PS: un omaggio al grande Massimo Bucchi (www.repubblica.it) e un’enorme preoccupazione non solo per il futuro ma anche per il presente. (non sto parlando né di tasse né del governo nuovo, sia ben chiaro).
lunedì 28 novembre 2011
E' un momento di passaggio
PS: un omaggio al grande Massimo Bucchi (www.repubblica.it) e un’enorme preoccupazione non solo per il futuro ma anche per il presente. (non sto parlando né di tasse né del governo nuovo, sia ben chiaro).
Furbetti
Uno dei luoghi comuni che non reggo proprio più è quello sui “furbetti”. Si era iniziato in maniera accettabile, perfino divertente, quando pochi anni fa furono arrestati alcuni truffatori, tra Milano e Roma (la Popolare di Lodi, se non ricordo male, le immobiliari, la speculazione edilizia, e tante altre cose ancora), che avevano come dato in comune di essere giovani e molto sicuri di sè. Così sicuri e così spavaldi da muoversi senza troppe precauzioni: avevano appoggi importanti, si sentivano intoccabili, era giusto definirli “furbetti”.
Ma adesso leggo che vengono descritti come furbetti e approfittatori le persone che dopo quarant’anni pensavano di aver maturato il diritto alla pensione; e su giornali e tv (e internet, e dintorni) leggo titolazioni bizzarre, come quella dell’altro giorno sul quotidiano di Como “La Provincia”, in prima pagina a nove colonne, secondo la quale ci sarebbero migliaia di furbetti che non hanno pagato il bollo auto e stanno per essere smascherati. Quattromila, se non ricordo male, o forse quarantacinquemila, chi può dirlo: spero di non essere anch’io nel numero, perché io il bollo auto l’ho sempre pagato e conservo regolare ricevuta. Via, siamo seri: come si fa a evadere il bollo auto, o il canone Rai? Quando l’hai pagato la prima volta, sei sistemato per sempre: più che furbetti bisognerebbe essere un po’ coglioni, se si pensa di farla franca e che nessuno se ne accorga. Molto più facile, e difatti lo fanno in tanti, è evadere l’assicurazione auto: i rischi che si corrono sono enormi, ma qui non esiste un database, il contratto si fa tra privati, si può tentare di fare il furbo. Cosa può essere dunque successo? Visto l’altissimo numero di bolli auto non pagati, facile che ci sia stato qualche disguido (o peggio) alle Poste o alle agenzie predisposte alla riscossione. Il che significa noie e grane anche per i contribuenti onesti, e purtroppo non sarebbe la prima volta.
A pensarci bene, è l’idea stessa del “furbetto” che mi disturba. Perché mai dividere il mondo in furbi e fessi, come nelle barzellette? Il mondo è molto più vasto, e basterebbe poco per accorgersene. Per fare solo un piccolo esempio, davvero minuscolo, anni fa un amico mi confessò di essersi dimenticato una scadenza delle tasse: gli era nata una bambina. Tutto il resto, di colpo, non esisteva più. Quando gli venne in mente quella scadenza, era tardi e dovette pagare una multa. Lo vorreste chiamare furbetto? Di eventi simili, felici e tristi, è piena la nostra vita; e a me non va di essere chiamato furbetto quando invece ho magari – ed è solo un altro dei mille possibili esempi – malattie e dispiaceri in casa, o magari una gioia suprema che ti manda all’aria tutte le scempiaggini burocratiche e amministrative. Non esistono solo i furbi e i criminali, insomma.
Prima di fare quei titoli, per cortesia, ci si fermi un attimo a pensare. Per quel che mi riguarda, ho preso nota e so già che se leggo o ascolto la parola “furbetto” sto avendo a che fare con un giornalista pigro o disattento: pessimo giornalismo dunque, da evitare.
Ma adesso leggo che vengono descritti come furbetti e approfittatori le persone che dopo quarant’anni pensavano di aver maturato il diritto alla pensione; e su giornali e tv (e internet, e dintorni) leggo titolazioni bizzarre, come quella dell’altro giorno sul quotidiano di Como “La Provincia”, in prima pagina a nove colonne, secondo la quale ci sarebbero migliaia di furbetti che non hanno pagato il bollo auto e stanno per essere smascherati. Quattromila, se non ricordo male, o forse quarantacinquemila, chi può dirlo: spero di non essere anch’io nel numero, perché io il bollo auto l’ho sempre pagato e conservo regolare ricevuta. Via, siamo seri: come si fa a evadere il bollo auto, o il canone Rai? Quando l’hai pagato la prima volta, sei sistemato per sempre: più che furbetti bisognerebbe essere un po’ coglioni, se si pensa di farla franca e che nessuno se ne accorga. Molto più facile, e difatti lo fanno in tanti, è evadere l’assicurazione auto: i rischi che si corrono sono enormi, ma qui non esiste un database, il contratto si fa tra privati, si può tentare di fare il furbo. Cosa può essere dunque successo? Visto l’altissimo numero di bolli auto non pagati, facile che ci sia stato qualche disguido (o peggio) alle Poste o alle agenzie predisposte alla riscossione. Il che significa noie e grane anche per i contribuenti onesti, e purtroppo non sarebbe la prima volta.
A pensarci bene, è l’idea stessa del “furbetto” che mi disturba. Perché mai dividere il mondo in furbi e fessi, come nelle barzellette? Il mondo è molto più vasto, e basterebbe poco per accorgersene. Per fare solo un piccolo esempio, davvero minuscolo, anni fa un amico mi confessò di essersi dimenticato una scadenza delle tasse: gli era nata una bambina. Tutto il resto, di colpo, non esisteva più. Quando gli venne in mente quella scadenza, era tardi e dovette pagare una multa. Lo vorreste chiamare furbetto? Di eventi simili, felici e tristi, è piena la nostra vita; e a me non va di essere chiamato furbetto quando invece ho magari – ed è solo un altro dei mille possibili esempi – malattie e dispiaceri in casa, o magari una gioia suprema che ti manda all’aria tutte le scempiaggini burocratiche e amministrative. Non esistono solo i furbi e i criminali, insomma.
Prima di fare quei titoli, per cortesia, ci si fermi un attimo a pensare. Per quel che mi riguarda, ho preso nota e so già che se leggo o ascolto la parola “furbetto” sto avendo a che fare con un giornalista pigro o disattento: pessimo giornalismo dunque, da evitare.
sabato 26 novembre 2011
Grana Padano e Gazzettino Padano
L’altro giorno un deputato leghista, o comunque una delle teste pensanti della Lega, ha dichiarato in pubblico che la Padania esiste, perché ci sono il gazzettino padano e il grana padano; aggiungendo che “si sa che da noi si mangia bene”. Tutto questo è stato filmato, il filmato gira in rete e sembra che susciti molta ilarità, con battute del tipo “sì, come l’insalata russa”. Io trovo invece tutto questo molto avvilente, e – visto che fin qui non lo ha ancora fatto nessuno - mi vedo costretto a spiegare che cos’è il Grana Padano, e magari anche il Gazzettino Padano.
Da tempo immemorabile, più di mille anni, lungo il corso del Po si produce un formaggio stagionato chiamato grana. Non si riesce a produrlo altrove: non così buono. Si sa che per i prodotti alimentari la geografia e l’orografia sono importantissimi: le cipolle di Tropea vengono così buone solo a Tropea in Calabria, se le trapiantate e le coltivate a casa vostra il sapore cambia, e di molto. La stessa cosa capita per i vini, per quasi tutti i formaggi (l’Asiago viene buono solo sull’altipiano di Asiago, l’Emmenthal buono è solo quello svizzero, eccetera), per i prosciutti (il prosciutto di Parma viene così buono solo in determinati paesi della provincia di Parma, per via dell’aria, dell’umidità, eccetera). Tutto questo è risaputo, o almeno dovrebbe esserlo.
Il grana prodotto nella Pianura Padana è diviso in due grandi consorzi: il Parmigiano-Reggiano, che si produce in un’area ben delimitata tra le provincie di Parma e di Reggio Emilia, e il Grana Padano, che si produce nelle zone limitrofe, a Cremona ma anche nel sud del Piemonte, per esempio. Non è solo una questione di geografia: i due consorzi hanno regole diverse sull’alimentazione delle mucche che danno il latte per il formaggio. La descrizione completa sarebbe molto lunga, e rimando per questo ai siti ufficiali o magari a wikipedia; qui si può dire per brevità che il consorzio del Parmigiano-Reggiano ha norme molto restrittive, le mucche possono mangiare solo il fieno e l’erba dei pascoli, niente mangimi preparati. Così facendo, si vede anche solo a occhio cosa stanno mangiando le mucche: il sapore del latte dipende moltissimo da quello che mangiano le mucche. Nel consorzio del Grana Padano la qualità è sempre garantita, ma le regole su cosa mangiano le mucche sono meno restrittive: è per questo che c’è una differenza di prezzo fra i due formaggi.
Esistono caseifici che producono il grana anche al di fuori dei due consorzi, e spesso è anche buono, ma non possono usare né il marchio “parmigiano-reggiano” né il marchio “grana padano”: sono le stesse regole del DOC e del DOCG dei vini, a volte discutibili (bastano pochi chilometri al di là del confine geografico per negare il marchio?), il più delle volte essenziali per mantenere alta la qualità del prodotto. Non è una cosa da poco: è grazie a queste norme, per esempio, che l’Italia è rimasta fuori dal problema della “mucca pazza” (in altri Paesi europei alle mucche si davano da mangiare cose ignobili), o da altre gravi degenerazioni.
Il discorso sul Gazzettino Padano invece è molto più breve: si chiama così, da tempo immemorabile, il giornale radio RAI per la Lombardia. Lo ascoltavo sempre con mio papà, negli anni ’60: la sigla risorgimentale della “bella gigogìn” ne avvertiva l’inizio, ma si tratta di un giornale radio regionale e nulla di più. Invece, a me pare che i leghisti intendano per padania qualcosa che va da Sondrio a Ferrara ad Aosta a Belluno, località dove i notiziari milanesi non sempre arrivano e non sempre interessano.
Mi dispiace perdere tempo a specificare cose note e stranote, ma la Lega Nord è fatta così: mi ricordo bene, per esempio, quando a Umberto Bossi chiesero l’origine del suo federalismo, e lui rispose: «Ma sì, Carlo Cattaneo», come se fosse cosa ovvia e scontata. Dato che Carlo Cattaneo fa parte dei programmi scolastici, mi sono sempre meravigliato che nessuno lo fermasse per chiedergli: «Ma lei sta parlando di quel Carlo Cattaneo nato nel 1801 e morto nel 1869? Quello che nel 1848 voleva unire l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia?”.
Se ci fate caso, e se vi capita di percorrere la Milano-Bologna, troverete molte nuove uscite dell’autostrada. Sono le zone in cui si produce il Grana Padano, il Parmigiano-Reggiano, il prosciutto di Parma, il culatello, il salame di Felino, il lambrusco, i tortellini, la salama da sugo...Forse non ci avete mai pensato, ma ad ogni nuova uscita dell’autostrada corrisponde una lottizzazione implacabile. Tutti i campi dove si producono quelle cose che fanno dire “da noi si mangia bene” stanno per scomparire. E, per questo, bisogna ringraziare le amministrazioni leghiste e berlusconiane, i loro infiniti condoni edilizi nel governo nazionale, e via elencando (perfino Sassuolo, provincia di Modena, ha oggi un’amministrazione berlusconiana-leghista).
Ma qui mi fermo, non ne posso più di quest’alluvione di scemenze e di inesattezze da correggere, spacciate per verità e per ovvietà, e che nessuno mai corregge (nemmeno La Repubblica, nemmeno L’Unità, nemmeno il TG3). Mi stupisce piuttosto una cosa: che dal consorzio produttore del Grana Padano non sia arrivata una denuncia per violazione del copyright, o per abuso del marchio.Di solito ci stanno molto attenti, ma si sa che la Lega Nord è oggi molto potente e che con i potenti bisogna stare attenti a quel che si dice.
Avremo ancora il Parmigiano-Reggiano, il Lambrusco, il Prosciutto di Parma, nei prossimi anni? La vedo dura, e il primo a sparire sarà proprio il Grana Padano, ormai completamente accerchiato da superstrade, autostrade, centri commerciali, speculazioni edilizie, discariche, inceneritori.
PS: se i leghisti ci stessero più attenti, si sarebbero accorti che la Padania ha perfino avuto il Premio Nobel per la Letteratura. Indovinate chi... (un ghigno, uno sberleffo, uno sghignazzo, in purissimo dialetto padano: già ai tempi di Mistero Buffo, e forse ancora prima, c'era Dario Fo che usava questa benedetta parola)
Da tempo immemorabile, più di mille anni, lungo il corso del Po si produce un formaggio stagionato chiamato grana. Non si riesce a produrlo altrove: non così buono. Si sa che per i prodotti alimentari la geografia e l’orografia sono importantissimi: le cipolle di Tropea vengono così buone solo a Tropea in Calabria, se le trapiantate e le coltivate a casa vostra il sapore cambia, e di molto. La stessa cosa capita per i vini, per quasi tutti i formaggi (l’Asiago viene buono solo sull’altipiano di Asiago, l’Emmenthal buono è solo quello svizzero, eccetera), per i prosciutti (il prosciutto di Parma viene così buono solo in determinati paesi della provincia di Parma, per via dell’aria, dell’umidità, eccetera). Tutto questo è risaputo, o almeno dovrebbe esserlo.
Il grana prodotto nella Pianura Padana è diviso in due grandi consorzi: il Parmigiano-Reggiano, che si produce in un’area ben delimitata tra le provincie di Parma e di Reggio Emilia, e il Grana Padano, che si produce nelle zone limitrofe, a Cremona ma anche nel sud del Piemonte, per esempio. Non è solo una questione di geografia: i due consorzi hanno regole diverse sull’alimentazione delle mucche che danno il latte per il formaggio. La descrizione completa sarebbe molto lunga, e rimando per questo ai siti ufficiali o magari a wikipedia; qui si può dire per brevità che il consorzio del Parmigiano-Reggiano ha norme molto restrittive, le mucche possono mangiare solo il fieno e l’erba dei pascoli, niente mangimi preparati. Così facendo, si vede anche solo a occhio cosa stanno mangiando le mucche: il sapore del latte dipende moltissimo da quello che mangiano le mucche. Nel consorzio del Grana Padano la qualità è sempre garantita, ma le regole su cosa mangiano le mucche sono meno restrittive: è per questo che c’è una differenza di prezzo fra i due formaggi.
Esistono caseifici che producono il grana anche al di fuori dei due consorzi, e spesso è anche buono, ma non possono usare né il marchio “parmigiano-reggiano” né il marchio “grana padano”: sono le stesse regole del DOC e del DOCG dei vini, a volte discutibili (bastano pochi chilometri al di là del confine geografico per negare il marchio?), il più delle volte essenziali per mantenere alta la qualità del prodotto. Non è una cosa da poco: è grazie a queste norme, per esempio, che l’Italia è rimasta fuori dal problema della “mucca pazza” (in altri Paesi europei alle mucche si davano da mangiare cose ignobili), o da altre gravi degenerazioni.
Il discorso sul Gazzettino Padano invece è molto più breve: si chiama così, da tempo immemorabile, il giornale radio RAI per la Lombardia. Lo ascoltavo sempre con mio papà, negli anni ’60: la sigla risorgimentale della “bella gigogìn” ne avvertiva l’inizio, ma si tratta di un giornale radio regionale e nulla di più. Invece, a me pare che i leghisti intendano per padania qualcosa che va da Sondrio a Ferrara ad Aosta a Belluno, località dove i notiziari milanesi non sempre arrivano e non sempre interessano.
Mi dispiace perdere tempo a specificare cose note e stranote, ma la Lega Nord è fatta così: mi ricordo bene, per esempio, quando a Umberto Bossi chiesero l’origine del suo federalismo, e lui rispose: «Ma sì, Carlo Cattaneo», come se fosse cosa ovvia e scontata. Dato che Carlo Cattaneo fa parte dei programmi scolastici, mi sono sempre meravigliato che nessuno lo fermasse per chiedergli: «Ma lei sta parlando di quel Carlo Cattaneo nato nel 1801 e morto nel 1869? Quello che nel 1848 voleva unire l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia?”.
Se ci fate caso, e se vi capita di percorrere la Milano-Bologna, troverete molte nuove uscite dell’autostrada. Sono le zone in cui si produce il Grana Padano, il Parmigiano-Reggiano, il prosciutto di Parma, il culatello, il salame di Felino, il lambrusco, i tortellini, la salama da sugo...Forse non ci avete mai pensato, ma ad ogni nuova uscita dell’autostrada corrisponde una lottizzazione implacabile. Tutti i campi dove si producono quelle cose che fanno dire “da noi si mangia bene” stanno per scomparire. E, per questo, bisogna ringraziare le amministrazioni leghiste e berlusconiane, i loro infiniti condoni edilizi nel governo nazionale, e via elencando (perfino Sassuolo, provincia di Modena, ha oggi un’amministrazione berlusconiana-leghista).
Ma qui mi fermo, non ne posso più di quest’alluvione di scemenze e di inesattezze da correggere, spacciate per verità e per ovvietà, e che nessuno mai corregge (nemmeno La Repubblica, nemmeno L’Unità, nemmeno il TG3). Mi stupisce piuttosto una cosa: che dal consorzio produttore del Grana Padano non sia arrivata una denuncia per violazione del copyright, o per abuso del marchio.Di solito ci stanno molto attenti, ma si sa che la Lega Nord è oggi molto potente e che con i potenti bisogna stare attenti a quel che si dice.
