poteva permettersi questo atteggiamento, negli anni ’70 e ’80 era ancora possibile: lavoravano tutti, grandi e piccoli, alti e bassi, ognuno con il proprio stile. I produttori famosi badavano al sodo e facevano film commerciali, ma li affidavano a grandi artisti e solidi professionisti (Vittorio De Sica, Comencini, Risi, Monicelli, Mastrocinque, Mattoli...) e lasciavano sempre spazio ai grandi matti, a quelli “strani”: Fellini, Antonioni, Petri, Rosi, Rossellini; ed erano ripagati anche in termini di cassetta, perché per i film di quei “matti” c’era sempre molta attesa. In tv e sui giornali c’era altra gente che spiegava, che aiutava a capire, che segnalava film e romanzi difficili ma meritevoli di attenzione.
Tutto questo, ovviamente ha avuto un inizio, e io so anche chi è stato a cominciare, dando il via libera. Lo spiegava molto bene Giovanni Raboni:
Ho chiesto all'amico e collega Gastone Geron di poter pubblicare una lettera che mi ha appena inviato. Eccola: « Caro Giovanni, nei giorni scorsi mi è pervenuta la disdetta del contratto di collaborazione come critico teatrale del "Giornale", della cui iniziale società di redattori sono stato uno dei soci fondatori. Accenno appena ai cinquant'anni di militanza critica, iniziata nella mia Venezia, e ai ventidue anni di critico drammatico del "Giorno", per richiamare la tua attenzione sui motivi che hanno determinato il provvedimento "punitivo". Nel corso di un colloquio da me sollecitato, il direttore Vittorio Feltri mi ha spiegato di essere giunto a tale decisione ritenendo che i lettori non siano più interessati alle recensioni di teatro, cinema, musica classica, danza. E' per questo che ti segnalo non tanto un caso personale quanto un esempio inquietante del sempre minor spazio - o addirittura del silenzio - imposto alla cosiddetta critica militante su tanta "carta stampata" ormai allineatasi sui criteri puramente d'immagine del mezzo televisivo Il mio caso diventa addirittura emblematico ove si consideri che il "Giornale" appartiene al fratello del proprietario delle tre maggiori reti televisive private. La vicenda può suggerirti qualche riflessione?».
Mi sembra che ci sia ben poco da aggiungere a ciò che Geron racconta e ai collegamenti che stabilisce. Forse soltanto questo: che la tendenza a ghettizzare e, in fase di soluzione finale, cancellare tutto quanto non sia etichettabile a priori come "di massa" pone, a ben guardare, un autentico problema politico. Non c'è futuro vivibile in una società dove si disprezzano le minoranze: nella fattispecie, non una minoranza etnica o religiosa, ma quella costituita dalle molte centinaia di migliaia di persone che a dispetto degli ordini superiori si ostinano ad amare il teatro più dei telequiz e la musica da camera più della musica rock o leggera.
(da un articolo di Giovanni Raboni - Corriere della Sera - domenica 29 dicembre 1996)
Una volta, aspettando che cuocesse il risotto (si sa che è un’arte che richiede tempo e attenzione) ho ascoltato un dialogo da una sitcom tv. La ragazza che un tizio voleva rimorchiare portandola al cinema rispondeva allegramente così (non era una scusa, il suo personaggio lo prevede): «Oh, sì, bene, però devono essere film iraniani o coreani, in lingua originale con i sottotitoli. Io vado a vedere solo i film iraniani e coreani in lingua originale e con i sottotitoli. Se non sono i film iraniani o coreani in lingua originale e con i sottotitoli non mi interessa.» Errore, caro sceneggiatore da spot: lo ammetto, io sono davvero piccolo, brutto, storto, magro, mingherlino, ho la pelle verdastra-grigiognola e non faccio sesso da trent’anni: però non vado mai a vedere "i film iraniani e coreani". Adesso ti spiego, prendi nota e prova a capire: io vado a vedere i film di Kim Ki-duk, di Abbas Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf, di Samira Makhmalbaf, di Amir Naderi. Sembra la stessa cosa, ma è diverso.
(10 luglio 2008)
(nelle immagini, fotogrammi da tre film di Andrej Tarkovskij: Stalker, Solaris, Lo specchio)
mercoledì 14 novembre 2012
Wilhelm Furtwängler
Wilhelm Furtwängler è stato uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento; ma detto questo non si è detto molto, di grandi direttori d’orchestra e di grandi musicisti, per nostra fortuna, ce ne sono stati tanti nel Novecento. Coetanei o contemporanei di Wilhelm Furtwängler sono stati Arturo Toscanini, Erich Kleiber, Bruno Walter, Otto Klemperer, Victor De Sabata, e molti altri ancora: no, la definizione di “grande direttore d’orchestra” o di “grande interprete di Beethoven e di Wagner” non è sufficiente a definire Furtwängler. Per cominciare a capire il mito di Wilhelm Furtwängler (perché di un vero e proprio mito si tratta, ancora oggi a sessant’anni dalla sua scomparsa) bisognerà forse partire dalle pagine più oscure della sua biografia, quelle degli anni del nazismo.
A differenza di quasi tutti i più grandi scienziati, musicisti, registi, Wilhelm Furtwängler rimase infatti in Germania anche durante il periodo hitleriano. Non solo: accettò premi e benemerenze, e ci sono filmati d’epoca che lo mostrano mentre dirige i Berliner Philharmoniker davanti a tutti i ministri nazisti. C’è da far presente che solo alcuni degli esuli tedeschi di quel periodo erano ebrei: non era ebreo Fritz Lang, non era ebreo Erich Kleiber, non era ebreo Arturo Toscanini. Non erano ebrei, né tantomeno comunisti o sovversivi: avrebbero tranquillamente potuto rimanere in Germania o nell’Italia fascista, ma se ne andarono non appena capito con chi avevano a che fare.
Wilhelm Furtwängler invece rimase in Germania, e questo gli provocò numerosi problemi dopo il rovinoso crollo del regime hitleriano: gli fu tolta la direzione della Filarmonica di Berlino (l’orchestra più prestigiosa del mondo, ancora oggi), e fu sottoposto a processo. Negli anni successivi al 1945, Wilhelm Furtwängler fece musica un po’ ovunque ma non in Germania; venne spesso anche in Italia, alla Scala e alla Rai di Roma. Fu infine scagionato da ogni accusa, e tornò al suo posto, nel frattempo occupato dal giovane rumeno Sergiu Celibidache (altrettanto grande, e ironia della sorte, zingaro di origine).
