Donna s'io miro voi, ghiaccio divengo;
se di mirar m'astengo,
d'un infinito ardore
mi si consuma il core.
Non so che m'abbi luoco:
mirar m'è ghiaccio, il non mirar m'è fuoco.
Ch'ami la vita mia nel tuo bel nome
par che si legg'ognora,
ma tu voi pur ch'io mora.
Se 'l ver porti in te scritto,
acqueta coi begl'occhi il cor afflitto,
acciò letto non sia
ch'ami la morte e non la vita mia.
Questa ordì il laccio, questa
sì bella man tra fiori e l'erba il tese,
e questa il cor mi prese e fu sì presta
a trarlo in mezz'a mille fiamme accese.
Or che l'ho qui ristretta,
vendetta, Amor, vendetta!
(Giovan Battista Strozzi)
Musicate da Claudio Monteverdi, Il Primo Libro de' Madrigali, 1587.
« Bisogna innanzitutto dire che il lavoro interpretativo che richiedono i Madrigali di Monteverdi, prima ancora che musicale, è squisitamente letterario. Si tratta, in altre parole, di arrivare ad un'assimilazione graduale delle strutture sintattiche, ed alla comprensione del motivo che ha spinto l'autore a scegliere un testo piuttosto che un altro. Le scelte di Monteverdi a tale proposito non erano mai casuali, ma rispondevano a precisi criteri. Prima di tutto si preoccupava che il testo fosse adatto ad essere musicato, poi badava all'intrinseco valore artistico e letterario del testo stesso. È evidente ad esempio che Monteverdi decide di musicare solo rime d'alto valore poetico, e non altre. Probabilmente si preoccupava solo in seguito della possibilità di 'teatralizzare' un certo testo. (...)»
(Rinaldo Alessandrini, da un’intervista per un suo disco dei Madrigali di Monteverdi. )
venerdì 28 maggio 2010
martedì 25 maggio 2010
Discesa in campo
Quando Zidane diede quella testata a un avversario e fu espulso, cominciai a spazientirmi e a desiderare di mollare il calcio. No, non quella dei mondiali: accadde molto prima, quando Zidane giocava con la Juve, in una partita importante di Coppa dei Campioni. Con lui fu espulso Davids, se non ricordo male; o magari Camoranesi, uno o l’altro non fa differenza – grandi campioni, ma di queste uscite ne avevo viste fin troppe.
Non che Zidane avesse tutti i torti, di calcioni e di insulti ne prendeva tanti e non reagiva, stava sempre zitto; e sì che Zidane è uno grande e grosso, più robusto della media dei calciatori. Poi, si sa, si sbotta tutto d’un colpo ed escono reazioni inconsulte; e per questo, nonostante tutto, quando diede quella famosa testata a Materazzi, fui tra i pochi a simpatizzare con lui; ma le testate son pur sempre testate, ti fai espellere e lasci in difficoltà i tuoi compagni, e non si può nemmeno immaginare di farla franca perché oltre all’arbitro è ormai certo che quando fai una scemenza su un campo di calcio poi ti vedono milioni di persone. Quantomeno, Zidane è un tipo che parla poco: forse in Spagna o in Francia ha rilasciato qualche intervista in più, ma adesso che ci penso quasi non so che voce abbia.
Ma, soprattutto, mio papà (che di calcio se ne intendeva, ed era anche un buon giocatore sia pure a livelli amatoriali) mi aveva spiegato da subito una cosa: che i calciatori, i ciclisti, i piloti, gli atleti in generale, non vanno presi ad esempio. Essere bravi a giocare al pallone non significa automaticamente essere anche brave persone, e gli esempi non mancavano. E questo era un concetto generale e ben diffuso: difatti era ben difficile vedere interviste ai calciatori in tv, perché cosa mai avrebbe avuto da dire un calciatore al di fuori del campo di calcio? I ciclisti del tempo di Coppi e di Bartali erano oggetto di bonaria presa in giro, ed è ancora citatissimo il “sono contento di essere arrivato uno” pronunciato da uno di quei campioni della bici.
Per questo ci sono rimasto male quando anche dei giornalisti che stimavo, in questi ultimi mesi, si sono messi a parlare in termini di “zero tituli” e a portare Josè Mourinho come esempio. Dico la verità: non me lo aspettavo, perché quando si parla o si scrive sono proprio le nostre battute, e gli esempi che portiamo, che svelano cosa c’è veramente dentro le teste, il bagaglio culturale a cui attingiamo, i nostri discorsi quotidiani. Se io dico “la spada di Damocle”, per esempio, significa che ho quantomeno qualche lettura classica alle spalle; ma se dico “zero tituli”, o “discesa in campo”, significa probabilmente che le mie letture sono limitate quasi soltanto ai giornali sportivi, o che comunque è in quel campo lì, il campo di calcio, che la mia mente abita più volentieri.
In questo senso, è stato proprio Josè Mourinho a stupirmi piacevolmente in questi ultimi giorni, perché in una polemica calcistica (abbastanza idiota, come sempre) per sfottere un avversario ha citato un libro di Sartre, “La nausea”, che non sentivo nominare dagli anni ’70. E, dal tono con cui l’ha detto, è più che probabile che Mourinho abbia davvero letto Sartre.
Ma di tutto questo, di Sartre e dei libri di filosofia, ai tifosi e ai giornalisti non importa un fico secco; e difatti questa citazione di Mourinho è scomparsa subito dai giornali e dalle chiacchiere tv, mentre sono rimaste quelle più stupide, come gli “zero tituli”: e le definisco stupide perché nel calcio, e nello sport in generale, si può essere grandi campioni e vincere poco o niente. Esistono gli infortuni fisici, per esempio; e soprattutto esistono i soldi, dietro a Mourinho c’è un signore che ha speso centinaia di miliardi (centinaia di miliardi: non per modo di dire, ma per davvero) per metterlo in condizione di vincere. Quando faccio notare questo dettaglio, mi si risponde che gli Abramovich, i Moratti, i Berlusconi, “hanno i soldi e possono farne quello che vogliono”.
Ecco, a questo punto, di fronte a una simile cazzata, mi fermo e mi cascano le braccia. Almeno quelli che si dicono "di sinistra" dovrebbero avere gli argomenti per rispondere a queste affermazioni, invece si accodano: chi ha i soldi fa quel che gli pare, e amen. Se gli "opinion leaders" della sinistra sono questi, così allineati alla voce del padrone e ai suoi sondaggi, difficilmente la sinistra avrà un futuro.
Continuo a seguire il calcio, ma sempre più controvoglia; vorrei non saperne niente e ignorarne perfino le regole, ma ormai sono stato infettato e non posso più tornare indietro. Rimpiango il tempo in cui il Verona vinceva lo scudetto, e il Nottingham Forest vinceva la Champions League (ne ha vinte due, di seguito) sconfiggendo gli squadroni dei ricchi scemi. Rimpiango anche il tempo in cui un atleta correndo a piedi scalzi poteva vincere la maratona alle Olimpiadi, e rimpiango soprattutto il tempo in cui i giornalisti non perdevano il loro tempo mettendo i microfoni o i taccuini davanti alle bocche dei Materazzi, dei Balotelli, dei Cassano, dei Mourinho: tanto, più che xxxxxxx, cosa vuoi che dicano? (e, se lo avessero fatto, i direttori dei loro giornali non avrebbero pubblicato niente e li avrebbero caldamente invitati a cambiare mestiere).
PS: ho fatto scorrere i trecentoventidue nuovi canali del digitale terrestre: trecentonove sono dedicati completamente alle xxxxxxx. Si vede che è un genere che piace, e ormai non me ne stupisco più, visti i risultati delle elezioni in politica, e vista anche la nostra economia nazionale.
Non che Zidane avesse tutti i torti, di calcioni e di insulti ne prendeva tanti e non reagiva, stava sempre zitto; e sì che Zidane è uno grande e grosso, più robusto della media dei calciatori. Poi, si sa, si sbotta tutto d’un colpo ed escono reazioni inconsulte; e per questo, nonostante tutto, quando diede quella famosa testata a Materazzi, fui tra i pochi a simpatizzare con lui; ma le testate son pur sempre testate, ti fai espellere e lasci in difficoltà i tuoi compagni, e non si può nemmeno immaginare di farla franca perché oltre all’arbitro è ormai certo che quando fai una scemenza su un campo di calcio poi ti vedono milioni di persone. Quantomeno, Zidane è un tipo che parla poco: forse in Spagna o in Francia ha rilasciato qualche intervista in più, ma adesso che ci penso quasi non so che voce abbia.