Avremo ancora il Parmigiano-Reggiano, il Lambrusco, il Prosciutto di Parma, nei prossimi anni? La vedo dura, e il primo a sparire sarà proprio il Grana Padano, ormai completamente accerchiato da superstrade, autostrade, centri commerciali, speculazioni edilizie, discariche, inceneritori.
PS: se i leghisti ci stessero più attenti, si sarebbero accorti che la Padania ha perfino avuto il Premio Nobel per la Letteratura. Indovinate chi... (un ghigno, uno sberleffo, uno sghignazzo, in purissimo dialetto padano: già ai tempi di Mistero Buffo, e forse ancora prima, c'era Dario Fo che usava questa benedetta parola)
venerdì 25 novembre 2011
Assegni criminali, contanti assassini
E’ in atto una campagna ferocissima contro l’uso del contante: a destra come a sinistra (anche sinistra sinistra) dicono che l’unica arma possibile e definitiva contro l’evasione fiscale è fare ogni minima transazione di denaro con le carte di credito, passando sempre attraverso una banca “così tutti i movimenti saranno controllabili”. C’è anche chi dice: tutto tutto ma proprio tutto, compresi il quotidiano e il caffè al bar.
Sarà. Ne siamo proprio sicuri? Premesso che vedo il futuro molto fosco (la crisi economica è gravissima, e mica solo quella), premesso che quando ci sono troppe persone che ripetono a pappagallo lo stesso concetto io comincio a pensare che sia invece giusto il contrario, premesse tante altre cose compreso il fatto che ormai vale da anni il principio “se è una cazzata state sicuri che si farà”, metto qui i sotto i punti principali di questo ragionamento che non mi convincono.
1) se tutto deve passare dal conto corrente, i conti correnti devono essere gratuiti. Si chiamano le banche, tutte le banche, e si spiega bene che così si deve fare: altrimenti se pago ogni giorno il caffè con la carta di credito fanno trecentosessantacinque movimenti all’anno, se ne prendo due o se ne offro uno a un amico diventano settecentotrenta, settecentotrentadue nei bisestili: scherziamo o facciamo sul serio?
2) ci sono milioni di italiani che guadagnano pochissimo, e che non possono reggere il peso di un conto corrente. Che si fa? Se uno guadagna trecento euro al mese, cosa gli resta da mettere sul conto corrente? E se nonostante tutto riesce ad aprire il conto e poi va in rosso, che succede?
3) molte persone, soprattutto gli anziani, andrebbero incontro a enormi difficoltà. Che si fa, ce ne freghiamo? Diciamo, come già fecero in tempi recenti dei personaggi importanti, “non si possono rinviare le riforme per qualche misera vecchietta”? (sono contrario alle torture e alle pene corporali, ma in questo caso faccio un’eccezione e mi permetto di dire quello che penso: questi personaggi, quando dicono queste cose, andrebbero fustigati sulla pubblica piazza).
4) i grandi evasori fiscali, di queste misure, se ne fregano. Non solo: se ne infischiano allegramente. Chi andrebbe a colpire, questa misura? I piccoli artigiani, i piccoli bar, le piccole otturazioni dei dentisti, cose così. State sicuri che i grandi bar e ristoranti di Venezia, Firenze, eccetera, sono già pronti a controbilanciare i costi. E anche tutti gli altri, iper e supermercati, gioiellieri, Vanna Marchi, don Verzé, finanziamenti occulti ai partiti, ville ad Antigua, tutti quanti già prontissimi, non vedono l’ora che si cominci.
5) e poi ci sono i falsari, molti dei quali rimarrebbero senza lavoro. Di questo devo dire che un po’ mi dispiace: in fin dei conti falsificare monete e banconote è un lavoro manuale di grande precisione, roba da artisti, roba fine. Ho detto “molti dei quali”, e non “tutti”: infatti i falsari informatici con un provvedimento del genere andrebbero a nozze, stapperebbero champagne, miliardi di dati e di pin da rubare, grande gioia. Già oggi rubano le password e i dati a colpi di centomila alla volta, figuriamoci cosa potrebbero fare in futuro.
Che faccio, mi fermo? Ma sì, mi fermo: tanto è già cosa fatta, e il perché sia cosa già fatta l’ho già spiegato all’inizio, non sto qui a ripeterlo.
PS: gli assegni erano comodissimi. Possibile che adesso si passi per criminali, se si usa un assegno?
Sarà. Ne siamo proprio sicuri? Premesso che vedo il futuro molto fosco (la crisi economica è gravissima, e mica solo quella), premesso che quando ci sono troppe persone che ripetono a pappagallo lo stesso concetto io comincio a pensare che sia invece giusto il contrario, premesse tante altre cose compreso il fatto che ormai vale da anni il principio “se è una cazzata state sicuri che si farà”, metto qui i sotto i punti principali di questo ragionamento che non mi convincono.
1) se tutto deve passare dal conto corrente, i conti correnti devono essere gratuiti. Si chiamano le banche, tutte le banche, e si spiega bene che così si deve fare: altrimenti se pago ogni giorno il caffè con la carta di credito fanno trecentosessantacinque movimenti all’anno, se ne prendo due o se ne offro uno a un amico diventano settecentotrenta, settecentotrentadue nei bisestili: scherziamo o facciamo sul serio?
2) ci sono milioni di italiani che guadagnano pochissimo, e che non possono reggere il peso di un conto corrente. Che si fa? Se uno guadagna trecento euro al mese, cosa gli resta da mettere sul conto corrente? E se nonostante tutto riesce ad aprire il conto e poi va in rosso, che succede?
3) molte persone, soprattutto gli anziani, andrebbero incontro a enormi difficoltà. Che si fa, ce ne freghiamo? Diciamo, come già fecero in tempi recenti dei personaggi importanti, “non si possono rinviare le riforme per qualche misera vecchietta”? (sono contrario alle torture e alle pene corporali, ma in questo caso faccio un’eccezione e mi permetto di dire quello che penso: questi personaggi, quando dicono queste cose, andrebbero fustigati sulla pubblica piazza).
4) i grandi evasori fiscali, di queste misure, se ne fregano. Non solo: se ne infischiano allegramente. Chi andrebbe a colpire, questa misura? I piccoli artigiani, i piccoli bar, le piccole otturazioni dei dentisti, cose così. State sicuri che i grandi bar e ristoranti di Venezia, Firenze, eccetera, sono già pronti a controbilanciare i costi. E anche tutti gli altri, iper e supermercati, gioiellieri, Vanna Marchi, don Verzé, finanziamenti occulti ai partiti, ville ad Antigua, tutti quanti già prontissimi, non vedono l’ora che si cominci.
5) e poi ci sono i falsari, molti dei quali rimarrebbero senza lavoro. Di questo devo dire che un po’ mi dispiace: in fin dei conti falsificare monete e banconote è un lavoro manuale di grande precisione, roba da artisti, roba fine. Ho detto “molti dei quali”, e non “tutti”: infatti i falsari informatici con un provvedimento del genere andrebbero a nozze, stapperebbero champagne, miliardi di dati e di pin da rubare, grande gioia. Già oggi rubano le password e i dati a colpi di centomila alla volta, figuriamoci cosa potrebbero fare in futuro.
Che faccio, mi fermo? Ma sì, mi fermo: tanto è già cosa fatta, e il perché sia cosa già fatta l’ho già spiegato all’inizio, non sto qui a ripeterlo.
PS: gli assegni erano comodissimi. Possibile che adesso si passi per criminali, se si usa un assegno?
giovedì 24 novembre 2011
Far finta di essere sani
L’altro giorno mi è successo questo: una ditta esterna ha tranciato due radici di un grosso albero nella nostra proprietà. Stanno facendo dei lavori (pura e semplice speculazione edilizia) e hanno costruito un muro qui sotto le mie finestre. Nel fare il muro, si sono trovati davanti l’albero e hanno tirato diritti; ma passi. Intanto che si discute su chi dovrà pagare l’abbattimento dell’albero nel caso che muoia o che cada (tagliare un albero così alto costa un sacco di soldi, per chi non lo sapesse), ecco che il geometra responsabile del cantiere, con eleganza e nonchalance, passa a quello che secondo lui è invece l’argomento principale di cui preoccuparsi, e cioè il tubo del gas metano, che passa quasi a fior di terra. Lo indica: perpendicolare al muro. Ve ne eravate mai accorti? Certo che sì, ma fino a ieri qui c’era un giardino, qui sopra passavano soltanto gatti e lucertole, è così da più di quarant’anni, l’azienda del gas lo sa, e se voi non aveste aperto quel cantiere inutile a due passi da un parco regionale il problema non si sarebbe posto. Intanto che ragiono così, mi accorgo che il discorso è passato elegantemente ad altro. Si sa, un’impresa edile o un’immobiliare fanno sempre comodo. Così, quando mi chiedono: «Tu che ne pensi?» rispondo che io sto male, e che torno di sopra.
Così facendo, temo d’esser passato per matto. Categoria alla quale ormai mi onoro di appartenere, dato che i sani di mente oggi sono fatti in questo modo:
- i sani di mente aprono un cantiere dove c’è un tubo del gas a mezzo metro dalla superficie; lo vedono, non avvertono nessuno, non chiudono il cantiere, ci fanno passare sopra una ruspa, scavano, ci costruiscono sopra un muro. A lavori finiti ti dicono sorridendo che hai un problema col tubo del gas.
- i sani di mente costruiscono nei letti dei fiumi e dei torrenti.
- i sani di mente fanno i condoni edilizi un anno sì e un anno pure.
- i sani di mente danno concessioni edilizie assurde, ed emanano leggi che consentono qualsiasi cosa, pur di fare speculazioni edilizie.
Eccetera. Il tutto, lo ammetto, aggravato da un fatto: la settimana scorsa ho preso una testata che è guarita subito, meno di tre giorni, ma purtroppo mi è sceso l’ematoma sotto gli occhi, fino agli zigomi; e non è ancora andato via. Ecco, in questi giorni ho davvero l’aspetto del pazzo.
Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”
Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l'assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più! La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. É soltanto possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni. Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile.
La maggior percentuale di sofferenze e di dolori - morali, s'intende -- che ci procuriamo deriva dal fatto che, salvo alcune fortunate eccezioni, noi siamo dei pazzi costretti a fingerci savi e a regolarci come tali. Le fortunate eccezioni non si riferiscono a persone che non sono pazze, ma a quelle che, essendolo, non sono costrette alla simulazione. Il male consiste nel fatto che il mondo riconosce ma non accetta la pazzia e perciò obbliga alla simulazione. Intanto, però, ognuno la riconosce soltanto negli altri. Spesso da quello di cui dice: « È pazzo », il mondo pretende atti da savio.
Ora io non voglio dire che la saviezza sia infelicità e sofferenza. Lo è in quanto simulata. E questa apparente saviezza è la peggior forma di pazzia, la più sinistra, la più dolorosa. Invece la saviezza dovrebbe consistere nel capire quello che si è ed esserlo veramente. Un pazzo sarà savio se si considererà pazzo e se si regolerà e ragionerà da pazzo. Sarà due volte pazzo se cercherà di regolarsi e di ragionare da savio. Beninteso, un savio sarà savio se si regolerà e ragionerà da savio.
In generale siamo dei pazzi che recitiamo la parte di persone savie, l'uno con l'altro. Il cosiddetto inconscio che cos'è se non una delle numerose forme di pazzia che sono in noi? È molto strana la commedia che recitiamo: tutti siamo pazzi in varia misura, che simulano la saviezza. Chi molla, o s’abbandona, viene estromesso materialmente o moralmente dalla società; non tutti e non sempre siamo consci della simulazione.
Prendiamo due individui. Premesso che entrambi sono pazzi e simulano la saviezza, si possono dare i seguenti casi, quanto alla pazzia: ognuno dei due 1) ignora di sé e dell'altro; 2) ignora di sé, ma sa dell'altro; 3) sa di sé, ma ignora dell'altro; 4) sa di sé e dell'altro.
Mescolate le otto situazioni in tutte le possibili combinazioni. Per esempio, A potrebbe trovarsi nella situazione 1 e B nella situazione 2, ecc. In ognuna di queste situazioni, il risultato apparente sarà sempre il medesimo, in virtù della generale simulazione più o meno cosciente o incosciente.
Basta: afflitto, come dicevo, dal dubbio di essere pazzo, volli consigliarmi con un medico circa l'opportunità di sottopormi a un esame psichiatrico.
«Ma sei pazzo?» mi disse quegli. « Perché vuoi farlo? Sarebbe una pazzia andare a mettersi in bocca al lupo.»
« Naturalmente, » dissi « se sono pazzo, niente di strano che commetta delle pazzie. »
« Che vuol dire? » esclamò l'altro, ridendo bonariamente.« Anch'io sono pazzo. Ma non lo dico a nessuno. Fossi matto. »
« Perché? »
« Ma andiamo, dovrei esser pazzo per rivelare d'esser pazzo. Simulo. Fa' altrettanto tu e non ti crear problemi. »
Mentre me ne andavo, mi richiamò.
« Per carità, » fece « non lo dire a nessuno. » « Che cosa? »
« Che sono pazzo. »
« Credo che già si sappia. »
Andai da un amico.
« Vorrei simulare la saggezza » gli dissi.
« Ti consiglio di non imitare me, allora » mi disse.
Malgrado il parere del medico, mi presentai al manicomio e chiesi d'esser messo in osservazione.
« Che sintomi avete? » mi domandò il direttore.
« Ecco, io mi considero pazzo. »
« Non basta. Bisogna assodare se lo siete davvero. »
«Perché? Nel caso che io fossi pazzo, lei mi considererebbe pazzo?»
« Evidentemente. »
« E sbaglierebbe. Se io fossi realmente pazzo, non sarei pazzo a considerarmi pazzo. Mentre, se non lo fossi, è chiaro che lo sarei per il fatto di ritenermi tale. »
« Ma in che consisterebbe allora la vostra pazzia? » ;
« Nel credermi pazzo senza esserlo. »
« Ma allora non sareste pazzo, se non lo siete. »
« Lo sarei in quanto, senza esserlo, mi ritengo tale. Se mi ritenessi pazzo essendolo realmente, questo mio credermi pazzo non sarebbe pazzia; mentre lo è se non lo sono. »
Il direttore del manicomio si passò una mano sulla fronte.
« Voi mi fate diventare pazzo » mormorò. Si volse all'assistente: « Cosicché, dovremmo metterlo al manicomio se non è pazzo? ».
« Precisamente » fece l'assistente. « Perché, non essendolo, ritiene di esserlo. Questa è la sua forma di pazzia. »
« Ma con questo ragionamento » obbiettò il direttore « se fosse pazzo non lo metteremmo al manicomio. »
« Beninteso. È pazzo se non è pazzo. »
« Ma siete pazzo voi. »
« Sarei pazzo se non ritenessi pazzo uno che non essendo pazzo si considera pazzo e che non sarebbe pazzo a considerarsi pazzo, se fosse realmente pazzo. »
A tagliar corto il direttore mi sottopose a una minuziosa visita, sperimentò le mie reazioni, mi interrogò e alla fine mi batté affettuosamente la mano sulla spalla e disse congedandomi :
« Andate, andate tranquillo; questo vostro ritenervi pazzo non è sintomo di pazzia, inquantoché siete realmente pazzo ».
Me ne andai tranquillizzato, sereno, ormai, essendomi tolto un gran peso dallo stomaco : dunque non sono pazzo, visto che sono pazzo.
(Achille Campanile, il racconto "Pazzi" da "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima")
PS: “Far finta di essere sani” è un verso di Giorgio Gaber, ed è anche il titolo di un suo spettacolo.
Così facendo, temo d’esser passato per matto. Categoria alla quale ormai mi onoro di appartenere, dato che i sani di mente oggi sono fatti in questo modo:
- i sani di mente aprono un cantiere dove c’è un tubo del gas a mezzo metro dalla superficie; lo vedono, non avvertono nessuno, non chiudono il cantiere, ci fanno passare sopra una ruspa, scavano, ci costruiscono sopra un muro. A lavori finiti ti dicono sorridendo che hai un problema col tubo del gas.
- i sani di mente costruiscono nei letti dei fiumi e dei torrenti.
- i sani di mente fanno i condoni edilizi un anno sì e un anno pure.
- i sani di mente danno concessioni edilizie assurde, ed emanano leggi che consentono qualsiasi cosa, pur di fare speculazioni edilizie.
Eccetera. Il tutto, lo ammetto, aggravato da un fatto: la settimana scorsa ho preso una testata che è guarita subito, meno di tre giorni, ma purtroppo mi è sceso l’ematoma sotto gli occhi, fino agli zigomi; e non è ancora andato via. Ecco, in questi giorni ho davvero l’aspetto del pazzo.
Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”
Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l'assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più! La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. É soltanto possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni. Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile.
La maggior percentuale di sofferenze e di dolori - morali, s'intende -- che ci procuriamo deriva dal fatto che, salvo alcune fortunate eccezioni, noi siamo dei pazzi costretti a fingerci savi e a regolarci come tali. Le fortunate eccezioni non si riferiscono a persone che non sono pazze, ma a quelle che, essendolo, non sono costrette alla simulazione. Il male consiste nel fatto che il mondo riconosce ma non accetta la pazzia e perciò obbliga alla simulazione. Intanto, però, ognuno la riconosce soltanto negli altri. Spesso da quello di cui dice: « È pazzo », il mondo pretende atti da savio.
Ora io non voglio dire che la saviezza sia infelicità e sofferenza. Lo è in quanto simulata. E questa apparente saviezza è la peggior forma di pazzia, la più sinistra, la più dolorosa. Invece la saviezza dovrebbe consistere nel capire quello che si è ed esserlo veramente. Un pazzo sarà savio se si considererà pazzo e se si regolerà e ragionerà da pazzo. Sarà due volte pazzo se cercherà di regolarsi e di ragionare da savio. Beninteso, un savio sarà savio se si regolerà e ragionerà da savio.