Le ragioni della sua assoluzione, da parte dei tribunali alleati, sono in gran parte dovute all’accertamento della sua totale ingenuità, cioè alla colossale mancanza di comprensione di quello che ci succede e che accomuna i grandi artisti e scienziati alle nostre minime preoccupazioni familiari: “sono tutti uguali”, “ci vuole più ordine”, “uno vale l’altro”, “a me interessa solo il mio lavoro”, “l’importante è che vada bene la mia famiglia”....Era così anche Wilhelm Furtwängler, erano così anche molti dei nostri nonni e bisnonni, ma poi si è visto che non era vero, non è vero che “i politici sono tutti uguali”, sicuramente non era vero in quel periodo storico.
L’altra ragione dell’assoluzione totale di Wilhelm Furtwängler fa sempre parte della sua ingenuità, l’ingenuità di un uomo di grande cultura ma pur sempre ingenuità: il regime nazista gli stava portando via i suoi migliori musicisti, e lui se ne lamentava con lettere del tipo “sarà anche ebreo, ma è un violinista eccezionale; se me lo portate via, se me li portate via tutti, poi come faccio a tenere alto il livello della mia orchestra?”. Queste lettere sono rimaste negli archivi, furono portate al processo, e contribuirono in maniera definitiva a scagionare Wilhelm Furtwängler da ogni accusa. Molti di quei musicisti, quelli che riuscirono ad andarsene dalla Germania, andarono a formare o a rinforzare le grandi orchestre americane: quella di Chicago, di Cleveland, la New York Philharmonic, o magari la NBC Orchestra fondata per Arturo Toscanini. Così accadde in molti altri campi, primo fra tutti quello scientifico: mettendo al bando gli ebrei e i “sovversivi” la Germania di Hitler si privò delle sue menti migliori, e questa è stata una delle principali cause della sua sconfitta.
Le registrazioni fatte da Furtwängler vendono ancora moltissimo, e sono sempre state un costante riferimento per tutti gli appassionati di musica. Anch’io ho in casa da molto tempo i dischi registrati da Wilhelm Furtwängler: immancabili sono le sue incisioni di Beethoven (le Sinfonie, il Fidelio), il suo Wagner (tutto l’Anello del Nibelungo, il Tristano...); ma non ne avrei mai parlato se non fosse stato per un titolo che ho letto nei giorni scorsi su un giornale.
“Zingaretti accusa l’imputato Furtwängler”, titolava il supplemento di Repubblica di venerdì 12 ottobre 2012, dando notizia della messa in scena di “La torre d’avorio” di Ronald Harwood (titolo originale “Taking sides”), regista e interprete Luca Zingaretti; nella parte di Wilhelm Furtwängler recita Massimo De Francovich e Zingaretti interpreta l’ufficiale americano che, al processo, impersona l’accusa. L’inizio dell’intervista (molto breve) è ottimo e decisamente condivisibile: «Ho scelto di fare uno spettacolo che parla della necessità di prendere posizione nella vita, perché non è vero che l’arte è al di sopra della politica.» Decisamente discutibile invece una frase nel finale: «Ho eliminato dal testo qualche parentesi di erudizione (...)»
Mi ha molto colpito la leggerezza con cui Zingaretti parla di “erudizione”, e spero che si tratti di una semplificazione ai fini dell’intervista. Quella che viene chiamata “erudizione” è forse la musica di Beethoven? Si ha paura che spiegare la bellezza delle sinfonie di Anton Bruckner faccia scappare il pubblico? Si vuol continuare a ignorare che Wagner visse nell’Ottocento, e che l’Anello del Nibelungo tratta di temi come il nostro rapporto con l’ambiente e della corruzione legata al possesso e al potere? Probabilmente sì, tutto quello che non è luogo comune e che richiede più di trenta secondi di attenzione è ormai classificato come “palloso”, e il termine “erudizione” qui sembra avere un significato soltanto negativo, scolastico, noioso. Ma così non è, basta solo avere un po’ di pazienza all’inizio, e magari una buona guida che conosce bene la musica, e che sa spiegare bene cosa succede.
Non ho letto il testo di Harwood, e lo spettacolo di Zingaretti andrà in scena solo da gennaio, quindi non sono in grado di dire se la mia impressione è quella giusta, ma temo proprio di sì.
Dato che Zingaretti vuole fare a meno “dell’erudizione”, forse riducendo il dramma a una competizione fra il buono e il cattivo, mi vedo costretto – io che musicista non sono, e che per tutta la mia vita ho fatto solo i turni in fabbrica, a spiegare qualcosa su Wilhelm Furtwängler.
Wilhelm Furtwängler (1886-1954) è figlio di un importante archeologo tedesco, collega di Schliemann. Inizia come compositore, e solo in seguito diventa direttore d’orchestra; i suoi studi come direttore sono quasi da autodidatta, e di conseguenza guardando i filmati di Wilhelm Furtwängler si rimane un po’ perplessi. Il suo gesto non è affatto chiaro, le sue indicazioni sono difficilmente percettibili anche agli orchestrali; nonostante tutto questo, Furtwängler diventa da subito un direttore grande e leggendario. Basterà pensare che la sua orchestra, i Berliner Philharmoniker, sono organizzati come una cooperativa: tutte le decisioni vengono prese dagli orchestrali, scelta del direttore compreso. E’ l’orchestra più importante e prestigiosa del mondo, ancora oggi; dopo Furtwängler, come direttori stabili furono scelti Herbert von Karajan e Claudio Abbado. Alcuni filmati di Furtwängler sono impressionanti: è come se fosse in trance, le braccia abbandonate lungo il corpo, sembra essere altrove. Eppure l’orchestra suonava magnificamente, faceva esattamente quello che lui cercava, e questa magia è rimasta anche nelle sue registrazioni, che sono davvero uniche: stavolta non è un termine da marketing o da deejay, “unico” significa davvero irripetibile, fuori dal comune. Altri direttori sono stati grandi o grandissimi con Beethoven e Wagner, ma le incisioni di Wilhelm Furtwängler sono qualcosa di assolutamente fuori dal comune.
Per questa ragione, e per molte altre, mi sono stupito quando sono venuto a sapere che Wilhelm Furtwängler era un atleta, un playboy, piaceva molto alle donne e faceva una vita tutt’altro che ascetica. Asceta lo era davvero, ma solo sul palcoscenico.
Che una persona così si sia fatta abbindolare dal regime nazista, rimane un mistero; ma tutto questo in fin dei conti fa parte della natura umana, anche noi oggi viviamo un periodo così, e molte persone (anche istruite) ripetono convintamente e continuamente quelle frasi assurde che invece sembrano così sensate: che sono tutti uguali, che uno vale l’altro, che i partiti, i sindacati, la casta, a me interessa solo il mio lavoro, l’importante è che mio figlio, mia figlia eccetera, eccetera. Prese una per una, sono affermazioni quasi sempre condivisibili: ma si finisce col perdere di vista l’insieme. Sono tempi pericolosi, bisogna stare attenti: altrimenti si rischia di fare la fine della Germania del tempo di Wilhelm Furtwängler. Nazisti e fascisti, del resto, sono già tornati a farsi vedere e sentire: non accadeva da settant’anni che ce ne fossero così tanti; nazismo e fascismo sono ideologie dedicate alla guerra, non dovremmo mai dimenticarlo.
nelle immagini, prese da vecchi giornali, da programmi di sala e dal booklet allegato all’edizione su 33 giri del “Fidelio” di Beethoven, alcune fotografie di Furtwaengler in diverse età della sua vita. L’autografo si riferisce alla prima esecuzione di un brano di Arnold Schoenberg, nell’altra immagine è con il grande violinista americano Yehudi Menuhin, nel 1947.
sabato 10 novembre 2012
Liebeslieder Walzer
Liebeslieder Walzer
Set by Johannes Brahms (1833-1897), op. 52 (1869)
Texts by Georg Friedrich Daumer (1800-1875)
3.