Ma, soprattutto, mio papà (che di calcio se ne intendeva, ed era anche un buon giocatore sia pure a livelli amatoriali) mi aveva spiegato da subito una cosa: che i calciatori, i ciclisti, i piloti, gli atleti in generale, non vanno presi ad esempio. Essere bravi a giocare al pallone non significa automaticamente essere anche brave persone, e gli esempi non mancavano. E questo era un concetto generale e ben diffuso: difatti era ben difficile vedere interviste ai calciatori in tv, perché cosa mai avrebbe avuto da dire un calciatore al di fuori del campo di calcio? I ciclisti del tempo di Coppi e di Bartali erano oggetto di bonaria presa in giro, ed è ancora citatissimo il “sono contento di essere arrivato uno” pronunciato da uno di quei campioni della bici.
Per questo ci sono rimasto male quando anche dei giornalisti che stimavo, in questi ultimi mesi, si sono messi a parlare in termini di “zero tituli” e a portare Josè Mourinho come esempio. Dico la verità: non me lo aspettavo, perché quando si parla o si scrive sono proprio le nostre battute, e gli esempi che portiamo, che svelano cosa c’è veramente dentro le teste, il bagaglio culturale a cui attingiamo, i nostri discorsi quotidiani. Se io dico “la spada di Damocle”, per esempio, significa che ho quantomeno qualche lettura classica alle spalle; ma se dico “zero tituli”, o “discesa in campo”, significa probabilmente che le mie letture sono limitate quasi soltanto ai giornali sportivi, o che comunque è in quel campo lì, il campo di calcio, che la mia mente abita più volentieri.
In questo senso, è stato proprio Josè Mourinho a stupirmi piacevolmente in questi ultimi giorni, perché in una polemica calcistica (abbastanza idiota, come sempre) per sfottere un avversario ha citato un libro di Sartre, “La nausea”, che non sentivo nominare dagli anni ’70. E, dal tono con cui l’ha detto, è più che probabile che Mourinho abbia davvero letto Sartre.
Ma di tutto questo, di Sartre e dei libri di filosofia, ai tifosi e ai giornalisti non importa un fico secco; e difatti questa citazione di Mourinho è scomparsa subito dai giornali e dalle chiacchiere tv, mentre sono rimaste quelle più stupide, come gli “zero tituli”: e le definisco stupide perché nel calcio, e nello sport in generale, si può essere grandi campioni e vincere poco o niente. Esistono gli infortuni fisici, per esempio; e soprattutto esistono i soldi, dietro a Mourinho c’è un signore che ha speso centinaia di miliardi (centinaia di miliardi: non per modo di dire, ma per davvero) per metterlo in condizione di vincere. Quando faccio notare questo dettaglio, mi si risponde che gli Abramovich, i Moratti, i Berlusconi, “hanno i soldi e possono farne quello che vogliono”.
Ecco, a questo punto, di fronte a una simile cazzata, mi fermo e mi cascano le braccia. Almeno quelli che si dicono "di sinistra" dovrebbero avere gli argomenti per rispondere a queste affermazioni, invece si accodano: chi ha i soldi fa quel che gli pare, e amen. Se gli "opinion leaders" della sinistra sono questi, così allineati alla voce del padrone e ai suoi sondaggi, difficilmente la sinistra avrà un futuro.
Continuo a seguire il calcio, ma sempre più controvoglia; vorrei non saperne niente e ignorarne perfino le regole, ma ormai sono stato infettato e non posso più tornare indietro. Rimpiango il tempo in cui il Verona vinceva lo scudetto, e il Nottingham Forest vinceva la Champions League (ne ha vinte due, di seguito) sconfiggendo gli squadroni dei ricchi scemi. Rimpiango anche il tempo in cui un atleta correndo a piedi scalzi poteva vincere la maratona alle Olimpiadi, e rimpiango soprattutto il tempo in cui i giornalisti non perdevano il loro tempo mettendo i microfoni o i taccuini davanti alle bocche dei Materazzi, dei Balotelli, dei Cassano, dei Mourinho: tanto, più che xxxxxxx, cosa vuoi che dicano? (e, se lo avessero fatto, i direttori dei loro giornali non avrebbero pubblicato niente e li avrebbero caldamente invitati a cambiare mestiere).
PS: ho fatto scorrere i trecentoventidue nuovi canali del digitale terrestre: trecentonove sono dedicati completamente alle xxxxxxx. Si vede che è un genere che piace, e ormai non me ne stupisco più, visti i risultati delle elezioni in politica, e vista anche la nostra economia nazionale.
lunedì 24 maggio 2010
La Divina Commedia
Ogni tanto qualcuno prova a immaginarsi una nuova “Divina Commedia”, per colmare il vuoto d’informazione: dai tempi di Dante fino a noi, chi sarà mai finito all’Inferno, nelle fiamme eterne, a far compagnia a Ciacco e al Conte Ugolino? E chi in Purgatorio, in Paradiso?
Per l’inferno, alcuni nomi sono scontati: Mussolini, Pinochet, Hitler, Pol Pot, i dittatori argentini degli anni ’70, Stalin, eccetera. Ma questi, più che dannati, sono forse autentici diavoli discesi in terra. Ci sono invece persone che per la loro posizione avrebbero potuto fare del bene e invece non l’hanno fatto: è qui che l’elenco potrebbe dare delle sorprese, perché si tratta di uno dei peccati capitali e perché, una volta o l’altra, ci siamo cascati tutti. Ovviamente, la lista sarebbe lunga; e per finire all’inferno non penso che basti un piccolo peccato, una piccola omissione: per questi c’è il Purgatorio. Per l’inferno, invece, ce ne vogliono di grossi.
Quando morì Ronald Reagan, per esempio, il vignettista Vauro non ebbe dubbi su dove collocarlo; e io sono pienamente d’accordo. Anche la lancia con falce e martello impugnata dal diavolaccio del comitato d’accoglienza non ha significato politico, sta solo a significare l’impoverimento di operai e contadini (e anche di molti impiegati) sotto le politiche egoiste e avide di Reagan, che ebbero tanti imitatori. Va però detto che Reagan non era un economista ma solo un prestanome di altri che operavano alle sue spalle; fu invece una donna, Margaret Thatcher, a iniziare quelle politiche (fece anche una guerra, le persone così senza guerre non vivono: una guerra lontana e piccolina, alle Falkland/Malvinas, di più non si poteva fare a quei tempi). Cercando su wikipedia ho scoperto due cose: che la Thatcher è ancora qui con noi, e che quasi tutte le sue leggi contro i lavoratori e contro le famiglie sono state confermate dai governi successivi. Il che significa che almeno altri due o tre politici insospettabili hanno già il loro posto pronto nella futura Divina Commedia (noi ce ne dimentichiamo subito, ma di là a queste cose badano moltissimo, anche dei barconi di emigranti affondati prima di arrivare a Lampedusa, e degli emigranti fatti morire in Libia, terranno gran conto).
Per l’inferno, alcuni nomi sono scontati: Mussolini, Pinochet, Hitler, Pol Pot, i dittatori argentini degli anni ’70, Stalin, eccetera. Ma questi, più che dannati, sono forse autentici diavoli discesi in terra. Ci sono invece persone che per la loro posizione avrebbero potuto fare del bene e invece non l’hanno fatto: è qui che l’elenco potrebbe dare delle sorprese, perché si tratta di uno dei peccati capitali e perché, una volta o l’altra, ci siamo cascati tutti. Ovviamente, la lista sarebbe lunga; e per finire all’inferno non penso che basti un piccolo peccato, una piccola omissione: per questi c’è il Purgatorio. Per l’inferno, invece, ce ne vogliono di grossi.
Quando morì Ronald Reagan, per esempio, il vignettista Vauro non ebbe dubbi su dove collocarlo; e io sono pienamente d’accordo. Anche la lancia con falce e martello impugnata dal diavolaccio del comitato d’accoglienza non ha significato politico, sta solo a significare l’impoverimento di operai e contadini (e anche di molti impiegati) sotto le politiche egoiste e avide di Reagan, che ebbero tanti imitatori. Va però detto che Reagan non era un economista ma solo un prestanome di altri che operavano alle sue spalle; fu invece una donna, Margaret Thatcher, a iniziare quelle politiche (fece anche una guerra, le persone così senza guerre non vivono: una guerra lontana e piccolina, alle Falkland/Malvinas, di più non si poteva fare a quei tempi). Cercando su wikipedia ho scoperto due cose: che la Thatcher è ancora qui con noi, e che quasi tutte le sue leggi contro i lavoratori e contro le famiglie sono state confermate dai governi successivi. Il che significa che almeno altri due o tre politici insospettabili hanno già il loro posto pronto nella futura Divina Commedia (noi ce ne dimentichiamo subito, ma di là a queste cose badano moltissimo, anche dei barconi di emigranti affondati prima di arrivare a Lampedusa, e degli emigranti fatti morire in Libia, terranno gran conto).
domenica 23 maggio 2010
Antivirus
Tutti i giorni il mio antivirus parte in automatico, e tutte le volte, bastano anche cinque minuti, mi trova un “tracking cookie” e me lo segnala. Il che significa che basta collegarsi a internet per avere qualcuno che ti appiccica addosso un’etichetta, un chip, un marcatore: “so che sei passato di qui”.
