“Ci sarà la ripresa”, dicono economisti e politici; “Siamo ottimisti, presto la crisi finirà, ci sono segnali importanti.”
Bene, questa è una buona notizia – se è vera. Però bisognerebbe completare l’informazione: la ripresa ci sarà per tutti? Staremo tutti meglio, o solo qualcuno di noi ne godrà i frutti?
Per come stanno andando le cose, è facile pensare che della ripresa – se ci sarà – godranno in pochi; gli altri continueranno ad arrancare e ad arrangiarsi.
Quest’estate si parlava di “gabbie salariali”: poi si è smesso, chissà perché. Ho trovato amici operai e impiegati che erano favorevoli: mi è toccato spiegare loro una cosa fondamentale, e perfino banale: che alle “gabbie salariali” si è favorevoli perché ci è stato fatto credere: 1) che a noi ci pagheranno di più. 2) che al Sud continueranno a prendere quello che prendono oggi.
Pie illusioni: qui al Nord non prenderemo un centesimo in più, e al Sud si vedranno dimezzare quel poco che prendono oggi. Così va il mondo.
La stessa cosa potrebbe capitare (uso il condizionale ma mi viene da ridere...) con la famosa Ripresa e con la famosa Fine Della Crisi: nel caso dovesse succedere, come tutti speriamo, allo stato attuale delle cose significa che chi di dovere si comprerà la Ferrari o la barca, o magari l’elicottero per evitare le code sull’autostrada; e operai e impiegati andranno avanti come adesso o magari anche peggio.
Tutto questo a meno che non ci si svegli e ci si dia una mossa, come fecero quarant’anni fa i nostri padri, nonni e fratelli maggiori: quando lottarono duramente per arrivare allo Statuto dei Lavoratori, che arrivò proprio dopo l’Autunno Caldo rimasto famoso, quello del 1969.
Ma qui ormai è passato anche l’autunno, chissà quando ci risveglieremo...
sabato 31 ottobre 2009
giovedì 29 ottobre 2009
Metano
Ogni tanto gli astronomi ci sorprendono dando l’annuncio che su Marte, o su qualche pianeta lontano fuori del Sistema Solare, è stato trovato del metano. I telegiornali e i giornali di carta ne danno la notizia, che serve più che altro a suscitare l’ilarità dei disk-jockey delle radio private: ne ho ascoltato uno poco tempo fa che sghignazzava pensando a metanodotti da qui al sesto pianeta a sinistra di Alpha Centauri (“chissà se verrà a costare di meno in bolletta...”). Ma io, rispetto ai disk-jockey e ai giornalisti, ho un vantaggio incredibile, un vero asso nella manica: il mio diploma di perito chimico.
Infatti, ed è una cosa talmente nota che mi vergogno a scriverla, il metano è la molecola più semplice della chimica organica; e chimica organica significa vita. Se si trova il metano, è probabile che su quel lontano pianeta di Alpha Centauri, o su Betelgeuse, o su Marte, ci sia vita, o che ci sia stata, o che possa nascerne: è questa la notizia, ed è così che dovrebbe essere data.
Il problema dell’informazione scientifica è grosso e importante: forse non è il più grosso e il più importante, ma capita quasi sempre che la notizia in sè, in partenza, presa da fonti autorevoli, sia serissima e valga la pena di fare uno sforzo per capirla; ma poi finisce nelle mani di gente (ahinoi, giornalisti professionisti e non solo disk-jockey...) che non ne capisce niente e che invece di ragionarci sopra, di tacere, o di chiedere aiuto, si aggrappa alla prima parola che riconosce – in questo caso il metano, il gas per la cucina e il riscaldamento, la bolletta del gas, l’acqua per gli spaghetti – e ci costruisce sopra una sua personale variazione più o meno divertente e simpatica, ma quasi sempre molto rozza e assai banale. Esiste infatti qualche altra cosa al mondo, al di fuori delle nostre quattro mura domestiche? Si direbbe di no.
L’idea che basti avere un diploma di perito chimico per saperne più della maggioranza dei giornalisti professionisti, e si direbbe anche dei deputati senatori assessori vescovi e cardinali, è di quelle che mettono sgomento. Perciò smetto di scrivere, che mi viene l’angoscia; e me ne esco a rimirar le stelle.