O die Frauen, o die Frauen,
wie sie Wonne tauen!
Wäre lang ein Mönch geworden,
wären nicht die Frauen!
(Oh, le donne, le donne, come ti sgelano con la loro dolcezza! Mi sarei fatto monaco da tanto tempo, se non fosse stato per le donne...)
E’ di Brahms la ninna nanna più famosa del mondo, quella che tutti abbiamo canticchiato almeno una volta, magari per scherzo: l’ultima volta che l’ho ascoltata, pochi giorni fa, era su un giocattolo per bambini, sopra una carrozzina. La ninna nanna di Brahms in versione elettronica, con un girotondo di api industriose a cullare una bambina appena nata: l’originale è per canto e pianoforte, e si chiama “Wiegenlied”, op.49 n.4.
Che un omone come Brahms, con quella gran barba e con quell’aspetto che incute soggezione, abbia potuto scrivere una ninna nanna così semplice, è cosa che può stupire – ma si stupisce solo chi non conosce Brahms. Che, prima di tutto, non è sempre stato un omone anziano con una gran barba: da ragazzo suonava dove gli capitava, per mantenersi agli studi (comprese le feste di matrimonio, e altri luoghi che vi lascio immaginare), e che da giovane era alto e slanciato, piaceva alle donne e le donne piacevano a lui; ma, siccome era una persona riservata, della sua vita amorosa sappiamo poco o niente. I biografi, della sua vita privata, hanno trovato solo le lettere a Clara Schumann: le lettere tra due musicisti, per l’appunto.Oltretutto, i due erano uniti nel ricordo di Robert Schumann, marito di Clara, che aveva aiutato moltissimo il ventenne Brahms all’inizio della sua carriera.
11.
Nein, es ist nicht auszukommen
mit den Leuten;
Alles wissen sie so giftig
auszudeuten.
Bin ich heiter, hegen soll ich
lose Triebe;
bin ich still, so heißts, ich wäre
irr aus Liebe.
(No, non si può andare avanti così, con la gente; tutto quello che fai lo interpretano sempre in maniera velenosa. Se sono contento, dicono che sono uno che non ha nulla a cui pensare; se mi vedono quieto, pensano che sono pazzo per amore...)
Brahms ha scritto cose molto piacevoli, simpatiche e romantiche (come la ninna nanna e questi Liebeslieder, op.52) ma anche musiche molto difficili, rigorose e severe, a volte veri trattati di filosofia. Le due anime, quella gentile e contemplativa e quella dello “scienziato della musica”, convivevano tranquillamente in lui, e sono spesso mischiate nelle stesse composizioni. Nei Liebeslieder, scritti per un organico di amici (pianoforte e quattro voci), la musica è molto divertente, i testi sono decisamente simpatici ed è un peccato per noi, in questo caso, non essere di madrelingua tedesca. Sono 18 canzoni che si ascoltano e si riascoltano sempre più divertendosi nell’ascolto, verrebbe voglia di mettersi lì a cantarle anche noi – ma io non so cantare, disdetta.
6.
Ein kleiner, hübscher Vogel nahm den Flug
zum Garten hin,
da gab es Obst genug.
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte nicht,
ich täte so wie der.
Leimruten-Arglist lauert an dem Ort;
der arme Vogel
konnte nicht mehr fort.
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte doch,
ich täte nicht wie der.
Der Vogel kam in eine schöne Hand,
da tat es ihm,
dem Glücklichen, nicht
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte nicht,
ich täte doch wie der.
(un uccellino, piccolo e gentile, vola nel giardino; lì c’era frutta da beccare. E se io fossi un piccolo e gentile uccellino, non mi preoccuperei e farei la stessa cosa. Ma nel giardino era nascosto il vischio; il povero uccellino non potè più scappare. E se io fossi stato un piccolo e gentile uccellino, ci sarei stato attento e avrei indugiato. L’uccellino finì nelle mani di una bella ragazza, che non gli fece alcun male, fu fortunato. E se io fossi stato un piccolo e gentile uccellino, non avrei esitato, avrei fatto proprio come lui...)
In conclusione, confesserò che, non solo per la musica ma anche per l'aspetto fisico, mi sono sempre sentito molto vicino a Johannes Brahms. Da lui mi dividono alcune cose, altre me lo fanno sentire vicino: penso che siano cose superabili, in fin dei conti cosa vuoi che sia, mi basta imparare a suonare il pianoforte, a comporre musica, cercare e studiare manoscritti antichi e musica popolare, bazzecole, cose da poco insomma. Da domani, comincio a farmi crescere la barba; il resto verrà da solo - almeno, spero.
(i testi che ho trascritto vengono da www.lieder.net , un sito molto bello che consiglio a tutti; le traduzioni sono mie, e dato che io non sono tedesco madrelingua e che non ho nessuno qui vicino che sia madrelingua tedesco, sarà meglio controllare e verificare)
Set by Johannes Brahms (1833-1897), op. 52 (1869)
Texts by Georg Friedrich Daumer (1800-1875)
3.
O die Frauen, o die Frauen,
wie sie Wonne tauen!
Wäre lang ein Mönch geworden,
wären nicht die Frauen!
(Oh, le donne, le donne, come ti sgelano con la loro dolcezza! Mi sarei fatto monaco da tanto tempo, se non fosse stato per le donne...)
E’ di Brahms la ninna nanna più famosa del mondo, quella che tutti abbiamo canticchiato almeno una volta, magari per scherzo: l’ultima volta che l’ho ascoltata, pochi giorni fa, era su un giocattolo per bambini, sopra una carrozzina. La ninna nanna di Brahms in versione elettronica, con un girotondo di api industriose a cullare una bambina appena nata: l’originale è per canto e pianoforte, e si chiama “Wiegenlied”, op.49 n.4.
