lunedì 29 marzo 2010
domenica 28 marzo 2010
Spot
Una pagina di Angese, datata 1989. (è dell'Espresso, ma vorrei ricordare che in quegli anni Altan pubblicava su Panorama, insieme a Enzo Biagi: ma forse Cesare Previti e l'avvocato Mills stavano già lavorando).
P.S.: Facendo clic sull'immagine si vede meglio. Non è finissimo, ma è ormai parte della storia d'Italia.
giovedì 25 marzo 2010
Ne abbiamo viste di peggio
« Peuh ! » esclamò, alla francese. « Abbiamo superato cose cento volte peggiori. »
Questo però non era vero.
(Stanislaw I. Witkiewicz, Addio all'autunno)
Questo però non era vero.
(Stanislaw I. Witkiewicz, Addio all'autunno)
mercoledì 24 marzo 2010
Blockbuster
“Morte del dvd”, titolano i giornali sempre più spesso; e in questi giorni fa notizia la crisi della catena di negozi della “Blockbuster”: colpa di internet, spiegano i titoli dei tg e dei quotidiani.
Eh già, adesso tutti “scaricano”, si va “in streaming”... Tutti commenti facili facili, e la notizia sembra essere pronta ad essere archiviata e dimenticata: il dvd e il cd come le puntine dei grammofoni, in soffitta e nei negozi degli antiquari.
Però a me sembra che questa notizia meriti molto di più di un breve approfondimento, e che sia tutt’altro che da archiviare. Innanzitutto perché si tratta di migliaia di persone che stanno perdendo il loro posto di lavoro, e su queste cose non è il caso di scherzare: quattromila negozi solo in Usa, dice “La Repubblica” del 21 marzo scorso, e più di cento posti vendita anche in Italia. Per molte famiglie di lavoratori saranno problemi grossi, e a loro va tutta la mia solidarietà.
Provando a dimenticare questo aspetto del problema, cosa non facile, vediamo che cos’è Blockbuster: l’azienda nasce una ventina d’anni fa, con le videocassette. Il cinema da vedere in casa è una novità, e il successo è grande. Anch’io ero curioso, e da appassionato di cinema ho provato subito a “tastare” un negozio di videocassette da noleggiare: e ne sono rimasto molto deluso, perché c’erano solo i film più facili e più commerciali. Più tardi, ho scoperto che erano tutti così: con qualche eccezione nelle grandi città, ma mica potevo andare avanti e indietro da Milano facendo il pendolare con le videoteche più attente... Così, ci ho messo una pietra sopra.
“Blockbuster” è diventato il sinonimo di film di successo, il grande successo commerciale: film che incuriosiscono e che durano – il più delle volte – lo spazio di una serata in compagnia. Penso che pochi abbiano tenuto i “blockbuster” sugli scaffali di casa, e molti di quei film “di grande successo” sono ormai morti e dimenticati, quando li si rivede per caso in tv si fa più caso agli abiti e alle pettinature che a tutto il resto. Per queste cose, per togliersi la curiosità di vedere un film appena uscito e che non sappiamo nemmeno se ci piace, lo “streaming” e lo “scaricare” vanno benissimo, molto meglio delle videocassette e dei dvd: non stupisce che i negozi Blockbuster siano andati in crisi.
Diverso è il discorso per il cinema d’autore, per i film che durano nel tempo e che si ha piacere di rivedere più volte: e che ormai, in dvd, costano poco, più o meno il biglietto del cinema. Con dieci euro, o magari anche meno, da un negozio ben fornito oggi si portano a casa i più grandi capolavori della storia del cinema: e ormai non conviene più il noleggio, oltretutto con la fatica di andare e venire dal negozio, e magari di pagare il posteggio dell’automobile (cosa che dieci anni fa non c’era, si badi bene: i parchimetri sono una novità introdotta dal “federalismo” bossiano, introiti di cui prima delle pensate leghiste i Comuni non avevano bisogno).
E qui si aprirebbe il discorso sull’editoria di qualità, cosa di cui avremmo un gran bisogno e che ancora resiste, ma che è in grave pericolo di estinzione. Il dvd, del quale ammetto di aver molto diffidato all’inizio, si è rivelato un mezzo molto importante e molto bello: quasi tutti i film sono stati restaurati per l’edizione elettronica, sono stati aggiunte sequenze tagliate che non avevamo mai visto, c’è il commento dell’autore (in molti casi, per i film più complessi, fondamentale). Tutte cose che difficilmente avremo ancora, in streaming e “scaricando”.
Ma importa ancora qualcosa a qualcuno, dell’editoria di qualità?
Eh già, adesso tutti “scaricano”, si va “in streaming”... Tutti commenti facili facili, e la notizia sembra essere pronta ad essere archiviata e dimenticata: il dvd e il cd come le puntine dei grammofoni, in soffitta e nei negozi degli antiquari.
Però a me sembra che questa notizia meriti molto di più di un breve approfondimento, e che sia tutt’altro che da archiviare. Innanzitutto perché si tratta di migliaia di persone che stanno perdendo il loro posto di lavoro, e su queste cose non è il caso di scherzare: quattromila negozi solo in Usa, dice “La Repubblica” del 21 marzo scorso, e più di cento posti vendita anche in Italia. Per molte famiglie di lavoratori saranno problemi grossi, e a loro va tutta la mia solidarietà.
Provando a dimenticare questo aspetto del problema, cosa non facile, vediamo che cos’è Blockbuster: l’azienda nasce una ventina d’anni fa, con le videocassette. Il cinema da vedere in casa è una novità, e il successo è grande. Anch’io ero curioso, e da appassionato di cinema ho provato subito a “tastare” un negozio di videocassette da noleggiare: e ne sono rimasto molto deluso, perché c’erano solo i film più facili e più commerciali. Più tardi, ho scoperto che erano tutti così: con qualche eccezione nelle grandi città, ma mica potevo andare avanti e indietro da Milano facendo il pendolare con le videoteche più attente... Così, ci ho messo una pietra sopra.
“Blockbuster” è diventato il sinonimo di film di successo, il grande successo commerciale: film che incuriosiscono e che durano – il più delle volte – lo spazio di una serata in compagnia. Penso che pochi abbiano tenuto i “blockbuster” sugli scaffali di casa, e molti di quei film “di grande successo” sono ormai morti e dimenticati, quando li si rivede per caso in tv si fa più caso agli abiti e alle pettinature che a tutto il resto. Per queste cose, per togliersi la curiosità di vedere un film appena uscito e che non sappiamo nemmeno se ci piace, lo “streaming” e lo “scaricare” vanno benissimo, molto meglio delle videocassette e dei dvd: non stupisce che i negozi Blockbuster siano andati in crisi.
Diverso è il discorso per il cinema d’autore, per i film che durano nel tempo e che si ha piacere di rivedere più volte: e che ormai, in dvd, costano poco, più o meno il biglietto del cinema. Con dieci euro, o magari anche meno, da un negozio ben fornito oggi si portano a casa i più grandi capolavori della storia del cinema: e ormai non conviene più il noleggio, oltretutto con la fatica di andare e venire dal negozio, e magari di pagare il posteggio dell’automobile (cosa che dieci anni fa non c’era, si badi bene: i parchimetri sono una novità introdotta dal “federalismo” bossiano, introiti di cui prima delle pensate leghiste i Comuni non avevano bisogno).
E qui si aprirebbe il discorso sull’editoria di qualità, cosa di cui avremmo un gran bisogno e che ancora resiste, ma che è in grave pericolo di estinzione. Il dvd, del quale ammetto di aver molto diffidato all’inizio, si è rivelato un mezzo molto importante e molto bello: quasi tutti i film sono stati restaurati per l’edizione elettronica, sono stati aggiunte sequenze tagliate che non avevamo mai visto, c’è il commento dell’autore (in molti casi, per i film più complessi, fondamentale). Tutte cose che difficilmente avremo ancora, in streaming e “scaricando”.
Ma importa ancora qualcosa a qualcuno, dell’editoria di qualità?
martedì 23 marzo 2010
Nostalgia
Le città tedesche sono piene di alberi e di parchi. Non “il verde” striminzito degli architetti, quello degli alberelli stentati messi a languire nel cerchietto di cemento, trattati come se fossero lampioni: ma veri e propri alberi, anche centenari, con parchi grandi e ben tenuti tutt’intorno. Ricordo che di Bonn, quand’era capitale della Germania ovest, alcuni fra i tedeschi si lamentavano perché non sembrava una capitale, ma un giardino.