In generale siamo dei pazzi che recitiamo la parte di persone savie, l'uno con l'altro. Il cosiddetto inconscio che cos'è se non una delle numerose forme di pazzia che sono in noi? È molto strana la commedia che recitiamo: tutti siamo pazzi in varia misura, che simulano la saviezza. Chi molla, o s’abbandona, viene estromesso materialmente o moralmente dalla società; non tutti e non sempre siamo consci della simulazione.
Prendiamo due individui. Premesso che entrambi sono pazzi e simulano la saviezza, si possono dare i seguenti casi, quanto alla pazzia: ognuno dei due 1) ignora di sé e dell'altro; 2) ignora di sé, ma sa dell'altro; 3) sa di sé, ma ignora dell'altro; 4) sa di sé e dell'altro.
Mescolate le otto situazioni in tutte le possibili combinazioni. Per esempio, A potrebbe trovarsi nella situazione 1 e B nella situazione 2, ecc. In ognuna di queste situazioni, il risultato apparente sarà sempre il medesimo, in virtù della generale simulazione più o meno cosciente o incosciente.
Basta: afflitto, come dicevo, dal dubbio di essere pazzo, volli consigliarmi con un medico circa l'opportunità di sottopormi a un esame psichiatrico.
«Ma sei pazzo?» mi disse quegli. « Perché vuoi farlo? Sarebbe una pazzia andare a mettersi in bocca al lupo.»
« Naturalmente, » dissi « se sono pazzo, niente di strano che commetta delle pazzie. »
« Che vuol dire? » esclamò l'altro, ridendo bonariamente.« Anch'io sono pazzo. Ma non lo dico a nessuno. Fossi matto. »
« Perché? »
« Ma andiamo, dovrei esser pazzo per rivelare d'esser pazzo. Simulo. Fa' altrettanto tu e non ti crear problemi. »
Mentre me ne andavo, mi richiamò.
« Per carità, » fece « non lo dire a nessuno. » « Che cosa? »
« Che sono pazzo. »
« Credo che già si sappia. »
Andai da un amico.
« Vorrei simulare la saggezza » gli dissi.
« Ti consiglio di non imitare me, allora » mi disse.
Malgrado il parere del medico, mi presentai al manicomio e chiesi d'esser messo in osservazione.
« Che sintomi avete? » mi domandò il direttore.
« Ecco, io mi considero pazzo. »
« Non basta. Bisogna assodare se lo siete davvero. »
«Perché? Nel caso che io fossi pazzo, lei mi considererebbe pazzo?»
« Evidentemente. »
« E sbaglierebbe. Se io fossi realmente pazzo, non sarei pazzo a considerarmi pazzo. Mentre, se non lo fossi, è chiaro che lo sarei per il fatto di ritenermi tale. »
« Ma in che consisterebbe allora la vostra pazzia? » ;
« Nel credermi pazzo senza esserlo. »
« Ma allora non sareste pazzo, se non lo siete. »
« Lo sarei in quanto, senza esserlo, mi ritengo tale. Se mi ritenessi pazzo essendolo realmente, questo mio credermi pazzo non sarebbe pazzia; mentre lo è se non lo sono. »
Il direttore del manicomio si passò una mano sulla fronte.
« Voi mi fate diventare pazzo » mormorò. Si volse all'assistente: « Cosicché, dovremmo metterlo al manicomio se non è pazzo? ».
« Precisamente » fece l'assistente. « Perché, non essendolo, ritiene di esserlo. Questa è la sua forma di pazzia. »
« Ma con questo ragionamento » obbiettò il direttore « se fosse pazzo non lo metteremmo al manicomio. »
« Beninteso. È pazzo se non è pazzo. »
« Ma siete pazzo voi. »
« Sarei pazzo se non ritenessi pazzo uno che non essendo pazzo si considera pazzo e che non sarebbe pazzo a considerarsi pazzo, se fosse realmente pazzo. »
A tagliar corto il direttore mi sottopose a una minuziosa visita, sperimentò le mie reazioni, mi interrogò e alla fine mi batté affettuosamente la mano sulla spalla e disse congedandomi :
« Andate, andate tranquillo; questo vostro ritenervi pazzo non è sintomo di pazzia, inquantoché siete realmente pazzo ».
Me ne andai tranquillizzato, sereno, ormai, essendomi tolto un gran peso dallo stomaco : dunque non sono pazzo, visto che sono pazzo.
(Achille Campanile, il racconto "Pazzi" da "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima")
PS: “Far finta di essere sani” è un verso di Giorgio Gaber, ed è anche il titolo di un suo spettacolo.
domenica 20 novembre 2011
Fino alla fine del mondo
Camminando per Milano (o comunque per una via affollata di una città media o grande), da un po’ di tempo, bisogna fare molta attenzione: c’è sempre più gente che cammina con lo sguardo rivolto in basso, verso il piccolo schermo dello smartphone, o dell'ipad, o di chissà che cosa. La prima volta che mi è successo di notare questa cosa ero in metropolitana: un signore giovane ed elegante mi ha sfiorato proprio vicino alle scale; non se ne è nemmeno accorto ma io mi sono un po’ spaventato. Vuoi vedere che è un avvocato, mi sono detto, e se cade poi dice che è colpa mia che non stavo attento e mi fa causa?
La cosa poi si è diffusa, oggi lo fanno in molti, e così mi è tornato alla mente un film che mi era piaciuto molto quand’era uscito. Ma nel film tutto era molto più bello e poetico: la protagonista si perdeva a guardare, dentro un piccolo schermo che stava in una mano, l’immagine di se stessa bambina recuperata da uno dei suoi sogni.
Il film è “Fino alla fine del mondo” (Bis ans Ende der Welt, 1991), di Wim Wenders, su soggetto di Wenders e di Solveig Dommartin. Ne è protagonista la stessa Solveig Dommartin, con Sam Neill, William Hurt, Max von Sydow, Jeanne Moreau, David Gulpilil, Rüdiger Vogler, e molti altri. Si tratta di questo:
Registrare i nostri sogni, e rivederli. E’ quello che succede a Solveig Dommartin, nell’ultima parte del film. Lo scienziato Max von Sydow ha inventato questo apparecchio, e adesso Solveig è persa dentro quest’immagine profonda di se stessa da bambina, un’immagine che non sapeva di aver mai sognato e che adesso può rivedere su un apparecchio molto simile ai nostri videofonini di oggi. Quest’immagine la colpisce così profondamente che non riesce più a staccarsene, e la stessa cosa accade a William Hurt, che nel film interpreta il figlio di Max von Sydow. E’ un momento davvero sconvolgente, so che tutti quelli che hanno visto il film, quando uscì, ne erano rimasti molto toccati. Sarà il marito di lei, interpretato da Sam Neill, a strapparla da quell’immagine: quando le pile si saranno esaurite, il visore non manderà più quella sequenza e Solveig avrà una vera e propria crisi di astinenza, come accade per le droghe pesanti. Ma poi le cose pian piano si rimetteranno a posto, la vita reale riprenderà il suo corso anche se Sam non riuscirà a riavere sua moglie con lui. L’apparecchio era stato inventato da Max von Sydow, in origine, per poter ridare la vista alla moglie (la interpreta Jeanne Moreau), cieca dall’età di sette anni. Per farlo, bisognava andare a pescare le immagini direttamente nel cervello, e poi riproiettarle: una cosa non facile. (...)
E’ a questo punto che l’esperimento si completa: il prototipo della macchina per vedere i sogni è pronto, la sperimentano Solveig e Hurt. La realtà sparisce, l’esterno sparisce, rimane solo il guardare dentro se stessi: autismo o narcisismo, si può dire. Le immagini dei nostri sogni più intimi diventano l’unica cosa che conta, togliere di mano l’apparecchio genera una crisi di astinenza come per l’eroina. Sam Neill, il narratore, commenta: « Mi era sempre piaciuto l’inizio del Vangelo di Giovanni, “in principio era il Verbo” (in inglese: “in the beginning there was the Word”, la Parola). Ora temevo che l’Apocalisse fosse “e alla fine c’erano solo immagini”». Ma saranno la scrittura, e la pittura nel caso di Hurt, a far tornare alla normalità, una volta esaurite le pile del nuovo gadget elettronico e finita la crisi d’astinenza. Attività antiche come l’uomo, narrare, disegnare, fare musica. (...) Il film ha un finale rassicurante, tutto torna a posto, la crisi nucleare è stata solo passeggera. Oggi Wenders è più ottimista: dice “anche a me dicevano che i fumetti mi avrebbero rovinato, invece mi hanno dato molto; forse capiterà lo stesso con i videogiochi”.
Mah, non sono sicuro che sia andata proprio così; e, quantomeno, perdersi su uno schermo che riproduce i nostri ricordi più intensi è qualcosa di tutto sommato accettabile. Molto meno accettabile, a mio parere, rincoglionirsi nel modo che ho descritto sopra (ricordo ai distratti che la casa del giovane neonazista norvegese Breivik, ottanta morti quest’estate in Norvegia, era strapiena di videogiochi “spara-spara”).
La cosa poi si è diffusa, oggi lo fanno in molti, e così mi è tornato alla mente un film che mi era piaciuto molto quand’era uscito. Ma nel film tutto era molto più bello e poetico: la protagonista si perdeva a guardare, dentro un piccolo schermo che stava in una mano, l’immagine di se stessa bambina recuperata da uno dei suoi sogni.
Il film è “Fino alla fine del mondo” (Bis ans Ende der Welt, 1991), di Wim Wenders, su soggetto di Wenders e di Solveig Dommartin. Ne è protagonista la stessa Solveig Dommartin, con Sam Neill, William Hurt, Max von Sydow, Jeanne Moreau, David Gulpilil, Rüdiger Vogler, e molti altri. Si tratta di questo:
Registrare i nostri sogni, e rivederli. E’ quello che succede a Solveig Dommartin, nell’ultima parte del film. Lo scienziato Max von Sydow ha inventato questo apparecchio, e adesso Solveig è persa dentro quest’immagine profonda di se stessa da bambina, un’immagine che non sapeva di aver mai sognato e che adesso può rivedere su un apparecchio molto simile ai nostri videofonini di oggi. Quest’immagine la colpisce così profondamente che non riesce più a staccarsene, e la stessa cosa accade a William Hurt, che nel film interpreta il figlio di Max von Sydow. E’ un momento davvero sconvolgente, so che tutti quelli che hanno visto il film, quando uscì, ne erano rimasti molto toccati. Sarà il marito di lei, interpretato da Sam Neill, a strapparla da quell’immagine: quando le pile si saranno esaurite, il visore non manderà più quella sequenza e Solveig avrà una vera e propria crisi di astinenza, come accade per le droghe pesanti. Ma poi le cose pian piano si rimetteranno a posto, la vita reale riprenderà il suo corso anche se Sam non riuscirà a riavere sua moglie con lui. L’apparecchio era stato inventato da Max von Sydow, in origine, per poter ridare la vista alla moglie (la interpreta Jeanne Moreau), cieca dall’età di sette anni. Per farlo, bisognava andare a pescare le immagini direttamente nel cervello, e poi riproiettarle: una cosa non facile. (...)
E’ a questo punto che l’esperimento si completa: il prototipo della macchina per vedere i sogni è pronto, la sperimentano Solveig e Hurt. La realtà sparisce, l’esterno sparisce, rimane solo il guardare dentro se stessi: autismo o narcisismo, si può dire. Le immagini dei nostri sogni più intimi diventano l’unica cosa che conta, togliere di mano l’apparecchio genera una crisi di astinenza come per l’eroina. Sam Neill, il narratore, commenta: « Mi era sempre piaciuto l’inizio del Vangelo di Giovanni, “in principio era il Verbo” (in inglese: “in the beginning there was the Word”, la Parola). Ora temevo che l’Apocalisse fosse “e alla fine c’erano solo immagini”». Ma saranno la scrittura, e la pittura nel caso di Hurt, a far tornare alla normalità, una volta esaurite le pile del nuovo gadget elettronico e finita la crisi d’astinenza. Attività antiche come l’uomo, narrare, disegnare, fare musica. (...) Il film ha un finale rassicurante, tutto torna a posto, la crisi nucleare è stata solo passeggera. Oggi Wenders è più ottimista: dice “anche a me dicevano che i fumetti mi avrebbero rovinato, invece mi hanno dato molto; forse capiterà lo stesso con i videogiochi”.
Mah, non sono sicuro che sia andata proprio così; e, quantomeno, perdersi su uno schermo che riproduce i nostri ricordi più intensi è qualcosa di tutto sommato accettabile. Molto meno accettabile, a mio parere, rincoglionirsi nel modo che ho descritto sopra (ricordo ai distratti che la casa del giovane neonazista norvegese Breivik, ottanta morti quest’estate in Norvegia, era strapiena di videogiochi “spara-spara”).
(tutte le immagini qui sopra sono fotogrammi da "Fino alla fine del mondo" di Wim Wenders: l'attrice è Solveig Dommartin, protagonista anche di "Il cielo sopra Berlino")
venerdì 18 novembre 2011
Paese dormitorio
La prima volta che ho sentito definire “paese dormitorio” il posto dove abito da quando sono nato, mi sono arrabbiato e sono rimasto sorpreso. Poi, è bastato poco tempo per capire che era tutto vero: “siamo diventati un paese dormitorio”, mi aveva detto un signore dell’età di mio padre, nativo di qui, che il paese lo aveva visto crescere e cambiare.
“Paese dormitorio” una volta era Quarto Oggiaro, erano le periferie di Milano, i “casermoni”, quei posti lì: qui da noi (meno di venti chilometri di distanza) li guardavamo con una certa sufficienza, e mai si sarebbe pensato che sarebbe arrivata anche la nostra ora. Qui da noi, nel mio paese, la popolazione è quasi raddoppiata nel giro di dieci anni: e non è che si siano fatte guerre di conquista, la superficie in chilometri quadri è sempre quella lì, quella di cent’anni fa, immutata. La stessa cosa è successa nei comuni vicini.
Chi sono i nuovi abitanti del Comune? Gente che viene qui a dormire, per l’appunto. Si sono comperati la casa “in campagna”, “nel verde”, stanno via tutto il giorno, nei weekend vanno a sciare, al lago, hanno la casa al lago, in montagna, al mare, vanno a fare surf, a sciare, a Sharm. Qui ci dormono e basta: il che spiega tante cose, anche troppe.
Un luogo comune confermato, purtroppo.
“Paese dormitorio” una volta era Quarto Oggiaro, erano le periferie di Milano, i “casermoni”, quei posti lì: qui da noi (meno di venti chilometri di distanza) li guardavamo con una certa sufficienza, e mai si sarebbe pensato che sarebbe arrivata anche la nostra ora. Qui da noi, nel mio paese, la popolazione è quasi raddoppiata nel giro di dieci anni: e non è che si siano fatte guerre di conquista, la superficie in chilometri quadri è sempre quella lì, quella di cent’anni fa, immutata. La stessa cosa è successa nei comuni vicini.
Chi sono i nuovi abitanti del Comune? Gente che viene qui a dormire, per l’appunto. Si sono comperati la casa “in campagna”, “nel verde”, stanno via tutto il giorno, nei weekend vanno a sciare, al lago, hanno la casa al lago, in montagna, al mare, vanno a fare surf, a sciare, a Sharm. Qui ci dormono e basta: il che spiega tante cose, anche troppe.
Un luogo comune confermato, purtroppo.
giovedì 17 novembre 2011
L'imprenditore brianzolo
Qualche imprenditore brianzolo, o comasco, o varesotto, l’ho pur conosciuto anch’io: nel senso che ci ho lavorato, sono stato alle loro dipendenze, ci ho parlato insieme, queste cose qui. Mi sento quindi di poter parlare con cognizione di causa, e del resto non sto per dire cose rivoluzionarie, ma qualcosa che tutti sappiamo o che quantomeno dovremmo sapere. Le cose funzionavano quasi sempre così: in tempi di boom economico, gli anni ’50 e ’60, le ditte grandi o medio-grandi avevano spesso un’eccedenza di lavoro. Così si trovavano davanti ad un bivio: cosa fare, ingrandire la ditta o affidare una parte del lavoro a terzi? Ognuno faceva le sue valutazioni, ma la via più semplice era questa: prendere un proprio dipendente di quelli bravi ed affidabili, capoturno o caporeparto, e proporgli di mettersi in proprio, aiutandolo inizialmente. Così fecero in molti, e quasi tutti con successo. I più bravi si affrancarono presto dalla ditta di partenza, cercando nuove commesse e nuovi brevetti, non rimanendo fermi e diventando presto indipendenti.
Questo è successo per decenni, soprattutto nell’industria tessile e tintoriale e in quella metalmeccanica. La voglia di lavorare, dunque, c’entra: ma è solo una parte del fenomeno, anche oggi la voglia di lavorare non manca, così come non mancherebbe la voglia di impresa; manca invece la materia prima, cioè il lavoro in sè. Quasi tutto quello che è tessile o metalmeccanico, oggi, viene dalla Cina o da altri Paesi d’Europa, quella che una volta era l’Europa dell’Est e che oggi invece fa magari parte dell’UE. Un’altra cosa che è venuta a mancare, rispetto ai decenni passati, è l’appoggio delle banche: possibilità di finanziamenti vicina allo zero, e scomparsa quasi totale delle piccole banche locali che quasi sempre conoscevano di persona i piccoli imprenditori e sapevano a chi dare fiducia. Oggi le banche sono quasi soltanto i colossi che conosciamo, e che si comportano spesso più da strozzini che da banca (chiedo scusa per la parola, ma è così), ottenere credito è difficilissimo. Spesso, basta guardarsi intorno e vedere che fine ha fatto chi ha provato a “mettersi in proprio” (magari amici o parenti) per farsi passare ogni minima voglia di imprenditorialità.