Che un omone come Brahms, con quella gran barba e con quell’aspetto che incute soggezione, abbia potuto scrivere una ninna nanna così semplice, è cosa che può stupire – ma si stupisce solo chi non conosce Brahms. Che, prima di tutto, non è sempre stato un omone anziano con una gran barba: da ragazzo suonava dove gli capitava, per mantenersi agli studi (comprese le feste di matrimonio, e altri luoghi che vi lascio immaginare), e che da giovane era alto e slanciato, piaceva alle donne e le donne piacevano a lui; ma, siccome era una persona riservata, della sua vita amorosa sappiamo poco o niente. I biografi, della sua vita privata, hanno trovato solo le lettere a Clara Schumann: le lettere tra due musicisti, per l’appunto.Oltretutto, i due erano uniti nel ricordo di Robert Schumann, marito di Clara, che aveva aiutato moltissimo il ventenne Brahms all’inizio della sua carriera.
11.
Nein, es ist nicht auszukommen
mit den Leuten;
Alles wissen sie so giftig
auszudeuten.
Bin ich heiter, hegen soll ich
lose Triebe;
bin ich still, so heißts, ich wäre
irr aus Liebe.
(No, non si può andare avanti così, con la gente; tutto quello che fai lo interpretano sempre in maniera velenosa. Se sono contento, dicono che sono uno che non ha nulla a cui pensare; se mi vedono quieto, pensano che sono pazzo per amore...)
Brahms ha scritto cose molto piacevoli, simpatiche e romantiche (come la ninna nanna e questi Liebeslieder, op.52) ma anche musiche molto difficili, rigorose e severe, a volte veri trattati di filosofia. Le due anime, quella gentile e contemplativa e quella dello “scienziato della musica”, convivevano tranquillamente in lui, e sono spesso mischiate nelle stesse composizioni. Nei Liebeslieder, scritti per un organico di amici (pianoforte e quattro voci), la musica è molto divertente, i testi sono decisamente simpatici ed è un peccato per noi, in questo caso, non essere di madrelingua tedesca. Sono 18 canzoni che si ascoltano e si riascoltano sempre più divertendosi nell’ascolto, verrebbe voglia di mettersi lì a cantarle anche noi – ma io non so cantare, disdetta.
6.
Ein kleiner, hübscher Vogel nahm den Flug
zum Garten hin,
da gab es Obst genug.
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte nicht,
ich täte so wie der.
Leimruten-Arglist lauert an dem Ort;
der arme Vogel
konnte nicht mehr fort.
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte doch,
ich täte nicht wie der.
Der Vogel kam in eine schöne Hand,
da tat es ihm,
dem Glücklichen, nicht
Wenn ich ein hübscher, kleiner Vogel wär,
ich säumte nicht,
ich täte doch wie der.
(un uccellino, piccolo e gentile, vola nel giardino; lì c’era frutta da beccare. E se io fossi un piccolo e gentile uccellino, non mi preoccuperei e farei la stessa cosa. Ma nel giardino era nascosto il vischio; il povero uccellino non potè più scappare. E se io fossi stato un piccolo e gentile uccellino, ci sarei stato attento e avrei indugiato. L’uccellino finì nelle mani di una bella ragazza, che non gli fece alcun male, fu fortunato. E se io fossi stato un piccolo e gentile uccellino, non avrei esitato, avrei fatto proprio come lui...)
In conclusione, confesserò che, non solo per la musica ma anche per l'aspetto fisico, mi sono sempre sentito molto vicino a Johannes Brahms. Da lui mi dividono alcune cose, altre me lo fanno sentire vicino: penso che siano cose superabili, in fin dei conti cosa vuoi che sia, mi basta imparare a suonare il pianoforte, a comporre musica, cercare e studiare manoscritti antichi e musica popolare, bazzecole, cose da poco insomma. Da domani, comincio a farmi crescere la barba; il resto verrà da solo - almeno, spero.
(i testi che ho trascritto vengono da www.lieder.net , un sito molto bello che consiglio a tutti; le traduzioni sono mie, e dato che io non sono tedesco madrelingua e che non ho nessuno qui vicino che sia madrelingua tedesco, sarà meglio controllare e verificare)
martedì 6 novembre 2012
Tema con variazioni
In musica, le “Variazioni su un tema” sono forse le composizioni che preferisco in assoluto. Tutta la musica è in fondo un’unica Variazione; di variazioni e modulazioni, spesso improvvisate, è fatta la musica; ma quando si parla di “Variazioni su un tema” generalmente si intende qualcosa di più preciso. Molti grandi musicisti di tutti i tempi hanno scritto delle Variazioni; le più celebri, i due punti più alti, sono probabilmente la “Variazioni Goldberg” di Johann Sebastian Bach e le “Variazioni su un valzer di Diabelli” di Ludwig van Beethoven.
Come si fa una Variazione? Si prende una melodia, un tema musicale (uno qualsiasi) e lo si suona in modo più lento o più veloce: questa è già una variazione. Si può tenere una nota più lunga o più breve: è quello che capita quando si prova ad imparare un brano, se non si rispettano le lunghezze delle note la melodia cambia ma le note sono sempre quelle. Il risultato, è ovvio, dipende dall’abilità del musicista: si scartano le cose brutte e si prende nota delle variazioni piacevoli.
Fin qui siamo alle cose elementari, queste Variazioni le può fare chiunque, anche ad orecchio. Se il musicista si è studiato bene le scale musicali, può costruire delle Variazioni passando da una tonalità all’altra, per esempio dal maggiore al minore. Detta così sembra una cosa da poco, ma se si ascolta quello che ha ricavato Gustav Mahler cambiando di tonalità niente meno che “Fra Martino Campanaro” si rimane a bocca aperta: è nella sua Prima Sinfonia, il terzo movimento. Per la precisione, la melodia di “Fra’ Martino” viene da Mahler “esposta in modo minore e sviluppata in forma di canone”. Il risultato è tutto da ascoltare.
Altre variazioni vengono effettuate dai cantanti e dai solisti in genere (violinisti, pianisti, eccetera): in questi casi si tratta di abbellimenti, di ornamenti, di trilli, di acuti e sovracuti, sul genere di “questa melodia è molto bella ma non si vede abbastanza quanto sono bravo”. Anche qui, il risultato dipende molto dal gusto e dalla bravura dell’interprete...
Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, in ogni Sinfonia e Sonata ci sono delle variazioni; i jazzisti fanno normalmente delle Variazioni su temi musicali (come “My favorite things” di John Coltrane), i grandi chitarristi rock e blues sono capaci di far durare mezz’ora una canzone di tre minuti (si tratta sempre di variazioni su un tema dato), eccetera.
Continuando con gli esempi, sempre di clamorosa bellezza, al primo posto metterei il tema della “follia di Spagna”, un ritmo di danza che nasce nel ‘500 e che poi è stato musicato e variato continuamente fino ai nostri giorni: per gli appassionati di cinema, è il tema del duello finale e dei titoli di coda in “Barry Lyndon” di Kubrick. Prima della “follia” (che è una danza tutt’altro che scatenata) altri temi sono stati usati, come quello bello e drammatico del “Ballo di Mantova”.