Infatti, ed è una cosa talmente nota che mi vergogno a scriverla, il metano è la molecola più semplice della chimica organica; e chimica organica significa vita. Se si trova il metano, è probabile che su quel lontano pianeta di Alpha Centauri, o su Betelgeuse, o su Marte, ci sia vita, o che ci sia stata, o che possa nascerne: è questa la notizia, ed è così che dovrebbe essere data.
Il problema dell’informazione scientifica è grosso e importante: forse non è il più grosso e il più importante, ma capita quasi sempre che la notizia in sè, in partenza, presa da fonti autorevoli, sia serissima e valga la pena di fare uno sforzo per capirla; ma poi finisce nelle mani di gente (ahinoi, giornalisti professionisti e non solo disk-jockey...) che non ne capisce niente e che invece di ragionarci sopra, di tacere, o di chiedere aiuto, si aggrappa alla prima parola che riconosce – in questo caso il metano, il gas per la cucina e il riscaldamento, la bolletta del gas, l’acqua per gli spaghetti – e ci costruisce sopra una sua personale variazione più o meno divertente e simpatica, ma quasi sempre molto rozza e assai banale. Esiste infatti qualche altra cosa al mondo, al di fuori delle nostre quattro mura domestiche? Si direbbe di no.
L’idea che basti avere un diploma di perito chimico per saperne più della maggioranza dei giornalisti professionisti, e si direbbe anche dei deputati senatori assessori vescovi e cardinali, è di quelle che mettono sgomento. Perciò smetto di scrivere, che mi viene l’angoscia; e me ne esco a rimirar le stelle.
domenica 25 ottobre 2009
The antique people ( I )
The antique people are down in the dungeons
Run by machines and afraid of the tax
Their heads in the grave and their hands on their eyes
Hauling their hearts around circular tracks
Pretending forever their masquerade towers
Are not really riddled with widening cracks
And I wave goodbye to iron
And smile hello to the air ...
Questi versi sono stati scritti e messi in musica da due ragazzi giovanissimi, entrambi sotto i vent’anni. Due ragazzi californiani, di Venice Beach, poco prima del 1968. Le parole, scritte da Larry Beckett, hanno una forza visionaria (e politica) non comune; e la musica di Tim Buckley, la sua interpretazione, sono di una complessità e di una chiarezza non comuni per un musicista diciottenne. Io ascolto da una vita “Goodbye and Hello” (titolo che indica un saluto a qualcosa che si allontana, e un invito a qualcosa che deve avvicinarsi), ma non credo che ne esista una versione italiana, o quantomeno io non l’ho mai letta. Ne tento qui una traduzione, avvertendo però che il mio inglese non è dei migliori, e che gli errori sono più che possibili, che la mia traduzione sarà molto libera, e che se qualcuno di madrelingua passa di qua mi dà una mano è il benvenuto.
«La gente antica»: non credo che vada letto nel senso di “i vecchi”. Ci sono dei vecchi giovanissimi, e dei giovani che sono “antichi”, obsoleti, già a sedici anni. Penso che Larry Beckett e Tim Buckley ne fossero ben coscienti: andavano a sentire i vecchi leoni del blues, alcuni dei quali ottantenni, e si guardavano intorno in cerca del nuovo, che stava arrivando. Il nuovo è arrivato, si è fermato per un po’, le nuove generazioni – antiche, antichissime – lo hanno rimesso nel cassetto. Ma forse, oggi come in quel 1966, i tempi stanno cambiando.
Run by machines and afraid of the tax
Their heads in the grave and their hands on their eyes
Hauling their hearts around circular tracks
Pretending forever their masquerade towers
Are not really riddled with widening cracks
And I wave goodbye to iron
And smile hello to the air ...
Questi versi sono stati scritti e messi in musica da due ragazzi giovanissimi, entrambi sotto i vent’anni. Due ragazzi californiani, di Venice Beach, poco prima del 1968. Le parole, scritte da Larry Beckett, hanno una forza visionaria (e politica) non comune; e la musica di Tim Buckley, la sua interpretazione, sono di una complessità e di una chiarezza non comuni per un musicista diciottenne. Io ascolto da una vita “Goodbye and Hello” (titolo che indica un saluto a qualcosa che si allontana, e un invito a qualcosa che deve avvicinarsi), ma non credo che ne esista una versione italiana, o quantomeno io non l’ho mai letta. Ne tento qui una traduzione, avvertendo però che il mio inglese non è dei migliori, e che gli errori sono più che possibili, che la mia traduzione sarà molto libera, e che se qualcuno di madrelingua passa di qua mi dà una mano è il benvenuto.