Questa è la realtà, ma nelle dotte analisi finanziarie o giuslavoristiche non ne sento mai parlare. Per rimanere a queste ultime settimane: 200 dipendenti da licenziare a Olgiate Comasco (motori elettrici), 140 a Caronno Pertusella (tra Milano e Varese, stampaggio cd e dvd), 600 a Varese (elettrodomestici: la Whirlpool), e, ultima ma solo per la data dell’annuncio, i 5000 (cinquemila) dipendenti da liquidare del colosso Unicredit. Qui invece si parla di contratti, di sindacati, di tasse, di lacci e di lacciuoli, di imprese da aprire in un solo giorno, e ci si dimentica che con la legislazione degli anni ’60 e ’70 abbiamo fatto il boom economico, il lavoro c’era, e siamo stati bene tutti – quantomeno al Nord.
Di queste analisi non so cosa farmene. Di analisti del lavoro o di esperti di finanza che non partono da questo dato di fatto, la scomparsa del lavoro, la chiusura delle fabbriche, la globalizzazione, la delocalizzazione, io di questi analisti del piffero (chiedo ancora scusa per il linguaggio), io non so proprio che cosa farmene, eppure eccoli ancora lì a pontificare, a dire “si fa così, anzi bisogna fare così”.
In questo marasma di analisi che non tengono conto dei fatti, ecco rispuntare il luogo comune sull’imprenditore brianzolo (o comunque lombardo) che “lui sì che ha voglia di lavorare” e che tiene in piedi da solo l’economia italiana: magari fosse ancora così, magari. Come in tutti i luoghi comuni, c’è molto di vero, anzi moltissimo: ma, per piacere, vorrei una risposta alla mia domanda. Che, ridotta ai minimi termini, è questa: quante imprese hanno chiuso, in Lombardia, negli ultimi 15 anni? Quanti posti di lavoro in meno?
Questo è successo per decenni, soprattutto nell’industria tessile e tintoriale e in quella metalmeccanica. La voglia di lavorare, dunque, c’entra: ma è solo una parte del fenomeno, anche oggi la voglia di lavorare non manca, così come non mancherebbe la voglia di impresa; manca invece la materia prima, cioè il lavoro in sè. Quasi tutto quello che è tessile o metalmeccanico, oggi, viene dalla Cina o da altri Paesi d’Europa, quella che una volta era l’Europa dell’Est e che oggi invece fa magari parte dell’UE. Un’altra cosa che è venuta a mancare, rispetto ai decenni passati, è l’appoggio delle banche: possibilità di finanziamenti vicina allo zero, e scomparsa quasi totale delle piccole banche locali che quasi sempre conoscevano di persona i piccoli imprenditori e sapevano a chi dare fiducia. Oggi le banche sono quasi soltanto i colossi che conosciamo, e che si comportano spesso più da strozzini che da banca (chiedo scusa per la parola, ma è così), ottenere credito è difficilissimo. Spesso, basta guardarsi intorno e vedere che fine ha fatto chi ha provato a “mettersi in proprio” (magari amici o parenti) per farsi passare ogni minima voglia di imprenditorialità.
Questa è la realtà, ma nelle dotte analisi finanziarie o giuslavoristiche non ne sento mai parlare. Per rimanere a queste ultime settimane: 200 dipendenti da licenziare a Olgiate Comasco (motori elettrici), 140 a Caronno Pertusella (tra Milano e Varese, stampaggio cd e dvd), 600 a Varese (elettrodomestici: la Whirlpool), e, ultima ma solo per la data dell’annuncio, i 5000 (cinquemila) dipendenti da liquidare del colosso Unicredit. Qui invece si parla di contratti, di sindacati, di tasse, di lacci e di lacciuoli, di imprese da aprire in un solo giorno, e ci si dimentica che con la legislazione degli anni ’60 e ’70 abbiamo fatto il boom economico, il lavoro c’era, e siamo stati bene tutti – quantomeno al Nord.
Di queste analisi non so cosa farmene. Di analisti del lavoro o di esperti di finanza che non partono da questo dato di fatto, la scomparsa del lavoro, la chiusura delle fabbriche, la globalizzazione, la delocalizzazione, io di questi analisti del piffero (chiedo ancora scusa per il linguaggio), io non so proprio che cosa farmene, eppure eccoli ancora lì a pontificare, a dire “si fa così, anzi bisogna fare così”.
In questo marasma di analisi che non tengono conto dei fatti, ecco rispuntare il luogo comune sull’imprenditore brianzolo (o comunque lombardo) che “lui sì che ha voglia di lavorare” e che tiene in piedi da solo l’economia italiana: magari fosse ancora così, magari. Come in tutti i luoghi comuni, c’è molto di vero, anzi moltissimo: ma, per piacere, vorrei una risposta alla mia domanda. Che, ridotta ai minimi termini, è questa: quante imprese hanno chiuso, in Lombardia, negli ultimi 15 anni? Quanti posti di lavoro in meno?
sabato 12 novembre 2011
Oneroso ferroviario
Un’altra notizia degna di nota, tra quelle dei giorni scorsi, è la prossima partenza dei treni “di Montezemolo”, e la conseguente reazione dell’attuale amministratore delegato delle Ferrovie “normali”: dice bisognerà rivedere il contratto con lo Stato, perché così diventa tutto troppo oneroso.
Provo a tradurre: per “convenzione con lo Stato troppo onerosa” si intendono i treni locali, quelli dei pendolari, tutto ciò che non è TAV o Eurostar. Cioè, tutto quello che serve veramente al Paese.
Lo stesso discorso sento fare alle Poste: consegnare la posta ai cittadini è troppo oneroso e sfiancante, e se lo Stato desse via libera, allora Poste Italiane potrebbe diventare una banca, e che i cittadini si arrangino, con i loro pacchi ottocenteschi e le loro missive antiquate.
E se invece dessimo un taglio a questi dirigenti accattoni, quelli con stipendi milionari e liquidazioni da sultano delle Mille e Una Notte, se li mandassimo tutti a casa? La priorità è quello che serve al Paese, siamo capaci tutti di fare soldi con i giocattoli costosi, dopo che lo Stato (cioè tutti noi) si è accollato i debiti delle passate gestioni (il caso Alitalia è esemplare). Non contenti, adesso vorrebbero anche mollare il servizio pubblico.
La prima riforma da fare, se si parla di ricostruzione del Paese, è proprio questa: mandare a casa tutti i dirigenti che la pensano così. Se non ci avete ancora pensato, avere trasporti pubblici efficienti è la prima condizione per abbattere l’inquinamento ed eliminare gli ingorghi sulle nostre strade: se si facesse funzionare bene la ferrovia tra Milano e Lecco, per esempio, il traffico in Brianza sarebbe dimezzato.
Per fare questo, servono investimenti: molti treni, molte corse, possibilità di fare il biglietto anche in treno, tariffe basse, qualcosa di simile alla metropolitana, per intenderci. Invece la strategia di Trenitalia in questi anni è andata esattamente nella direzione opposta: chiuse le biglietterie, multe salatissime, tanti treni di diversi proprietari (ognuno con i suoi rispettivi biglietti...), investimenti sulle linee che collegano le grandi città (e solo quelle: e peggio per chi abita a Pavia, a Ivrea, a Lucca, a Treviso, a Viterbo...).
Così non sarà, e anzi è molto probabile che gli elettori mandino al governo proprio uno come Montezemolo, lui in persona o qualcuno di quel giro. E così continueremo a tagliare i trasporti locali, e a distruggere boschi e terreni agricoli: per poi fare il blocco del traffico quando lo smog diventa così spesso che lo si può fare a fette. Auguri a tutti, il futuro è questo: la linea TAV che vi passa sotto casa ma che non vi serve a niente, perché la stazione in cui potete salirci sopra è ad almeno duecento chilometri di distanza: capita già a Reggio Emilia, per esempio, ma gli esempi sono molteplici. Ma tanto, si sa, le persone importanti mica abitano a Reggio Emilia...
PS: la pubblicità qui sopra è del 1986, cioè degli anni in cui Bettino Craxi e Ciriaco De Mita aprirono la voragine del debito pubblico. Questo era l’inizio delle tante balle che ci hanno raccontato, sulle privatizzazioni e sullo statalismo inefficiente: ma allora le Ferrovie funzionavano, non benissimo ma funzionavano. Quante linee sono state chiuse, da allora? E quante stazioni, quante biglietterie? Prima, le Ferrovie erano di tutti; oggi sono di Moretti e di Montezemolo...
Provo a tradurre: per “convenzione con lo Stato troppo onerosa” si intendono i treni locali, quelli dei pendolari, tutto ciò che non è TAV o Eurostar. Cioè, tutto quello che serve veramente al Paese.
Lo stesso discorso sento fare alle Poste: consegnare la posta ai cittadini è troppo oneroso e sfiancante, e se lo Stato desse via libera, allora Poste Italiane potrebbe diventare una banca, e che i cittadini si arrangino, con i loro pacchi ottocenteschi e le loro missive antiquate.
E se invece dessimo un taglio a questi dirigenti accattoni, quelli con stipendi milionari e liquidazioni da sultano delle Mille e Una Notte, se li mandassimo tutti a casa? La priorità è quello che serve al Paese, siamo capaci tutti di fare soldi con i giocattoli costosi, dopo che lo Stato (cioè tutti noi) si è accollato i debiti delle passate gestioni (il caso Alitalia è esemplare). Non contenti, adesso vorrebbero anche mollare il servizio pubblico.
La prima riforma da fare, se si parla di ricostruzione del Paese, è proprio questa: mandare a casa tutti i dirigenti che la pensano così. Se non ci avete ancora pensato, avere trasporti pubblici efficienti è la prima condizione per abbattere l’inquinamento ed eliminare gli ingorghi sulle nostre strade: se si facesse funzionare bene la ferrovia tra Milano e Lecco, per esempio, il traffico in Brianza sarebbe dimezzato.
Per fare questo, servono investimenti: molti treni, molte corse, possibilità di fare il biglietto anche in treno, tariffe basse, qualcosa di simile alla metropolitana, per intenderci. Invece la strategia di Trenitalia in questi anni è andata esattamente nella direzione opposta: chiuse le biglietterie, multe salatissime, tanti treni di diversi proprietari (ognuno con i suoi rispettivi biglietti...), investimenti sulle linee che collegano le grandi città (e solo quelle: e peggio per chi abita a Pavia, a Ivrea, a Lucca, a Treviso, a Viterbo...).
Così non sarà, e anzi è molto probabile che gli elettori mandino al governo proprio uno come Montezemolo, lui in persona o qualcuno di quel giro. E così continueremo a tagliare i trasporti locali, e a distruggere boschi e terreni agricoli: per poi fare il blocco del traffico quando lo smog diventa così spesso che lo si può fare a fette. Auguri a tutti, il futuro è questo: la linea TAV che vi passa sotto casa ma che non vi serve a niente, perché la stazione in cui potete salirci sopra è ad almeno duecento chilometri di distanza: capita già a Reggio Emilia, per esempio, ma gli esempi sono molteplici. Ma tanto, si sa, le persone importanti mica abitano a Reggio Emilia...
PS: la pubblicità qui sopra è del 1986, cioè degli anni in cui Bettino Craxi e Ciriaco De Mita aprirono la voragine del debito pubblico. Questo era l’inizio delle tante balle che ci hanno raccontato, sulle privatizzazioni e sullo statalismo inefficiente: ma allora le Ferrovie funzionavano, non benissimo ma funzionavano. Quante linee sono state chiuse, da allora? E quante stazioni, quante biglietterie? Prima, le Ferrovie erano di tutti; oggi sono di Moretti e di Montezemolo...
giovedì 10 novembre 2011
La Bocconi mi fa paura
Ieri in tv, verso le 13, era ospite di Corrado Augias uno stimato professore della Bocconi; intorno a lui, alcuni studenti di un istituto per geometri. Non sto qui a fare il nome del professore della Bocconi, non è poi così importante al fine del mio discorso; dirò solo che si tratta di una persona vicina (almeno in teoria) al centrosinistra.
L’argomento era la scuola, e il suo rapporto con il mondo del lavoro. Il professore della Bocconi ha detto che bisogna collegare la scuola al mondo del lavoro, e che il diploma di scuola superiore non basta più, bisogna migliorare i corsi triennali universitari. E qui, lo ammetto, sono rimasto – come dire – perplesso. In che mondo vivono questi economisti, questi professori della Bocconi?
Io una scuola come quella che descriveva il professore della Bocconi l’ho già fatta: non solo mi ci sono iscritto (quasi) quarant’anni fa, ma la mia scuola esiste dal 1859, poco prima dell’Unità d’Italia. Scuole simili alla mia esistono ovunque, in Italia: nelle Marche c’è il perito chimico ad indirizzo cartario, a Faenza c’è un diploma di scuola superiore voluto dall’industria della ceramica, eccetera eccetera eccetera. Sono realtà che esistono da tempo immemorabile, ma la novità oggi è questa: per chi non se ne fosse accorto, sono sparite le fabbriche.
La scuola che ho frequentato io, e che mi è servita molto, oggi è frequentata da giovani che fanno fatica a trovare lavoro, molta fatica: e la ragione è questa, l’industria tessile e tintoriale ormai è tutta made in China. Le grandi ditte “storiche” hanno chiuso e licenziato qui, e sono andate in Cina, in Romania, in Serbia, in Turchia, ovunque. Possibile che alla Bocconi non se ne siano ancora accorti?
L’altra questione, quella del diploma che non basta più e servono i corsi triennali universitari, è ancora più drammatica: l’analisi è esatta, ma bisognerebbe trarne delle conclusioni. Se queste conclusioni non si traggono, mi vien da dire, la ragione c’è: il professore della Bocconi stava infatti dicendo ai giovani che studiare e diplomarsi ai fini del lavoro non serve a niente, e che i loro genitori dovranno mantenerli fino ai ventidue o venticinque anni. Eterni bambini, ma non per loro colpa. Per chi non lo sapesse, professori della Bocconi inclusi, le scuole superiori quando funzionano bene (e così dovrebbe essere sempre) danno una preparazione ottima, con il diploma di perito chimico ti prendevano a lavorare già a diciassette anni, d’estate, e poi quel posto di lavoro diventava quasi sempre un posto di lavoro vero. Questo succedeva fino a qualche anno fa: oggi mi guardo in giro, e le fabbriche che conoscevo e che sembravano eterne non ci sono più. I piccoli hanno chiuso, i grandi hanno spostato la produzione all’estero, deserto sulla terra lombarda. Con buona pace della Lega Nord, tra poco se ne accorgeranno tutti. I diciottenni, a quel che vedo, l’hanno già capito da un pezzo.
Che dire? Sono vent’anni che siamo bombardati da messaggi più o meno bocconiani, “privatizzare”, “gestire lo Stato come un’azienda”, eccetera eccetera: i risultati sono quelli che abbiamo sotto gli occhi adesso, novembre 2011. Forse sarebbe ora di cambiare sistema. I bocconiani teniamoli buoni per redigere i bilanci e come cassieri-tesorieri, per il resto, cioè per la Politica, suggerirei qualcuno con una visione più ampia.
Sugli economisti circolano molte barzellette divertenti. Quella che mi sembra perfetta per il discorso del professore della Bocconi di cui parlavo all’inizio è questa: c’è un signore che decide di fare un giro in mongolfiera, e tutto funziona bene ma poi si alza un po’ di vento e perde l’orientamento. Così decide di abbassarsi e di chiedere informazioni a un passante: «Scusi, buon uomo, mi sa dire dove sono adesso?» «Su un pallone» risponde il passante. L’altro rimane un attimo perplesso, poi chiede: «Mi perdoni, ma lei è per caso un economista?» «Sì, come ha fatto a capirlo?» «Lei mi ha appena dato un’informazione esatta, ma che non mi serve a niente: dunque, ne deduco, lei è sicuramente un economista di professione.»
Però preferisco chiudere con un’altra storia, non barzelletta ma storia vera: quella di Angelo Rizzoli senior, che ho visto di recente su Raistoria (canale 54 digitale terrestre). Gli intervistati erano grandi giornalisti, Montanelli, Biagi, Afeltra; la cosa che più mi è rimasta in mente è questa, “Rizzoli non ha mai fatto debiti, se gli serviva una macchina nuova (per la stampa dei libri e delle riviste) prima la noleggiava, e poi quando aveva cominciato a guadagnarci decideva se era il caso di comperarla.”. Normale economia domestica, si dirà: ma Rizzoli in partenza non aveva nulla di nulla, era uscito dal collegio dei martinitt, cioè gli orfani di Milano, ed era diventato un grande industriale proprio con questi metodi, mai indebitarsi, niente prestiti e molte idee in testa. In questi anni invece hanno indicato la strada i teorici dei bonds, dei derivati, queste cose qui, col risultato che stiamo tutti lavorando per pagare gli interessi sul debito. Follia pura, ma aspetto ancora qualcuno che si alzi a dirlo.
PS: è di ieri sera la nomina di Mario Monti, rettore della Bocconi, a senatore a vita: “per alti meriti culturali”. Mah. Incrociamo le dita e speriamo in bene, a me per quella motivazione erano venuti in mente almeno altri venti nomi prima di lui, ma quantomeno – questo possiamo dirlo - non è un qualsiasi commercialista di provincia.
L’argomento era la scuola, e il suo rapporto con il mondo del lavoro. Il professore della Bocconi ha detto che bisogna collegare la scuola al mondo del lavoro, e che il diploma di scuola superiore non basta più, bisogna migliorare i corsi triennali universitari. E qui, lo ammetto, sono rimasto – come dire – perplesso. In che mondo vivono questi economisti, questi professori della Bocconi?