La grande fama della “follia di Spagna” nasce con Arcangelo Corelli alla fine del ‘600: la composizione si chiama “Sonata in re minore op.5 n.12”, è per violino e basso continuo (cioè una piccola orchestra) e segnerà notevolmente la nascita della musica sinfonica dei secoli successivi. Questa sonata di Corelli verrà ripresa subito da Gemignani (identica ma con altro organico), poi da Vivaldi (Concerto in re minore per archi e basso continuo), dai francesi Lully e Marin Marais (per Marais due versioni diverse), da Haendel (è sua la Variazione nel Barry Lyndon), dal chitarrista Mauro Giuliani (e siamo già nell’Ottocento), da Rachmaninov (nel Novecento), e ancora ai nostri giorni. Per chi vuole provare e sa leggere la musica, metto qui sotto il tema della Follia di Spagna come è stampato sulla Garzantina della Musica.
La Follia di Spagna appare brevemente anche nelle “Variazioni Diabelli” di Beethoven, che hanno dietro una storia curiosa: il musicista viennese Anton Diabelli voleva iniziare una carriera da editore, e a questo scopo mandò a molti musicisti una sua pagina con un piccolo valzer da lui composto, chiedendo di scrivere delle Variazioni. I musicisti che risposero a Diabelli sono una quarantina, fra i quali Schubert e Liszt: che però scrissero una variazione (una). Da quella paginetta, Beethoven ha invece tratto una composizione enorme, quasi un’ora di musica, 34 variazioni spesso al limite dell’impossibile. Qualcosa di straordinario, musica meravigliosa ma anche una vera e propria impresa sia per l’esecutore che per l’ascoltatore.
Molto più rilassanti, e sempre molto belle, altre Variazioni scritte da Beethoven: a me piacciono molto le due composizioni tratte da temi mozartiani, dal “Flauto Magico”, per violoncello e pianoforte. I titoli sono un po’ complicati, si tratta di un’aria di Papageno (Ein Mädchen oder Weibchen) e del duetto fra Papageno e Pamina (“Bei Männern...”). Ancora Mozart variato da Beethoven, stavolta per violino e pianoforte, nelle “12 variazioni” tratte da un’aria delle Nozze di Figaro. Di Beethoven e delle sue Variazioni al pianoforte esiste un bel disco di Glenn Gould: le “Variazioni su un tema dall’Eroica” (cioè la Terza Sinfonia, sempre di Beethoven) e le “Variazioni su un tema originale”.
Mozart ha scritto molte Variazioni, segnalo quelle del primo movimento della Sonata per pianoforte K331 (quella che finisce con la famosa marcia turca): quando comincio ad ascoltare queste Variazioni vado avanti almeno per un mese, difficile staccarsi da una musica così bella.
Di Brahms, un altro capolavoro: le “Variazioni su un tema di Haendel”. Di Bach, le “Variazioni Goldberg” scritte per clavicembalo ma suonate normalmente anche sul pianoforte: Goldberg era il nome del musicista per le quali furono scritte.
Gli esempi sono moltissimi, la lista è inevitabilmente incompleta (mi è rimasto fuori Liszt, per esempio), ma io il post lo devo concludere e per il finale mi affido a un titolo che mi è sempre stato simpatico: Nino Rota, “Variazioni su un tema gioviale”. Non sapete chi è Nino Rota? Direi che è grave, converrà informarsi...
PS: una delle variazioni peggiori, davvero una mostruosità disturbante, da menti malate, è quella che infesta il canale Rai Auditorium (Filodiffusione). Ne è vittima l'Orfeo di Monteverdi: tu sei lì che ascolti tranquillo la tua radio, ed ecco irrompere questa schifezza fastidiosa, per di più perpetrata su un brano famoso e molto amato. Ma a chi vengono certe idee?
(nelle illustrazioni, oltre al tema dalla “Follia di Spagna” tratto dalla Garzantina della Musica, immagini dai film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick e “La strada” di Federico Fellini).
Come si fa una Variazione? Si prende una melodia, un tema musicale (uno qualsiasi) e lo si suona in modo più lento o più veloce: questa è già una variazione. Si può tenere una nota più lunga o più breve: è quello che capita quando si prova ad imparare un brano, se non si rispettano le lunghezze delle note la melodia cambia ma le note sono sempre quelle. Il risultato, è ovvio, dipende dall’abilità del musicista: si scartano le cose brutte e si prende nota delle variazioni piacevoli.
Fin qui siamo alle cose elementari, queste Variazioni le può fare chiunque, anche ad orecchio. Se il musicista si è studiato bene le scale musicali, può costruire delle Variazioni passando da una tonalità all’altra, per esempio dal maggiore al minore. Detta così sembra una cosa da poco, ma se si ascolta quello che ha ricavato Gustav Mahler cambiando di tonalità niente meno che “Fra Martino Campanaro” si rimane a bocca aperta: è nella sua Prima Sinfonia, il terzo movimento. Per la precisione, la melodia di “Fra’ Martino” viene da Mahler “esposta in modo minore e sviluppata in forma di canone”. Il risultato è tutto da ascoltare.
Altre variazioni vengono effettuate dai cantanti e dai solisti in genere (violinisti, pianisti, eccetera): in questi casi si tratta di abbellimenti, di ornamenti, di trilli, di acuti e sovracuti, sul genere di “questa melodia è molto bella ma non si vede abbastanza quanto sono bravo”. Anche qui, il risultato dipende molto dal gusto e dalla bravura dell’interprete...
Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, in ogni Sinfonia e Sonata ci sono delle variazioni; i jazzisti fanno normalmente delle Variazioni su temi musicali (come “My favorite things” di John Coltrane), i grandi chitarristi rock e blues sono capaci di far durare mezz’ora una canzone di tre minuti (si tratta sempre di variazioni su un tema dato), eccetera.
Continuando con gli esempi, sempre di clamorosa bellezza, al primo posto metterei il tema della “follia di Spagna”, un ritmo di danza che nasce nel ‘500 e che poi è stato musicato e variato continuamente fino ai nostri giorni: per gli appassionati di cinema, è il tema del duello finale e dei titoli di coda in “Barry Lyndon” di Kubrick. Prima della “follia” (che è una danza tutt’altro che scatenata) altri temi sono stati usati, come quello bello e drammatico del “Ballo di Mantova”.
La grande fama della “follia di Spagna” nasce con Arcangelo Corelli alla fine del ‘600: la composizione si chiama “Sonata in re minore op.5 n.12”, è per violino e basso continuo (cioè una piccola orchestra) e segnerà notevolmente la nascita della musica sinfonica dei secoli successivi. Questa sonata di Corelli verrà ripresa subito da Gemignani (identica ma con altro organico), poi da Vivaldi (Concerto in re minore per archi e basso continuo), dai francesi Lully e Marin Marais (per Marais due versioni diverse), da Haendel (è sua la Variazione nel Barry Lyndon), dal chitarrista Mauro Giuliani (e siamo già nell’Ottocento), da Rachmaninov (nel Novecento), e ancora ai nostri giorni. Per chi vuole provare e sa leggere la musica, metto qui sotto il tema della Follia di Spagna come è stampato sulla Garzantina della Musica.