Raramente, sempre più raramente, l’Antivirus mi segnala delle vere minacce: con i tracking cookies il rischio è basso, il fedele servitore me lo dice subito e quindi non mi preoccupo.
Un servizio molto utile, e ho anche pagato per averlo: mica poco, tra l’altro. Però intanto che sono qui e ci penso, mi rendo conto che di gente si interessa a dove vado e che mi mette addosso un cookie ce ne è tanta, e mica solo su internet. Anzi: internet è un posto tutto sommato discreto.
Ogni volta che vado a trovare una mia amica, per esempio, so che in quel palazzo dove lei abita è in azione una videocamera: per la nostra sicurezza, è ovvio. Sempre per la nostra sicurezza, sono “cookizzato” anche quando esco dall’edicola; videocamere in azione anche al bancomat, sempre per la mia sicurezza e sperando che di videocamere ce ne sia una sola, quella della Banca. Cookies anche al supermercato, sanno tutto quello che ho comperato negli ultimi dieci anni e se lo ricordano barattolo per barattolo. Cookies anche su tutte le mie telefonate, of course: sms compresi. In settimana ho letto altre due notizie inquietanti: che dai satelliti tra poco ci daranno anche le multe in automobile, e che in Cina è già possibile spiare quando uno esce di casa, tramite la chiave e la serratura. A pensarci bene, già oggi, quando si accende il riscaldamento col telefonino, o quando si controlla l’antifurto, si può essere marcati e registrati.
Che fine fanno tutti questi cookies? Per adesso è vietatissimo utilizzarli, ma: 1) non controlla nessuno; 2) basta un governicchio compiacente e anche la mia lista del supermercato, così come già accade per il mio numero di telefono, potrà essere utilizzato dalla tentata vendita.
E i filmati delle videocamere? Li butteranno via veramente alla fine della giornata, o c’è chi li colleziona e prende nota? Una volta c’erano le zitelle pettegole che spiavano dietro le veneziane chi entrava e usciva, adesso ci sono sicuramente tizi e tizie che fanno collezione di filmati, e chissà che genere di filmati saranno. Attenti dunque a tutto quello che fate, quando andate in un qualsiasi albergo; e quanto a me, meno male che la mia amica non è sposata o fidanzata, altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Però, in futuro, chissà, tutti e due potremmo essere ricattabili...Qualcuno potrà tirar fuori le registrazioni dei miei ingressi da quel portone e chiedermene conto: “come mai lei passava da via Garibaldi numero 25 portone B scala A alle ore 14,30 del 25 febbraio 1997 ?”. E io dovrò ricordarmene, avere una qualche scusante, una pezza d’appoggio, altrimenti chissà cosa potrà succedere.
Io stesso sono dunque un tracking cookie, il mio corpo, la mia immagine registrata o riflessa sono dei tracking cookies... Tutto questo francamente mi spaventa, e non ho che una soluzione a portata di mano, questa: pensare che il significato originale di “cookie”, in inglese, è “biscotto”.
Ecco, ho appunto una scatola di biscotti appena aperta, di là, nella credenza; e qui, fra vecchie credenze e dolci biscotti, credetemi, annegherò quest’angoscia (a proposito, c’è mica anche un po’ di alkermes, o di rosolio?).
Raramente, sempre più raramente, l’Antivirus mi segnala delle vere minacce: con i tracking cookies il rischio è basso, il fedele servitore me lo dice subito e quindi non mi preoccupo.
Un servizio molto utile, e ho anche pagato per averlo: mica poco, tra l’altro. Però intanto che sono qui e ci penso, mi rendo conto che di gente si interessa a dove vado e che mi mette addosso un cookie ce ne è tanta, e mica solo su internet. Anzi: internet è un posto tutto sommato discreto.
Ogni volta che vado a trovare una mia amica, per esempio, so che in quel palazzo dove lei abita è in azione una videocamera: per la nostra sicurezza, è ovvio. Sempre per la nostra sicurezza, sono “cookizzato” anche quando esco dall’edicola; videocamere in azione anche al bancomat, sempre per la mia sicurezza e sperando che di videocamere ce ne sia una sola, quella della Banca. Cookies anche al supermercato, sanno tutto quello che ho comperato negli ultimi dieci anni e se lo ricordano barattolo per barattolo. Cookies anche su tutte le mie telefonate, of course: sms compresi. In settimana ho letto altre due notizie inquietanti: che dai satelliti tra poco ci daranno anche le multe in automobile, e che in Cina è già possibile spiare quando uno esce di casa, tramite la chiave e la serratura. A pensarci bene, già oggi, quando si accende il riscaldamento col telefonino, o quando si controlla l’antifurto, si può essere marcati e registrati.
Che fine fanno tutti questi cookies? Per adesso è vietatissimo utilizzarli, ma: 1) non controlla nessuno; 2) basta un governicchio compiacente e anche la mia lista del supermercato, così come già accade per il mio numero di telefono, potrà essere utilizzato dalla tentata vendita.
E i filmati delle videocamere? Li butteranno via veramente alla fine della giornata, o c’è chi li colleziona e prende nota? Una volta c’erano le zitelle pettegole che spiavano dietro le veneziane chi entrava e usciva, adesso ci sono sicuramente tizi e tizie che fanno collezione di filmati, e chissà che genere di filmati saranno. Attenti dunque a tutto quello che fate, quando andate in un qualsiasi albergo; e quanto a me, meno male che la mia amica non è sposata o fidanzata, altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Però, in futuro, chissà, tutti e due potremmo essere ricattabili...Qualcuno potrà tirar fuori le registrazioni dei miei ingressi da quel portone e chiedermene conto: “come mai lei passava da via Garibaldi numero 25 portone B scala A alle ore 14,30 del 25 febbraio 1997 ?”. E io dovrò ricordarmene, avere una qualche scusante, una pezza d’appoggio, altrimenti chissà cosa potrà succedere.
Io stesso sono dunque un tracking cookie, il mio corpo, la mia immagine registrata o riflessa sono dei tracking cookies... Tutto questo francamente mi spaventa, e non ho che una soluzione a portata di mano, questa: pensare che il significato originale di “cookie”, in inglese, è “biscotto”.
Ecco, ho appunto una scatola di biscotti appena aperta, di là, nella credenza; e qui, fra vecchie credenze e dolci biscotti, credetemi, annegherò quest’angoscia (a proposito, c’è mica anche un po’ di alkermes, o di rosolio?).
mercoledì 19 maggio 2010
La vita terrena
Rinvenni subito, corsi al boccaporto che dava sullo spazio dell'equipaggio e gridai: « Equipaggio ! Compagni !Venite subito ! Un estraneo mi ha cacciato via dal timone ! » Quelli accorsero lentamente, salirono sulla scaletta di bordo, stanche figure imponenti che barcollavano. « Sono io il timoniere ? » chiesi loro. Essi annuirono, ma guardavano soltanto l'estraneo, si misero in semicerchio intorno a lui e quando egli disse in tono imperioso: « Non seccatemi ! » si raccolsero, mi fecero un cenno e ridiscesero la scaletta di bordo.
Che razza di gente ! Pensano anche, o strisciano solo i piedi sulla terra inutilmente ?
(Franz Kafka, Il timoniere)
- Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente. E' un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi.
...
Che cosa avrebbe potuto attirarmi, in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?
(Franz Kafka, da "Il Castello ")
Che razza di gente ! Pensano anche, o strisciano solo i piedi sulla terra inutilmente ?
(Franz Kafka, Il timoniere)
- Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente. E' un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi.
...
Che cosa avrebbe potuto attirarmi, in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?
(Franz Kafka, da "Il Castello ")
martedì 18 maggio 2010
I calzettoni di Sivori
Il digitale terrestre, il casco per i ciclisti, e i parastinchi dei calciatori: cosa unisce tutte queste cose tra loro diversissime? Ecco qua, lo spiego subito: vado in ordine e comincio dall’inizio.
Oggi ho passato tre quarti d’ora a sistemare i televisori di casa, perché non si vedevano più molti canali; il motivo è che la Lombardia è passata al digitale terrestre. Però non del tutto, oggi dovevano sparire solo Raidue e Retequattro; invece era sparita anche Raitre, e qualcos’altro ancora. Se mia madre fosse stata da sola in casa, oggi non avrebbe visto i suoi programmi preferiti; invece c’ero io e ho trafficato per tre quarti d’ora, perché non solo bisogna resettare tutto, ma poi il decoder non mette i canali nell’ordine che interessa a me (e a mia mamma) ma in quello che hanno deciso lorsignori a Milano. Non mi dilungo ulteriormente, ma è chiaro che qui si pensa che la tv sia al centro di ogni nostro pensiero. Non è così: io me ne ero completamente dimenticato, della scadenza del 18 maggio. Sono semplicemente arrivato a casa e mi sono accorto che non si vedeva niente, mi sono chiesto perché, e solo dopo un po’ – mentre apparecchiavo e cuocevo la pasta - ci sono arrivato: lo sapevo, certo, ma, appunto, io sapevo solo di Raidue e Retequattro, non mi aspettavo certo di vedere sparire tutto e di dover dedicare tutto questo tempo al televisore.