Io una scuola come quella che descriveva il professore della Bocconi l’ho già fatta: non solo mi ci sono iscritto (quasi) quarant’anni fa, ma la mia scuola esiste dal 1859, poco prima dell’Unità d’Italia. Scuole simili alla mia esistono ovunque, in Italia: nelle Marche c’è il perito chimico ad indirizzo cartario, a Faenza c’è un diploma di scuola superiore voluto dall’industria della ceramica, eccetera eccetera eccetera. Sono realtà che esistono da tempo immemorabile, ma la novità oggi è questa: per chi non se ne fosse accorto, sono sparite le fabbriche.
La scuola che ho frequentato io, e che mi è servita molto, oggi è frequentata da giovani che fanno fatica a trovare lavoro, molta fatica: e la ragione è questa, l’industria tessile e tintoriale ormai è tutta made in China. Le grandi ditte “storiche” hanno chiuso e licenziato qui, e sono andate in Cina, in Romania, in Serbia, in Turchia, ovunque. Possibile che alla Bocconi non se ne siano ancora accorti?
L’altra questione, quella del diploma che non basta più e servono i corsi triennali universitari, è ancora più drammatica: l’analisi è esatta, ma bisognerebbe trarne delle conclusioni. Se queste conclusioni non si traggono, mi vien da dire, la ragione c’è: il professore della Bocconi stava infatti dicendo ai giovani che studiare e diplomarsi ai fini del lavoro non serve a niente, e che i loro genitori dovranno mantenerli fino ai ventidue o venticinque anni. Eterni bambini, ma non per loro colpa. Per chi non lo sapesse, professori della Bocconi inclusi, le scuole superiori quando funzionano bene (e così dovrebbe essere sempre) danno una preparazione ottima, con il diploma di perito chimico ti prendevano a lavorare già a diciassette anni, d’estate, e poi quel posto di lavoro diventava quasi sempre un posto di lavoro vero. Questo succedeva fino a qualche anno fa: oggi mi guardo in giro, e le fabbriche che conoscevo e che sembravano eterne non ci sono più. I piccoli hanno chiuso, i grandi hanno spostato la produzione all’estero, deserto sulla terra lombarda. Con buona pace della Lega Nord, tra poco se ne accorgeranno tutti. I diciottenni, a quel che vedo, l’hanno già capito da un pezzo.
Che dire? Sono vent’anni che siamo bombardati da messaggi più o meno bocconiani, “privatizzare”, “gestire lo Stato come un’azienda”, eccetera eccetera: i risultati sono quelli che abbiamo sotto gli occhi adesso, novembre 2011. Forse sarebbe ora di cambiare sistema. I bocconiani teniamoli buoni per redigere i bilanci e come cassieri-tesorieri, per il resto, cioè per la Politica, suggerirei qualcuno con una visione più ampia.
Sugli economisti circolano molte barzellette divertenti. Quella che mi sembra perfetta per il discorso del professore della Bocconi di cui parlavo all’inizio è questa: c’è un signore che decide di fare un giro in mongolfiera, e tutto funziona bene ma poi si alza un po’ di vento e perde l’orientamento. Così decide di abbassarsi e di chiedere informazioni a un passante: «Scusi, buon uomo, mi sa dire dove sono adesso?» «Su un pallone» risponde il passante. L’altro rimane un attimo perplesso, poi chiede: «Mi perdoni, ma lei è per caso un economista?» «Sì, come ha fatto a capirlo?» «Lei mi ha appena dato un’informazione esatta, ma che non mi serve a niente: dunque, ne deduco, lei è sicuramente un economista di professione.»
Però preferisco chiudere con un’altra storia, non barzelletta ma storia vera: quella di Angelo Rizzoli senior, che ho visto di recente su Raistoria (canale 54 digitale terrestre). Gli intervistati erano grandi giornalisti, Montanelli, Biagi, Afeltra; la cosa che più mi è rimasta in mente è questa, “Rizzoli non ha mai fatto debiti, se gli serviva una macchina nuova (per la stampa dei libri e delle riviste) prima la noleggiava, e poi quando aveva cominciato a guadagnarci decideva se era il caso di comperarla.”. Normale economia domestica, si dirà: ma Rizzoli in partenza non aveva nulla di nulla, era uscito dal collegio dei martinitt, cioè gli orfani di Milano, ed era diventato un grande industriale proprio con questi metodi, mai indebitarsi, niente prestiti e molte idee in testa. In questi anni invece hanno indicato la strada i teorici dei bonds, dei derivati, queste cose qui, col risultato che stiamo tutti lavorando per pagare gli interessi sul debito. Follia pura, ma aspetto ancora qualcuno che si alzi a dirlo.
PS: è di ieri sera la nomina di Mario Monti, rettore della Bocconi, a senatore a vita: “per alti meriti culturali”. Mah. Incrociamo le dita e speriamo in bene, a me per quella motivazione erano venuti in mente almeno altri venti nomi prima di lui, ma quantomeno – questo possiamo dirlo - non è un qualsiasi commercialista di provincia.
lunedì 7 novembre 2011
Complicazione mon amour
Il discorso di oggi riguarda qualcosa che tutti abbiamo continuamente sotto gli occhi, e che ci provoca enormi fastidi; non è un discorso facile da affrontare, ma vorrei provare almeno a iniziarlo. Comincio da un esempio pratico, di vita quotidiana, solo apparentemente fuori tema.
Ho rinnovato la patente pochi giorni fa: fino a tutti gli anni ’90 sarebbe bastato un timbro, oggi ci vogliono due o tre mesi per vedersi arrivare a casa un cerottino, che poi va applicato sulla tesserina col microchip. Trovo la cosa incredibilmente ridicola: perché spendere soldi per fare le patenti col chip se poi devi appiccicarci sopra un’etichettina? Nel frattempo, nel tempo in cui non ho a disposizione il cerottino, devo circolare tenendo in tasca un enorme foglio di carta che certifica l’esame medico superato. La stessa cosa è successa con le carte d’identità, rinnovate con un timbro per evitare di dover ristampare tutte le tesserine col microchip: il che va benissimo sul cartoncino, ma dove si mette un timbro sulla tesserina di plastica? Ecco dunque rispuntare la carta: nel caso fosse richiesta la carta d’identità, bisogna esibire la tesserina insieme al foglio con la proroga, e tutto questo per cinque anni. Il bello è che io non ho la patente “nuova”, ho ancora quella di carta (tenuta benissimo) con la fotografia di quando avevo diciott’anni. Ho chiesto se non era il caso di cambiarla, e all’agenzia a cui mi sono rivolto c’era un impiegato (giovane) che mi ha detto: “La tenga da conto, quelle nuove sono un disastro”.
Quante cose simili vi sono capitate negli ultimi mesi? L’elenco sarebbe lunghissimo, interminabile; ma io qui vorrei continuare a parlare di chimica e di strumenti scientifici, l’esempio della patente mi è servito solo da introduzione. L’argomento in realtà è questo, e a me pare importante: le nuove tecnologie arrivate negli ultimi vent’anni sono magnifiche, ma non sempre portano a una semplificazione. Anzi, molte volte è vero il contrario: e la colpa non è della tecnologia in sè, ma delle persone che la applicano. Nel caso in questione, basterebbe poco per renderci la vita più semplice, magari portando il codice fiscale sulla carta d’identità: basterebbe così una tesserina sola, e usando un sistema simile alla “nuvola” di cui parlava Steve Jobs sparirebbero di colpo patenti, carte dei servizi regionali, tessere sanitarie, e quant’altro ancora. Ma non succederà mai, perché invece si tende sempre alla complicazione: anche con nuovi strumenti e nuove tecnologie, va sempre a finire che tutto si complica.
Come chimico, per motivi generazionali, io sono a metà strada tra la generazione che faceva tutto a mano, pesate analitiche comprese, e quella odierna dove tutto è affidato a strumenti velocissimi che fanno quasi tutto da soli. La generazione dei chimici come Primo Levi, per intenderci, aveva bilance analitiche che non erano nemmeno elettriche: le bilance elettriche sono arrivate negli anni ’50, e anche un po’ più in là. Quelli della mia generazione non hanno mai usato le bilance manuali, quelle con i pesini da spostare tramite pinzetta; e quando ho iniziato a lavorare mi è stato detto – proprio per questo motivo - che noi giovani non avevamo manualità, e che non eravamo in grado di capire fino in fondo quello che stavamo facendo.
Invece, molte cose – pesate a parte – le facevamo ancora a mano, e l’occhio era importantissimo per cogliere i colori. Per esempio, io ho usato molti colorimetri: ce ne sono di molti modelli, ognuno col nome del suo inventore, ma ormai sono pezzi da museo. Oggi gli strumenti sono fatti più o meno così: una vaschetta o un portacampioni dove si mette il campione da analizzare, e un display dove premendo un pulsante appaiono tutte le modalità possibili di lettura di quel colore. Tutto molto veloce, e molto semplice: lo strumento legge la lunghezza d’onda che corrisponde a quel colore e poi col ditino fate scorrere sul display l’unità di misura che vi interessa, estinzione, assorbanza, colore Lovibond, colore Gardner, lunghezza d’onda, quello che vi pare. Le unità di misura ci sono tutte, antiche e moderne, ed è sicuramente un sistema molto pratico.
Ma io, invece, il colore Gardner l’ho misurato per anni proprio con lo strumento inventato dal signor Gardner: una serie di provette tutte uguali, riempite con oli di colori diversi. E’ infatti una scala nata soprattutto per gli oli minerali, buona anche per gli oli vegetali e per altre sostanze colorate, ma solo in giallo-arancio-marrone. Sul Gardner, per esempio, il verde dell’olio di oliva non c’è. Si parte dalla provetta numero 1, che è praticamente incolore, e si arriva al bruno passando per il giallino, il giallo, il giallo arancio, e via elencando fino alla provetta n.18. Si va a occhio: l’analista riempie una provettina identica alle altre, e poi confronta il colore con le provette del Gardner. Quando si trova quella corrispondente, si segna il numero, che può essere 2, 3, 4, 7, fino a 18 che è l’ultima. Una misura molto pratica, veloce, per la quale però bisogna essere almeno un po’ allenati, perché è facile sbagliare. Al massimo, come approssimazione, si può scrivere qualcosa come 7/8, cioè una via di mezzo fra due colori vicini: ma di solito non è necessario. Con i nuovi strumenti, invece, succede questo: che il colore Gardner viene espresso anche in decimali, cose tipo 6,753. Un’assurdità, che purtroppo ormai ha preso piede: ma chi sa più cosa è davvero il colore Gardner?
La stessa cosa capita con il pH e il pHmetro per misurarlo: a parte le cose più complicate, come in batteriologia, il più delle volte (per esempio con saponi e detergenti) si usava una cartina apposita: neutro, acido, basico, e poco più. Il pHmetro (si legge “piaccàmetro”) è invece un elettrodo collegato a un display, e dà misure molto precise, quindi è utilissimo: ma che senso ha scrivere cose come pH=6,325 ? Tra l’altro, c’è sempre un minimo di variazione e il pH con tre decimali dopo la virgola non dura sul display nemmeno due secondi... Eppure, ormai tutti lo scrivono, anche sui certificati; e molti capitolati sono fatti così. E' un’altra assurdità ma ha preso piede, ed ha effetti non secondari sull’economia aziendale, perché lavorando sui detergenti, come è capitato a me, si perdono ore e ore di lavoro per portare i prodotti entro capitolati da barzelletta. Per intenderci, uno shampoo può tranquillamente avere un pH compreso fra 6 e 8: ma se si pretende 5,8-6,3 tutto diventa più difficile. Ho il ricordo, netto e spiacevolissimo, di infinite discussioni e di camion interi rimandati indietro per un pH=6,45 invece che pH=6,5. Tenetelo a mente, quando vedete un’autobotte davanti a voi in autostrada: potrebbe essere un caso come questo che ho appena raccontato, un andare e venire dalla fabbrica A alla fabbrica B e viceversa per via di un capitolato assurdo, generato da persone (sicuramente con laurea) che non sanno dare la giusta importanza alle cose che stanno facendo.
Un terzo esempio riguarda la misura della viscosità, per la quale esistono (ancora una volta) moltissimi strumenti. Uno di questi l’ho sempre trovato magnifico per la sua semplicità: la tazza Ford. Si tratta proprio della Ford intesa come casa automobilistica: i suoi meccanici inventarono, più o meno cent’anni fa, uno strumento semplicissimo per misurare la viscosità degli oli minerali, che come si sa è importantissima per il funzionamento del motore. Lo strumento è questo: una tazzina tipo quelle del tè, ma di metallo e montata su un supporto. La tazzina ha un foro sul fondo, ben calibrato: si mette un dito su quel foro, dall’esterno, poi si riempie la tazzina fino a un segnale preciso, si toglie il dito e si misura in quanto tempo si vuota la tazzina. Tutto qui, avendo ovviamente la precauzione di mettere un contenitore sotto la tazzina, altrimenti quando si toglie il dito si fa un mezzo disastro (l’olio è difficile da pulire).
Ovviamente, deve essere una misura veloce: nelle misure di viscosità è importantissima la temperatura, e se si lascia un liquido in una tazzina per venti minuti la temperatura cambia sensibilmente. Di solito, la misura è espressa in secondi: se si passa il minuto, la tazza Ford non serve più e bisogna passare a un altro strumento. Eppure, sembrerà incredibile, ma io ho fatto delle misure in Tazza Ford della durata di un quarto d’ora, e anche più. I miei capi, tutti laureati, lo pretendevano; e non su un olio minerale, ma su un intermedio per un docciaschiuma. Ne conseguiva che il bagnoschiuma, inserito a 25°C esatti nella tazzina, terminava il flusso a non si sa quale temperatura venti minuti dopo (era molto viscoso), una misura tutt’altro che scientifica. Per misurare bene questo dato, bisognava dunque prendere un altro viscosimetro, magari il modello Höppler: ma “il cliente ha richiesto questo dato in questo modo”, ed era un cliente molto importante e famoso (non faccio il nome, ma è davvero di quelli importanti e famosi, nella cosmetica) per cui si faceva così, e basta. Adesso, quantomeno, so che anche nelle Ditte Importanti e Famose si aggirano laureati che non sanno come si fa una viscosità: il che mi spiega tante cose, tantissime, compreso il bollino da appiccicare sulla mia patente. Se i laureati in chimica sono così, figuriamoci gli avvocati e i commercialisti.
Non so se sono riuscito a dare l’idea di quello che intendo. Mi è uscito un articolo molto lungo, che non posso certo definire “post”. In parte, la mia mancanza di sintesi e di chiarezza è dovuta alla rabbia repressa e accumulata per anni: quando questo genere di cose succede tutti i giorni, per otto ore al giorno, diventa difficile guardarle serenamente e con distacco. Così, tanto per chiudere l’argomento – almeno per oggi – riporto qui un appunto che mi ero segnato dieci anni fa, quando questa per me era ancora materia viva. Ogni tanto lo rileggo, ma non sono mai riuscito a dargli una forma definitiva: lo metto qui anche per cercare di scaricarlo, ma so già che non riuscirò a togliermi questi argomenti dalla testa, perché nel frattempo la situazione è molto peggiorata, e basterà pensare alla complicazione delle leggi che sono state emanate in questo inizio di millennio da Comuni, Regioni, Province, Stato, e via elencando, per capire come e quanto la Complicazione e la Burocrazia regnino ormai sovrane, non solo nel pubblico ma anche e soprattutto nel privato.
Nasometria
La complicazione del mondo: strumenti bellissimi e raffinati, fatti per l'industria farmaceutica e per la precisione assoluta, paragonati ai vecchi e cari attrezzi empirici: la tazza Ford, il visc. Engler, le provette del Gardner... C'è chi ci ride sopra, e in effetti sembrano un po' ridicoli (il dito che tappa il buco sotto la tazza, la matita di legno di bosso e la “ballerina”, la scala di colori "ad occhio"...). Se invece si pensasse un po' , solo un pochino, ci si accorgerebbe che i nostri vecchi avevano visto giusto, che l'empirismo spesso è la via giusta da seguire, che non sempre e non in tutti i settori serve la precisione assoluta. Una buona scala empirica, un buon metodo d'analisi studiato per non far perdere tempo (sì, misure di colore fatte ad occhio: per non perdere tempo inutile con misure troppo raffinate), ecco quello che serve nell'industria dei saponi. Badare al sodo, non perdere tempo inutile, lavorare così come si farebbe in cucina, e usare gli strumenti costosi, precisi e moderni solo quando veramente servono: nell'industria dei farmaci servono sempre, da noi non è mica la stessa cosa. Nell'industria dei saponi non è necessario essere precisissimi, chi lo fa vuole solo complicare la vita a se stesso e agli altri. E' una vittima del marketing e delle mode (esistono le mode anche nell'analisi...) e, in sostanza, è spesso un imbecille o un incompetente, e c’è il sacrosanto dubbio che tante volte si esageri a cercare la precisione di un dato dove la precisione non serve a nulla, un po' come per le dosi in cucina: i bravi cuochi fanno tutto “a occhio”. Si compera il giocattolo complicato, per far vedere che si è proprio bravi - ma senza un po’ di discernimento è come aver le bici sofistificatissime e poi non saper pedalare... “Nasometrie” sarebbe un bel titolo. Lo potrei usare in difesa dei vecchi metodi empirici (Gardner, tazza Ford...), contro i complicatori delle cose semplici. Come dice anche Oliver Sacks, e come diceva Primo Levi oggi la chimica è sempre meno divertente, non si vede nulla, non si tocca, non si annusa: fino a poco tempo fa era possibile vedere l'acido citrico sciolto 1:1 che raffredda l'acqua fino allo zero, o una flocculazione, o un precipitato, o un viraggio... E quei bei libri d'una volta, come il Villavecchia, e quello sugli oli che aveva il mio capo sulla scrivania e che la cretina che ha preso il suo posto ha subito sbolognato: ma tanto, che se ne faceva? L'avrà guardato di sbieco e avrà concluso che era roba vecchia. (luglio 2002)
PS: ogni tanto, lo ammetto, prendo le misure a spanne: la mia spanna, dal pollice al mignolo, è esattamente di 25 centimetri.