«La gente antica»: non credo che vada letto nel senso di “i vecchi”. Ci sono dei vecchi giovanissimi, e dei giovani che sono “antichi”, obsoleti, già a sedici anni. Penso che Larry Beckett e Tim Buckley ne fossero ben coscienti: andavano a sentire i vecchi leoni del blues, alcuni dei quali ottantenni, e si guardavano intorno in cerca del nuovo, che stava arrivando. Il nuovo è arrivato, si è fermato per un po’, le nuove generazioni – antiche, antichissime – lo hanno rimesso nel cassetto. Ma forse, oggi come in quel 1966, i tempi stanno cambiando.
«La gente antica è giù nei sotterranei, incalzata dalle macchine e paurosa delle tasse»: nel mio dizionario “to run by” è tradotto con “passare correndo”, ma qui mi sembra che l’immagine sia quella delle macchine che guidano l’uomo, e non viceversa. Le macchine fanno correre gli umani: sempre più veloci, come è spiegato nella seconda strofa (“the velocity addicts explode on the highway, ignoring the journey and moving so fast”).
Ma soprattutto vorrei sottolineare quello che segue, “afraid of the tax”. E’ una frase che mi torna in mente sempre più spesso: la gente antica, che vive nei sotterranei (con la testa sottoterra, come gli struzzi), che ignora il piacere del viaggio e va sempre di corsa, e che “ha paura delle tasse”.
Pagare le tasse (e qui siamo in America, USA: la patria del liberismo) è una paura che è arrivata anche qui da noi. Siccome le tasse servono per aiutare il nostro prossimo, la comunità (caso mai si può discutere sulle modalità con cui si pagano le tasse, non sulle tasse in sè), “aver paura delle tasse” significa grettezza, tirchieria, avidità.
Penso che questa mia interpretazione sia quella giusta, ed è confermata dai versi che seguono, e che non necessitano di molte spiegazioni: « ...con le teste dentro le tombe, e le mani a coprire gli occhi / trainando i loro cuori su binari circolari / con la pretesa che gli indovinelli dentro le loro torri mascherate / non vengano mai risolti e non provochino larghe crepe...» La mia traduzione è molto libera, soprattutto negli ultimi due versi: quelle “masquerade towers” e quel verso, “to riddle”, “parlare per enigmi, per indovinelli”, mi rimandano direttamente al mito di Edipo, alla Sfinge, al non voler sapere, al non voler chiedere e non voler guardare dentro di sè, al voler vivere con gli occhi chiusi e le orecchie tappate: preludio di un’immane catastrofe. Non so di preciso cosa ci sia dietro a quest’immagine, ed oggi è facile pensare ad altre Torri, ma “masquerade towers” mi evoca anche l’immagine dell’assedio alle mura, oppure quella dei carri di Carnevale (il Carnevale è evocato in un’altra canzone dell’album, “Carnival song”).
Gli ultimi due versi sono quelli che danno il ritmo, e il titolo, della canzone: un vero e proprio poema, almeno nelle dimensioni, un saluto a qualcosa che se ne va, un benvenuto a qualcosa che viene. In questa prima strofa, si prende congedo dal Ferro, e si saluta cordialmente l’Aria: da qualcosa di pesante a qualcosa di impalpabile, da qualcosa che è certamente utile a qualcosa che ci è indispensabile per respirare.
Ma qui mi fermo, l’impresa è titanica e ne rimando la conclusione a un altro post. Per oggi metto le due strofe seguenti, senza tradurle; e torno ad ascoltare la voce chiara e forte del diciottenne Tim Buckley.
O the new children dance ------ I am young
All around the balloons ------ I will live
Swaying by chance ------ I am strong
To the breeze from the moon ------ I can give
Painting the sky ------ You the strange
With the colors of sun ------ Seed of day
Freely they fly ------ Feel the change
As all become one ------ Know the Way
The velocity addicts explode on the highways
Ignoring the journey and moving so fast
Their nerves fall apart and they gasp but can't breathe
They run from the cops of the skeleton past
Petrified by tradition in a nightmare they stagger
Into nowhere at all and they look up aghast
And I wave goodbye to speed
And smile hello to a rose (...)