E passo al casco per i ciclisti: stava per passare una legge che obbliga tutti a usare il casco quando si va in bicicletta. Sorvolo per brevità sui discorsi più ovvi e scontati: con il casco in testa si è più sicuri, se si cade. Ma se si cade (esperienza diretta) le cose più a rischio sono le mani e le ginocchia; per cadere e picchiare la testa bisogna andare forte e spericolati, roba da ciclismo agonistico. E’ vero che se mi urtano posso cadere malamente, ma allora il problema non sono io: il problema sono le automobili e i camion. E’ anche vero che posso scivolare e cadere facendo la doccia: che fare, rendiamo obbligatorio anche il casco sotto la doccia?
Concludo anche qui: conosco generazioni e generazioni di ciclisti, nessuno si è mai rotto la testa andando a fare la spesa in bicicletta o comperando il giornale, neanche ai tempi in cui le strade non erano asfaltate ed erano piene di buche. E il punto, secondo me, è proprio questo: che nessuno usa più la bicicletta come semplice mezzo di trasporto, per fare la spesa o per andare a comperare il giornale. Per quello si usa la macchina, l’automobile; la bicicletta serve per fare sport, e non si chiama più bicicletta, ma mountain bike, cross bike, bici da corsa. Usare la bici come facevano mio padre e mio nonno è da sfigati, andare a piedi è da sfigati, solo gli sfigati vanno in giro in bici. E dunque, se è mountain bike, se si va a fare cross, se ci si allena per le corse, adesso sì che ho capito: si corrono davvero dei rischi, qui serve veramente il casco. E le leggi, si sa, non le fanno gli sfigati che vanno in bici a comperare il pane. (Per inciso: qui in paese, ormai da parecchi anni, il più giovane ad usare la bici per andare a comperare il pane sono io – la bicicletta è proprio passata di moda, almeno in Lombardia).
E concludo il tutto – ma ce ne sarebbero tante di cose da dire... – con una foto di Enrique Omar Sivori, in lieta compagnia. Sivori è stato uno dei più grandi calciatori di tutta la storia del calcio, quando iniziò a giocare Maradona si disse che ricordava Sivori. Ed eccolo qua, Omar Sivori: con i suoi bravi calzettoni abbassati. Giocava sempre così, con i polpacci e gli stinchi completamente scoperti: prendeva calci, e ne dava anche tanti. Che io ricordi, l’ultimo calciatore di serie A a giocare così fu Gianluca Vialli, negli anni ’80: dopodiché furono resi obbligatori i parastinchi e i calzettoni fino al ginocchio. Maggior sicurezza, diranno i bambini saggi: certamente sì, i calci negli stinchi fanno male. Ma Sivori, e Vialli, e Corso, con i loro calzettoni abbassati erano magari poco eleganti, ma anche identici ai bambini loro coetanei che giocavano a pallone nei prati e nelle strade. Il calcio, e il ciclismo, erano vicini alla gente; e alla televisione non si dava tutto questo peso, la tv era solo un accessorio che si poteva anche tenere spento.
Oggi ho passato tre quarti d’ora a sistemare i televisori di casa, perché non si vedevano più molti canali; il motivo è che la Lombardia è passata al digitale terrestre. Però non del tutto, oggi dovevano sparire solo Raidue e Retequattro; invece era sparita anche Raitre, e qualcos’altro ancora. Se mia madre fosse stata da sola in casa, oggi non avrebbe visto i suoi programmi preferiti; invece c’ero io e ho trafficato per tre quarti d’ora, perché non solo bisogna resettare tutto, ma poi il decoder non mette i canali nell’ordine che interessa a me (e a mia mamma) ma in quello che hanno deciso lorsignori a Milano. Non mi dilungo ulteriormente, ma è chiaro che qui si pensa che la tv sia al centro di ogni nostro pensiero. Non è così: io me ne ero completamente dimenticato, della scadenza del 18 maggio. Sono semplicemente arrivato a casa e mi sono accorto che non si vedeva niente, mi sono chiesto perché, e solo dopo un po’ – mentre apparecchiavo e cuocevo la pasta - ci sono arrivato: lo sapevo, certo, ma, appunto, io sapevo solo di Raidue e Retequattro, non mi aspettavo certo di vedere sparire tutto e di dover dedicare tutto questo tempo al televisore.
E passo al casco per i ciclisti: stava per passare una legge che obbliga tutti a usare il casco quando si va in bicicletta. Sorvolo per brevità sui discorsi più ovvi e scontati: con il casco in testa si è più sicuri, se si cade. Ma se si cade (esperienza diretta) le cose più a rischio sono le mani e le ginocchia; per cadere e picchiare la testa bisogna andare forte e spericolati, roba da ciclismo agonistico. E’ vero che se mi urtano posso cadere malamente, ma allora il problema non sono io: il problema sono le automobili e i camion. E’ anche vero che posso scivolare e cadere facendo la doccia: che fare, rendiamo obbligatorio anche il casco sotto la doccia?
Concludo anche qui: conosco generazioni e generazioni di ciclisti, nessuno si è mai rotto la testa andando a fare la spesa in bicicletta o comperando il giornale, neanche ai tempi in cui le strade non erano asfaltate ed erano piene di buche. E il punto, secondo me, è proprio questo: che nessuno usa più la bicicletta come semplice mezzo di trasporto, per fare la spesa o per andare a comperare il giornale. Per quello si usa la macchina, l’automobile; la bicicletta serve per fare sport, e non si chiama più bicicletta, ma mountain bike, cross bike, bici da corsa. Usare la bici come facevano mio padre e mio nonno è da sfigati, andare a piedi è da sfigati, solo gli sfigati vanno in giro in bici. E dunque, se è mountain bike, se si va a fare cross, se ci si allena per le corse, adesso sì che ho capito: si corrono davvero dei rischi, qui serve veramente il casco. E le leggi, si sa, non le fanno gli sfigati che vanno in bici a comperare il pane. (Per inciso: qui in paese, ormai da parecchi anni, il più giovane ad usare la bici per andare a comperare il pane sono io – la bicicletta è proprio passata di moda, almeno in Lombardia).
E concludo il tutto – ma ce ne sarebbero tante di cose da dire... – con una foto di Enrique Omar Sivori, in lieta compagnia. Sivori è stato uno dei più grandi calciatori di tutta la storia del calcio, quando iniziò a giocare Maradona si disse che ricordava Sivori. Ed eccolo qua, Omar Sivori: con i suoi bravi calzettoni abbassati. Giocava sempre così, con i polpacci e gli stinchi completamente scoperti: prendeva calci, e ne dava anche tanti. Che io ricordi, l’ultimo calciatore di serie A a giocare così fu Gianluca Vialli, negli anni ’80: dopodiché furono resi obbligatori i parastinchi e i calzettoni fino al ginocchio. Maggior sicurezza, diranno i bambini saggi: certamente sì, i calci negli stinchi fanno male. Ma Sivori, e Vialli, e Corso, con i loro calzettoni abbassati erano magari poco eleganti, ma anche identici ai bambini loro coetanei che giocavano a pallone nei prati e nelle strade. Il calcio, e il ciclismo, erano vicini alla gente; e alla televisione non si dava tutto questo peso, la tv era solo un accessorio che si poteva anche tenere spento.
venerdì 14 maggio 2010
Marketing
«Dal mese prossimo – ricorda un Gerry Scotti insolitamente serio, ma cordiale – questa trasmissione potrà essere vista solo sui canali digitali terrestri. Per continuare a vederci, dunque, è necessario procurarsi un decoder. Se non l’avete ancora fatto, ricordatevi di procurarvi un decoder, e dite ai vostri amici di procurarsene uno anche loro.»
Magnifico. Questo messaggio, ripetuto molte volte e non solo da Gerry Scotti, è davvero fantastico, qualcosa da campionare e mettere in bacheca. “Procuratevi un decoder”, dice il simpatico conduttore televisivo: o bella, e come ce lo si procura un decoder? Cresceranno nei campi, i decoder, o bisogna raccoglierli dagli alberi? Quando fioriscono, i decoder? Si raccolgono in primavera, ai bordi dei fossi, oppure in autunno, come l’uva? Si possono coltivare in un vaso, sul balcone? Data la forma e le dimensioni, opterei piuttosto per qualcosa che cresce a terra, come le zucche, o magari bisogna scavare per tirarlo fuori, come le patate. O forse è un animale: procurarsi un decoder significa magari andare al canile, o dal veterinario, e vedere se ne hanno lì uno abbandonato da portare in casa. Escludo subito la prima cosa che mi era venuta in mente: cioè che si tratti di un’istigazione al furto. No, non è possibile: uno come Gerry Scotti non può aver detto “procuratevi un decoder” dandogli quel senso lì.