(le vignette vengono dalla Settimana Enigmistica, www.aenigmatica.it ; le immagini hanno varie fonti, ma provengono più che altro dai cataloghi di fornitori di strumenti scientifici)
Ho rinnovato la patente pochi giorni fa: fino a tutti gli anni ’90 sarebbe bastato un timbro, oggi ci vogliono due o tre mesi per vedersi arrivare a casa un cerottino, che poi va applicato sulla tesserina col microchip. Trovo la cosa incredibilmente ridicola: perché spendere soldi per fare le patenti col chip se poi devi appiccicarci sopra un’etichettina? Nel frattempo, nel tempo in cui non ho a disposizione il cerottino, devo circolare tenendo in tasca un enorme foglio di carta che certifica l’esame medico superato. La stessa cosa è successa con le carte d’identità, rinnovate con un timbro per evitare di dover ristampare tutte le tesserine col microchip: il che va benissimo sul cartoncino, ma dove si mette un timbro sulla tesserina di plastica? Ecco dunque rispuntare la carta: nel caso fosse richiesta la carta d’identità, bisogna esibire la tesserina insieme al foglio con la proroga, e tutto questo per cinque anni. Il bello è che io non ho la patente “nuova”, ho ancora quella di carta (tenuta benissimo) con la fotografia di quando avevo diciott’anni. Ho chiesto se non era il caso di cambiarla, e all’agenzia a cui mi sono rivolto c’era un impiegato (giovane) che mi ha detto: “La tenga da conto, quelle nuove sono un disastro”.
Quante cose simili vi sono capitate negli ultimi mesi? L’elenco sarebbe lunghissimo, interminabile; ma io qui vorrei continuare a parlare di chimica e di strumenti scientifici, l’esempio della patente mi è servito solo da introduzione. L’argomento in realtà è questo, e a me pare importante: le nuove tecnologie arrivate negli ultimi vent’anni sono magnifiche, ma non sempre portano a una semplificazione. Anzi, molte volte è vero il contrario: e la colpa non è della tecnologia in sè, ma delle persone che la applicano. Nel caso in questione, basterebbe poco per renderci la vita più semplice, magari portando il codice fiscale sulla carta d’identità: basterebbe così una tesserina sola, e usando un sistema simile alla “nuvola” di cui parlava Steve Jobs sparirebbero di colpo patenti, carte dei servizi regionali, tessere sanitarie, e quant’altro ancora. Ma non succederà mai, perché invece si tende sempre alla complicazione: anche con nuovi strumenti e nuove tecnologie, va sempre a finire che tutto si complica.
Come chimico, per motivi generazionali, io sono a metà strada tra la generazione che faceva tutto a mano, pesate analitiche comprese, e quella odierna dove tutto è affidato a strumenti velocissimi che fanno quasi tutto da soli. La generazione dei chimici come Primo Levi, per intenderci, aveva bilance analitiche che non erano nemmeno elettriche: le bilance elettriche sono arrivate negli anni ’50, e anche un po’ più in là. Quelli della mia generazione non hanno mai usato le bilance manuali, quelle con i pesini da spostare tramite pinzetta; e quando ho iniziato a lavorare mi è stato detto – proprio per questo motivo - che noi giovani non avevamo manualità, e che non eravamo in grado di capire fino in fondo quello che stavamo facendo.
Invece, molte cose – pesate a parte – le facevamo ancora a mano, e l’occhio era importantissimo per cogliere i colori. Per esempio, io ho usato molti colorimetri: ce ne sono di molti modelli, ognuno col nome del suo inventore, ma ormai sono pezzi da museo. Oggi gli strumenti sono fatti più o meno così: una vaschetta o un portacampioni dove si mette il campione da analizzare, e un display dove premendo un pulsante appaiono tutte le modalità possibili di lettura di quel colore. Tutto molto veloce, e molto semplice: lo strumento legge la lunghezza d’onda che corrisponde a quel colore e poi col ditino fate scorrere sul display l’unità di misura che vi interessa, estinzione, assorbanza, colore Lovibond, colore Gardner, lunghezza d’onda, quello che vi pare. Le unità di misura ci sono tutte, antiche e moderne, ed è sicuramente un sistema molto pratico.
Ma io, invece, il colore Gardner l’ho misurato per anni proprio con lo strumento inventato dal signor Gardner: una serie di provette tutte uguali, riempite con oli di colori diversi. E’ infatti una scala nata soprattutto per gli oli minerali, buona anche per gli oli vegetali e per altre sostanze colorate, ma solo in giallo-arancio-marrone. Sul Gardner, per esempio, il verde dell’olio di oliva non c’è. Si parte dalla provetta numero 1, che è praticamente incolore, e si arriva al bruno passando per il giallino, il giallo, il giallo arancio, e via elencando fino alla provetta n.18. Si va a occhio: l’analista riempie una provettina identica alle altre, e poi confronta il colore con le provette del Gardner. Quando si trova quella corrispondente, si segna il numero, che può essere 2, 3, 4, 7, fino a 18 che è l’ultima. Una misura molto pratica, veloce, per la quale però bisogna essere almeno un po’ allenati, perché è facile sbagliare. Al massimo, come approssimazione, si può scrivere qualcosa come 7/8, cioè una via di mezzo fra due colori vicini: ma di solito non è necessario. Con i nuovi strumenti, invece, succede questo: che il colore Gardner viene espresso anche in decimali, cose tipo 6,753. Un’assurdità, che purtroppo ormai ha preso piede: ma chi sa più cosa è davvero il colore Gardner?
La stessa cosa capita con il pH e il pHmetro per misurarlo: a parte le cose più complicate, come in batteriologia, il più delle volte (per esempio con saponi e detergenti) si usava una cartina apposita: neutro, acido, basico, e poco più. Il pHmetro (si legge “piaccàmetro”) è invece un elettrodo collegato a un display, e dà misure molto precise, quindi è utilissimo: ma che senso ha scrivere cose come pH=6,325 ? Tra l’altro, c’è sempre un minimo di variazione e il pH con tre decimali dopo la virgola non dura sul display nemmeno due secondi... Eppure, ormai tutti lo scrivono, anche sui certificati; e molti capitolati sono fatti così. E' un’altra assurdità ma ha preso piede, ed ha effetti non secondari sull’economia aziendale, perché lavorando sui detergenti, come è capitato a me, si perdono ore e ore di lavoro per portare i prodotti entro capitolati da barzelletta. Per intenderci, uno shampoo può tranquillamente avere un pH compreso fra 6 e 8: ma se si pretende 5,8-6,3 tutto diventa più difficile. Ho il ricordo, netto e spiacevolissimo, di infinite discussioni e di camion interi rimandati indietro per un pH=6,45 invece che pH=6,5. Tenetelo a mente, quando vedete un’autobotte davanti a voi in autostrada: potrebbe essere un caso come questo che ho appena raccontato, un andare e venire dalla fabbrica A alla fabbrica B e viceversa per via di un capitolato assurdo, generato da persone (sicuramente con laurea) che non sanno dare la giusta importanza alle cose che stanno facendo.
Un terzo esempio riguarda la misura della viscosità, per la quale esistono (ancora una volta) moltissimi strumenti. Uno di questi l’ho sempre trovato magnifico per la sua semplicità: la tazza Ford. Si tratta proprio della Ford intesa come casa automobilistica: i suoi meccanici inventarono, più o meno cent’anni fa, uno strumento semplicissimo per misurare la viscosità degli oli minerali, che come si sa è importantissima per il funzionamento del motore. Lo strumento è questo: una tazzina tipo quelle del tè, ma di metallo e montata su un supporto. La tazzina ha un foro sul fondo, ben calibrato: si mette un dito su quel foro, dall’esterno, poi si riempie la tazzina fino a un segnale preciso, si toglie il dito e si misura in quanto tempo si vuota la tazzina. Tutto qui, avendo ovviamente la precauzione di mettere un contenitore sotto la tazzina, altrimenti quando si toglie il dito si fa un mezzo disastro (l’olio è difficile da pulire).
Ovviamente, deve essere una misura veloce: nelle misure di viscosità è importantissima la temperatura, e se si lascia un liquido in una tazzina per venti minuti la temperatura cambia sensibilmente. Di solito, la misura è espressa in secondi: se si passa il minuto, la tazza Ford non serve più e bisogna passare a un altro strumento. Eppure, sembrerà incredibile, ma io ho fatto delle misure in Tazza Ford della durata di un quarto d’ora, e anche più. I miei capi, tutti laureati, lo pretendevano; e non su un olio minerale, ma su un intermedio per un docciaschiuma. Ne conseguiva che il bagnoschiuma, inserito a 25°C esatti nella tazzina, terminava il flusso a non si sa quale temperatura venti minuti dopo (era molto viscoso), una misura tutt’altro che scientifica. Per misurare bene questo dato, bisognava dunque prendere un altro viscosimetro, magari il modello Höppler: ma “il cliente ha richiesto questo dato in questo modo”, ed era un cliente molto importante e famoso (non faccio il nome, ma è davvero di quelli importanti e famosi, nella cosmetica) per cui si faceva così, e basta. Adesso, quantomeno, so che anche nelle Ditte Importanti e Famose si aggirano laureati che non sanno come si fa una viscosità: il che mi spiega tante cose, tantissime, compreso il bollino da appiccicare sulla mia patente. Se i laureati in chimica sono così, figuriamoci gli avvocati e i commercialisti.
Non so se sono riuscito a dare l’idea di quello che intendo. Mi è uscito un articolo molto lungo, che non posso certo definire “post”. In parte, la mia mancanza di sintesi e di chiarezza è dovuta alla rabbia repressa e accumulata per anni: quando questo genere di cose succede tutti i giorni, per otto ore al giorno, diventa difficile guardarle serenamente e con distacco. Così, tanto per chiudere l’argomento – almeno per oggi – riporto qui un appunto che mi ero segnato dieci anni fa, quando questa per me era ancora materia viva. Ogni tanto lo rileggo, ma non sono mai riuscito a dargli una forma definitiva: lo metto qui anche per cercare di scaricarlo, ma so già che non riuscirò a togliermi questi argomenti dalla testa, perché nel frattempo la situazione è molto peggiorata, e basterà pensare alla complicazione delle leggi che sono state emanate in questo inizio di millennio da Comuni, Regioni, Province, Stato, e via elencando, per capire come e quanto la Complicazione e la Burocrazia regnino ormai sovrane, non solo nel pubblico ma anche e soprattutto nel privato.
Nasometria
La complicazione del mondo: strumenti bellissimi e raffinati, fatti per l'industria farmaceutica e per la precisione assoluta, paragonati ai vecchi e cari attrezzi empirici: la tazza Ford, il visc. Engler, le provette del Gardner... C'è chi ci ride sopra, e in effetti sembrano un po' ridicoli (il dito che tappa il buco sotto la tazza, la matita di legno di bosso e la “ballerina”, la scala di colori "ad occhio"...). Se invece si pensasse un po' , solo un pochino, ci si accorgerebbe che i nostri vecchi avevano visto giusto, che l'empirismo spesso è la via giusta da seguire, che non sempre e non in tutti i settori serve la precisione assoluta. Una buona scala empirica, un buon metodo d'analisi studiato per non far perdere tempo (sì, misure di colore fatte ad occhio: per non perdere tempo inutile con misure troppo raffinate), ecco quello che serve nell'industria dei saponi. Badare al sodo, non perdere tempo inutile, lavorare così come si farebbe in cucina, e usare gli strumenti costosi, precisi e moderni solo quando veramente servono: nell'industria dei farmaci servono sempre, da noi non è mica la stessa cosa. Nell'industria dei saponi non è necessario essere precisissimi, chi lo fa vuole solo complicare la vita a se stesso e agli altri. E' una vittima del marketing e delle mode (esistono le mode anche nell'analisi...) e, in sostanza, è spesso un imbecille o un incompetente, e c’è il sacrosanto dubbio che tante volte si esageri a cercare la precisione di un dato dove la precisione non serve a nulla, un po' come per le dosi in cucina: i bravi cuochi fanno tutto “a occhio”. Si compera il giocattolo complicato, per far vedere che si è proprio bravi - ma senza un po’ di discernimento è come aver le bici sofistificatissime e poi non saper pedalare... “Nasometrie” sarebbe un bel titolo. Lo potrei usare in difesa dei vecchi metodi empirici (Gardner, tazza Ford...), contro i complicatori delle cose semplici. Come dice anche Oliver Sacks, e come diceva Primo Levi oggi la chimica è sempre meno divertente, non si vede nulla, non si tocca, non si annusa: fino a poco tempo fa era possibile vedere l'acido citrico sciolto 1:1 che raffredda l'acqua fino allo zero, o una flocculazione, o un precipitato, o un viraggio... E quei bei libri d'una volta, come il Villavecchia, e quello sugli oli che aveva il mio capo sulla scrivania e che la cretina che ha preso il suo posto ha subito sbolognato: ma tanto, che se ne faceva? L'avrà guardato di sbieco e avrà concluso che era roba vecchia. (luglio 2002)
PS: ogni tanto, lo ammetto, prendo le misure a spanne: la mia spanna, dal pollice al mignolo, è esattamente di 25 centimetri.
(le vignette vengono dalla Settimana Enigmistica, www.aenigmatica.it ; le immagini hanno varie fonti, ma provengono più che altro dai cataloghi di fornitori di strumenti scientifici)
venerdì 4 novembre 2011
Azoto
Le vaschette con l’affettato, quelle che troviamo nei supermercati, sono ormai così comuni che sembra che esistano da sempre. Si apre la vaschetta, e troviamo il prosciutto come se fosse stato appena affettato: ma non è sempre stato così, anzi è da meno di dieci anni che questa tecnologia è arrivata in tutti i negozi. Prima, c’erano soltanto le confezioni sottovuoto: basta una piccola pompa aspirante, sul tipo di quelle degli aspirapolvere, e il gioco è fatto. L’unico inconveniente col sottovuoto è che il prosciutto riusciva tutto schiacciato, compresso, quasi una mattonella più che un affettato. Un’ottima invenzione, dunque, dato che l’affettato “appena affettato” va consumato subito, anche in frigorifero non dura più di un giorno; invece con queste vaschette tutto funziona per il meglio, e non solo con gli affettati ma anche con le verdure, la frutta, e altre cose ancora.
Sto parlando di “atmosfera modificata”: la spiegazione in sè è semplicissima, si toglie l’aria dalla vaschetta e si mette al suo posto l’azoto puro preso delle bombole - ma mi sono accorto che quando ne parlo trovo molto spesso sorpresa e disagio. Nessuno sa cos’è l’azoto, pare anzi che siano moltissime le persone che non sanno cosa sia l’aria, e che magari non ci avevano mai nemmeno pensato. Queste cose si insegnano a scuola, o quantomeno io mi ricordo che me lo avevano insegnato, fin dalle elementari; non ho figli e non so bene cosa si insegni oggi a scuola, ma devo dire che sono molto sorpreso di questa ignoranza assoluta, di questi sguardi persi, anche in persone giovani e “scolarizzate” magari fino al diploma o alla laurea.
Eppure l’azoto è il componente principale dell’aria, la percentuale di azoto nell’aria varia ma si aggira sempre intorno al 78% : nuotiamo nell’azoto, così come i pesci nuotano nell’acqua. Ma è probabile che, se si potesse chiedere a un pesce che cos’è l’acqua, non saprebbe rispondere: la darebbe per scontata, così come facciamo noi con l’aria.
L’aria che respiriamo è una miscela di molti gas diversi. I più importanti sono l’azoto, intorno al 78% del totale) e l’ossigeno, in una percentuale vicina al 21 %: queste due percentuali sono riferite all’aria “secca”, cioè priva di umidità, e a condizioni di pressione e temperatura “normali”. Come è noto, in montagna (dove diminuisce la pressione atmosferica) c’è meno ossigeno, al punto che alle persone con problemi cardiocircolatori è sconsigliato andare sopra i mille metri d’altitudine. E, in caso di incendi o di surriscaldamento, o magari di aria molto umida, queste percentuali diventano molto variabili: in queste condizioni molte persone hanno problemi respiratori, soprattutto d’estate quando si combinano temperature elevate e umidità elevata (afa).
Altri gas che compongono l’aria che respiriamo sono prodotti della respirazione o della combustione: anidride carbonica, ossidi dell’azoto, anidride solforica e solforosa. Poi si trovano tracce di gas inerti (elio, argo), magari l’ozono (che è ossigeno triatomico, molto instabile), cloro e iodio (vicino al mare), eccetera.
Tornando alle vaschette dell’affettato e all’atmosfera modificata, quello che si fa è togliere l’aria e nel contempo immettere azoto puro, preso da apposite bombole. L’azoto è un gas poco reattivo, quasi inerte; i processi di degradazione della materia (il marcio, il rancido) vengono invece dall’ossigeno e in maniera minore anche dagli altri gas che ho citato sopra. Togliendo i gas all’origine del rancido, il prodotto rimane integro anche per molto tempo; mantenendo comunque un’atmosfera dentro alla vaschetta, il prodotto rimane dell’aspetto e della consistenza che noi preferiamo. Ne consegue che, quando apriamo la vaschetta, il prodotto ritorna in contatto non solo con l’azoto ma anche con l’ossigeno e gli altri gas atmosferici, e va dunque consumato entro poche ore.