Il maestro Claudio Abbado, che è milanese ma che nei paesi di lingua tedesca ha vissuto gran parte della sua vita, a capo delle orchestre sinfoniche più importanti del mondo e portando molto prestigio al nostro Paese, ha sempre detto che gli sarebbe piaciuto molto che anche Milano fosse così, che somigliasse un po’ a Vienna, a Bonn, alle altre città grandi e piccole che hanno grandi parchi naturali al loro interno. Di recente ha espresso questo pensiero, che riassumo a memoria sperando di non essere troppo impreciso: “Tornerei volentieri a dirigere alla Scala, però invece di essere pagato vorrei che con quei soldi si piantassero diecimila alberi”.
La risposta della classe politica milanese, attentissima al marketing e agli spot, è stata – a parole – entusiasta; nei fatti molto meno. Comunque sia, Claudio Abbado (che è una persona ottimista e propositiva, e che ha fatto molto nel campo del sociale per tutta la sua vita, anche senza propagandarlo) tornerà alla Scala, a giugno: è casa sua, manca da tanti anni, ne aveva una gran voglia, eccetera. Si può anche non essere contenti della sua decisione (io avrei preferito che stesse lontano da questa Milano), ma quello che è successo dopo è davvero curioso, ed è un sintomo evidente del degrado a cui siamo giunti.
Si è cominciato a criticare “il verde” in città (si sa, in città ci vuole solo il grigio cemento, al limite il marmo purché sia bianco funerario); si è cominciato a dire “mettere le piante nei vasi”; si sono cominciate teorie strampalate; sono piovute critiche pesanti su Claudio Abbado; si è detto che chi era d’accordo con Abbado era un nostalgico sessantottino. E il dibattito è finito lì. Il sogno del maestro Abbado (perché un sogno è destinato a restare, questo è evidente a tutti e anche lui lo sa benissimo) è dunque naufragato in mezzo alle polemiche degli “intellettuali” milanesi.
Sembra la lezione di un maestro zen: io vi posso anche indicare la via, ma poi sta a voi realizzarla. E il maestro Abbado (mi dispiace ma stavolta devo dirlo) oggi è un uomo anziano, ed è stato molto malato in questi ultimi anni: non sta a lui risolvere i problemi, sta a noi.
Il gesto di Claudio Abbado ha anche evidenziato la materia di cui è composta la nostra classe dirigente, politica e non solo politica: mala tempora currunt, dicevano gli antichi romani (ma non avevano ancora visto i nostri tempi). Una classe politica pronta a fare il pieno di voti alle prossime elezioni, perché gli astutissimi lombardi hanno già deciso: non sia mai che qualche pericoloso estremista come il maestro Abbado arrivi a prendere il potere.
(Nel frattempo, godetevi il blocco del traffico e l’ecopass e le targhe alterne, e tutto per il vostro bene, s’intende: per combattere l’inquinamento e abbattere il pericoloso mostro del pm10).
Il maestro Claudio Abbado, che è milanese ma che nei paesi di lingua tedesca ha vissuto gran parte della sua vita, a capo delle orchestre sinfoniche più importanti del mondo e portando molto prestigio al nostro Paese, ha sempre detto che gli sarebbe piaciuto molto che anche Milano fosse così, che somigliasse un po’ a Vienna, a Bonn, alle altre città grandi e piccole che hanno grandi parchi naturali al loro interno. Di recente ha espresso questo pensiero, che riassumo a memoria sperando di non essere troppo impreciso: “Tornerei volentieri a dirigere alla Scala, però invece di essere pagato vorrei che con quei soldi si piantassero diecimila alberi”.
La risposta della classe politica milanese, attentissima al marketing e agli spot, è stata – a parole – entusiasta; nei fatti molto meno. Comunque sia, Claudio Abbado (che è una persona ottimista e propositiva, e che ha fatto molto nel campo del sociale per tutta la sua vita, anche senza propagandarlo) tornerà alla Scala, a giugno: è casa sua, manca da tanti anni, ne aveva una gran voglia, eccetera. Si può anche non essere contenti della sua decisione (io avrei preferito che stesse lontano da questa Milano), ma quello che è successo dopo è davvero curioso, ed è un sintomo evidente del degrado a cui siamo giunti.
Si è cominciato a criticare “il verde” in città (si sa, in città ci vuole solo il grigio cemento, al limite il marmo purché sia bianco funerario); si è cominciato a dire “mettere le piante nei vasi”; si sono cominciate teorie strampalate; sono piovute critiche pesanti su Claudio Abbado; si è detto che chi era d’accordo con Abbado era un nostalgico sessantottino. E il dibattito è finito lì. Il sogno del maestro Abbado (perché un sogno è destinato a restare, questo è evidente a tutti e anche lui lo sa benissimo) è dunque naufragato in mezzo alle polemiche degli “intellettuali” milanesi.
Sembra la lezione di un maestro zen: io vi posso anche indicare la via, ma poi sta a voi realizzarla. E il maestro Abbado (mi dispiace ma stavolta devo dirlo) oggi è un uomo anziano, ed è stato molto malato in questi ultimi anni: non sta a lui risolvere i problemi, sta a noi.
Il gesto di Claudio Abbado ha anche evidenziato la materia di cui è composta la nostra classe dirigente, politica e non solo politica: mala tempora currunt, dicevano gli antichi romani (ma non avevano ancora visto i nostri tempi). Una classe politica pronta a fare il pieno di voti alle prossime elezioni, perché gli astutissimi lombardi hanno già deciso: non sia mai che qualche pericoloso estremista come il maestro Abbado arrivi a prendere il potere.
(Nel frattempo, godetevi il blocco del traffico e l’ecopass e le targhe alterne, e tutto per il vostro bene, s’intende: per combattere l’inquinamento e abbattere il pericoloso mostro del pm10).
lunedì 22 marzo 2010
Ideologia
« ...La prima pecca di questo ragionamento consiste nell'aver ristretto la questione al periodo della guerra fredda ed aver puntato l'obiettivo tra l'appartenenza all'ideologia comunista (conformismo) e la rottura con essa in nome della verità (irregolari). Non è uno schema e quindi semplicistico ridurre la realtà a due alternative? C'erano terze e quarte vie. Allora, forse, velleitarie data la brutalità dello scontro.
E poi perché limitarsi agli intellettuali? Gli operai, i docenti, che dichiaravano di sentirsi comunisti non si esponevano a rappresaglie? Non venivano licenziati in tronco, non erano costretti a cambiar lavoro, sede, tenore di vita, a me non pare che possano definirsi conformisti quelli che affrontarono questo tipo di battaglia. (...)»
L’articolo di Eugenio Scalfari dal quale prendo queste righe, dall’Espresso del 18 febbraio scorso, nasce da un libro di Pierluigi Battista, vicedirettore del “Corriere della Sera”, intitolato “I conformisti”, appena uscito da Rizzoli. Al di là del libro in sè, e del dibattito che ne è seguito, mi fa piacere che Scalfari rimarchi un dato importante, e cioè che la questione delle ideologie riguarda anche e soprattutto operai e impiegati, artigiani, muratori, insegnanti, infermieri, contadini e allevatori, insomma tante persone, e non solo i filosofi e i pensatori.
Negli ultimi tempi è diventato di gran moda parlare di caduta del Muro e di “fine delle ideologie”, ma a guardar bene è rimasta in piedi una sola grande ideologia, quella del libero mercato. Tutte le altre, compresi i loro lati positivi, e compreso anche – purtroppo – il messaggio di Cristo, sono state zittite e azzerate.
Si sa che le ideologie possono essere pericolose; e questa ideologia oggi dominante – di destra – ha già prodotto danni forse irreparabili, eppure si continua imperterriti su questa strada. L’ideologia di destra, thatcheriana, ha condizionato pesantemente gli ultimi 20-25 anni della nostra vita, qualcuno ci ha davvero guadagnato ma a farne le spese sono stati operai, ceti medi, tutte le categorie meno protette. In una parola, pochi ci hanno guadagnato e molti hanno subito dei danni, anche danni gravissimi. Da questa ideologia senza rispetto per il prossimo, intenta solo al profitto di pochi, sono nate e continuano a nascere conflitti enormi, tragedie personali, suicidi, incidenti sul lavoro, malattie professionali, un’infinità di mali e di problemi che giornalisti superficiali (o corrotti) si sono dimenticati di esplorare e di documentare. Ci si dimentica facilmente dei suicidi, dei morti sul lavoro, dei licenziamenti più o meno mascherati che portano anche alla perdita della casa e della salute, del degrado delle città; dei problemi di razzismo crescente si fanno bandiere per la propaganda elettorale.
Meno male, mi viene da pensare, che c’è ancora Scalfari a parlarne, sia pure per un breve cenno; ma purtroppo per noi Scalfari ha ottant’anni, Giorgio Bocca (lucidissimo) quest’anno compie i novanta, l’informazione in generale se la passa molto male. Resteranno i Battista e i Feltri e i Fede e i Vespa e i Belpietro, con le loro ideologie meschine da difendere. (Ma guai a chiamarle ideologie, si offendono: loro sono “alfieri del libero pensiero”).