No, il decoder va comperato in apposito negozio, previo pagamento di denaro. Ecco dunque la parola proibita, quella che non va mai pronunciata: PAGARE. Il decoder va pagato, e dovete pagarvelo voi: in alternativa, potete cambiare il televisore (tutti i tv che avete in casa, mica uno solo), e anche il videoregistratore è meglio cambiarlo, se no registrare diventa un casino. E ancora: il decoder ha un suo telecomando, distinto da quello del televisore: se volete guardare la tv col televisore vecchio e il decoder, dovete usare due telecomandi (se avete anche il decoder del satellite, tre telecomandi: uno per ogni mano). E non è finita: bisogna chiamare anche l’antennista, non è detto che la vostra vecchia antenna vada bene. Io sono stato fortunato, abito in un condominio e la spesa (quella dell’antennista, non quella dei decoder) è stata divisa per otto: ma chi abita da solo dovrà pagare tutto da solo. Finita l’operazione del digitale terrestre, quando ce l’avremo tutti, è probabile che tutte le trasmissioni diventino a pagamento: se vuoi vedere qualcosa, comperi l’apposita tesserina e paghi. Prima non era possibile, adesso sì: è questo il progresso.
Solo un piccolo esempio, perché ormai tutto funziona così. Un tempo c’era “anche” la pubblicità, oggi esiste “solo” la pubblicità: e io sono in grave difficoltà, i messaggi pubblicitari di regola li cestino, invece oggi arrivano sotto forma di spot anche i contratti. «Dai sfogo alla tua voglia di sms!» leggo sul mio telefonino: io un messaggio che inizia così non lo leggo nemmeno, lo cancello alla prima riga. Invece no, sotto c’è una proposta di contratto. «Tre mesi di telefonate gratis!»: sì, ma dopo? Giro e rigiro la pagina di pubblicità, vado sul sito, rileggo l’sms, niente: non c’è scritto. Ok per i tre mesi gratis, ma dopo? A chi lo chiedo, al 187? Compongo il numero, e parte un jingle: pubblicità anche qui...Quando si arriva al contatto desiderato, dopo almeno cinque minuti di telefonata, c’è un messaggio registrato che ripete esattamente quello che diceva lo spot.
Non so, può darsi che in origine il marketing fosse una cosa seria: io non ho mai lavorato alle vendite e non lo so. So invece cosa è diventato oggi, marketing è sinonimo di fregatura.
(e abbiamo al governo il re delle televendite: ma nel 1995 sulle televendite c’è stato un referendum, avremmo potuto fermare tutto e non l’abbiamo fatto.)
PS: questo post è già stato messo on line il 9 gennaio scorso. Adesso tocca alla Lombardia: stessi spot e stessa terminologia (mai dire che il decoder bisogna comperarlo, pagarlo, spenderci soldi!) con l'aggiunta di piccoli spot dove si spiega alle gentili massaie che non serve cambiare l'antenna. Anche dove abito io non abbiamo cambiato l'antenna, ma abbiamo dovuto "procurarci" un antennista (cioè pagarlo) per fare le necessarie modifiche...
Magnifico. Questo messaggio, ripetuto molte volte e non solo da Gerry Scotti, è davvero fantastico, qualcosa da campionare e mettere in bacheca. “Procuratevi un decoder”, dice il simpatico conduttore televisivo: o bella, e come ce lo si procura un decoder? Cresceranno nei campi, i decoder, o bisogna raccoglierli dagli alberi? Quando fioriscono, i decoder? Si raccolgono in primavera, ai bordi dei fossi, oppure in autunno, come l’uva? Si possono coltivare in un vaso, sul balcone? Data la forma e le dimensioni, opterei piuttosto per qualcosa che cresce a terra, come le zucche, o magari bisogna scavare per tirarlo fuori, come le patate. O forse è un animale: procurarsi un decoder significa magari andare al canile, o dal veterinario, e vedere se ne hanno lì uno abbandonato da portare in casa. Escludo subito la prima cosa che mi era venuta in mente: cioè che si tratti di un’istigazione al furto. No, non è possibile: uno come Gerry Scotti non può aver detto “procuratevi un decoder” dandogli quel senso lì.
No, il decoder va comperato in apposito negozio, previo pagamento di denaro. Ecco dunque la parola proibita, quella che non va mai pronunciata: PAGARE. Il decoder va pagato, e dovete pagarvelo voi: in alternativa, potete cambiare il televisore (tutti i tv che avete in casa, mica uno solo), e anche il videoregistratore è meglio cambiarlo, se no registrare diventa un casino. E ancora: il decoder ha un suo telecomando, distinto da quello del televisore: se volete guardare la tv col televisore vecchio e il decoder, dovete usare due telecomandi (se avete anche il decoder del satellite, tre telecomandi: uno per ogni mano). E non è finita: bisogna chiamare anche l’antennista, non è detto che la vostra vecchia antenna vada bene. Io sono stato fortunato, abito in un condominio e la spesa (quella dell’antennista, non quella dei decoder) è stata divisa per otto: ma chi abita da solo dovrà pagare tutto da solo. Finita l’operazione del digitale terrestre, quando ce l’avremo tutti, è probabile che tutte le trasmissioni diventino a pagamento: se vuoi vedere qualcosa, comperi l’apposita tesserina e paghi. Prima non era possibile, adesso sì: è questo il progresso.
Solo un piccolo esempio, perché ormai tutto funziona così. Un tempo c’era “anche” la pubblicità, oggi esiste “solo” la pubblicità: e io sono in grave difficoltà, i messaggi pubblicitari di regola li cestino, invece oggi arrivano sotto forma di spot anche i contratti. «Dai sfogo alla tua voglia di sms!» leggo sul mio telefonino: io un messaggio che inizia così non lo leggo nemmeno, lo cancello alla prima riga. Invece no, sotto c’è una proposta di contratto. «Tre mesi di telefonate gratis!»: sì, ma dopo? Giro e rigiro la pagina di pubblicità, vado sul sito, rileggo l’sms, niente: non c’è scritto. Ok per i tre mesi gratis, ma dopo? A chi lo chiedo, al 187? Compongo il numero, e parte un jingle: pubblicità anche qui...Quando si arriva al contatto desiderato, dopo almeno cinque minuti di telefonata, c’è un messaggio registrato che ripete esattamente quello che diceva lo spot.
Non so, può darsi che in origine il marketing fosse una cosa seria: io non ho mai lavorato alle vendite e non lo so. So invece cosa è diventato oggi, marketing è sinonimo di fregatura.
(e abbiamo al governo il re delle televendite: ma nel 1995 sulle televendite c’è stato un referendum, avremmo potuto fermare tutto e non l’abbiamo fatto.)
PS: questo post è già stato messo on line il 9 gennaio scorso. Adesso tocca alla Lombardia: stessi spot e stessa terminologia (mai dire che il decoder bisogna comperarlo, pagarlo, spenderci soldi!) con l'aggiunta di piccoli spot dove si spiega alle gentili massaie che non serve cambiare l'antenna. Anche dove abito io non abbiamo cambiato l'antenna, ma abbiamo dovuto "procurarci" un antennista (cioè pagarlo) per fare le necessarie modifiche...
lunedì 10 maggio 2010
Ellekappa
Ellekappa si chiama Laura ed è una ragazza bionda molto carina: da quando sono venuto a saperlo, anni fa, non posso fare a meno di pensarci. In fin dei conti, abbiamo più o meno la stessa età, avremmo ben potuto incontrarci...
PS: le vignette di Ellekappa vengono da Linus, se non ricordo male: primi anni '90.
venerdì 7 maggio 2010
Il futuro fa paura
Rifletto, un po’ spaventato, davanti ai commenti di economisti più o meno insigni e di quasi tutti i politici e gli opinionisti davanti a quella che viene chiamata “la crisi della Grecia”. Conosco bene i miei limiti e so bene che sono tutt'altro che un esperto, ma - visti dal mio piccolo angolo di mondo - questi commenti non mi convincono, anzi.
Mi trovo spaventato e spiazzato perché quello che ascolto non corrisponde a quello che vedo e che tocco con mano: si parla dell’euro, per esempio; si dice che l’Italia sta meglio del Portogallo e della Spagna; poi arriva Moody’s e dice che siamo in ballo anche noi. A chi credere, chi ascoltare?
