mercoledì 26 gennaio 2011

L'istruttoria

Un fatto successo di recente a Como: un uomo uccide un suo conoscente, lo decapita, cerca di bruciarlo in un forno. I carabinieri lo scoprono quasi subito, il processo è in corso in questi giorni. Il fatto suscita orrore, anche perché l’uomo è una persona ben conosciuta, è un comasco doc, ha un bel negozio di armi e articoli sportivi vicinissimo al Duomo, grandi vetrine, insomma l’orrore si mescola alla sorpresa: come è possibile che sia successo?
Lo stesso orrore, a Como e a Milano e a Varese, e non solo a Como, a Milano, a Varese, non suscitano le testimonianze che arrivano da Auschwitz, da Mauthausen, da Treblinka. Quando se ne parla, c’è sempre qualcuno che sbuffa, qualcuno che nega che sia mai successo, e (peggiori di tutti) quelli ci raccontano sopra le barzellette e quelli che si mettono a discutere sul numero dei morti e dei deportati: no, macché sei milioni, erano un milione soltanto – come se un milione di morti fosse una bazzecola, come se non ne bastasse anche uno, uno solo, ucciso e bruciato in un forno, per generare orrore. Figuriamoci se poi si tratta non di una persona sola, ma di dieci, cento, mille, un milione...

Di prove ne esistono, e tante. Di testimonianze ne esistono, e tante. Basta aver voglia di ascoltare, di leggere, di informarsi: a me, da bambino, era bastata la visione di una sola foto sui giornali. Avevo chiesto: mamma, cos’è questo? Ed erano foto di cadaveri, poveri corpi ridotti a pelle e ossa: decine, centinaia di morti, ritrovati dai russi e dagli americani al loro arrivo ad Auschwitz.
Molte di queste testimonianze furono raccolte da Peter Weiss nel dramma “L’istruttoria”:
« Dal 20 dicembre 1963 al 20 agosto 1965 si svolse a Francoforte sul Meno un processo contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz. In seguito al movimento di opinione pubblica provocato nel mondo dal processo ad Adolf Eichmann tenuto a Gerusalemme nel 1961, per la prima volta la Repubblica federale tedesca affrontava in maniera impegnativa la questione delle responsabilità individuali, dirette, imputabili a esecutori di ogni grado, attivi nei recinti di Auschwitz. Il processo ebbe dimensioni proporzionate alla sua importanza; nel corso di 183 giornate vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali scelti tra i 1506 sopravvissuti del Lager. La storia del campo o meglio dei campi di Auschwitz, dalla loro apertura, nel giugno del '40, all'evacuazione per l'avvicinarsi delle truppe russe (gennaio 1945) fu rievocata, a un quarto di secolo di distanza da chi vi aveva partecipato come vittima, aguzzino o complice, rimasto a piede libero, degli aguzzini stessi. I volti, gli atteggiamenti; certe battute degli imputati più conosciuti: il vicecomandante Robert Mulka, il Rapportführer: Oswald Kaduk, i funzionari della Sezione politica Wilhelm Boger e Hans Stark, divennero noti in tutto il mondo attraverso servizi giornalistici; una sinistra celebrità acquistarono personaggi che, per singolari dispositivi della macchina della legge, figuravano non tra gli imputati ma tra i testimoni, a fianco delle loro vittime.
Tale categoria era rappresentata soprattutto da medici, dal personale impiegato in Auschwitz per la "selezione", per la scelta, cioè, del materiale umano da eliminare immediatamente o da consegnare all'industria (durata media della vita di un detenuto-operaio: nove mesi). L'operazione di cernita, che comportava l'invio diretto, nelle camere a gas, dei bimbi, dei vecchi, dei deboli, dei malati, apparve forse per la prima volta in maniera così evidente, legata all'accordo tra alcune industrie tedesche e il governo. I grandi industriali del Reich non potevano ignorare il prezzo 'reale' d'una mano d'opera offerta a condizioni estremamente vantaggiose.
Peter Weiss assistette a molte sedute del processo di Francoforte. Vide le figure degli imputati e dei testimoni, assistette al tentativo di fare rientrare negli schemi della giustizia umana crimini non solo senza precedenti, ma inconcepibili. Da note prese durante le sedute, soprattutto dai resoconti redatti da Bernd Naumann per la "Frankfurter Allgemeine Zeitung", lo scrittore ricavò materiali per 'Die Ermittlung, L'Istruttoria" (il titolo italiano rende solo in parte il senso di quello tedesco, il suo aspetto tecnico-giuridico, escludendo il significato di accertamento dei fatti, di verifica, pure essenziale). Il giudice, il difensore, il procuratore, diciotto accusati e nove testimoni anonimi, ognuno dei quali impersona più di un testimone reale, sono i personaggi di questo "oratorio in undici canti"; nel quale non è passata una parola che non sia stata pronunciata nell'aula del tribunale. (...)
(Giorgio Zampa, introduzione a “L’istruttoria” di Peter Weiss)

“L’Istruttoria” l’ho visto in teatro nel febbraio 1994, a Milano, per la regia di Gigi Dall’Aglio: una messa in scena perfetta, di quelle che non si dimenticano. Mi ero segnato queste righe: “Uno spettacolo rigoroso, di grande attualità, con una regia molto bella e un’interpretazione toccante. L’unica cosa che non va, è che nel pubblico c’erano solo persone che non avevano bisogno di ripassare la storia, né di convincersi che il nazismo è stato un orrore e può ripetersi: insomma, mancavano i naziskin, gli ultrà da stadio, quelli che votano a destra, quelli che vogliono eliminare la festività del 25 aprile...”
Un commento del 1994 che potrei riscrivere oggi tale e quale: mi è rimasto in mente, quel pomeriggio passato ad assistere al dramma di Weiss. Perché loro, gli interessati, quelli che avrebbero bisogno di informarsi, stanno molto alla larga dalla verità e se ne costruiscono una su misura per loro. Se incontrano qualcuno che gli mostra i fatti così come sono successi, cambiano strada: so bene che nessuno di Forza Nuova, nessun leghista alla Borghezio, nessun ultrà da stadio (eccetera) si è mai veramente interessato per essere veramente informato sui fatti. Quando si va sull'argomento, recitano puntigliosi quelle quattro parole che si ripetono sempre quando sono tra di loro, e basta: nessuna voglia di confrontarsi, di informarsi, di ascoltare. Nel caso gli venisse voglia di informarsi, basterebbe un’immagine sola, una testimonianza sola, - come accadde a me da bambino - per uscire immediatamente da quei movimenti e da quei partiti, e per starne da quel momento in poi il più lontano possibile.

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