La Follia di Spagna appare brevemente anche nelle “Variazioni Diabelli” di Beethoven, che hanno dietro una storia curiosa: il musicista viennese Anton Diabelli voleva iniziare una carriera da editore, e a questo scopo mandò a molti musicisti una sua pagina con un piccolo valzer da lui composto, chiedendo di scrivere delle Variazioni. I musicisti che risposero a Diabelli sono una quarantina, fra i quali Schubert e Liszt: che però scrissero una variazione (una). Da quella paginetta, Beethoven ha invece tratto una composizione enorme, quasi un’ora di musica, 34 variazioni spesso al limite dell’impossibile. Qualcosa di straordinario, musica meravigliosa ma anche una vera e propria impresa sia per l’esecutore che per l’ascoltatore.
Molto più rilassanti, e sempre molto belle, altre Variazioni scritte da Beethoven: a me piacciono molto le due composizioni tratte da temi mozartiani, dal “Flauto Magico”, per violoncello e pianoforte. I titoli sono un po’ complicati, si tratta di un’aria di Papageno (Ein Mädchen oder Weibchen) e del duetto fra Papageno e Pamina (“Bei Männern...”). Ancora Mozart variato da Beethoven, stavolta per violino e pianoforte, nelle “12 variazioni” tratte da un’aria delle Nozze di Figaro. Di Beethoven e delle sue Variazioni al pianoforte esiste un bel disco di Glenn Gould: le “Variazioni su un tema dall’Eroica” (cioè la Terza Sinfonia, sempre di Beethoven) e le “Variazioni su un tema originale”.
Mozart ha scritto molte Variazioni, segnalo quelle del primo movimento della Sonata per pianoforte K331 (quella che finisce con la famosa marcia turca): quando comincio ad ascoltare queste Variazioni vado avanti almeno per un mese, difficile staccarsi da una musica così bella.
Di Brahms, un altro capolavoro: le “Variazioni su un tema di Haendel”. Di Bach, le “Variazioni Goldberg” scritte per clavicembalo ma suonate normalmente anche sul pianoforte: Goldberg era il nome del musicista per le quali furono scritte.
Gli esempi sono moltissimi, la lista è inevitabilmente incompleta (mi è rimasto fuori Liszt, per esempio), ma io il post lo devo concludere e per il finale mi affido a un titolo che mi è sempre stato simpatico: Nino Rota, “Variazioni su un tema gioviale”. Non sapete chi è Nino Rota? Direi che è grave, converrà informarsi...
PS: una delle variazioni peggiori, davvero una mostruosità disturbante, da menti malate, è quella che infesta il canale Rai Auditorium (Filodiffusione). Ne è vittima l'Orfeo di Monteverdi: tu sei lì che ascolti tranquillo la tua radio, ed ecco irrompere questa schifezza fastidiosa, per di più perpetrata su un brano famoso e molto amato. Ma a chi vengono certe idee?
(nelle illustrazioni, oltre al tema dalla “Follia di Spagna” tratto dalla Garzantina della Musica, immagini dai film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick e “La strada” di Federico Fellini).
domenica 4 novembre 2012
La Lega Nord e il controllo del territorio
In questi giorni si è visto spesso in tv uno degli assessori più importanti della Regione Lombardia: il signor Belotti della Lega Nord. Non è un “presenzialista” della tv e quindi non me ne ricordavo l’aspetto fisico: si presenta ai dibattiti con faccia aperta, da persona onesta, e fieramente dichiara che quella cosa lì, quella che adesso è oggetto di indagine da parte della Magistratura, lui non l’ha firmata. La firma spettava a lui, ma lui si è rifiutato di firmarla: l’ha firmata Formigoni, e amen.
Adesso Belotti va in tv e mostra il volto fieramente avverso a quel provvedimento (la discarica di materiale pericoloso in località Cappella Cantone), ma prima che si muovesse la magistratura voi ne avete mai sentito parlare? Se ne parlava, ma in questi termini: gli abitanti del posto protestavano disperati, per il timore di inquinamento delle falde acquifere; e gli assessori dicevano “si va avanti lo stesso”. Poi è arrivata l’indagine della Magistratura, è arrivato l’arresto di un assessore regionale lombardo accusato di collusione con la ‘ndrangheta, si è dimostrato che avevano ragione gli abitanti di Cappella Cantone, e l’assessore Belotti dov’era? Ah già, lui non ha firmato.
Una storia fantastica. In anni migliori di questi, Dino Risi e Ugo Tognazzi ci avrebbero fatto un film; oggi nessuno va nemmeno a domandare a Belotti “ma scusi, se la cosa era grave e se lei non era d’accordo, non dico le dimissioni, ma almeno una conferenza stampa, un qualcosina per farcelo sapere anche a noi cosa c’era sotto?”.
Altri esempi di politica leghista: 1) i vertici leghisti lamentano la spesa per il mancato accorpamento delle elezioni nazionali e regionali, ma nello stesso tempo promuovono un referendum per portare Piacenza in Lombardia – ohibò che cosa importante! Sessanta milioni di euro, se non ricordo male 2) “La Lega è nata per combattere la ndrangheta” dice serissimo il segretario per la Lombardia, nonché deputato europeo, il signor Salvini: non ne dubito, peccato che il risultato ottenuto sia esattamente l’opposto: ormai si sa che la ‘ndrangheta comperava i voti per un assessore della giunta regionale di cui faceva parte la Lega. 3) la ‘ndrangheta in Consiglio Regionale, e in molti Comuni della Lombardia è arrivata anche per altre vie, e la Lega Nord era sempre in quelle giunte. In qualche Comune si è disgiunta dai ciellini e dei berlusconiani, in Regione no. 4) A livello nazionale, la Lega Nord ha approvato e votato il progetto per il ponte di Messina, e un’infinità di altre spese colossali. 5) Un altro scandalo di ieri: corruzione al Ministero degli Interni, sempre su appalti e forniture, quando il ministro era il leghista Maroni. C’è già stato anche un morto, ma da Maroni non ne abbiamo saputo niente, anche qui si è dovuta muovere la Magistratura. 6) Le indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia sono condotte dal magistrato Ilda Boccassini, più volte insultata e derisa da Silvio Berlusconi: la Lega Nord era lì accanto ma non ha mai speso una parola per difenderla.