La risposta migliore è guardarsi intorno, soprattutto noi che siamo qui nel cuore della Brianza operosa o ai suoi confini, o magari nel mitico Nordest veneto-furlano: questo è un Paese ormai quasi completamente deindustrializzato, e non da oggi. La fuga delle industrie dura da una decina d’anni, una alle volte se ne sono andate tutte: gli industriali italiani hanno “delocalizzato”, le multinazionali estere hanno chiuso qui e sono andate a produrre altrove. Quando si faceva notare il fenomeno (non io: gli economisti seri e gli studiosi del lavoro) si rispondeva che era giusto così, che l’industria “pesante” era roba da paesi arretrati, che i paesi evoluti hanno il terziario, eccetera. Che è una risposta in parte giusta e comprensibile: nessuno si sporca volentieri le mani, per esempio le concerie e le tintorie sono lavoracci, inquinano, se le pelli le lavorano in Turchia è meglio, si inquina meno, circolano meno veleni, eccetera. Tutto bene salvo un particolare: che se chiude una conceria ci sono un centinaio di lavoratori senza paga, e se ne chiudono dieci, eccetera eccetera.
La questione non riguarda solo le tintorie e le concerie, ma anche lavori “belli”, da laureati: la storia della Glaxo a Verona è notizia di questi giorni. E se appena si tocca il discorso dell'agricoltura, sono dolori.
Che dire? Che si ha una gran paura di chiamare le cose con il loro nome. Fin qui è andata abbastanza bene, ma quello che accade in Grecia arriverà anche da noi. Provate a guardare con attenzione nei supermarket e nei centri commerciali, magari dove vendono televisori, elettrodomestici, oggettistica varia, vestiti, scarpe: trovare cose prodotte in Italia è sempre più difficile. L’Italia non produce più niente, che fine ha fatto il famoso “made in Italy”? La questione è complessa e io non sono un economista, ma mi permetto di dire – visto che non lo dice nessuno, ma la questione è ormai visibile anche agli incompetenti come me – che dipende da vari fattori, ma io vorrei ricordare che da venti-venticinque anni fa si è insegnato alle giovani generazioni che i mestieri importanti erano il venditore, il pubblicitario, l’immobiliare, il marketing, magari l’esperto di sondaggi, i “derivati bancari”... Insomma, fumo, aria, un mondo virtuale dove non c’è niente di solido: per “vendere” devi pur avere una merce, non bastano gli slogan. Tornando per un attimo all'agricoltura, quello che produciamo in Italia non basterebbe mai a coprire il fabbisogno nazionale, eppure continuiamo a ridurre le aree coltivate, a costruire: e metà del grano per i nostri spaghetti arriva dal Canada, ma questo sembra non interessare a nessuno. Che dire? Speriamo che lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez restino sempre agibili, e che il Canada si mantenga prospero e abbia ottimi raccolti, altrimenti qui rischiamo la fame.
La Storia, quella con la esse maiuscola, ci insegna che il mondo gira, Paesi che comandavano il mondo sono andati incontro al declino, altri Paesi hanno preso il loro posto...
Siamo stati bene per più di mezzo secolo, con i fannulloni, i comunisti e i democristiani statalisti abbiamo fatto il boom economico, con il “mortadella” Prodi (e con Ciampi, e anche con il governo Amato del 1992) siamo entrati nell’euro, poi sono arrivati al potere gli esperti economisti (non solo in Italia, in tutta Europa), l’euro non viene più difeso, in tutto l’Occidente trionfano le ideologie della fuffa (mi si passi il termine) e del personale visto come un peso e non come una risorsa, si è propagandato che il lavoro manuale è brutto e sporco ed è meglio farlo fare agli altri, e adesso ogni merce che abbiamo in casa, anche la più piccola, è made in China. Ogni volta che facciamo un acquisto, anche piccolo, è il PIL della Cina quello che si muove verso l’alto...
Insomma, forse la crisi si potrà evitare, ma è meglio se cominciamo a prepararci al peggio. Che futuro ha un Paese dove sono i call center la principale fonte di occupazione?
Mi trovo spaventato e spiazzato perché quello che ascolto non corrisponde a quello che vedo e che tocco con mano: si parla dell’euro, per esempio; si dice che l’Italia sta meglio del Portogallo e della Spagna; poi arriva Moody’s e dice che siamo in ballo anche noi. A chi credere, chi ascoltare?
La risposta migliore è guardarsi intorno, soprattutto noi che siamo qui nel cuore della Brianza operosa o ai suoi confini, o magari nel mitico Nordest veneto-furlano: questo è un Paese ormai quasi completamente deindustrializzato, e non da oggi. La fuga delle industrie dura da una decina d’anni, una alle volte se ne sono andate tutte: gli industriali italiani hanno “delocalizzato”, le multinazionali estere hanno chiuso qui e sono andate a produrre altrove. Quando si faceva notare il fenomeno (non io: gli economisti seri e gli studiosi del lavoro) si rispondeva che era giusto così, che l’industria “pesante” era roba da paesi arretrati, che i paesi evoluti hanno il terziario, eccetera. Che è una risposta in parte giusta e comprensibile: nessuno si sporca volentieri le mani, per esempio le concerie e le tintorie sono lavoracci, inquinano, se le pelli le lavorano in Turchia è meglio, si inquina meno, circolano meno veleni, eccetera. Tutto bene salvo un particolare: che se chiude una conceria ci sono un centinaio di lavoratori senza paga, e se ne chiudono dieci, eccetera eccetera.
La questione non riguarda solo le tintorie e le concerie, ma anche lavori “belli”, da laureati: la storia della Glaxo a Verona è notizia di questi giorni. E se appena si tocca il discorso dell'agricoltura, sono dolori.
Che dire? Che si ha una gran paura di chiamare le cose con il loro nome. Fin qui è andata abbastanza bene, ma quello che accade in Grecia arriverà anche da noi. Provate a guardare con attenzione nei supermarket e nei centri commerciali, magari dove vendono televisori, elettrodomestici, oggettistica varia, vestiti, scarpe: trovare cose prodotte in Italia è sempre più difficile. L’Italia non produce più niente, che fine ha fatto il famoso “made in Italy”? La questione è complessa e io non sono un economista, ma mi permetto di dire – visto che non lo dice nessuno, ma la questione è ormai visibile anche agli incompetenti come me – che dipende da vari fattori, ma io vorrei ricordare che da venti-venticinque anni fa si è insegnato alle giovani generazioni che i mestieri importanti erano il venditore, il pubblicitario, l’immobiliare, il marketing, magari l’esperto di sondaggi, i “derivati bancari”... Insomma, fumo, aria, un mondo virtuale dove non c’è niente di solido: per “vendere” devi pur avere una merce, non bastano gli slogan. Tornando per un attimo all'agricoltura, quello che produciamo in Italia non basterebbe mai a coprire il fabbisogno nazionale, eppure continuiamo a ridurre le aree coltivate, a costruire: e metà del grano per i nostri spaghetti arriva dal Canada, ma questo sembra non interessare a nessuno. Che dire? Speriamo che lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez restino sempre agibili, e che il Canada si mantenga prospero e abbia ottimi raccolti, altrimenti qui rischiamo la fame.
La Storia, quella con la esse maiuscola, ci insegna che il mondo gira, Paesi che comandavano il mondo sono andati incontro al declino, altri Paesi hanno preso il loro posto...
Siamo stati bene per più di mezzo secolo, con i fannulloni, i comunisti e i democristiani statalisti abbiamo fatto il boom economico, con il “mortadella” Prodi (e con Ciampi, e anche con il governo Amato del 1992) siamo entrati nell’euro, poi sono arrivati al potere gli esperti economisti (non solo in Italia, in tutta Europa), l’euro non viene più difeso, in tutto l’Occidente trionfano le ideologie della fuffa (mi si passi il termine) e del personale visto come un peso e non come una risorsa, si è propagandato che il lavoro manuale è brutto e sporco ed è meglio farlo fare agli altri, e adesso ogni merce che abbiamo in casa, anche la più piccola, è made in China. Ogni volta che facciamo un acquisto, anche piccolo, è il PIL della Cina quello che si muove verso l’alto...
Insomma, forse la crisi si potrà evitare, ma è meglio se cominciamo a prepararci al peggio. Che futuro ha un Paese dove sono i call center la principale fonte di occupazione?
giovedì 6 maggio 2010
Il Castello Sforzesco
- Mi scusi, per il Castello Sforzesco?
Per chi non lo sapesse, stando in Piazza Cadorna il Castello Sforzesco è lì, sulla destra: o sulla sinistra, dipende da che parte sei voltato. Il fatto che quei quattro giovinotti in automobile mi stessero chiedendo dov’era, significava che non avevo scampo. Qualsiasi risposta gli avessi dato, mi sarei come minimo beccato del pirla; e infatti tergiverso, non ho la risposta pronta né una battuta in tasca, sto solo tirando un po’ tardi perchè è una bella serata e il mio treno parte fra venti minuti, c’è tempo. E il Castello Sforzesco è lì, enorme, che incombe alla mia sinistra; alzo le spalle e faccio cenno che boh, non so. Difatti, eccoli qui:
- Aaaahhh, che pirla! – e via, ridendo contenti.
Ecco, questo è uno di quei piccoli episodi che rimangono in mente anche a distanza di molti anni perché, pur essendo di per sè insignificanti, diventano emblematici quando si ripresenta la stessa situazione, magari in un contesto diverso e più serio.