Ma soprattutto vorrei sottolineare quello che segue, “afraid of the tax”. E’ una frase che mi torna in mente sempre più spesso: la gente antica, che vive nei sotterranei (con la testa sottoterra, come gli struzzi), che ignora il piacere del viaggio e va sempre di corsa, e che “ha paura delle tasse”.
Pagare le tasse (e qui siamo in America, USA: la patria del liberismo) è una paura che è arrivata anche qui da noi. Siccome le tasse servono per aiutare il nostro prossimo, la comunità (caso mai si può discutere sulle modalità con cui si pagano le tasse, non sulle tasse in sè), “aver paura delle tasse” significa grettezza, tirchieria, avidità.
Penso che questa mia interpretazione sia quella giusta, ed è confermata dai versi che seguono, e che non necessitano di molte spiegazioni: « ...con le teste dentro le tombe, e le mani a coprire gli occhi / trainando i loro cuori su binari circolari / con la pretesa che gli indovinelli dentro le loro torri mascherate / non vengano mai risolti e non provochino larghe crepe...» La mia traduzione è molto libera, soprattutto negli ultimi due versi: quelle “masquerade towers” e quel verso, “to riddle”, “parlare per enigmi, per indovinelli”, mi rimandano direttamente al mito di Edipo, alla Sfinge, al non voler sapere, al non voler chiedere e non voler guardare dentro di sè, al voler vivere con gli occhi chiusi e le orecchie tappate: preludio di un’immane catastrofe. Non so di preciso cosa ci sia dietro a quest’immagine, ed oggi è facile pensare ad altre Torri, ma “masquerade towers” mi evoca anche l’immagine dell’assedio alle mura, oppure quella dei carri di Carnevale (il Carnevale è evocato in un’altra canzone dell’album, “Carnival song”).
Gli ultimi due versi sono quelli che danno il ritmo, e il titolo, della canzone: un vero e proprio poema, almeno nelle dimensioni, un saluto a qualcosa che se ne va, un benvenuto a qualcosa che viene. In questa prima strofa, si prende congedo dal Ferro, e si saluta cordialmente l’Aria: da qualcosa di pesante a qualcosa di impalpabile, da qualcosa che è certamente utile a qualcosa che ci è indispensabile per respirare.
Ma qui mi fermo, l’impresa è titanica e ne rimando la conclusione a un altro post. Per oggi metto le due strofe seguenti, senza tradurle; e torno ad ascoltare la voce chiara e forte del diciottenne Tim Buckley.
O the new children dance ------ I am young
All around the balloons ------ I will live
Swaying by chance ------ I am strong
To the breeze from the moon ------ I can give
Painting the sky ------ You the strange
With the colors of sun ------ Seed of day
Freely they fly ------ Feel the change
As all become one ------ Know the Way
The velocity addicts explode on the highways
Ignoring the journey and moving so fast
Their nerves fall apart and they gasp but can't breathe
They run from the cops of the skeleton past
Petrified by tradition in a nightmare they stagger
Into nowhere at all and they look up aghast
And I wave goodbye to speed
And smile hello to a rose (...)
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Politica,
Tim Buckley
venerdì 23 ottobre 2009
Civiltà degli Sconti
Fateci caso: ogni volta che c’è un problema, il governo tira fuori uno sconto o una carta magnetica. O una card col chip, che fa più fine.
L’ultima è di ieri, abolire l’Irap per aiutare le imprese.
Magari fosse vero, magari fosse possibile. Qui da almeno dieci anni le industrie chiudono, o traslocano all’estero – Romania Cina Cecoslovacchia Marocco Messico, ovunque ma non l’Italia. Se una Ditta chiude perché non ha lavoro, o se una multinazionale prende su e si trasferisce in Messico, cosa vuoi che se ne facciano di uno sconto sull’Irap?
Questa degli sconti, del pagare meno tasse, delle social card e delle fidelity card, delle carte sconto per la benzina, dei ticket, è lo scotto che dobbiamo pagare ad una generazione di manager cresciuti tra uffici vendite e pubblicità: la civiltà dello sconto. E’ l’unica cosa che sanno proporre, lo Sconto. Al di là dello Sconto, c’è lo Slogan: poi il Nulla.
Un negozio che vuole vendere fa gli sconti, o i saldi; i supermercati e gli ipermercati si inventano le fidelity card, ti dò lo sconto così vieni sempre da me che sono tanto buono e non vai dal concorrente cattivo. E tanta pubblicità, in tv sui giornali e nella cassetta della posta con il volantinaggio affidato agli extracomunitari (che li paghi una miseria e son contenti lo stesso, mica come gli italiani che non han più voglia di lavorare).