E poi perché limitarsi agli intellettuali? Gli operai, i docenti, che dichiaravano di sentirsi comunisti non si esponevano a rappresaglie? Non venivano licenziati in tronco, non erano costretti a cambiar lavoro, sede, tenore di vita, a me non pare che possano definirsi conformisti quelli che affrontarono questo tipo di battaglia. (...)»
L’articolo di Eugenio Scalfari dal quale prendo queste righe, dall’Espresso del 18 febbraio scorso, nasce da un libro di Pierluigi Battista, vicedirettore del “Corriere della Sera”, intitolato “I conformisti”, appena uscito da Rizzoli. Al di là del libro in sè, e del dibattito che ne è seguito, mi fa piacere che Scalfari rimarchi un dato importante, e cioè che la questione delle ideologie riguarda anche e soprattutto operai e impiegati, artigiani, muratori, insegnanti, infermieri, contadini e allevatori, insomma tante persone, e non solo i filosofi e i pensatori.
Negli ultimi tempi è diventato di gran moda parlare di caduta del Muro e di “fine delle ideologie”, ma a guardar bene è rimasta in piedi una sola grande ideologia, quella del libero mercato. Tutte le altre, compresi i loro lati positivi, e compreso anche – purtroppo – il messaggio di Cristo, sono state zittite e azzerate.
Si sa che le ideologie possono essere pericolose; e questa ideologia oggi dominante – di destra – ha già prodotto danni forse irreparabili, eppure si continua imperterriti su questa strada. L’ideologia di destra, thatcheriana, ha condizionato pesantemente gli ultimi 20-25 anni della nostra vita, qualcuno ci ha davvero guadagnato ma a farne le spese sono stati operai, ceti medi, tutte le categorie meno protette. In una parola, pochi ci hanno guadagnato e molti hanno subito dei danni, anche danni gravissimi. Da questa ideologia senza rispetto per il prossimo, intenta solo al profitto di pochi, sono nate e continuano a nascere conflitti enormi, tragedie personali, suicidi, incidenti sul lavoro, malattie professionali, un’infinità di mali e di problemi che giornalisti superficiali (o corrotti) si sono dimenticati di esplorare e di documentare. Ci si dimentica facilmente dei suicidi, dei morti sul lavoro, dei licenziamenti più o meno mascherati che portano anche alla perdita della casa e della salute, del degrado delle città; dei problemi di razzismo crescente si fanno bandiere per la propaganda elettorale.
Meno male, mi viene da pensare, che c’è ancora Scalfari a parlarne, sia pure per un breve cenno; ma purtroppo per noi Scalfari ha ottant’anni, Giorgio Bocca (lucidissimo) quest’anno compie i novanta, l’informazione in generale se la passa molto male. Resteranno i Battista e i Feltri e i Fede e i Vespa e i Belpietro, con le loro ideologie meschine da difendere. (Ma guai a chiamarle ideologie, si offendono: loro sono “alfieri del libero pensiero”).
domenica 21 marzo 2010
Ecologia e automobili
Ieri ho trovato un leprotto in mezzo alla strada: in che condizioni ve lo lascio immaginare, però si capiva ancora che era un leprotto (o un coniglietto, forse: ma con le orecchie lunghe lunghe).
Ecco, questo è il vero rapporto fra ecologia e automobili: lo scrivo qui perché sono stufo di imbattermi in queste continue campagne pubblicitarie dove si vedono immagini di automobili da comperare (un po' tutte le marche) abbinate ad orsetti, procioni, panda, elefantini e piccole lontre con la mamma, eccetera.
Il vero rapporto tra l'automobile e la natura è questo qui: lo spiaccicamento sull'asfalto. Che poi siano lepri, ricci, gatti, piccioni, pettirossi, scoiattoli, cani di tutte le taglie, colombi, lucertole, esseri umani, non mi sembra che faccia una gran differenza.
Se volete essere ecologici con l'automobile, tenetevi l'auto vecchia e usatela meno che potete. E insistete con i politici perché potenzino i mezzi pubblici.
(un saluto particolare a tutto il mondo del ciclocross, del motocross, del fuoristrada).
Ecco, questo è il vero rapporto fra ecologia e automobili: lo scrivo qui perché sono stufo di imbattermi in queste continue campagne pubblicitarie dove si vedono immagini di automobili da comperare (un po' tutte le marche) abbinate ad orsetti, procioni, panda, elefantini e piccole lontre con la mamma, eccetera.
Il vero rapporto tra l'automobile e la natura è questo qui: lo spiaccicamento sull'asfalto. Che poi siano lepri, ricci, gatti, piccioni, pettirossi, scoiattoli, cani di tutte le taglie, colombi, lucertole, esseri umani, non mi sembra che faccia una gran differenza.
Se volete essere ecologici con l'automobile, tenetevi l'auto vecchia e usatela meno che potete. E insistete con i politici perché potenzino i mezzi pubblici.
(un saluto particolare a tutto il mondo del ciclocross, del motocross, del fuoristrada).
venerdì 19 marzo 2010
Dedicato a te (che non stavi ascoltando)
A dire il vero è un brano strumentale, senza parole da cantare: e anche piuttosto breve. Ma "Dedicated to you (but you weren't listening)" è un titolo che mi è sempre piaciuto moltissimo, e che uso spesso come se fosse un proverbio o una frase famosa.
Ma si tratta di cosa tutt'altro che famosa, ce la ricordiamo in pochi: è nel secondo disco dei Soft Machine, durata 2 minuti e 30 secondi, autore il bassista del gruppo, Hugh Hopper: si traduce "Dedicato a te, che non stavi ascoltando".
La storiellina ha un seguito divertente: qualche anno dopo (siamo tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '80) il batterista e cantante Robert Wyatt lascia il gruppo - che era diventato troppo serio e serioso - e con il suo nuovo gruppo incide un altro piccolo brano strumentale: "Dedicated to Hugh (but you weren't listening)".
In inglese, Hugh si pronuncia quasi come "you": il titolo diventa dunque "dedicato a Hugh, che non stava ascoltando".
Per inciso, il nuovo gruppo di Wyatt si chiamava "Matching Mole", che alla lettera significa "un match fra due talpe"; ma letto alla francese diventa "Machine Molle", cioè la macchina morbida, "The Soft Machine".
Ma si tratta di cosa tutt'altro che famosa, ce la ricordiamo in pochi: è nel secondo disco dei Soft Machine, durata 2 minuti e 30 secondi, autore il bassista del gruppo, Hugh Hopper: si traduce "Dedicato a te, che non stavi ascoltando".
La storiellina ha un seguito divertente: qualche anno dopo (siamo tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '80) il batterista e cantante Robert Wyatt lascia il gruppo - che era diventato troppo serio e serioso - e con il suo nuovo gruppo incide un altro piccolo brano strumentale: "Dedicated to Hugh (but you weren't listening)".
In inglese, Hugh si pronuncia quasi come "you": il titolo diventa dunque "dedicato a Hugh, che non stava ascoltando".
Per inciso, il nuovo gruppo di Wyatt si chiamava "Matching Mole", che alla lettera significa "un match fra due talpe"; ma letto alla francese diventa "Machine Molle", cioè la macchina morbida, "The Soft Machine".
mercoledì 17 marzo 2010
«E' la cosa migliore che hai scritto»
Pissatoj di temp andaa,
alla bonna, sul canton,
nient pretes e invernisaa
con ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh! (...)
Comincia così una poesia di Delio Tessa (1886-1939), famosa a Milano perchè fu una delle pochissime pubblicate mentre il grande poeta milanese era ancora in vita. In realtà, l’avocatt Delio Tessa aveva ripreso, per divertimento, una poesia milanese precedente: il grande studioso di cose milanesi Dante Isella ci spiega che si tratta di un’opera di Giosafatte Rotondi (1890-1970), anche lui avvocato e “Capo Ripartizione degli Uffici d’Anagrafe del Comune di Milano”.
Rotondi l’aveva intitolata “Laudator temporis acti”; Tessa la intitola “I pissatoj vecc de Milàn” e correttamente, da grande appassionato di musica, la presenta come “variazione su on tema de Giosafatte Rotondi”.
L’originale di Rotondi iniziava così:
Pissatoj di temp andaa,
alla bona, in sul canton,
nient pretes e invernisaa
cont ona man de godron
senza lussi e senza gioeuch
de idraulica; ma a loeugh! (...)
Come si sarà notato, le due strofe sono identiche. Poi ognuno prosegue a suo modo: le due poesie sono piuttosto lunghe e si possono trovare nell’edizione Einaudi, nel secondo volume, a partire dalla pag.383.
Dopo la pubblicazione, a Tessa capitò di incontrare gente che ricordava quella poesia, e che gli faceva grandi complimenti. Tessa ricorda quegli incontri in una prosa del 1936 che intitola “Dialogo del poeta e del consigliere delegato”:
(...) C.D. Ma parliamo di cose più allegre. E cosí, amico mio, come vanno le bosinate?