Ieri sera, per esempio, una persona che conosco si è vantata di essere razzista, e ha irriso chi non è razzista. Stavo male (sto male ancora adesso) ma siccome non parlava direttamente con me sono stato zitto, e mi sono chiesto: è possibile parlare con questa persona, discutere, portare delle ragioni? No, non è possibile. Forse lo sarebbe stato quindici o venti anni fa, ma adesso non è più possibile. Adesso sono nella stessa situazione di quella sera a Milano: qualsiasi cosa dica, mi beccherò come minimo del pirla.
E a questo punto ne sono ben contento: meglio pirla che razzista, meglio pirla che fascista, meglio pirla che elettore della Lega Nord; non per le idee dei leghisti, ma per i capi impresentabili che si sono scelti, e per la valanga d’ignoranza compiaciuta che hanno fatto franare su questo mio povero Paese.
Per chi non lo sapesse, stando in Piazza Cadorna il Castello Sforzesco è lì, sulla destra: o sulla sinistra, dipende da che parte sei voltato. Il fatto che quei quattro giovinotti in automobile mi stessero chiedendo dov’era, significava che non avevo scampo. Qualsiasi risposta gli avessi dato, mi sarei come minimo beccato del pirla; e infatti tergiverso, non ho la risposta pronta né una battuta in tasca, sto solo tirando un po’ tardi perchè è una bella serata e il mio treno parte fra venti minuti, c’è tempo. E il Castello Sforzesco è lì, enorme, che incombe alla mia sinistra; alzo le spalle e faccio cenno che boh, non so. Difatti, eccoli qui:
- Aaaahhh, che pirla! – e via, ridendo contenti.
Ecco, questo è uno di quei piccoli episodi che rimangono in mente anche a distanza di molti anni perché, pur essendo di per sè insignificanti, diventano emblematici quando si ripresenta la stessa situazione, magari in un contesto diverso e più serio.
Ieri sera, per esempio, una persona che conosco si è vantata di essere razzista, e ha irriso chi non è razzista. Stavo male (sto male ancora adesso) ma siccome non parlava direttamente con me sono stato zitto, e mi sono chiesto: è possibile parlare con questa persona, discutere, portare delle ragioni? No, non è possibile. Forse lo sarebbe stato quindici o venti anni fa, ma adesso non è più possibile. Adesso sono nella stessa situazione di quella sera a Milano: qualsiasi cosa dica, mi beccherò come minimo del pirla.
E a questo punto ne sono ben contento: meglio pirla che razzista, meglio pirla che fascista, meglio pirla che elettore della Lega Nord; non per le idee dei leghisti, ma per i capi impresentabili che si sono scelti, e per la valanga d’ignoranza compiaciuta che hanno fatto franare su questo mio povero Paese.
domenica 2 maggio 2010
Lega Pro
Per puro caso, scopro che la squadra di calcio della mia città natale gioca in Lega Pro.
- Poverini, come sono finiti in basso! – dico – Almeno la serie C potevano meritarsela...
- Ma no, - risponde il mio amico scuotendo la testa – la Lega Pro e la serie C sono la stessa cosa, adesso la serie C si chiama Lega Pro.
- Ah, - dico; e non insisto a farmi spiegare la cosa. Oltretutto, “Lega Pro” non mi pare che abbia alcun significato e a dirla tutta ha anche un suono sconveniente che evoca oscuri rumori corporali, sui quali sorvolo (ma da bambini li chiamavamo proprio così, legaprò).
Ricapitolo: una volta c’erano la serie A, la serie B, la serie C e la serie D; più sotto c’erano i Dilettanti. Anche chi non sapeva nulla di calcio e non se ne era mai interessato capiva subito: in serie A c’erano le squadre più forti, eccetera. Poi si è cominciato a dire “di serie B” o “di serie C” anche fuori del mondo del calcio, in tono spregiativo; di qui l’urgenza di cambiare il nome, perché “squadra di serie C” suonava sconveniente.
Che poi, alla fin fine, sono tutti trucchetti scemi: che sia serie C o Legaprò, la sostanza non cambia. E, soprattutto, giocare in serie C non è mica disonorevole: anzi, corrono ottimi stipendi e bisogna essere bravi, allenarsi, impegnarsi, fare lunghe trasferte... Bisogna essere bravi, per giocare in serie C; tanti ragazzi appassionati di calcio se la sognano di notte, la serie C: “quantomeno, mi piacerebbe arrivare in serie C...”.
E’ lo stesso trucchetto che si è fatto con la scuola: adesso bisogna stare attenti, non ci sono più le elementari. “Si dice primarie” mi ripetono ogni tanto, severi, col ditino alzato a rimarcare l’errore.
Elementari o primarie, si tratta sempre di bambini di sei anni: cosa c’è di diverso? Questi sono i trucchetti dei pubblicitari, del marketing: una volta queste cose le si raccontava in forma di barzelletta, l’oste che travasava il vino che non piaceva ai suoi clienti in un'altra bottiglia, gli metteva un’etichetta diversa, e tutti a dire che quello sì che era buono.
Un trucco molto vecchio, ma si vede che funziona ancora; però nelle antiche barzellette si rideva della dabbenaggine di quei clienti, oggi non so. Magari ti direbbero che bere fa male...
Insomma, che dire? A rigor di logica, l’esistenza di una Lega Pro ammetterebbe la presenza di una Lega Contro: se è così mi ci iscrivo subito, sono contro senza il minimo dubbio, contro a tutta questa marea di xxxxxxx che ci sta sommergendo, s’intende.
- Poverini, come sono finiti in basso! – dico – Almeno la serie C potevano meritarsela...
- Ma no, - risponde il mio amico scuotendo la testa – la Lega Pro e la serie C sono la stessa cosa, adesso la serie C si chiama Lega Pro.
- Ah, - dico; e non insisto a farmi spiegare la cosa. Oltretutto, “Lega Pro” non mi pare che abbia alcun significato e a dirla tutta ha anche un suono sconveniente che evoca oscuri rumori corporali, sui quali sorvolo (ma da bambini li chiamavamo proprio così, legaprò).
Ricapitolo: una volta c’erano la serie A, la serie B, la serie C e la serie D; più sotto c’erano i Dilettanti. Anche chi non sapeva nulla di calcio e non se ne era mai interessato capiva subito: in serie A c’erano le squadre più forti, eccetera. Poi si è cominciato a dire “di serie B” o “di serie C” anche fuori del mondo del calcio, in tono spregiativo; di qui l’urgenza di cambiare il nome, perché “squadra di serie C” suonava sconveniente.
Che poi, alla fin fine, sono tutti trucchetti scemi: che sia serie C o Legaprò, la sostanza non cambia. E, soprattutto, giocare in serie C non è mica disonorevole: anzi, corrono ottimi stipendi e bisogna essere bravi, allenarsi, impegnarsi, fare lunghe trasferte... Bisogna essere bravi, per giocare in serie C; tanti ragazzi appassionati di calcio se la sognano di notte, la serie C: “quantomeno, mi piacerebbe arrivare in serie C...”.
E’ lo stesso trucchetto che si è fatto con la scuola: adesso bisogna stare attenti, non ci sono più le elementari. “Si dice primarie” mi ripetono ogni tanto, severi, col ditino alzato a rimarcare l’errore.
Elementari o primarie, si tratta sempre di bambini di sei anni: cosa c’è di diverso? Questi sono i trucchetti dei pubblicitari, del marketing: una volta queste cose le si raccontava in forma di barzelletta, l’oste che travasava il vino che non piaceva ai suoi clienti in un'altra bottiglia, gli metteva un’etichetta diversa, e tutti a dire che quello sì che era buono.
Un trucco molto vecchio, ma si vede che funziona ancora; però nelle antiche barzellette si rideva della dabbenaggine di quei clienti, oggi non so. Magari ti direbbero che bere fa male...
Insomma, che dire? A rigor di logica, l’esistenza di una Lega Pro ammetterebbe la presenza di una Lega Contro: se è così mi ci iscrivo subito, sono contro senza il minimo dubbio, contro a tutta questa marea di xxxxxxx che ci sta sommergendo, s’intende.
sabato 1 maggio 2010
Futura umanità
L'amico Solimano, nell'ormai lontano 2003, aveva letto alcuni miei racconti autobiografici relativi alla mia esperienza in fabbrica, e mi aveva incoraggiato a scriverne altri, che furono pubblicati su un blog (legato al movimento dei girotondini, per chi se li ricorda...) che oggi non esiste più.
In effetti, a quel tempo ci credevo ancora: credevo che fosse possibile fermare la deriva spaventosa presa dal mondo del lavoro, che fosse possibile parlare, ragionare, come si era sempre fatto. Non era possibile, invece: e anch'io lo sapevo da tempo ma non volevo credere a quello che avevo già toccato con mano.