Funziona questa politica con l’industria metalmeccanica, chimica, tessile? Davvero la ripresa del “sistema Italia” passa per le tesserine magnetiche e gli sconti sulle tasse?
L’ultima volta che ho fatto questo ragionamento mi hanno spiegato – come si fa con i bambini, perché io non sono nemmeno laureato e non ho fatto il liceo classico – che l’industria manifatturiera non tira più, che è normale e naturale che i Paesi Sviluppati cedano queste attività ai Paesi Meno Sviluppati. E probabilmente è giusto che sia così, visto che è una cosa che insegnano alle Facoltà di Economia; però questo fatto si traduce, nel pratico, con migliaia di posti di lavoro in meno, con tanta gente che non prende più lo stipendio a fine mese.
Non che sia facile, questi sono problemi epocali che non si risolvono a colpi di battute; men che meno si risolvono con gli sconti e le card col microchip o la banda magnetica. Penso che molte persone, e molte ditte, sarebbero ben contente di pagare le tasse, se il lavoro ci fosse. Penso anche che molte famiglie sono già alla disperazione, e non vedono un futuro. Prima o poi ne pagheremo le conseguenze, non ci resta che sperare che abbiano ragione i pubblicitari e quelli del marketing. E dunque, su, ottimismo: rimboccatevi le mani e andate a lavorare, non state lì con le mani in mano. E fate un bel sorriso, che aiuta sempre.
L’ultima è di ieri, abolire l’Irap per aiutare le imprese.
Magari fosse vero, magari fosse possibile. Qui da almeno dieci anni le industrie chiudono, o traslocano all’estero – Romania Cina Cecoslovacchia Marocco Messico, ovunque ma non l’Italia. Se una Ditta chiude perché non ha lavoro, o se una multinazionale prende su e si trasferisce in Messico, cosa vuoi che se ne facciano di uno sconto sull’Irap?
Questa degli sconti, del pagare meno tasse, delle social card e delle fidelity card, delle carte sconto per la benzina, dei ticket, è lo scotto che dobbiamo pagare ad una generazione di manager cresciuti tra uffici vendite e pubblicità: la civiltà dello sconto. E’ l’unica cosa che sanno proporre, lo Sconto. Al di là dello Sconto, c’è lo Slogan: poi il Nulla.
Un negozio che vuole vendere fa gli sconti, o i saldi; i supermercati e gli ipermercati si inventano le fidelity card, ti dò lo sconto così vieni sempre da me che sono tanto buono e non vai dal concorrente cattivo. E tanta pubblicità, in tv sui giornali e nella cassetta della posta con il volantinaggio affidato agli extracomunitari (che li paghi una miseria e son contenti lo stesso, mica come gli italiani che non han più voglia di lavorare).
Funziona questa politica con l’industria metalmeccanica, chimica, tessile? Davvero la ripresa del “sistema Italia” passa per le tesserine magnetiche e gli sconti sulle tasse?
L’ultima volta che ho fatto questo ragionamento mi hanno spiegato – come si fa con i bambini, perché io non sono nemmeno laureato e non ho fatto il liceo classico – che l’industria manifatturiera non tira più, che è normale e naturale che i Paesi Sviluppati cedano queste attività ai Paesi Meno Sviluppati. E probabilmente è giusto che sia così, visto che è una cosa che insegnano alle Facoltà di Economia; però questo fatto si traduce, nel pratico, con migliaia di posti di lavoro in meno, con tanta gente che non prende più lo stipendio a fine mese.
Non che sia facile, questi sono problemi epocali che non si risolvono a colpi di battute; men che meno si risolvono con gli sconti e le card col microchip o la banda magnetica. Penso che molte persone, e molte ditte, sarebbero ben contente di pagare le tasse, se il lavoro ci fosse. Penso anche che molte famiglie sono già alla disperazione, e non vedono un futuro. Prima o poi ne pagheremo le conseguenze, non ci resta che sperare che abbiano ragione i pubblicitari e quelli del marketing. E dunque, su, ottimismo: rimboccatevi le mani e andate a lavorare, non state lì con le mani in mano. E fate un bel sorriso, che aiuta sempre.
sabato 17 ottobre 2009
Il Nobel alla Padania
La luna l'è ona lampadina
tacàda in sul plafùn
e i stell pàren limon
traa giò in de l'acqua...