P. Male, signor Consigliere Delegato, nessuno piú ci legge.,
C.D. Colpa vostra. O parlate troppo difficile o siete troppo noiosi. Noi uomini d'affari abbiamo bisogno di gente che ci diverta. Tu perlomeno te la cavi ancora, giri di qua, giri di là, sbafi qualche pranzo!... a proposito, questa sera ti fermi da me, è inteso; domani però mi rincresce di non poterti riaccompagnare in città, prendi il battello e il treno per conto tuo.
P. Troppo giusto, signor Consigliere Delegato!
C.D. Dimmi un po', cos'hai preparato per questa sera?
P. Niente di particolare. Dirò quello che vorranno; il solito organetto, comincerò come sempre con un po' di Porta...
C.D. Ma sí, ma sí, puoi dire, per esempio, quella poesia dove quel tale che doveva andare a sentir messa a San Fedele e invece è finito al casino... ah! ah! Come si intitola? Il Miserere!
P. No. La Messa noeuva.
C.D. Ben... ben, fa lo stesso... quella... quella... Ah... ah... il Porta, che bel matto! Che ridere! che ridere! E di tuo? Dirai qualcosa anche di tuo...
P. Certo, certo.
C. D. Non dimenticare la poesia dei Pissatoj. In quella lì ài colto giusto, un argomento vero, attuale una volta tanto! È proprio cosí, in Milano non ci sono piú smaltitoi... è una vergogna, non si sa come fare...
P.Veramente quella lirica non aveva lo scopo di farli aumentare e poi non è nemmeno tutta mia...
C.D. Non fa niente... è la tua cosa piú bella... mi ànno detto stai per pubblicare un nuovo volume. È vero?
P.Difatti avrei questa intenzione.
C. D. Bravo... bravo... pubblica, pubblica; me ne regalerai una copia colla dedica.
(Il resto del dialogo si trova a pag.150 dell’edizione Einaudi delle poesie di Tessa, due volumi a cura di Dante Isella)
“E’ la tua cosa più bella”, dice il Consigliere al Poeta. Ecco una cosa che capita sempre a chi scrive, o compone musica, o altro. Notare la finezza di Tessa, mentre sottolinea che l’amico che incontra, e che presumibilmente lo conosce bene, in realtà di quello che scrive non ha capito niente: né di lui né del Porta, a dirla con chiarezza. Il Consigliere apprezza la poesia per l’argomento, buffo ma molto prosaico; e dice al Poeta che è la sua cosa più bella, ma l’ha scritta un altro...
Delio Tessa è un Poeta grande, grande e difficile. Difficile perché scrive in milanese purissimo, e ormai il milanese non lo parla più nessuno: anch’io ho dovuto ricorrere alle note di Isella per capire che “godròn” è il catrame. Ma difficile soprattutto perché la scrittura di Tessa è alta, colta, e deve molto alla sua passione per la musica. Tessa non è affatto un bozzettista, scrive di gente che incontra per strada e disegna bei caratteri popolari, ma non ha nulla di quello che si è soliti accoppiare alla letteratura dialettale. Come tutti i grandi e veri poeti dialettali, del resto: da Carlo Goldoni a Carlo Porta, da Biagio Marin ad Attilio Bertolucci...
Oggi di Tessa rimane poco nella memoria comune, forse soltanto quel suo verso famoso, “L’è el dì di mort, alégher!”: ma anche qui si può essere tratti in inganno, perchè la poesia che porta questo verso, intitolata Caporetto 1917, racconta del propagarsi a Milano delle notizie relative alla Grande Guerra. E’ il due novembre, e – con una tecnica simile a quella che accadrà di usare, più tardi, a James Joyce nell’Ulisse – si incontrano e si mescolano due flussi: uno, quello della gente che esce dal cimitero dopo la celebrazione del giorno della Commemorazione dei Defunti, l’altro di quelli che portano le notizie dal fronte e arrivano dalla direzione opposta.
Una tecnica complessa e sofisticata, un esercizio altissimo di scrittura; ma quando io trovo, nella rubrica delle lettere di Repubblica, l’ottimo Vittorio Zucconi (uno dei migliori, fra quelli che oggi scrivono sui giornali) che usa “L’è el dì di mort, alégher!” nella consueta accezione poco esatta, mi prendo il lusso di scrivergli una lettera, giusto per dare a Delio Tessa quello che merita, e magari far giù un po’ di polvere dai suoi libri. Ma Zucconi non capisce: mi pubblica, ma taglia molto – e fin qui ha ragione; ma poi riprende, fa un gran pasticcio, e dell’opinione di Delio Tessa sul fascismo (“Italia renovada in di tò vacch”) coglie solo il riferimento ai bordelli, e salta subito al “Marchionn cont i gamb avert”: che è sempre milanese, ma del Porta...
Insomma, siamo sempre lì, a quel dialogo di Tessa fra il poeta e il consigliere delegato. Non è facile avere soddisfazione, per chi scrive: salvo rare eccezioni, e a meno di non chiamarsi Stephen King e di scrivere di sbudellamenti, così si hanno milioni di lettori che si ricordano tutto senza far fatica.
Per un poeta, per uno scrittore vero, è difficile farsi prendere sul serio. Si ricorderanno di te le cose più facili e più semplici, magari le battute grossolane; e soprattutto – è quasi una regola fissa – a chi ti legge difficilmente piaceranno le cose in cui credi veramente. La si potrebbe chiamare “la maledizione dello scrittore”, ma solo se si ha voglia di scherzare: perchè scrivere poesie non è una cosa seria, e chissà se il mondo ha davvero bisogno di tutte queste poesie e di tutti questi discorsi pensosi...
alla bonna, sul canton,
nient pretes e invernisaa
con ona man de godron;
senza lussi e senza gioeugh
de idraulica, ma a loeugh! (...)
Comincia così una poesia di Delio Tessa (1886-1939), famosa a Milano perchè fu una delle pochissime pubblicate mentre il grande poeta milanese era ancora in vita. In realtà, l’avocatt Delio Tessa aveva ripreso, per divertimento, una poesia milanese precedente: il grande studioso di cose milanesi Dante Isella ci spiega che si tratta di un’opera di Giosafatte Rotondi (1890-1970), anche lui avvocato e “Capo Ripartizione degli Uffici d’Anagrafe del Comune di Milano”.
Rotondi l’aveva intitolata “Laudator temporis acti”; Tessa la intitola “I pissatoj vecc de Milàn” e correttamente, da grande appassionato di musica, la presenta come “variazione su on tema de Giosafatte Rotondi”.
L’originale di Rotondi iniziava così:
Pissatoj di temp andaa,
alla bona, in sul canton,
nient pretes e invernisaa
cont ona man de godron
senza lussi e senza gioeuch
de idraulica; ma a loeugh! (...)
Come si sarà notato, le due strofe sono identiche. Poi ognuno prosegue a suo modo: le due poesie sono piuttosto lunghe e si possono trovare nell’edizione Einaudi, nel secondo volume, a partire dalla pag.383.
Dopo la pubblicazione, a Tessa capitò di incontrare gente che ricordava quella poesia, e che gli faceva grandi complimenti. Tessa ricorda quegli incontri in una prosa del 1936 che intitola “Dialogo del poeta e del consigliere delegato”:
(...) C.D. Ma parliamo di cose più allegre. E cosí, amico mio, come vanno le bosinate?
P. Male, signor Consigliere Delegato, nessuno piú ci legge.,
C.D. Colpa vostra. O parlate troppo difficile o siete troppo noiosi. Noi uomini d'affari abbiamo bisogno di gente che ci diverta. Tu perlomeno te la cavi ancora, giri di qua, giri di là, sbafi qualche pranzo!... a proposito, questa sera ti fermi da me, è inteso; domani però mi rincresce di non poterti riaccompagnare in città, prendi il battello e il treno per conto tuo.
P. Troppo giusto, signor Consigliere Delegato!
C.D. Dimmi un po', cos'hai preparato per questa sera?
P. Niente di particolare. Dirò quello che vorranno; il solito organetto, comincerò come sempre con un po' di Porta...
C.D. Ma sí, ma sí, puoi dire, per esempio, quella poesia dove quel tale che doveva andare a sentir messa a San Fedele e invece è finito al casino... ah! ah! Come si intitola? Il Miserere!
P. No. La Messa noeuva.
C.D. Ben... ben, fa lo stesso... quella... quella... Ah... ah... il Porta, che bel matto! Che ridere! che ridere! E di tuo? Dirai qualcosa anche di tuo...
P. Certo, certo.
C. D. Non dimenticare la poesia dei Pissatoj. In quella lì ài colto giusto, un argomento vero, attuale una volta tanto! È proprio cosí, in Milano non ci sono piú smaltitoi... è una vergogna, non si sa come fare...