Nell'occasione del Primo Maggio ripubblico perciò, con tristezza, il racconto che segna il momento in cui mi resi conto che la battaglia per continuare ad avere un mondo del lavoro accettabile era perduta. I lavoratori avevano abdicato da tempo, per loro le priorità erano altre.
Spero che nessuno si offenda: è un fatto vero, di per sè insignificante, ma soprattutto non è di calcio che sto parlando ed eventuali commenti che si riferiscano al football saranno cestinati.
Cronache di fabbrica, n.39
Devo essere in fabbrica per le 22, ma come al solito, arrivo mezz’ora prima. Non è una mia prerogativa: lo fanno tutti, per antica e sana consuetudine. Si arriva presto, così il collega che sta finendo il turno ha il tempo di tirare un po’ il fiato, di prepararsi per le consegne, magari anche di andare a fare la doccia prima di tornare a casa. La mattina dopo, il collega renderà il favore, e così via. Beh, non lo fanno proprio tutti: le pecore nere ci sono, non manca mai chi se ne approfitta – ma questo è un altro discorso.
Dunque, sono le 21:40 e sono già in laboratorio, pronto per mettermi a lavorare. Ma i miei due giovani colleghi sono distratti: è una sera di maggio del 1998, e c’è la finale di Coppa dei Campioni. I due hanno portato un piccolo televisore, lo hanno sistemato in bagno e lo stanno guardando con attenzione e partecipazione: la partita è Real Madrid-Juventus, a me non interessa molto ma a loro sì. C’è una cosa che non torna: lo juventino sono io, i miei due colleghi sono interisti...
Sono ormai le 22:10, ma i miei due colleghi non se ne vanno. Sono ancora lì, a “gufare”; ogni tanto il più giovane dei due esce dal cesso (pardon, spogliatoio) e mi fa dei gestacci, soprattutto quando lo jugoslavo Mijatovic segna un gol per il Real Madrid. Rifletto, intanto che vado avanti con il lavoro: il minore dei due interisti ha 22 anni, abita a quindici minuti da qui, fossi in lui me ne andrei a casa, o al bar, o meglio ancora a morosa. Il maggiore ha 31 anni, è sposato, ha una moglie giovane e bella e abita anche lui a dieci minuti da qui: cosa ci sta a fare, a quest’ora, vicino al cesso, a sbirciare in un televisore così piccolo?
E ora veniamo alle mie colpe: avendo a che fare con persone più giovani di me, quando la Juve ha sconfitto l’Inter, una ventina di giorni fa, avevo ritenuto opportuno ricordare alcune cose fondamentali nello sport, e cioè – per esempio – che le partite durano 90 minuti, che l’Inter perdeva a dieci minuti dalla fine, che non ci si può appoggiare ad un rigore dato o non dato, che l’Inter schierava Ronaldo e Zamorano e che la difesa della Juve era fatta da giocatori logori o mediocri, a parte Ciro Ferrara: ma, niente, ne avevo ricavato solo una serie di insulti che stasera sto riascoltando in sequenza e con varianti, e con gestacci irripetibili rivolti alla mia persona. Adesso io non sono più l’amico e collega con cui tanto si andava d’accordo, così disponibile a cambiare turni quando serve, sempre loro alleato nei problemi di lavoro, eccetera: sono solo un perfido gobbo juventino come tanti altri. Il che, secondo me, non giustifica il fatto che loro due siano ancora chiusi qui dentro, alle 22:40, invece di andare a casa o a morosa.
Ben mi sta, così imparo ancora qualcosa della vita, all’alba dei 40 anni: così sono fatti gli operai, purtroppo, e dovevo ancora impararlo. Altre sorprese mi sarebbero arrivate negli anni successivi, e anche se sono sempre rimasto amico dei miei colleghi, da allora ho quasi smesso di parlare di calcio e anche di interessarmene. Purtroppo, del calcio non si può fare a meno, non in un ambiente quasi completamente maschile.
Quando finalmente se ne vanno, ormai verso le 23, mi siedo e penso: penso al ‘68, all’autunno caldo, alle grandi manifestazioni che hanno portato allo Statuto dei Lavoratori. Forse non ce lo meritiamo, forse hanno ragione i padroni che chiedono di ricontrattare tutto, forse – se queste sono le nuove leve della fabbrica - abbiamo dato troppe cose per scontate, democrazia compresa.
In effetti, a quel tempo ci credevo ancora: credevo che fosse possibile fermare la deriva spaventosa presa dal mondo del lavoro, che fosse possibile parlare, ragionare, come si era sempre fatto. Non era possibile, invece: e anch'io lo sapevo da tempo ma non volevo credere a quello che avevo già toccato con mano.
Nell'occasione del Primo Maggio ripubblico perciò, con tristezza, il racconto che segna il momento in cui mi resi conto che la battaglia per continuare ad avere un mondo del lavoro accettabile era perduta. I lavoratori avevano abdicato da tempo, per loro le priorità erano altre.
Spero che nessuno si offenda: è un fatto vero, di per sè insignificante, ma soprattutto non è di calcio che sto parlando ed eventuali commenti che si riferiscano al football saranno cestinati.
Cronache di fabbrica, n.39
Devo essere in fabbrica per le 22, ma come al solito, arrivo mezz’ora prima. Non è una mia prerogativa: lo fanno tutti, per antica e sana consuetudine. Si arriva presto, così il collega che sta finendo il turno ha il tempo di tirare un po’ il fiato, di prepararsi per le consegne, magari anche di andare a fare la doccia prima di tornare a casa. La mattina dopo, il collega renderà il favore, e così via. Beh, non lo fanno proprio tutti: le pecore nere ci sono, non manca mai chi se ne approfitta – ma questo è un altro discorso.
Dunque, sono le 21:40 e sono già in laboratorio, pronto per mettermi a lavorare. Ma i miei due giovani colleghi sono distratti: è una sera di maggio del 1998, e c’è la finale di Coppa dei Campioni. I due hanno portato un piccolo televisore, lo hanno sistemato in bagno e lo stanno guardando con attenzione e partecipazione: la partita è Real Madrid-Juventus, a me non interessa molto ma a loro sì. C’è una cosa che non torna: lo juventino sono io, i miei due colleghi sono interisti...
Sono ormai le 22:10, ma i miei due colleghi non se ne vanno. Sono ancora lì, a “gufare”; ogni tanto il più giovane dei due esce dal cesso (pardon, spogliatoio) e mi fa dei gestacci, soprattutto quando lo jugoslavo Mijatovic segna un gol per il Real Madrid. Rifletto, intanto che vado avanti con il lavoro: il minore dei due interisti ha 22 anni, abita a quindici minuti da qui, fossi in lui me ne andrei a casa, o al bar, o meglio ancora a morosa. Il maggiore ha 31 anni, è sposato, ha una moglie giovane e bella e abita anche lui a dieci minuti da qui: cosa ci sta a fare, a quest’ora, vicino al cesso, a sbirciare in un televisore così piccolo?
E ora veniamo alle mie colpe: avendo a che fare con persone più giovani di me, quando la Juve ha sconfitto l’Inter, una ventina di giorni fa, avevo ritenuto opportuno ricordare alcune cose fondamentali nello sport, e cioè – per esempio – che le partite durano 90 minuti, che l’Inter perdeva a dieci minuti dalla fine, che non ci si può appoggiare ad un rigore dato o non dato, che l’Inter schierava Ronaldo e Zamorano e che la difesa della Juve era fatta da giocatori logori o mediocri, a parte Ciro Ferrara: ma, niente, ne avevo ricavato solo una serie di insulti che stasera sto riascoltando in sequenza e con varianti, e con gestacci irripetibili rivolti alla mia persona. Adesso io non sono più l’amico e collega con cui tanto si andava d’accordo, così disponibile a cambiare turni quando serve, sempre loro alleato nei problemi di lavoro, eccetera: sono solo un perfido gobbo juventino come tanti altri. Il che, secondo me, non giustifica il fatto che loro due siano ancora chiusi qui dentro, alle 22:40, invece di andare a casa o a morosa.
Ben mi sta, così imparo ancora qualcosa della vita, all’alba dei 40 anni: così sono fatti gli operai, purtroppo, e dovevo ancora impararlo. Altre sorprese mi sarebbero arrivate negli anni successivi, e anche se sono sempre rimasto amico dei miei colleghi, da allora ho quasi smesso di parlare di calcio e anche di interessarmene. Purtroppo, del calcio non si può fare a meno, non in un ambiente quasi completamente maschile.
Quando finalmente se ne vanno, ormai verso le 23, mi siedo e penso: penso al ‘68, all’autunno caldo, alle grandi manifestazioni che hanno portato allo Statuto dei Lavoratori. Forse non ce lo meritiamo, forse hanno ragione i padroni che chiedono di ricontrattare tutto, forse – se queste sono le nuove leve della fabbrica - abbiamo dato troppe cose per scontate, democrazia compresa.
Iscriviti a:
Post (Atom)