L’azoto, così come gli altri gas atmosferici, venne isolato e identificato solo alla fine del Settecento: per la precisione (come spiega la Garzantina della Chimica) nel 1772, ad opera dello scozzese Daniel Rutherford. La scoperta andrebbe però condivisa con molti altri scienziati di quel periodo, dato che Rutherford (da non confondersi con l’omonimo Ernest Rutherford, studioso della struttura atomica, premio Nobel nel 1908) si avvalse di molti studi precedenti e contemporanei: la storia della scienza è una storia collettiva, e questo non andrebbe mai dimenticato.
Il Settecento è infatti il secolo in cui si cominciò a studiare seriamente il mondo che ci circonda, mettendo da parte o contestando apertamente le teorie di Aristotele e degli altri scienziati e filosofi della Grecia classica che fin lì si erano insegnati nelle Università. Alcuni aspetti di quelle antiche teorie ressero, la maggior parte di esse invece era destinata a dimostrarsi sbagliata. (La dimostrazione sta nel mondo in cui viviamo: lo scrivo qui en passant, per i distratti e per i creazionisti).
Fino alla metà del Settecento, le principali teorie sulla composizione dell’aria si basavano sull’esistenza di sostanze dai nomi che oggi ci appaiono piuttosto approssimativi: nomi come “flogisto”, per esempio. Il flogisto era la sostanza che provoca il fuoco: si era notato da tempo che in mancanza d’aria il fuoco si spegne, o comunque lavora ma in modo diverso (la produzione del carbone di legna, per esempio). Quando ci si mise sul serio a cercare il misterioso flogisto (qualcosa di magico e filosofico, di stampo alchimistico), si scoprì invece un’altra cosa: l’Ossigeno. Le ricerche definitive furono fatte dal francese Lavoisier (1743-1794) che scoprì che l'aria è una miscela di un gas attivo che mantiene la combustione e la respirazione (l'ossigeno) e di un gas inattivo (l'azoto).
Sia l’Ossigeno che l’Azoto sono due elementi chimici, in particolare l'azoto è l'elemento chimico di numero atomico 7 e suo simbolo è N perché in molte lingue il suo nome è Nitrogeno. Dell’origine di questi nomi parlo qui sotto, per intanto ripubblico la Tavola con il Sistema Periodico degli Elementi (facendo clic sull'iiamgine si legge meglio), qualcosa che tutti dovremmo conoscere: è l’alfabeto che ci permette di conoscere la Creazione. Come si può vedere dalla Tavola Periodica, l'azoto è un gas molto stabile ma non fa parte dei gas inerti (o “gas nobili”, se preferite: l’ultima colonna a sinistra), e quindi può reagire in molti modi diversi, dando origine sia a composti organici (come nel DNA e negli amminoacidi) che inorganici (ammoniaca, acido nitrico, nitrati).
Azoto significa “senza vita”: non perché l’azoto sia velenoso, ma perché in un’atmosfera di solo azoto noi non possiamo vivere. La vita sulla Terra è condizionata all’esistenza dell’Ossigeno: che però deve essere in quelle determinate percentuali, intorno al 20-22%. Per questo è fondamentale il ruolo dell’Azoto, che funziona egregiamente per la diluizione dell’ossigeno. E’ per cose come queste che è bello conoscere la chimica e la fisica: si scopre che l’esistenza del mondo in cui viviamo è dovuta a condizioni ben precise, e che basta alterarle di poco per cancellare la vita o per farla nascere. Con l’Ossigeno sopra al 25%, la Terra brucerebbe; con l’Azoto sopra all’80%, non potremmo respirare. In questa miscela, invece, la nostra vita è possibile: se dietro ci sia un disegno divino, o se sia tutto dovuto alla Fortuna Imperatrix Mundi, lo lascio decidere a chi legge; in ogni caso, continuo a pensare che sia bello sapere queste cose.
L’altro nome dell’azoto, Nitrogeno, deriva da una delle parole più antiche della chimica: le cave egiziane di Natron, giacimenti di sali di varia composizione (soprattutto carbonati e nitrati: il salnitro è nitrato di potassio) che servivano agli antichi egizi per l’imbalsamazione delle mummie ma anche come detersivi. La liscivia dei nostri nonni, insomma. Il Nitrogeno-Azoto non è presente nei carbonati, ma si trova invece combinato nei nitrati: da qui lo estrasse nel 1790 il chimico Jean Antoine Chaptal, che lo chiamò “nitrogène”, generatore di nitro. “Azoto” pare invece che sia una parola inventata da Lavoisier. Però devo aggiungere che trovare informazioni esaurienti sulle parole “nitron” e “natron” non è facilissimo: so da tempo che “Natrium” è il nome scientifico del Sodio, ma sulla parola “nitro” (devo ammetterlo) non mi ero mai fermato a pensare prima di oggi.
In tedesco l’azoto si chiama “Stickstoff”, in inglese “nitrogen”, in francese “nitrogène”; sull’origine della parola tedesca ho provato a fare qualche ricerca, ma ho trovato solo una radice comune, “Stick”, con telaio e ricamo; mentre “Stoff” è materia, tessuto. Il che sembra un po’ strano, ma di sicuro un significato c’è e prima o poi scoprirò cosa c’è dietro. L'ottimo e misterioso Herr Gifh (http://www.carnevaledellachimica.org/ ) suggerisce questa etimologia: «Per il tedesco aiuta wikipedia, che riporta più o meno l'origine alla parola "soffocare" („erstickt“) per la sua proprietà di estinguere una fiamma o la vita, soffocata dall'assenza del vitale comburente che è l'ossigeno.»
Una bella storia delle definizioni di “nitro” e “Azoto” (stickstoff) è in un libro di Primo Levi del 1985, “L’altrui mestiere” a pagina 129 dell’edizione Einaudi, nei due capitoli intitolati “La lingua dei chimici”.
Ed infine, come si separano i gas? Si procede per compressione e liquefazione, e successiva distillazione: un procedimento che non si può fare in casa e che necessita delle necessarie apparecchiature e misure di sicurezza, ma che comunque era già noto al tempo di Lavoisier.
L’azoto liquido, che si vede spesso nei documentari scientifici, è vicino ai duecento gradi sotto zero: il suo punto di ebollizione è infatti –195,8°C.
Sto parlando di “atmosfera modificata”: la spiegazione in sè è semplicissima, si toglie l’aria dalla vaschetta e si mette al suo posto l’azoto puro preso delle bombole - ma mi sono accorto che quando ne parlo trovo molto spesso sorpresa e disagio. Nessuno sa cos’è l’azoto, pare anzi che siano moltissime le persone che non sanno cosa sia l’aria, e che magari non ci avevano mai nemmeno pensato. Queste cose si insegnano a scuola, o quantomeno io mi ricordo che me lo avevano insegnato, fin dalle elementari; non ho figli e non so bene cosa si insegni oggi a scuola, ma devo dire che sono molto sorpreso di questa ignoranza assoluta, di questi sguardi persi, anche in persone giovani e “scolarizzate” magari fino al diploma o alla laurea.
Eppure l’azoto è il componente principale dell’aria, la percentuale di azoto nell’aria varia ma si aggira sempre intorno al 78% : nuotiamo nell’azoto, così come i pesci nuotano nell’acqua. Ma è probabile che, se si potesse chiedere a un pesce che cos’è l’acqua, non saprebbe rispondere: la darebbe per scontata, così come facciamo noi con l’aria.
L’aria che respiriamo è una miscela di molti gas diversi. I più importanti sono l’azoto, intorno al 78% del totale) e l’ossigeno, in una percentuale vicina al 21 %: queste due percentuali sono riferite all’aria “secca”, cioè priva di umidità, e a condizioni di pressione e temperatura “normali”. Come è noto, in montagna (dove diminuisce la pressione atmosferica) c’è meno ossigeno, al punto che alle persone con problemi cardiocircolatori è sconsigliato andare sopra i mille metri d’altitudine. E, in caso di incendi o di surriscaldamento, o magari di aria molto umida, queste percentuali diventano molto variabili: in queste condizioni molte persone hanno problemi respiratori, soprattutto d’estate quando si combinano temperature elevate e umidità elevata (afa).
Altri gas che compongono l’aria che respiriamo sono prodotti della respirazione o della combustione: anidride carbonica, ossidi dell’azoto, anidride solforica e solforosa. Poi si trovano tracce di gas inerti (elio, argo), magari l’ozono (che è ossigeno triatomico, molto instabile), cloro e iodio (vicino al mare), eccetera.
Tornando alle vaschette dell’affettato e all’atmosfera modificata, quello che si fa è togliere l’aria e nel contempo immettere azoto puro, preso da apposite bombole. L’azoto è un gas poco reattivo, quasi inerte; i processi di degradazione della materia (il marcio, il rancido) vengono invece dall’ossigeno e in maniera minore anche dagli altri gas che ho citato sopra. Togliendo i gas all’origine del rancido, il prodotto rimane integro anche per molto tempo; mantenendo comunque un’atmosfera dentro alla vaschetta, il prodotto rimane dell’aspetto e della consistenza che noi preferiamo. Ne consegue che, quando apriamo la vaschetta, il prodotto ritorna in contatto non solo con l’azoto ma anche con l’ossigeno e gli altri gas atmosferici, e va dunque consumato entro poche ore.
L’azoto, così come gli altri gas atmosferici, venne isolato e identificato solo alla fine del Settecento: per la precisione (come spiega la Garzantina della Chimica) nel 1772, ad opera dello scozzese Daniel Rutherford. La scoperta andrebbe però condivisa con molti altri scienziati di quel periodo, dato che Rutherford (da non confondersi con l’omonimo Ernest Rutherford, studioso della struttura atomica, premio Nobel nel 1908) si avvalse di molti studi precedenti e contemporanei: la storia della scienza è una storia collettiva, e questo non andrebbe mai dimenticato.
Il Settecento è infatti il secolo in cui si cominciò a studiare seriamente il mondo che ci circonda, mettendo da parte o contestando apertamente le teorie di Aristotele e degli altri scienziati e filosofi della Grecia classica che fin lì si erano insegnati nelle Università. Alcuni aspetti di quelle antiche teorie ressero, la maggior parte di esse invece era destinata a dimostrarsi sbagliata. (La dimostrazione sta nel mondo in cui viviamo: lo scrivo qui en passant, per i distratti e per i creazionisti).
Fino alla metà del Settecento, le principali teorie sulla composizione dell’aria si basavano sull’esistenza di sostanze dai nomi che oggi ci appaiono piuttosto approssimativi: nomi come “flogisto”, per esempio. Il flogisto era la sostanza che provoca il fuoco: si era notato da tempo che in mancanza d’aria il fuoco si spegne, o comunque lavora ma in modo diverso (la produzione del carbone di legna, per esempio). Quando ci si mise sul serio a cercare il misterioso flogisto (qualcosa di magico e filosofico, di stampo alchimistico), si scoprì invece un’altra cosa: l’Ossigeno. Le ricerche definitive furono fatte dal francese Lavoisier (1743-1794) che scoprì che l'aria è una miscela di un gas attivo che mantiene la combustione e la respirazione (l'ossigeno) e di un gas inattivo (l'azoto).
Sia l’Ossigeno che l’Azoto sono due elementi chimici, in particolare l'azoto è l'elemento chimico di numero atomico 7 e suo simbolo è N perché in molte lingue il suo nome è Nitrogeno. Dell’origine di questi nomi parlo qui sotto, per intanto ripubblico la Tavola con il Sistema Periodico degli Elementi (facendo clic sull'iiamgine si legge meglio), qualcosa che tutti dovremmo conoscere: è l’alfabeto che ci permette di conoscere la Creazione. Come si può vedere dalla Tavola Periodica, l'azoto è un gas molto stabile ma non fa parte dei gas inerti (o “gas nobili”, se preferite: l’ultima colonna a sinistra), e quindi può reagire in molti modi diversi, dando origine sia a composti organici (come nel DNA e negli amminoacidi) che inorganici (ammoniaca, acido nitrico, nitrati).
Azoto significa “senza vita”: non perché l’azoto sia velenoso, ma perché in un’atmosfera di solo azoto noi non possiamo vivere. La vita sulla Terra è condizionata all’esistenza dell’Ossigeno: che però deve essere in quelle determinate percentuali, intorno al 20-22%. Per questo è fondamentale il ruolo dell’Azoto, che funziona egregiamente per la diluizione dell’ossigeno. E’ per cose come queste che è bello conoscere la chimica e la fisica: si scopre che l’esistenza del mondo in cui viviamo è dovuta a condizioni ben precise, e che basta alterarle di poco per cancellare la vita o per farla nascere. Con l’Ossigeno sopra al 25%, la Terra brucerebbe; con l’Azoto sopra all’80%, non potremmo respirare. In questa miscela, invece, la nostra vita è possibile: se dietro ci sia un disegno divino, o se sia tutto dovuto alla Fortuna Imperatrix Mundi, lo lascio decidere a chi legge; in ogni caso, continuo a pensare che sia bello sapere queste cose.
L’altro nome dell’azoto, Nitrogeno, deriva da una delle parole più antiche della chimica: le cave egiziane di Natron, giacimenti di sali di varia composizione (soprattutto carbonati e nitrati: il salnitro è nitrato di potassio) che servivano agli antichi egizi per l’imbalsamazione delle mummie ma anche come detersivi. La liscivia dei nostri nonni, insomma. Il Nitrogeno-Azoto non è presente nei carbonati, ma si trova invece combinato nei nitrati: da qui lo estrasse nel 1790 il chimico Jean Antoine Chaptal, che lo chiamò “nitrogène”, generatore di nitro. “Azoto” pare invece che sia una parola inventata da Lavoisier. Però devo aggiungere che trovare informazioni esaurienti sulle parole “nitron” e “natron” non è facilissimo: so da tempo che “Natrium” è il nome scientifico del Sodio, ma sulla parola “nitro” (devo ammetterlo) non mi ero mai fermato a pensare prima di oggi.
In tedesco l’azoto si chiama “Stickstoff”, in inglese “nitrogen”, in francese “nitrogène”; sull’origine della parola tedesca ho provato a fare qualche ricerca, ma ho trovato solo una radice comune, “Stick”, con telaio e ricamo; mentre “Stoff” è materia, tessuto. Il che sembra un po’ strano, ma di sicuro un significato c’è e prima o poi scoprirò cosa c’è dietro. L'ottimo e misterioso Herr Gifh (http://www.carnevaledellachimica.org/ ) suggerisce questa etimologia: «Per il tedesco aiuta wikipedia, che riporta più o meno l'origine alla parola "soffocare" („erstickt“) per la sua proprietà di estinguere una fiamma o la vita, soffocata dall'assenza del vitale comburente che è l'ossigeno.»
Una bella storia delle definizioni di “nitro” e “Azoto” (stickstoff) è in un libro di Primo Levi del 1985, “L’altrui mestiere” a pagina 129 dell’edizione Einaudi, nei due capitoli intitolati “La lingua dei chimici”.
Ed infine, come si separano i gas? Si procede per compressione e liquefazione, e successiva distillazione: un procedimento che non si può fare in casa e che necessita delle necessarie apparecchiature e misure di sicurezza, ma che comunque era già noto al tempo di Lavoisier.
L’azoto liquido, che si vede spesso nei documentari scientifici, è vicino ai duecento gradi sotto zero: il suo punto di ebollizione è infatti –195,8°C.
(il ritratto di Daniel Rutherford viene da www.wikipedia.it ; la biografia di Gay-Lussac viene da un mio libro di scuola del 1972; la Tavola Periodica viene da un tappetino per il mouse, materiale pubblicitario; il ritratto di Lavoisier con la moglie viene da un vecchio quotidiano: l'originale è a colori, opera di un grandissimo pittore del Settecento. Infine, me ne scuso profondamente ma non ricordo più dove ho preso l'acqua deidratata. E' un'immagine che mi mette sempre di buon umore, prima o poi dovevo metterla in un post)
giovedì 3 novembre 2011
Ozono
Da una parte l’ozonoterapia, gli ozonizzatori, il buco nell’ozono, la fascia di ozono che ci protegge; dall’altra parte, lo smog, l’inquinamento, “l’ozono ha superato i livelli di guardia”, i blocchi del traffico per ridurre i livelli di ozono. E qui arriva la fatale domanda: «Ma allora, l’ozono fa bene o fa male?». E’ una domanda legittima ma un tantino rozza, grossolana. Innanzitutto, dipende: quanto siete vicini all’ozono? L’effetto dell’ozono sulla pelle è paragonabile a quello dell’acqua ossigenata, che in qualche modo è sua parente: disinfetta molto bene, ma irrita le ferite. Però, per evitare altre semplificazioni eccessive, è meglio partire da una definizione ufficiale. Che cos’è di preciso l’ozono è meglio farselo dire dalla Garzantina della Chimica: che gli dedica una voce molto lunga, ma in questa sede posso limitarmi a riportare le prime due righe, “forma allotropica dell’ossigeno, con molecola triatomica”.
A questo punto bisogna stabilire che cos’è una forma allotropica, anche e soprattutto perché “allotropo” è una parola che ricorre spesso, ma il suo significato preciso io non me lo ricordo mai. E dunque, sempre dalla Garzantina della Chimica: «allotropia: fenomeno per cui un elemento chimico può esistere in più forme che differiscono tra di loro per struttura cristallina e per proprietà chimiche e fisiche.» Sottolineo in questa frase la parola “elemento”: non è un’espressione generica, ma si tratta ancora una volta del Sistema Periodico degli Elementi. La Garzantina fa alcuni esempi: il Carbonio può esistere come diamante e grafite (forme allotropiche del Carbonio), lo Zolfo esiste sia con molecole lineari che orientate nello spazio, il Fosforo esiste sia come fosforo bianco che come fosforo rosso, anch’essi forme allotropiche. L’ozono è una forma allotropica dell’Ossigeno: elemento atomico numero 26 della Tavola Periodica.