P.Veramente quella lirica non aveva lo scopo di farli aumentare e poi non è nemmeno tutta mia...
C.D. Non fa niente... è la tua cosa piú bella... mi ànno detto stai per pubblicare un nuovo volume. È vero?
P.Difatti avrei questa intenzione.
C. D. Bravo... bravo... pubblica, pubblica; me ne regalerai una copia colla dedica.
(Il resto del dialogo si trova a pag.150 dell’edizione Einaudi delle poesie di Tessa, due volumi a cura di Dante Isella)
“E’ la tua cosa più bella”, dice il Consigliere al Poeta. Ecco una cosa che capita sempre a chi scrive, o compone musica, o altro. Notare la finezza di Tessa, mentre sottolinea che l’amico che incontra, e che presumibilmente lo conosce bene, in realtà di quello che scrive non ha capito niente: né di lui né del Porta, a dirla con chiarezza. Il Consigliere apprezza la poesia per l’argomento, buffo ma molto prosaico; e dice al Poeta che è la sua cosa più bella, ma l’ha scritta un altro...
Delio Tessa è un Poeta grande, grande e difficile. Difficile perché scrive in milanese purissimo, e ormai il milanese non lo parla più nessuno: anch’io ho dovuto ricorrere alle note di Isella per capire che “godròn” è il catrame. Ma difficile soprattutto perché la scrittura di Tessa è alta, colta, e deve molto alla sua passione per la musica. Tessa non è affatto un bozzettista, scrive di gente che incontra per strada e disegna bei caratteri popolari, ma non ha nulla di quello che si è soliti accoppiare alla letteratura dialettale. Come tutti i grandi e veri poeti dialettali, del resto: da Carlo Goldoni a Carlo Porta, da Biagio Marin ad Attilio Bertolucci...
Oggi di Tessa rimane poco nella memoria comune, forse soltanto quel suo verso famoso, “L’è el dì di mort, alégher!”: ma anche qui si può essere tratti in inganno, perchè la poesia che porta questo verso, intitolata Caporetto 1917, racconta del propagarsi a Milano delle notizie relative alla Grande Guerra. E’ il due novembre, e – con una tecnica simile a quella che accadrà di usare, più tardi, a James Joyce nell’Ulisse – si incontrano e si mescolano due flussi: uno, quello della gente che esce dal cimitero dopo la celebrazione del giorno della Commemorazione dei Defunti, l’altro di quelli che portano le notizie dal fronte e arrivano dalla direzione opposta.
Una tecnica complessa e sofisticata, un esercizio altissimo di scrittura; ma quando io trovo, nella rubrica delle lettere di Repubblica, l’ottimo Vittorio Zucconi (uno dei migliori, fra quelli che oggi scrivono sui giornali) che usa “L’è el dì di mort, alégher!” nella consueta accezione poco esatta, mi prendo il lusso di scrivergli una lettera, giusto per dare a Delio Tessa quello che merita, e magari far giù un po’ di polvere dai suoi libri. Ma Zucconi non capisce: mi pubblica, ma taglia molto – e fin qui ha ragione; ma poi riprende, fa un gran pasticcio, e dell’opinione di Delio Tessa sul fascismo (“Italia renovada in di tò vacch”) coglie solo il riferimento ai bordelli, e salta subito al “Marchionn cont i gamb avert”: che è sempre milanese, ma del Porta...
Insomma, siamo sempre lì, a quel dialogo di Tessa fra il poeta e il consigliere delegato. Non è facile avere soddisfazione, per chi scrive: salvo rare eccezioni, e a meno di non chiamarsi Stephen King e di scrivere di sbudellamenti, così si hanno milioni di lettori che si ricordano tutto senza far fatica.
Per un poeta, per uno scrittore vero, è difficile farsi prendere sul serio. Si ricorderanno di te le cose più facili e più semplici, magari le battute grossolane; e soprattutto – è quasi una regola fissa – a chi ti legge difficilmente piaceranno le cose in cui credi veramente. La si potrebbe chiamare “la maledizione dello scrittore”, ma solo se si ha voglia di scherzare: perchè scrivere poesie non è una cosa seria, e chissà se il mondo ha davvero bisogno di tutte queste poesie e di tutti questi discorsi pensosi...
martedì 16 marzo 2010
Ricorrenza
- E lui mi ha risposto così e così, che non doveva perchè lui etc. etc. Hai capito che faccia di tolla? ma pensa te!
La ragazza rise divertita. “ Ma pensa te!”, ripetè subito, quasi a sentire come suonasse. Io non ci avevo mai fatto caso: in effetti, è un italiano grammaticalmente assai scorretto, ma lo usano tutti - proprio tutti.
Cominciai a chiedermi da dove venisse quella frase, forse dal dialetto? E notai che era molto usata, e quando si comincia a notare queste cose è finita, è una piccola maledizione. Perchè hai voglia a dire che parli bene, che non fai errori, ma se si incappa in queste frasette...
La rividi una settimana dopo, s’era fatta ancora più bionda, coi capelli ancora più corti. Stava benissimo, era anche abbronzata; vorrei dire che era ancora più simpatica, ma forse esagero. Iniziò a raccontarmi non so più che storia - che mi importa di quel che dice, l’importante è che sia qui con me...
- E allora lei mi ha detto che non se ne faceva più niente: ma pensa te!
La guardai con preoccupazione. Ahinoi, il contagio continuava, e stavolta era colpa mia.
(Julien Cestmoy, A.D. 1998 circa)
(ricorrenza: auguri!)
La ragazza rise divertita. “ Ma pensa te!”, ripetè subito, quasi a sentire come suonasse. Io non ci avevo mai fatto caso: in effetti, è un italiano grammaticalmente assai scorretto, ma lo usano tutti - proprio tutti.
Cominciai a chiedermi da dove venisse quella frase, forse dal dialetto? E notai che era molto usata, e quando si comincia a notare queste cose è finita, è una piccola maledizione. Perchè hai voglia a dire che parli bene, che non fai errori, ma se si incappa in queste frasette...
La rividi una settimana dopo, s’era fatta ancora più bionda, coi capelli ancora più corti. Stava benissimo, era anche abbronzata; vorrei dire che era ancora più simpatica, ma forse esagero. Iniziò a raccontarmi non so più che storia - che mi importa di quel che dice, l’importante è che sia qui con me...
- E allora lei mi ha detto che non se ne faceva più niente: ma pensa te!
La guardai con preoccupazione. Ahinoi, il contagio continuava, e stavolta era colpa mia.
(Julien Cestmoy, A.D. 1998 circa)
(ricorrenza: auguri!)
sabato 13 marzo 2010
Il successo
Credo che la parola “successo” sia una parola pagana, e quindi da eliminare dal proprio vocabolario. Cosa vuol dire “successo” ? Ciò che magari a te sembra riuscito chissà se davanti a Dio invece non è fallito, e viceversa ciò che ti sembra fallito non sia invece il momento della riuscita. L’importante è che tu sia coerente e continui a testimoniare e a credere, questa è la cosa importante. Perchè anche il successo fa parte di un bilancio di cui non ho nessun diritto di sapere i risultati prima del tempo.
(padre David Maria Turoldo, intervista al Tg3 Rai, agosto 1990.)
(padre David Maria Turoldo, intervista al Tg3 Rai, agosto 1990.)
giovedì 11 marzo 2010
Ceo
Una volta è venuto in tizio in visita, in fabbrica, e hanno fatto pulizia dappertutto: siccome la fabbrica è grande e ci sono delle strade interne, hanno affittato anche la macchina per pulire le strade, quella del Comune. Non che prima fosse sporco: un po’ sì, ma una roba normale, insomma, accettabile. Solo che adesso doveva arrivare quel signore lì, e la fabbrica doveva brillare – o quasi.
Quando è venuto anche da noi (ma io quel giorno non c’ero) mi hanno detto: «Quello lì è il Ceo.»
Lo hanno detto con gran rispetto, ma a me è venuto da ridere. Ho spiegato perché, ma non ha riso nessuno: non per colpa mia, credo, ma perché in fin dei conti siamo in Lombardia, non in Veneto.
CEO è una sigla in inglese, un acronimo, che sta per Chief Executive Officer, l’Amministratore Delegato - insomma, un pezzo grosso. In inglese penso che si pronunci qualcosa come “si-i-ou”, ma se tutti dicono “ceo” bisognerà pur adeguarsi.