In vent’anni di governo, “romano” e locale, la Lega ha approvato tutto, ma proprio tutto. Possono farlo perché tanto, si sa, i lumbard e i veneti votano tutto, sono ancora innamorati del Capo, e delle sue lauree finte comperate in Albania sono molto orgogliosi. E soprattutto sono tutti sempre pronti ad accettare le molte nuove tasse introdotte o ispirate dai Bossi e dai Maroni: in vent’anni di governo leghista-berlusconiano-ciellino-missino, a livello nazionale le tasse non sono scese di un centesimo, a livello locale i leghisti ne hanno invece introdotte migliaia. Non solo: ormai il primo introito, per molti Comuni, sono le multe. Senza multe non si va avanti: anche su questa cosa qui c’è il copyright leghista, è stato Tremonti con Maroni accanto a dire che i servizi vanno pagati da chi li usa (“io non ho figli, le scuole non le pago; io sto bene di salute, chiudete gli ospedali”: il principio è questo)
“La Lega ha il controllo del territorio” è un’altra frase che è stata ripetuta infinite volte, e adesso finalmente sappiamo cosa significa in realtà. Il controllo del territorio è la lottizzazione, ogni minima porzione del terreno padano, aiuole comprese, è stata misurata e parcellizzata, inventariata, pronta all’uso da parte degli speculatori: è questo il controllo del territorio da parte della Lega, cos’altro pensavate? La Lega è presente sul territorio, lo è stata e lo è ancora: il territorio lo hanno gestito ciellini e leghisti, e quando arrivano frane e alluvioni ce ne possiamo rendere conto, toccare con mano il lavoro fatto.
Purtroppo è andata così, e sottolineo il purtroppo: sono padano anch’io (da molte generazioni) e non discuto le intenzioni originarie del leghismo, ma tra le intenzioni e i risultati bisogna imparare a distinguere, e i risultati sono questi: per esempio le fabbriche in Lombardia non ci sono più, e la Lega non ne ha nemmeno parlato, forse Bossi, Maroni, Borghezio, Salvini, non se ne sono nemmeno accorti.
Agli elettori leghisti vorrei poter dire: “Avete votato per decenni tutte queste xxxxxxx, adesso tenetevele”: invece no, non posso dirlo. Per colpa vostra, ci sono finito dentro anch’io.
PS: Non vale dire “guardate anche gli altri”. Premesso che noi di sinistra siamo sempre abbastanza incazzati con i nostri vertici, e sottolineato il fatto che Penati non è arrivato nemmeno al ballottaggio (né in Regione né come sindaco di Milano), vorrei ricordare che quando si va a scuola se dite agli insegnanti che anche il bambino di fianco non ha studiato, vi bocciano lo stesso.
sabato 3 novembre 2012
Il sei politico
La storia del “sei politico”, a scuola e all’università, è di quelle che sono diventati dei veri tormentoni, dei luoghi comuni ripetuti spesso a vanvera. Dietro ai luoghi comuni più ripetuti c’è quasi sempre un fondamento di verità: e infatti il “sei politico” e gli esami gestiti dagli studenti ci sono stati davvero, per un breve periodo di tempo, solo in alcuni corsi di alcune facoltà, e proprio nell’anno 1968; ma poi bisogna raccontare la storia per intero, e se questo non viene fatto significa che c’è sotto qualcosa. Con i luoghi comuni, capita sempre così.
Ho visto di recente Mario Monti in tv, durante un discorso ufficiale, ricordare questa storia: che lo ha toccato in prima persona, come giovane professore universitario a Trento, facoltà di sociologia. E’ un ricordo personale, e io ascolto sempre con molto interesse i ricordi personali, soprattutto se sono molto precisi come in questo caso. Però poi Mario Monti, attuale Presidente del Consiglio e Senatore a vita, sembrava dare a quell’episodio un valore universale, dare un'enfasi come se fosse stata una persecuzione politica, e invece si è trattato solo di un episodio, limitato nel tempo e limitato ad alcuni corsi di alcune facoltà universitarie. Non è stato una cosa diffusa, e soprattutto non era affatto la posizione ufficiale della sinistra italiana. La posizione vera della Sinistra italiana è piuttosto quella di don Milani, che ricordava ai figli degli operai e dei contadini che loro dovevano studiare il doppio rispetto ai figli di papà.
Riporto anch’io un mio ricordo personale: ho vent’anni meno del senatore Monti, e quando avevo 14-15 anni, all’inizio degli anni ’70, quindi ancora molto vicini al 1968, del sei politico già si parlava al passato. Ovviamente io non facevo l’università, ma avevo professori giovani, c’erano amici e fratelli maggiori che andavano all’università, e del sei politico e degli esami autogestiti non se ne parlava proprio più. Ripeto: era il 1972, quattro anni dopo il ’68.
In seguito, ho letto e ascoltato interventi dei testimoni diretti di quel periodo. Tutti concordano su una cosa: che il sei politico e gli esami autogestiti furono limitati ad alcune scuole e ad alcune facoltà ben precise. Nel dettaglio: nessuna laurea a carattere scientifico o tecnico. Al sei politico fu interessata la facoltà di sociologia di Trento, dove insegnava Monti, e altri corsi universitari di Lettere, Filosofia. E non in tutte le Università. La cosa si spiega facilmente: dato che era impossibile tenere il segreto, nessuna impresa avrebbe mai e poi mai assunto un ingegnere o un medico che si fosse laureato in quel modo.
Quello che però mi dispiace, e non posso fare a meno di parlarne (almeno qui) è che le persone come il senatore Monti, forse per solidarietà accademica, non accennano mai al vero e grande scandalo: i titoli di studio venduti e comperati. Questo è uno scandalo grave e ricorrente, ed è uno scandalo che viene sempre prontamente insabbiato. Di lauree truccate e di diplomi comperati si sono molto occupate le cronache, ma sempre per pochissimi giorni: e il fenomeno ha toccato Università autorevoli e importanti. Che dire, che fare? Va bene raccontare ancora oggi gli aneddoti e le barzellette sul ’68, ma dal ’68 sono passati più di quarant’anni. Vediamo cosa succede oggi: le lauree comperate del figlio di Bossi e dei dirigenti della Lega, per esempio, sono storia recentissima. Mi sbaglio, o il senatore Monti ha appoggiato l’ascesa al potere di queste persone, fin dal 1994, a fianco di Berlusconi?
E ancora: con il mio diploma di perito chimico, con l’esame di maturità “semplificato” figlio del ’68, io ho trovato lavoro; e il lavoro lo hanno trovato quasi tutti, e l’Università era accessibile a tutti. Oggi, con gli esami di maturità “severissimi”, succede invece questo: che col diploma non trovi lavoro, e con quel diploma non puoi nemmeno accedere all’Università, per andare all’Università devi fare un test d’accesso. Dato che si tratta di un test generico e non specialistico, viene da chiedersi a cosa mai serva un esame di maturità così complesso.