La luna è una lampadina
attaccata sul soffitto,
e le stelle sembrano limoni
gettati nell'acqua...
Il dialetto milanese ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura, una decina d’anni fa: sembra incredibile ma è vero, verissimo. Gli Svedesi (il Premio Nobel lo danno a Stoccolma) conoscono, leggono, traducono e apprezzano il dialetto milanese, e sanno perfino che esiste la pianura padana con i suoi infiniti dialetti, ognuno diverso da un paese all’altro ma tra loro uniti da qualche cosa che fa sì che la gente si capisca lo stesso: è quello che ci sta raccontando l’ultimo Nobel italiano dopo Pirandello, Ungaretti, Montale: Dario Fo.
La “lingua padana” è al centro del lavoro più famoso di Dario Fo, “Mistero buffo”; e “Johann Padan a la descoverta delle Americhe” è uno dei suoi più recenti lavori per il teatro, tradotto anche in un film a cartoni animati. Ma provate a fare il nome di Dario Fo ai rappresentanti della Lega Nord (Nord Italia, s’intende), e vedrete quante smorfie fanno: non gli piace proprio e non ne vogliono nemmeno sentir parlare. E questa è una cosa davvero curiosa.
L’Italia nasce attorno a Dante e a Petrarca; è un fatto noto e non varrebbe quasi la pena di tornarci sopra, visto che lo sanno anche i tredicenni. Il veneziano e il napoletano sono dialetti notissimi anche (soprattutto) per via di Carlo Goldoni e di Eduardo de Filippo, per tacer degli altri (che so: Carlo Gozzi, Salvatore Di Giacomo...). Ne consegue che un movimento che si autodefinisce “padano” dovrebbe andare orgoglioso dei suoi autori, soprattutto se vincono il più grande premio letterario al mondo, ma così non è. Anzi, è vero il contrario: il più grande autore padano vivente è disprezzato e guardato con fastidio, il che dà da pensare.
I versi qui sopra non sono di una poesia, ma di una canzone resa famosa da Enzo Jannacci negli anni ’60, e scritta a quattro mani dallo stesso Jannacci con Dario Fo: ed è un piccolo pezzo di teatro, un bozzetto dal vero molto divertente. Il tema è uno dei classici della letteratura e delle canzoni di tutti i tempi: l’innamorato al balcone dell’amata. Un innamorato respinto, in questo caso.
E’ lo stesso tema che trattò anche il cremonese Claudio Monteverdi, su testo del veneziano Giovanni Busenello, anno 1643: si vede che a noi padani è un tema che sta molto a cuore.
E pure io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera, e qual ruscello al mare,
e se ben luce alcuna non appare
ah, so ben io che sta il mio sol qui dentro.
Caro tetto amoroso,
albergo di mia vita e del mio bene,
il passo e 'l cor ad inchinarti viene.
Apri, apri un balcon, Poppea,
col bel viso in cui son le sorti mie,
previeni, anima mia, precorri il die.
Sorgi, e disgombra homai
da questo ciel caligini e tenebre
con il beato aprir di tue palpebre.
Sogni, portate a volo
su l'ali vostre in dolce fantasia
questi sospir alla diletta mia....
(aria di Ottone da "L'incoronazione di Poppea”, versi di Giovanni Francesco Busenello, musica di Claudio Monteverdi, anno 1643 )
tacàda in sul plafùn
e i stell pàren limon
traa giò in de l'acqua...
La luna è una lampadina
attaccata sul soffitto,
e le stelle sembrano limoni
gettati nell'acqua...
Il dialetto milanese ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura, una decina d’anni fa: sembra incredibile ma è vero, verissimo. Gli Svedesi (il Premio Nobel lo danno a Stoccolma) conoscono, leggono, traducono e apprezzano il dialetto milanese, e sanno perfino che esiste la pianura padana con i suoi infiniti dialetti, ognuno diverso da un paese all’altro ma tra loro uniti da qualche cosa che fa sì che la gente si capisca lo stesso: è quello che ci sta raccontando l’ultimo Nobel italiano dopo Pirandello, Ungaretti, Montale: Dario Fo.