Invece, in veneto (mia lingua paterna) “ceo” significa “piccolo”, e questa parolina è legata – per l’appunto - ad un piccolo ricordo familiare. Mio padre aveva una sorella di diciotto anni più vecchia di lui; come conseguenza, era zio di una nipote di un paio d’anni soltanto più giovane. Per qualche anno, alle elementari, si erano trovati nella stessa scuola; e la bambina lo chiamava “zio”, cosa che l’altro bambino non gradiva molto (con inevitabili conseguenze). «Ma se non devo chiamarlo zio, allora come devo chiamarlo?» si chiese quella mia cugina; e gli spiegarono che se era lo zio doveva chiamarlo zio. Spiegazione che non convinse del tutto quella bambina dei primi anni ‘30: che da allora, per evitare guai, si mise a chiamare mio padre “quell’ometto céo”. Anche la squadra di calcio del Chievo, che è di Verona, per i suoi tifosi è “Céo”, e quasi quasi adesso che lo so vorrei esserne tifoso anch’io. (Ovviamente, crescendo, i rapporti fra mio padre e quella nipote si normalizzarono presto).
Non so bene perché, sarà che sono un anarchico in fondo all’anima, ma per me è un impulso troppo forte: appena leggo “CEO” lo trasformo subito in “céo”. E sono quasi sicuro che se il mondo fosse governato dai “céi” invece che dai “CEO” probabilmente molte cose funzionerebbero meglio.
Quando è venuto anche da noi (ma io quel giorno non c’ero) mi hanno detto: «Quello lì è il Ceo.»
Lo hanno detto con gran rispetto, ma a me è venuto da ridere. Ho spiegato perché, ma non ha riso nessuno: non per colpa mia, credo, ma perché in fin dei conti siamo in Lombardia, non in Veneto.
CEO è una sigla in inglese, un acronimo, che sta per Chief Executive Officer, l’Amministratore Delegato - insomma, un pezzo grosso. In inglese penso che si pronunci qualcosa come “si-i-ou”, ma se tutti dicono “ceo” bisognerà pur adeguarsi.
Invece, in veneto (mia lingua paterna) “ceo” significa “piccolo”, e questa parolina è legata – per l’appunto - ad un piccolo ricordo familiare. Mio padre aveva una sorella di diciotto anni più vecchia di lui; come conseguenza, era zio di una nipote di un paio d’anni soltanto più giovane. Per qualche anno, alle elementari, si erano trovati nella stessa scuola; e la bambina lo chiamava “zio”, cosa che l’altro bambino non gradiva molto (con inevitabili conseguenze). «Ma se non devo chiamarlo zio, allora come devo chiamarlo?» si chiese quella mia cugina; e gli spiegarono che se era lo zio doveva chiamarlo zio. Spiegazione che non convinse del tutto quella bambina dei primi anni ‘30: che da allora, per evitare guai, si mise a chiamare mio padre “quell’ometto céo”. Anche la squadra di calcio del Chievo, che è di Verona, per i suoi tifosi è “Céo”, e quasi quasi adesso che lo so vorrei esserne tifoso anch’io. (Ovviamente, crescendo, i rapporti fra mio padre e quella nipote si normalizzarono presto).
Non so bene perché, sarà che sono un anarchico in fondo all’anima, ma per me è un impulso troppo forte: appena leggo “CEO” lo trasformo subito in “céo”. E sono quasi sicuro che se il mondo fosse governato dai “céi” invece che dai “CEO” probabilmente molte cose funzionerebbero meglio.
martedì 9 marzo 2010
Arrivare primi ad una corsa
Se si riflette, nulla può invogliare ad arrivare per primi ad una corsa. La gloria di essere riconosciuti come il più bravo cavaliere di un paese procura troppa gioia quando la banda si mette a suonare, per poter evitare il rimorso al mattino successivo.
(Franz Kafka, Riflessioni per cavalieri - dai Racconti)
(Franz Kafka, Riflessioni per cavalieri - dai Racconti)
domenica 7 marzo 2010
Il lancio di una moneta
(...) Fate che uno riesca a parlare a lungo, e troverà sempre chi gli crede. Questo modo di giudicare il contegno di Mr. Henry si diffuse a poco a poco in tutto il paese; veniva preso sul serio anche da gente che sapeva che la verità era esattamente il contrario, ma si trovava a corto di argomenti; ed era ascoltato, creduto e dato per vangelo dagli ignoranti e dai malevoli. (....) Il signore di Ballantrae (suo fratello, ndr) veniva esaltato come un santo. Si ricordava come egli non avesse mai contribuito a far pressione sui fittavoli; e così infatti, era salvo poi a contribuire nello spendere il denaro. Era un po' violento, forse, diceva la gente; ma quanto era meglio un ragazzo turbolento e tutto d'istinto, che presto avrebbe messo la testa a partito, di uno spilorcio che prendeva la gente per il collo, sempre seduto con il naso sul libro dei conti, per far penare i poveri fittavoli! (...)
- Così, Jessie... Anche tu? Eppure, dovresti conoscermi meglio! - Poiché proprio lui le era venuto in aiuto con del denaro. La donna aveva pronto un altro sasso e fece il gesto di scagliarlo; egli, per ripararsi, alzò la mano che teneva il frustino.
- Ah, sì, vorreste battere una donna, vigliacco! - strillò ella e corse via urlando come se l'avesse colpita. Il giorno dopo, rapida come il fuoco fatuo si sparse per il paese la voce che Mr. Henry aveva frustato Jessie Brown tanto da ridurla quasi in fin di vita. Lo riferisco, per dare un'idea di come quella palla di neve si ingrossò e le calunnie si moltiplicarono; fino a che la reputazione del povero Mr. Henry fu così rovinata, che egli cominciò a chiudersi in casa come il vecchio lord. In tutto quel periodo, potete esserne certi, egli non si lasciò sfuggire neppure un lamento in famiglia; la causa stessa di quello scandalo era troppo penosa, per poterne parlare; inoltre, Mr. Henry era molto orgoglioso e stranamente ostinato nel serbare il silenzio. (...)
Robert Louis Stevenson, Il Signore di Ballantrae, capitolo primo
(traduzione di Giuliana Pozzo, pag.23 ed. Sansoni)
Ma, prima, che cos’era successo?
(...) Ci volle tutta una giornata di discussioni, perché i tre si trovassero d'accordo nell'attenersi ad una via di mezzo: uno dei figli sarebbe andato a battersi per il Re James, il vecchio lord e l'altro figlio sarebbero rimasti a casa per mantenersi nelle grazie di Re George. Senza dubbio, questa decisione si dové al mio padrone e, come è noto a tal partito si attennero molte tra le famiglie più in vista. Ma, appianata una disputa, un'altra ne sorse. Il vecchio lord, Miss Alison e Mr. Henry erano tutti dello stesso parere: che spettasse al cadetto di partire; mentre Sir James, fosse irrequietezza o vanità, non voleva a nessun costo acconsentire a rimanere a casa. Il mio padrone pregò, Miss Alison pianse, Mr. Henry parlò con franchezza; tutto fu inutile.
- È l'erede diretto di Durrisdeer che deve cavalcare a fianco del suo re - diceva il signore di Ballantrae.
- Se ci comportassimo da uomini - ribatté Mr. Henry - queste chiacchiere potrebbero avere un senso; ma che cosa stiamo facendo, invece? Stiamo imbrogliando le carte...
- Stiamo salvando la casa dei Durrisdeer, Henry - lo ammonì il padre.
- Ma, vedi, James - continuò Mr. Henry - se vado io e il Principe ha la meglio, ti sarà facile rappacificarti con il Re James. Ma se vai tu e la spedizione fallisce, il titolo non spetterà a chi di diritto. E che cosa sarò io allora?
- Sarai Lord Durrisdeer - rispose il signore di Ballantrae. - Metto in gioco tutto ciò che possiedo.
- Ma io non ci sto a questo gioco! - esclamò Mr. Henry. - Verrei a trovarmi in una situazione, quale nessun uomo di sentimento e di onore potrebbe sopportare. Non sarei né carne né pesce! - sbottò. E poco dopo ebbe un'altra espressione, più cruda di quanto forse intendesse. - È tuo dovere rimanere qui con tuo padre - disse. - Sai benissimo di essere il favorito.
- Ah, sì - esclamò Sir James. - È l'invidia che parla! Vorresti darmi lo sgambetto.... Giacobbe? - disse, indugiando malignamente su quel nome.
Mr. Henry si allontanò senza rispondere sino all'altra estremità mità del salone; poiché egli aveva l'eccellente dono del silenzio. Poi, ritornando:
- Io sono il cadetto e spetta a me di andare - disse. - Nostro padre qui è il padrone e anche lui dice che io devo andare. Che cos'hai da rispondere, fratello?
- Rispondo, Harry - cominciò Sir James - che quando si incontra una persona molto ostinata, non ci sono che due modi per cavarsela: o farla a pugni, e credo che nessuno di noi due voglia arrivare a tanto; o affidarsi all'arbitrio del caso.... ed ecco qua una ghinea. Ci stai?