Ma di tutto questo, evidentemente, non fa piacere parlare. Capisco, comprendo benissimo: è con i luoghi comuni che si prendono gli applausi e si fa audience, non certo con i distinguo e con le ricerche documentate. Che noia, che desolazione, andare a chiedere e prendere appunti, star lì a distinguere... Meglio una barzelletta, un aneddoto divertente che riscaldi l’audience: non è questo che insegnano, nelle scuole di comunicazione?
Ho visto di recente Mario Monti in tv, durante un discorso ufficiale, ricordare questa storia: che lo ha toccato in prima persona, come giovane professore universitario a Trento, facoltà di sociologia. E’ un ricordo personale, e io ascolto sempre con molto interesse i ricordi personali, soprattutto se sono molto precisi come in questo caso. Però poi Mario Monti, attuale Presidente del Consiglio e Senatore a vita, sembrava dare a quell’episodio un valore universale, dare un'enfasi come se fosse stata una persecuzione politica, e invece si è trattato solo di un episodio, limitato nel tempo e limitato ad alcuni corsi di alcune facoltà universitarie. Non è stato una cosa diffusa, e soprattutto non era affatto la posizione ufficiale della sinistra italiana. La posizione vera della Sinistra italiana è piuttosto quella di don Milani, che ricordava ai figli degli operai e dei contadini che loro dovevano studiare il doppio rispetto ai figli di papà.
Riporto anch’io un mio ricordo personale: ho vent’anni meno del senatore Monti, e quando avevo 14-15 anni, all’inizio degli anni ’70, quindi ancora molto vicini al 1968, del sei politico già si parlava al passato. Ovviamente io non facevo l’università, ma avevo professori giovani, c’erano amici e fratelli maggiori che andavano all’università, e del sei politico e degli esami autogestiti non se ne parlava proprio più. Ripeto: era il 1972, quattro anni dopo il ’68.
In seguito, ho letto e ascoltato interventi dei testimoni diretti di quel periodo. Tutti concordano su una cosa: che il sei politico e gli esami autogestiti furono limitati ad alcune scuole e ad alcune facoltà ben precise. Nel dettaglio: nessuna laurea a carattere scientifico o tecnico. Al sei politico fu interessata la facoltà di sociologia di Trento, dove insegnava Monti, e altri corsi universitari di Lettere, Filosofia. E non in tutte le Università. La cosa si spiega facilmente: dato che era impossibile tenere il segreto, nessuna impresa avrebbe mai e poi mai assunto un ingegnere o un medico che si fosse laureato in quel modo.
Quello che però mi dispiace, e non posso fare a meno di parlarne (almeno qui) è che le persone come il senatore Monti, forse per solidarietà accademica, non accennano mai al vero e grande scandalo: i titoli di studio venduti e comperati. Questo è uno scandalo grave e ricorrente, ed è uno scandalo che viene sempre prontamente insabbiato. Di lauree truccate e di diplomi comperati si sono molto occupate le cronache, ma sempre per pochissimi giorni: e il fenomeno ha toccato Università autorevoli e importanti. Che dire, che fare? Va bene raccontare ancora oggi gli aneddoti e le barzellette sul ’68, ma dal ’68 sono passati più di quarant’anni. Vediamo cosa succede oggi: le lauree comperate del figlio di Bossi e dei dirigenti della Lega, per esempio, sono storia recentissima. Mi sbaglio, o il senatore Monti ha appoggiato l’ascesa al potere di queste persone, fin dal 1994, a fianco di Berlusconi?
E ancora: con il mio diploma di perito chimico, con l’esame di maturità “semplificato” figlio del ’68, io ho trovato lavoro; e il lavoro lo hanno trovato quasi tutti, e l’Università era accessibile a tutti. Oggi, con gli esami di maturità “severissimi”, succede invece questo: che col diploma non trovi lavoro, e con quel diploma non puoi nemmeno accedere all’Università, per andare all’Università devi fare un test d’accesso. Dato che si tratta di un test generico e non specialistico, viene da chiedersi a cosa mai serva un esame di maturità così complesso.
Ma di tutto questo, evidentemente, non fa piacere parlare. Capisco, comprendo benissimo: è con i luoghi comuni che si prendono gli applausi e si fa audience, non certo con i distinguo e con le ricerche documentate. Che noia, che desolazione, andare a chiedere e prendere appunti, star lì a distinguere... Meglio una barzelletta, un aneddoto divertente che riscaldi l’audience: non è questo che insegnano, nelle scuole di comunicazione?
venerdì 2 novembre 2012
Non sa, non risponde
I sondaggi imperversano, siamo in tempo di elezioni e da qui ad aprile ne ascolteremo a centinaia. Non sono una cosa nuova e quindi mi ha sorpreso molto vedere in questi giorni alcuni commentatori, fra i quali perfino Corrado Augias, che fanno battute o si scandalizzano davanti alla voce “non sa non risponde”. Ormai si dovrebbe sapere come funzionano i sondaggi, comunque sia a questo punto mi sembra giusto spiegarlo ancora una volta.
Io sono uno di quelli che non rispondono ai sondaggi. Dato che non rispondo, o che metto giù subito il telefono, i sondaggisti mi mettono in quella casellina lì: lo fanno perché si vergognano ad ammettere che a molte persone i sondaggi danno fastidio. Secondo me si dovrebbe aggiungere una voce a parte, del tipo “persone non interessate a rispondere al sondaggio”; ma comprendo benissimo che nel momento in cui si dovesse ammettere che molti sono quelli che si infastidiscono e non rispondono, verrebbe giù tutta l’impalcatura e poi anche in sondaggisti dovrebbero andare a lavorare come tutti noi che non facciamo i sondaggi.
Penso che molti di noi si ricordino ancora le molte previsioni sbagliate; si raccontava che all’uscita dai seggi c’era gente che mentiva con gran divertimento dicendo “ho votato A” e invece avevano votato B, e forse così facendo si fa peccato e poi bisogna pentirsi, ma è così bello mentire ai sondaggisti...
Nel dettaglio, siamo già a novembre e a tutt’oggi non si sa ancora quali sono di preciso gli schieramenti, non si conoscono ancora i nomi dei candidati premier, come si fa a dire “voto questo voto quello”? Magari a febbraio potrei anche rispondere, ma io non rispondo mai ai sondaggi e nemmeno questa volta farò eccezione. Penso proprio di non essere l’unico...
PS: se sto cucinando il risotto e mi telefonano per queste cose, ovvio che non rispondo; idem se mi sto facendo la barba e ho la faccia piena di schiuma (eccetera). Il che non significa che non so, significa solo che non rispondo: che cosa dovrei fare, perdere tempo in amabili conversari, mostrare la mia competenza, e nel frattempo far bruciare il risotto, far seccare il sapone sulla faccia, eccetera eccetera?
PPS: la legge berlusconiana sul Registro delle Opposizioni è una vera schifezza, per toglierla di mezzo bastano cinque minuti.
(la vignetta viene dalla Settimana Enigmistica, in edicola ogni giovedì)
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