La “lingua padana” è al centro del lavoro più famoso di Dario Fo, “Mistero buffo”; e “Johann Padan a la descoverta delle Americhe” è uno dei suoi più recenti lavori per il teatro, tradotto anche in un film a cartoni animati. Ma provate a fare il nome di Dario Fo ai rappresentanti della Lega Nord (Nord Italia, s’intende), e vedrete quante smorfie fanno: non gli piace proprio e non ne vogliono nemmeno sentir parlare. E questa è una cosa davvero curiosa.
L’Italia nasce attorno a Dante e a Petrarca; è un fatto noto e non varrebbe quasi la pena di tornarci sopra, visto che lo sanno anche i tredicenni. Il veneziano e il napoletano sono dialetti notissimi anche (soprattutto) per via di Carlo Goldoni e di Eduardo de Filippo, per tacer degli altri (che so: Carlo Gozzi, Salvatore Di Giacomo...). Ne consegue che un movimento che si autodefinisce “padano” dovrebbe andare orgoglioso dei suoi autori, soprattutto se vincono il più grande premio letterario al mondo, ma così non è. Anzi, è vero il contrario: il più grande autore padano vivente è disprezzato e guardato con fastidio, il che dà da pensare.
I versi qui sopra non sono di una poesia, ma di una canzone resa famosa da Enzo Jannacci negli anni ’60, e scritta a quattro mani dallo stesso Jannacci con Dario Fo: ed è un piccolo pezzo di teatro, un bozzetto dal vero molto divertente. Il tema è uno dei classici della letteratura e delle canzoni di tutti i tempi: l’innamorato al balcone dell’amata. Un innamorato respinto, in questo caso.
E’ lo stesso tema che trattò anche il cremonese Claudio Monteverdi, su testo del veneziano Giovanni Busenello, anno 1643: si vede che a noi padani è un tema che sta molto a cuore.
E pure io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera, e qual ruscello al mare,
e se ben luce alcuna non appare
ah, so ben io che sta il mio sol qui dentro.
Caro tetto amoroso,
albergo di mia vita e del mio bene,
il passo e 'l cor ad inchinarti viene.
Apri, apri un balcon, Poppea,
col bel viso in cui son le sorti mie,
previeni, anima mia, precorri il die.
Sorgi, e disgombra homai
da questo ciel caligini e tenebre
con il beato aprir di tue palpebre.
Sogni, portate a volo
su l'ali vostre in dolce fantasia
questi sospir alla diletta mia....
(aria di Ottone da "L'incoronazione di Poppea”, versi di Giovanni Francesco Busenello, musica di Claudio Monteverdi, anno 1643 )
venerdì 9 ottobre 2009
Oltre il muro
Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là)
Una mattina di un giorno di festa, nel 1913, l’avvocato milanese Delio Tessa prende la sua bicicletta nuova e va a fare un giro, un giro piuttosto lungo che lo porta all’estremo nord della provincia di Milano, che più o meno corrisponde all’estremo sud dei miei giri personali in bicicletta (non sono mai stato un gran ciclista).
A un certo punto, Tessa si trova davanti a un gran muro, che riconosce: è il muro dell’allora manicomio di Milano, il proverbiale Mombello, vicino a Limbiate. E, di là del muro, cantano.
E’ una sorpresa inaspettata: «al de là del mur, cantàven...»
Da quel giro in bicicletta nasce “De là del mur”, poesia scritta nel 1913 e rielaborata (o, meglio, completata) molti anni dopo, nel 1931. Le riflessioni di Tessa sono molto belle e molto profonde, ma non posso riportarle qui per esteso, la poesia completa è molto lunga, ed è in dialetto milanese: per chi volesse leggerla per intero, rimando ai due volumi pubblicati una decina d’anni fa da Einaudi a cura di Dante Isella.
Foeura de Porta Volta
de paes en paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasina vuna
de sti mattinn passaa:
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?...l’è festa... andemm...
(fuori di Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate. Mi ero svegliato col broncio, con la luna a rovescio, e seduto sul letto pensavo: cosa facciamo oggi? andiamo, via, fuori da queste federe!)
“Di là del muro cantavano”: canzoni semplici, rime e filastrocche popolari, ma cantavano. E c’era una grande serenità.