Per capire cosa succede (mi dispiace, è un argomento complicato) bisogna parlare dei gas e di come si trovano in natura. I gas formati da più elementi, come l’anidride carbonica o il metano, hanno composizione variabile nelle loro molecole; invece i gas formati da elementi puri, l’azoto, l’ossigeno, l’elio, l’idrogeno, hanno sempre una molecola formata da due atomi. Per spiegare il motivo di questa composizione biatomica bisognerebbe parlare della struttura degli atomi, il discorso si farebbe ancora più complicato e richiederebbe un corso di chimica completo, perciò sorvolo e vado avanti: il principio fondamentale è questo, la molecola normale dell’Ossigeno è composta da due soli atomi uniti insieme, quella dell’Ozono da tre atomi.
In condizioni particolari, come una forte scarica elettrica (temporali) o come una forte carica di energia (i raggi solari nell’atmosfera più esterna) la molecola di Ossigeno può incorporare un terzo atomo, proveniente dalla rottura di un’altra molecola. Questa struttura a tre atomi è però molto instabile, e il terzo atomo (uno dei famosi “radicali liberi”) andrà a fissarsi sulla prima cosa che capita. Per cercare di capire cosa succede si può tornare all’esempio dell’acqua ossigenata: un’acqua che, sempre per effetto di forti scariche elettriche (così viene preparata industrialmente) ha inglobato un secondo atomo di ossigeno. Anche l’ossigeno in più dell’acqua ossigenata è molto instabile, e reagisce a contatto della nostra pelle come vediamo quando la mettiamo su una piccola ferita.
Quando l’ozono è presente nell’aria, lo respiriamo; l’effetto dell’ozono sui nostri bronchi e mucose è lo stesso che vediamo sulla nostra pelle (piccoli tagli e sbucciature) quando gli versiamo sopra l’acqua ossigenata. Cioè, un effetto di irritazione provocato dal radicale libero dell’ossigeno: che nel caso di una sbucciatura a un ginocchio è poca cosa, ma in gola o nei polmoni può recare disturbi seri.
Quando invece l’ozono si forma nell’alta atmosfera, ha suo malgrado una funzione protettiva: i raggi ultravioletti del sole (raggi UV e UVA) vanno a scontrarsi sulla fascia di ozono; la serie di reazioni che ne nasce filtra in qualche modo i raggi UV, rendendoli meno pericolosi.
Il buco nell’ozono, va ricordato, è prodotto in gran parte dall’azione dell’uomo: nel ‘900 abbiamo inventato e prodotto in grande quantità sostanze molto volatili (refrigeranti per frigoriferi e propellenti per bombolette spray) che sono salite fino allo strato di ozono, distruggendolo o danneggiandolo.
A questo punto bisogna stabilire che cos’è una forma allotropica, anche e soprattutto perché “allotropo” è una parola che ricorre spesso, ma il suo significato preciso io non me lo ricordo mai. E dunque, sempre dalla Garzantina della Chimica: «allotropia: fenomeno per cui un elemento chimico può esistere in più forme che differiscono tra di loro per struttura cristallina e per proprietà chimiche e fisiche.» Sottolineo in questa frase la parola “elemento”: non è un’espressione generica, ma si tratta ancora una volta del Sistema Periodico degli Elementi. La Garzantina fa alcuni esempi: il Carbonio può esistere come diamante e grafite (forme allotropiche del Carbonio), lo Zolfo esiste sia con molecole lineari che orientate nello spazio, il Fosforo esiste sia come fosforo bianco che come fosforo rosso, anch’essi forme allotropiche. L’ozono è una forma allotropica dell’Ossigeno: elemento atomico numero 26 della Tavola Periodica.
Per capire cosa succede (mi dispiace, è un argomento complicato) bisogna parlare dei gas e di come si trovano in natura. I gas formati da più elementi, come l’anidride carbonica o il metano, hanno composizione variabile nelle loro molecole; invece i gas formati da elementi puri, l’azoto, l’ossigeno, l’elio, l’idrogeno, hanno sempre una molecola formata da due atomi. Per spiegare il motivo di questa composizione biatomica bisognerebbe parlare della struttura degli atomi, il discorso si farebbe ancora più complicato e richiederebbe un corso di chimica completo, perciò sorvolo e vado avanti: il principio fondamentale è questo, la molecola normale dell’Ossigeno è composta da due soli atomi uniti insieme, quella dell’Ozono da tre atomi.
In condizioni particolari, come una forte scarica elettrica (temporali) o come una forte carica di energia (i raggi solari nell’atmosfera più esterna) la molecola di Ossigeno può incorporare un terzo atomo, proveniente dalla rottura di un’altra molecola. Questa struttura a tre atomi è però molto instabile, e il terzo atomo (uno dei famosi “radicali liberi”) andrà a fissarsi sulla prima cosa che capita. Per cercare di capire cosa succede si può tornare all’esempio dell’acqua ossigenata: un’acqua che, sempre per effetto di forti scariche elettriche (così viene preparata industrialmente) ha inglobato un secondo atomo di ossigeno. Anche l’ossigeno in più dell’acqua ossigenata è molto instabile, e reagisce a contatto della nostra pelle come vediamo quando la mettiamo su una piccola ferita.
Quando l’ozono è presente nell’aria, lo respiriamo; l’effetto dell’ozono sui nostri bronchi e mucose è lo stesso che vediamo sulla nostra pelle (piccoli tagli e sbucciature) quando gli versiamo sopra l’acqua ossigenata. Cioè, un effetto di irritazione provocato dal radicale libero dell’ossigeno: che nel caso di una sbucciatura a un ginocchio è poca cosa, ma in gola o nei polmoni può recare disturbi seri.
Quando invece l’ozono si forma nell’alta atmosfera, ha suo malgrado una funzione protettiva: i raggi ultravioletti del sole (raggi UV e UVA) vanno a scontrarsi sulla fascia di ozono; la serie di reazioni che ne nasce filtra in qualche modo i raggi UV, rendendoli meno pericolosi.
Il buco nell’ozono, va ricordato, è prodotto in gran parte dall’azione dell’uomo: nel ‘900 abbiamo inventato e prodotto in grande quantità sostanze molto volatili (refrigeranti per frigoriferi e propellenti per bombolette spray) che sono salite fino allo strato di ozono, distruggendolo o danneggiandolo.
mercoledì 2 novembre 2011
Io sono un classico, lo so per certo
Porto qui “allo scarico” tre dichiarazioni sulla musica che ho purtroppo letto o ascoltato e che non mi escono più dalla testa. Spero che scrivendole qui la mia situazione migliori.
1) Un compositore quarantenne marchigiano che dichiara “io compongo musica classica, dato che scrivo ogni nota”: vado un po’ a memoria, ma il concetto era proprio questo. Dopo le primissime apparizioni tv mi ero fatto una buona opinione di lui, in attesa di ascoltare anche la sua musica; oggi, dopo qualche anno, confesso di essere rimasto deluso. Che significa, “io faccio musica classica”? Un’autocertificazione? Mi sembra quasi di non parlare la stessa lingua del compositore quarantenne marchigiano. Un classico, nella lingua italiana, è qualcosa che dura nel tempo e che piace a più generazioni: non è l’autore a dire di se stesso “sono un classico”, sono gli altri a dirlo, si vedrà col tempo. La musica del compositore quarantenne marchigiano la ascoltiamo da meno di dieci anni; se fra trenta o quarant’anni si ascolterà ancora questa musica, il compositore quarantenne marchigiano sarà diventato un classico: è così che funziona. Mozart e Beethoven sono dei classici non perché lo hanno detto loro ma perché dopo 250 anni li ascoltiamo e suoniamo ancora: sono 250 anni che ogni giorno qualcuno suona o ascolta le loro musiche, senza interruzione. Auguro una gran fortuna al compositore quarantenne marchigiano, ma il mondo è pieno di musicisti che hanno scritto per esteso ogni più piccola nota delle loro partiture, ma che non sono mai diventati dei classici. Oltretutto, dato che il compositore quarantenne marchigianodice di aver fatto il Conservatorio, dovrebbe sapere che “classici” propriamente detti sono i compositori come Haydn e J.S. Bach, cioè quelli che sono stati presi a modello dai loro contemporanei e da quelli che sono venuti dopo. Io ho studiato da perito chimico e lo so, lui che ha passato gli esami al Conservatorio non lo sa? Mi sembra un po’ grossa, a me per saperlo è bastato leggere Massimo Mila (“Breve storia della musica”, ed. Einaudi: un libro piuttosto piccolo).
2) Un altro personaggio che mi è simpatico, il rapper Francesco Di Gesù (Frankie HiNRG), quest’estate ha detto che a scuola bisogna insegnare non solo Bach e Beethoven ma anche Lady Gaga. Beh, c’è qualche differenza. Innanzitutto, non c’è bisogno della scuola per sapere chi è Lady Gaga: gli studenti ci arrivano anche da soli, se vogliono e anche se non vogliono. Ringraziando il cielo, l’interrogazione con il voto su Lady Gaga, almeno questa, fin qui ce la siamo risparmiata. Io non ho avuto bisogno della scuola per sapere chi erano i cantanti e i gruppi degli anni ’70 e ’60, penso che la cosa valga anche oggi. Invece Bach e Beethoven richiedono qualche aiuto, ma è importante conoscerli perché Bach è uno di quelli che hanno messo le basi del sistema musicale su cui tutti suoniamo e cantiamo da quattrocento anni, compresi i rappers e i gruppi heavy-metal. Frankie fa il musicista di professione e non lo sa? Mi sembra grave, ma so che è un’ignoranza molto diffusa anche fra i musicisti.
3) Ultima della fila, ma solo per oggi, è la grande pianista Yuja Wang, che a La Repubblica il 30 ottobre scorso spiega che anche lei (interprete di Bach e di Liszt, di Stravinskij e di Chopin, di Ravel e di Scarlatti) ascolta Lady Gaga, e che divide la musica in due categorie, “quella che mi piace e quella che non mi piace”. Che dire, Yuja Wang è molto bella e molto brava (ascoltare per credere!), ma a me è successo di incontrare e parlare con dei musicisti eccellenti, che però oltre al saper suonare a meraviglia non è che avessero una gran coscienza di quello che facevano. So che molti pianisti non amano suonare Schubert, “perché è troppo facile”: facile tecnicamente, è questo che intendono, oltre al discorso sulla difficoltà tecnica con loro non si riesce ad andare. Eppure i più grandi pianisti hanno sempre avuto in repertorio Schubert, e per un motivo facile da intuire: è musica straordinaria. Un flautista a cui avevo chiesto se aveva in repertorio l’assolo dall’Orfeo di Gluck (danza degli spiriti beati) mi fece un risolino dicendo “e che ci vuole...”. E in effetti è grande musica, ma non è musica difficile da suonare, quasi quasi certe cose di Mozart e di Gluck stavo riuscendo a suonarle anch’io, ma poi mi sono accorto che non era cosa per me, che non è da tutti saper suonare, ho mollato tutto e ormai chi si ricorda più come si fa. Però mi ricordo di cosa diceva Eugenio Montale sui musicisti: aveva tentato la carriera da baritono, ma si era accorto che fare il musicista di professione significava dover ripetere venti, trenta, quaranta, cento volte al giorno sempre quelle stesse poche battute. E’ così che funziona, i vicini dei casa dei musicisti lo sanno. I nuotatori professionisti passano ore e ore in piscina, i musicisti professionisti passano ore e ore su un solo passaggio, i ballerini professionisti passano ore e ore alla sbarra, il rischio – se non ci si sta attenti – è magari di ritrovarsi un po’ intronati, a ripetere sempre gli stessi gesti, quasi come gli operai alle catene di montaggio di Pomigliano d’Arco e di Fiat Mirafiori.
PS: Eugenio Montale c’era andato giù un po’ pesante, io mi sono permesso di censurarlo; ma se qualcuno me lo chiedo gli mando il testo da dove ho preso la sua dichiarazione.
1) Un compositore quarantenne marchigiano che dichiara “io compongo musica classica, dato che scrivo ogni nota”: vado un po’ a memoria, ma il concetto era proprio questo. Dopo le primissime apparizioni tv mi ero fatto una buona opinione di lui, in attesa di ascoltare anche la sua musica; oggi, dopo qualche anno, confesso di essere rimasto deluso. Che significa, “io faccio musica classica”? Un’autocertificazione? Mi sembra quasi di non parlare la stessa lingua del compositore quarantenne marchigiano. Un classico, nella lingua italiana, è qualcosa che dura nel tempo e che piace a più generazioni: non è l’autore a dire di se stesso “sono un classico”, sono gli altri a dirlo, si vedrà col tempo. La musica del compositore quarantenne marchigiano la ascoltiamo da meno di dieci anni; se fra trenta o quarant’anni si ascolterà ancora questa musica, il compositore quarantenne marchigiano sarà diventato un classico: è così che funziona. Mozart e Beethoven sono dei classici non perché lo hanno detto loro ma perché dopo 250 anni li ascoltiamo e suoniamo ancora: sono 250 anni che ogni giorno qualcuno suona o ascolta le loro musiche, senza interruzione. Auguro una gran fortuna al compositore quarantenne marchigiano, ma il mondo è pieno di musicisti che hanno scritto per esteso ogni più piccola nota delle loro partiture, ma che non sono mai diventati dei classici. Oltretutto, dato che il compositore quarantenne marchigianodice di aver fatto il Conservatorio, dovrebbe sapere che “classici” propriamente detti sono i compositori come Haydn e J.S. Bach, cioè quelli che sono stati presi a modello dai loro contemporanei e da quelli che sono venuti dopo. Io ho studiato da perito chimico e lo so, lui che ha passato gli esami al Conservatorio non lo sa? Mi sembra un po’ grossa, a me per saperlo è bastato leggere Massimo Mila (“Breve storia della musica”, ed. Einaudi: un libro piuttosto piccolo).
2) Un altro personaggio che mi è simpatico, il rapper Francesco Di Gesù (Frankie HiNRG), quest’estate ha detto che a scuola bisogna insegnare non solo Bach e Beethoven ma anche Lady Gaga. Beh, c’è qualche differenza. Innanzitutto, non c’è bisogno della scuola per sapere chi è Lady Gaga: gli studenti ci arrivano anche da soli, se vogliono e anche se non vogliono. Ringraziando il cielo, l’interrogazione con il voto su Lady Gaga, almeno questa, fin qui ce la siamo risparmiata. Io non ho avuto bisogno della scuola per sapere chi erano i cantanti e i gruppi degli anni ’70 e ’60, penso che la cosa valga anche oggi. Invece Bach e Beethoven richiedono qualche aiuto, ma è importante conoscerli perché Bach è uno di quelli che hanno messo le basi del sistema musicale su cui tutti suoniamo e cantiamo da quattrocento anni, compresi i rappers e i gruppi heavy-metal. Frankie fa il musicista di professione e non lo sa? Mi sembra grave, ma so che è un’ignoranza molto diffusa anche fra i musicisti.
3) Ultima della fila, ma solo per oggi, è la grande pianista Yuja Wang, che a La Repubblica il 30 ottobre scorso spiega che anche lei (interprete di Bach e di Liszt, di Stravinskij e di Chopin, di Ravel e di Scarlatti) ascolta Lady Gaga, e che divide la musica in due categorie, “quella che mi piace e quella che non mi piace”. Che dire, Yuja Wang è molto bella e molto brava (ascoltare per credere!), ma a me è successo di incontrare e parlare con dei musicisti eccellenti, che però oltre al saper suonare a meraviglia non è che avessero una gran coscienza di quello che facevano. So che molti pianisti non amano suonare Schubert, “perché è troppo facile”: facile tecnicamente, è questo che intendono, oltre al discorso sulla difficoltà tecnica con loro non si riesce ad andare. Eppure i più grandi pianisti hanno sempre avuto in repertorio Schubert, e per un motivo facile da intuire: è musica straordinaria. Un flautista a cui avevo chiesto se aveva in repertorio l’assolo dall’Orfeo di Gluck (danza degli spiriti beati) mi fece un risolino dicendo “e che ci vuole...”. E in effetti è grande musica, ma non è musica difficile da suonare, quasi quasi certe cose di Mozart e di Gluck stavo riuscendo a suonarle anch’io, ma poi mi sono accorto che non era cosa per me, che non è da tutti saper suonare, ho mollato tutto e ormai chi si ricorda più come si fa. Però mi ricordo di cosa diceva Eugenio Montale sui musicisti: aveva tentato la carriera da baritono, ma si era accorto che fare il musicista di professione significava dover ripetere venti, trenta, quaranta, cento volte al giorno sempre quelle stesse poche battute. E’ così che funziona, i vicini dei casa dei musicisti lo sanno. I nuotatori professionisti passano ore e ore in piscina, i musicisti professionisti passano ore e ore su un solo passaggio, i ballerini professionisti passano ore e ore alla sbarra, il rischio – se non ci si sta attenti – è magari di ritrovarsi un po’ intronati, a ripetere sempre gli stessi gesti, quasi come gli operai alle catene di montaggio di Pomigliano d’Arco e di Fiat Mirafiori.
PS: Eugenio Montale c’era andato giù un po’ pesante, io mi sono permesso di censurarlo; ma se qualcuno me lo chiedo gli mando il testo da dove ho preso la sua dichiarazione.
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