- Ci sto e accetterò la mia sorte - rispose Mr. Henry. - Testa, vado; scudo, resto.
La moneta prillò e, cadendo, mostrò lo scudo.
- Ecco una lezione per Giacobbe - disse Sir James.
- Ce ne pentiremo per tutta la vita - esclamò Mr. Henry e si precipitò fuori della sala.
In quanto a Miss Alison, raccolse quel pezzetto d'oro che avrebbe mandato alla guerra il suo innamorato e, frantumando proprio lo stemma di famiglia lo scagliò fuori dalla grande finestra istoriata.
- Se mi amaste quanto io vi amo, rimarreste - proruppe.
- Non potrei amarvi così bene, cara, se non amassi l'onore ancor più di voi - canticchiò Sir James.
- Oh! - gemette ella. - Non avete cuore... Magari rimaneste ucciso!- Così dicendo corse via dalla sala e, in lagrime, raggiunse la sua camera. (...)
Robert Louis Stevenson, Il Signore di Ballantrae, capitolo primo
(traduzione di Giuliana Pozzo, pag.19 ed. Sansoni)
- Così, Jessie... Anche tu? Eppure, dovresti conoscermi meglio! - Poiché proprio lui le era venuto in aiuto con del denaro. La donna aveva pronto un altro sasso e fece il gesto di scagliarlo; egli, per ripararsi, alzò la mano che teneva il frustino.
- Ah, sì, vorreste battere una donna, vigliacco! - strillò ella e corse via urlando come se l'avesse colpita. Il giorno dopo, rapida come il fuoco fatuo si sparse per il paese la voce che Mr. Henry aveva frustato Jessie Brown tanto da ridurla quasi in fin di vita. Lo riferisco, per dare un'idea di come quella palla di neve si ingrossò e le calunnie si moltiplicarono; fino a che la reputazione del povero Mr. Henry fu così rovinata, che egli cominciò a chiudersi in casa come il vecchio lord. In tutto quel periodo, potete esserne certi, egli non si lasciò sfuggire neppure un lamento in famiglia; la causa stessa di quello scandalo era troppo penosa, per poterne parlare; inoltre, Mr. Henry era molto orgoglioso e stranamente ostinato nel serbare il silenzio. (...)
Robert Louis Stevenson, Il Signore di Ballantrae, capitolo primo
(traduzione di Giuliana Pozzo, pag.23 ed. Sansoni)
Ma, prima, che cos’era successo?
(...) Ci volle tutta una giornata di discussioni, perché i tre si trovassero d'accordo nell'attenersi ad una via di mezzo: uno dei figli sarebbe andato a battersi per il Re James, il vecchio lord e l'altro figlio sarebbero rimasti a casa per mantenersi nelle grazie di Re George. Senza dubbio, questa decisione si dové al mio padrone e, come è noto a tal partito si attennero molte tra le famiglie più in vista. Ma, appianata una disputa, un'altra ne sorse. Il vecchio lord, Miss Alison e Mr. Henry erano tutti dello stesso parere: che spettasse al cadetto di partire; mentre Sir James, fosse irrequietezza o vanità, non voleva a nessun costo acconsentire a rimanere a casa. Il mio padrone pregò, Miss Alison pianse, Mr. Henry parlò con franchezza; tutto fu inutile.
- È l'erede diretto di Durrisdeer che deve cavalcare a fianco del suo re - diceva il signore di Ballantrae.
- Se ci comportassimo da uomini - ribatté Mr. Henry - queste chiacchiere potrebbero avere un senso; ma che cosa stiamo facendo, invece? Stiamo imbrogliando le carte...
- Stiamo salvando la casa dei Durrisdeer, Henry - lo ammonì il padre.
- Ma, vedi, James - continuò Mr. Henry - se vado io e il Principe ha la meglio, ti sarà facile rappacificarti con il Re James. Ma se vai tu e la spedizione fallisce, il titolo non spetterà a chi di diritto. E che cosa sarò io allora?
- Sarai Lord Durrisdeer - rispose il signore di Ballantrae. - Metto in gioco tutto ciò che possiedo.
- Ma io non ci sto a questo gioco! - esclamò Mr. Henry. - Verrei a trovarmi in una situazione, quale nessun uomo di sentimento e di onore potrebbe sopportare. Non sarei né carne né pesce! - sbottò. E poco dopo ebbe un'altra espressione, più cruda di quanto forse intendesse. - È tuo dovere rimanere qui con tuo padre - disse. - Sai benissimo di essere il favorito.
- Ah, sì - esclamò Sir James. - È l'invidia che parla! Vorresti darmi lo sgambetto.... Giacobbe? - disse, indugiando malignamente su quel nome.
Mr. Henry si allontanò senza rispondere sino all'altra estremità mità del salone; poiché egli aveva l'eccellente dono del silenzio. Poi, ritornando:
- Io sono il cadetto e spetta a me di andare - disse. - Nostro padre qui è il padrone e anche lui dice che io devo andare. Che cos'hai da rispondere, fratello?
- Rispondo, Harry - cominciò Sir James - che quando si incontra una persona molto ostinata, non ci sono che due modi per cavarsela: o farla a pugni, e credo che nessuno di noi due voglia arrivare a tanto; o affidarsi all'arbitrio del caso.... ed ecco qua una ghinea. Ci stai?
- Ci sto e accetterò la mia sorte - rispose Mr. Henry. - Testa, vado; scudo, resto.
La moneta prillò e, cadendo, mostrò lo scudo.
- Ecco una lezione per Giacobbe - disse Sir James.
- Ce ne pentiremo per tutta la vita - esclamò Mr. Henry e si precipitò fuori della sala.
In quanto a Miss Alison, raccolse quel pezzetto d'oro che avrebbe mandato alla guerra il suo innamorato e, frantumando proprio lo stemma di famiglia lo scagliò fuori dalla grande finestra istoriata.
- Se mi amaste quanto io vi amo, rimarreste - proruppe.
- Non potrei amarvi così bene, cara, se non amassi l'onore ancor più di voi - canticchiò Sir James.
- Oh! - gemette ella. - Non avete cuore... Magari rimaneste ucciso!- Così dicendo corse via dalla sala e, in lagrime, raggiunse la sua camera. (...)
Robert Louis Stevenson, Il Signore di Ballantrae, capitolo primo
(traduzione di Giuliana Pozzo, pag.19 ed. Sansoni)
giovedì 4 marzo 2010
I nostri grandi manager
Oggi ho letto una notizia: che Trenitalia ha tagliato molti treni nel suo nuovo orario, soprattutto al Sud. Siccome l'altro giorno stavo guardando l'orario di un treno, me n'ero già accorto.
Queste notizie sono tutt'altro che rare, e se ne potrebbe fare una piccola antologia: ci provo.
E dunque: presto i managers di Trenitalia meneranno vanto di aver sanato i bilanci, o qualcosa del genere. Bene: dopo aver tagliato decine di corse, licenziato tre quarti del personale, chiuso le biglietterie, ridotto la manutenzione (no, questo non si può dire), venduto le stazioni, concentrato tutto sull'alta velocità (un servizio che serve solo a chi abita nelle grandi città, cioè a una minoranza), cosa resta? Così sono capaci tutti.
Altra notizia: managers e ministri che si vantano di aver ridotto gli sbarchi dei clandestini, addirittura riducendoli a zero. "Avevate detto che non ci saremmo mai riusciti!" annunciano trionfanti. E sì, è vero: era impossibile riuscirci se non affondando le navi o sparandogli addosso, o magari facendogli sparare addosso da qualcun altro (ma che non si sappia in giro) prima che quei disgraziati salgano sulle navi. Cosa sta succedendo oggi in Libia è già stato documentato, e un giorno il Signore ce ne chiederà conto.
Terza notizia: ci si è vantati di recente di aver quasi risolto il problema delle pensioni. Tra poco, tutti in pensione a 70 anni, uomini e donne: allegria! Altro problema risolto: e che dietro questo innalzamento dell'età pensionabile ci siano tragedie personali enormi e irrisolvibili, magari anche suicidi e malattie, non fa conto e non vale nemmeno la pena di parlarne. Mi si dice: "è per risparmiare, il bilancio non consente". Ebbene, quando in una casa i soldi scarseggiano di solito si pensa a cosa conviene tenere, cioè si decidono le cose importanti. Ne deduco che la salute dei cittadini non è tenuta in nessun conto, visto che si mandano i muratori in pensione a 65-70 anni. Che dire: quantomeno, quando c'era Veltroni in tv queste cose le diceva ("come faranno ad arrivare alla pensione i precari?"), adesso silenzio assoluto.
Abbiamo una generazione di managers che sanno solo tagliare. Tagliare, licenziare, dismettere, licenziare, tagliare, chiudere.
Però si rifanno le stazioni, per esempio; si progetta il ponte sullo Stretto; si fa diventare spa la Protezione Civile, eccetera (il perché lo sapevamo da prima, adesso ci sono anche le prove che a pensar male non si sbagliava...).