Allora i matti facevano paura, il manicomio era ancora quello ottocentesco, non solo Basaglia ma anche Freud e Jung erano figure ancora lontane, che cominciavano appena a farsi conoscere. Il manicomio incuteva terrore solo a nominarlo, ma ecco che davanti a quel muro spaventoso il poeta Delio Tessa sente nascere quasi un’invidia per quella condizione, vorrebbe anche lui “avere un coo de gatt”, la testa (cioè i pensieri) di un gatto, ignorare gli scandali finanziari dell’epoca (il Roveda, l’Edison), dimenticarsi della possibilità di una guerra devastante, e anche della “gente balenga” che sembra approvare guerre e violenze. Ma tutto questo non è possibile, rimonta sulla bicicletta e inizia il percorso verso casa, verso Milano. L’arrivo nella grande città è annunciato dalle locandine dei cinema: danno un film western, “Trader Horn”.
Il milanese era la lingua materna dell’avucàtt, che era persona di grande e raffinata cultura: ma allora il dialetto lo parlavano tutti, ed era ancora una lingua viva. Delio Tessa è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, la sua scrittura deve molto alla grande musica, ed è un peccato che siano ormai in pochi a conoscerlo.
E’ un peccato, soprattutto, che chi oggi si erge a paladino del ritorno dei dialetti ne ignori completamente il nome. Ma ignorare i nomi dei grandi è una caratteristica di questi nostri strani tempi: e pensare che Milano, il dialetto milanese e quello di area padana, sono stati di recente insigniti del maggiore premio letterario a livello mondiale: il Premio Nobel.
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là)
Una mattina di un giorno di festa, nel 1913, l’avvocato milanese Delio Tessa prende la sua bicicletta nuova e va a fare un giro, un giro piuttosto lungo che lo porta all’estremo nord della provincia di Milano, che più o meno corrisponde all’estremo sud dei miei giri personali in bicicletta (non sono mai stato un gran ciclista).
A un certo punto, Tessa si trova davanti a un gran muro, che riconosce: è il muro dell’allora manicomio di Milano, il proverbiale Mombello, vicino a Limbiate. E, di là del muro, cantano.
E’ una sorpresa inaspettata: «al de là del mur, cantàven...»
Da quel giro in bicicletta nasce “De là del mur”, poesia scritta nel 1913 e rielaborata (o, meglio, completata) molti anni dopo, nel 1931. Le riflessioni di Tessa sono molto belle e molto profonde, ma non posso riportarle qui per esteso, la poesia completa è molto lunga, ed è in dialetto milanese: per chi volesse leggerla per intero, rimando ai due volumi pubblicati una decina d’anni fa da Einaudi a cura di Dante Isella.
Foeura de Porta Volta
de paes en paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasina vuna
de sti mattinn passaa:
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?...l’è festa... andemm...
(fuori di Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate. Mi ero svegliato col broncio, con la luna a rovescio, e seduto sul letto pensavo: cosa facciamo oggi? andiamo, via, fuori da queste federe!)
“Di là del muro cantavano”: canzoni semplici, rime e filastrocche popolari, ma cantavano. E c’era una grande serenità.
Allora i matti facevano paura, il manicomio era ancora quello ottocentesco, non solo Basaglia ma anche Freud e Jung erano figure ancora lontane, che cominciavano appena a farsi conoscere. Il manicomio incuteva terrore solo a nominarlo, ma ecco che davanti a quel muro spaventoso il poeta Delio Tessa sente nascere quasi un’invidia per quella condizione, vorrebbe anche lui “avere un coo de gatt”, la testa (cioè i pensieri) di un gatto, ignorare gli scandali finanziari dell’epoca (il Roveda, l’Edison), dimenticarsi della possibilità di una guerra devastante, e anche della “gente balenga” che sembra approvare guerre e violenze. Ma tutto questo non è possibile, rimonta sulla bicicletta e inizia il percorso verso casa, verso Milano. L’arrivo nella grande città è annunciato dalle locandine dei cinema: danno un film western, “Trader Horn”.
Il milanese era la lingua materna dell’avucàtt, che era persona di grande e raffinata cultura: ma allora il dialetto lo parlavano tutti, ed era ancora una lingua viva. Delio Tessa è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, la sua scrittura deve molto alla grande musica, ed è un peccato che siano ormai in pochi a conoscerlo.
E’ un peccato, soprattutto, che chi oggi si erge a paladino del ritorno dei dialetti ne ignori completamente il nome. Ma ignorare i nomi dei grandi è una caratteristica di questi nostri strani tempi: e pensare che Milano, il dialetto milanese e quello di area padana, sono stati di recente insigniti del maggiore premio letterario a livello mondiale: il Premio Nobel.
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