Bei managers, insomma. A risolvere i problemi in questo modo "tut i cojon hin bon", diceva mia nonna - ma qui non traduco, in fin dei conti è lingua padana. La mia opinione, molto sommessa, è che per risparmiare davvero forse bisognerebbe tenersi qualche lavoratore in più, e cominciare a licenziare qualcuno di questi managers...
Queste notizie sono tutt'altro che rare, e se ne potrebbe fare una piccola antologia: ci provo.
E dunque: presto i managers di Trenitalia meneranno vanto di aver sanato i bilanci, o qualcosa del genere. Bene: dopo aver tagliato decine di corse, licenziato tre quarti del personale, chiuso le biglietterie, ridotto la manutenzione (no, questo non si può dire), venduto le stazioni, concentrato tutto sull'alta velocità (un servizio che serve solo a chi abita nelle grandi città, cioè a una minoranza), cosa resta? Così sono capaci tutti.
Altra notizia: managers e ministri che si vantano di aver ridotto gli sbarchi dei clandestini, addirittura riducendoli a zero. "Avevate detto che non ci saremmo mai riusciti!" annunciano trionfanti. E sì, è vero: era impossibile riuscirci se non affondando le navi o sparandogli addosso, o magari facendogli sparare addosso da qualcun altro (ma che non si sappia in giro) prima che quei disgraziati salgano sulle navi. Cosa sta succedendo oggi in Libia è già stato documentato, e un giorno il Signore ce ne chiederà conto.
Terza notizia: ci si è vantati di recente di aver quasi risolto il problema delle pensioni. Tra poco, tutti in pensione a 70 anni, uomini e donne: allegria! Altro problema risolto: e che dietro questo innalzamento dell'età pensionabile ci siano tragedie personali enormi e irrisolvibili, magari anche suicidi e malattie, non fa conto e non vale nemmeno la pena di parlarne. Mi si dice: "è per risparmiare, il bilancio non consente". Ebbene, quando in una casa i soldi scarseggiano di solito si pensa a cosa conviene tenere, cioè si decidono le cose importanti. Ne deduco che la salute dei cittadini non è tenuta in nessun conto, visto che si mandano i muratori in pensione a 65-70 anni. Che dire: quantomeno, quando c'era Veltroni in tv queste cose le diceva ("come faranno ad arrivare alla pensione i precari?"), adesso silenzio assoluto.
Abbiamo una generazione di managers che sanno solo tagliare. Tagliare, licenziare, dismettere, licenziare, tagliare, chiudere.
Però si rifanno le stazioni, per esempio; si progetta il ponte sullo Stretto; si fa diventare spa la Protezione Civile, eccetera (il perché lo sapevamo da prima, adesso ci sono anche le prove che a pensar male non si sbagliava...).
Bei managers, insomma. A risolvere i problemi in questo modo "tut i cojon hin bon", diceva mia nonna - ma qui non traduco, in fin dei conti è lingua padana. La mia opinione, molto sommessa, è che per risparmiare davvero forse bisognerebbe tenersi qualche lavoratore in più, e cominciare a licenziare qualcuno di questi managers...
lunedì 1 marzo 2010
Chi vota a destra è un imbecille? (n.6)
Quaranta euro per un tappo di cerume: mica male come guadagno. Ne trovi due così al giorno, sempre meglio che lavorare; tanto più che lo stipendio corre regolarmente.
Per un medico o per un infermiere, togliere un tappo di cerume dall’orecchio è una stupidaggine, forse la prima cosa che si impara. Se non ci sono complicazioni, basta un semplice lavaggio con acqua tiepida e viene via tutto, roba di cinque minuti: io ne vado soggetto e da ragazzo un medico, un otorinolaringoiatra, mi spiegò che potevo farlo anche da solo. Mi disse come dovevo fare, senza star lì a prendere l’appuntamento ogni volta: l’importante era indirizzare il getto di lato, per non andare a colpire il timpano. Da allora lo faccio regolarmente, ogni 5-6 settimane quando comincio a sentire il fastidio (se si aspetta troppo, il cerume si indurisce e tutto si complica).
Detto questo, come funziona il trucchetto dei quaranta euro “in nero”? Semplice semplice, lo conoscono tutti: si va a prenotare al Servizio Sanitario e ti dicono che devi aspettare tre mesi; ma se si vuole andare in privato c’è posto domani. Funziona così per tutto, mica solo per i tappi di cerume ma anche per le malattie, gli interventi seri, tutto.
Una dozzina di anni fa, si provò a cambiare sistema: una Riforma dove i medici dovevano optare, o si sta nel Servizio Pubblico oppure si va a lavorare nelle cliniche private, o si apre uno studio in proprio. Provvedimento drastico e discutibile, ma era comunque un passo nella direzione giusta: si sa come andò alle elezioni.
I medici di base una volta si chiamavano “medico di famiglia”, e facevano di tutto: cucivano le ferite, per esempio. In ambulatorio, senza appuntamento, senza correre al pronto soccorso: ogni medico deve saper cucire una ferita, un piccolo taglio – altrimenti che medico è? E i medici di famiglia correvano, andavano a casa dei malati, a volte lo facevano perfino in bicicletta.
Si dirà: “altri tempi”. Aggiungerei: “altra gente, altre persone”. Ogni volta che si tocca l’argomento, i medici dicono che c’è troppa burocrazia, che non vogliono più fare gli impiegati ma il loro mestiere; visto come vanno le cose, direi che è vero proprio il contrario. Una generazione di burocrati, con il mito dell’orario di lavoro corto, del riposo prefestivo, e del weekend libero: “rivolgersi alla Guardia Medica” è il loro motto. Se a comportarsi così sono impiegati, operai e insegnanti, vengono subito bollati come fannulloni - ma preferisco tagliar corto, per oggi ne ho già abbastanza.
PS: tutto questo avviene in Lombardia, la Regione che è sì all’avanguardia in molti campi, ma anche quella dove ci sono stati enormi scandali in ambito sanitario: basti pensare a quella clinica che rubò il nome a Santa Rita da Cascia.
Per un medico o per un infermiere, togliere un tappo di cerume dall’orecchio è una stupidaggine, forse la prima cosa che si impara. Se non ci sono complicazioni, basta un semplice lavaggio con acqua tiepida e viene via tutto, roba di cinque minuti: io ne vado soggetto e da ragazzo un medico, un otorinolaringoiatra, mi spiegò che potevo farlo anche da solo. Mi disse come dovevo fare, senza star lì a prendere l’appuntamento ogni volta: l’importante era indirizzare il getto di lato, per non andare a colpire il timpano. Da allora lo faccio regolarmente, ogni 5-6 settimane quando comincio a sentire il fastidio (se si aspetta troppo, il cerume si indurisce e tutto si complica).
Detto questo, come funziona il trucchetto dei quaranta euro “in nero”? Semplice semplice, lo conoscono tutti: si va a prenotare al Servizio Sanitario e ti dicono che devi aspettare tre mesi; ma se si vuole andare in privato c’è posto domani. Funziona così per tutto, mica solo per i tappi di cerume ma anche per le malattie, gli interventi seri, tutto.
Una dozzina di anni fa, si provò a cambiare sistema: una Riforma dove i medici dovevano optare, o si sta nel Servizio Pubblico oppure si va a lavorare nelle cliniche private, o si apre uno studio in proprio. Provvedimento drastico e discutibile, ma era comunque un passo nella direzione giusta: si sa come andò alle elezioni.
I medici di base una volta si chiamavano “medico di famiglia”, e facevano di tutto: cucivano le ferite, per esempio. In ambulatorio, senza appuntamento, senza correre al pronto soccorso: ogni medico deve saper cucire una ferita, un piccolo taglio – altrimenti che medico è? E i medici di famiglia correvano, andavano a casa dei malati, a volte lo facevano perfino in bicicletta.
Si dirà: “altri tempi”. Aggiungerei: “altra gente, altre persone”. Ogni volta che si tocca l’argomento, i medici dicono che c’è troppa burocrazia, che non vogliono più fare gli impiegati ma il loro mestiere; visto come vanno le cose, direi che è vero proprio il contrario. Una generazione di burocrati, con il mito dell’orario di lavoro corto, del riposo prefestivo, e del weekend libero: “rivolgersi alla Guardia Medica” è il loro motto. Se a comportarsi così sono impiegati, operai e insegnanti, vengono subito bollati come fannulloni - ma preferisco tagliar corto, per oggi ne ho già abbastanza.
PS: tutto questo avviene in Lombardia, la Regione che è sì all’avanguardia in molti campi, ma anche quella dove ci sono stati enormi scandali in ambito sanitario: basti pensare a quella clinica che rubò il nome a Santa Rita da Cascia.
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