venerdì 29 novembre 2019

La caldera


- In caso di incidente, - spiega per l'ennesima volta il Capo della Manutenzione alla squadra di sicurezza, nella consueta riunione del lunedì - il punto di ritrovo è qui, davanti alla caldaia.
- Ma se invece dovesse scoppiare la caldaia? - chiede Pierino il Polemico, sempre pronto a scattare.
- Ma perchè g'ha de s'ciupà propi la caldéra? - chiede il Caldaista, preoccupato e punto sul vivo.
La caldaia è fondamentale, in una fabbrica come si deve. Serve a produrre vapore, col quale si fanno tante cose essenziali, dalla sterilizzazione e pulitura delle macchine all'impedire che, d'inverno, gelino i prodotti nelle tubature; e serve anche per il riscaldamento dei locali, e via dicendo. E' ben difficile che scoppi una caldaia, perché non viene mai lasciata a se stessa; e tutti i caldaisti sono ben esperti e coscienziosi, oltre che dotati delle necessarie patenti.
E' bello vedere le persone che lavorano in fabbrica prendere parte alle misure di sicurezza, magari anche scherzando o contestando quello che dice il capo. E' il principio fondamentale di una delle leggi più importanti varate negli ultimi anni, la famosa legge 626, varata nei primi anni '90, che prevede la responsabilità dei lavoratori nella prevenzione degli infortuni ma anche la loro partecipazione attiva. E' una legge spesso disattesa, e messa gravemente in pericolo dalla precarietà del posto di lavoro, la famosa flessibilità oggi tanto di moda. Negli anni successivi sarebbe stata cambiata, oggi la 626 non esiste più, inglobata in altre norme di legge; ma gli incidenti sul lavoro continuano ad aumentare, e questo fa male. Ma questo è un discorso lungo e delicato, e mi fermo subito.
Però il Capo della Manutenzione prese sul serio quel piccolo suggerimento, non subito (ci mise un bel po' di tempo, anni) e oggi la squadra di sicurezza ha un suo punto di ritrovo in un posto della fabbrica più tranquillo, con tanto di box e di armadietti dove riporre le attrezzature personali; ed anche questa è una bella cosa da sapere.

mercoledì 27 novembre 2019

Amore e Speranza


Nel dipinto di Sidney Meteyard, la Speranza consola Amore, che è legato. Entrambi sono seduti; Amore è un giovane sui vent'anni, è seminudo, gambe e mani legate con nastri di seta, la faretra abbandonata nell'angolo di sinistra. Speranza è una giovane donna dal volto severo, vestita di una lunga tunica verde, con un mantello dorato, che tiene una mano sulla spalla del ragazzo. Sullo sfondo c'è un paesaggio, ma guardando bene il paesaggio si nota qualcosa che a prima vista era sfuggito: le ali di Cupido sono enormi. Non è una quinta o un fondale: sono le ali di Amore, enormi, che fanno da sfondo. Ali possenti, ma Amore è legato e anche Speranza sembra rassegnata.
 
 
(Sidney Meteyard, 1901)

Questo è quello che posso dire a una semplice lettura del quadro così come appare in fotografia; di più non posso fare, se non mettere qualche nota biografica sull'autore. Sidney Meteyard, 1868-1947, inglese di Birmingham, fu influenzato da Edward Burne Jones e da William Morris; ci ha lasciato tra le altre cose un ciclo di dipinti per "The Golden Legend" dell'americano Henry Wadsworth Longfellow (autore di "Hiawatha" e di una traduzione Divina Commedia). Meteyard è uno degli ultimi preraffaelliti, il movimento stava per terminare con l'inizio del Novecento - e con l'arrivo di una devastante guerra mondiale, verrebbe da aggiungere.

sabato 23 novembre 2019

Disperso in Russia


Mio zio,  fratello maggiore di mio padre, faceva parte dell'Armir e non è più tornato a casa. "Disperso in Russia": quante volte l'ho sentito dire, era un destino comune a molti dei nati nei primi due decenni del Novecento. Come mio zio, appunto, che essendo nato nel 1909 in quella guerra era quindi uno dei "vecchi". Soldato semplice, sia ben chiaro; con due figli piccoli a carico, e già con la guerra in Libia sulle spalle. La spedizione in Russia era per noi una guerra persa in partenza, e i tedeschi non ci avevano nemmeno chiesto di parteciparvi; ma che fare. "Soffriva tanto il freddo", diceva mia nonna (sua madre) quando se ne parlava in casa.
In casa si era fantasticato a lungo su cosa poteva essergli successo. Mio padre, il fratello minore, ogni tanto se lo chiedeva; risposte non ne sono mai venute, nemmeno dopo il 1989. C'erano racconti che facevano sperare, un film come "I girasoli" di Vittorio De Sica, poi - quando mio padre non c'era più - cominciano a vedersi le badanti ucraine... No, mai nessuna notizia. Si commentava: dall'Unione Sovietica non esce mai niente; ma ormai l'URSS non esiste più, e sono passati altri trent'anni ma il silenzio perdura. Sono stati recuperati i resti di alcuni, ed è probabile che altri ne vengano trovati; ma di molti, tanti, manca ogni notizia; di tanti, non solo di mio zio. Poi, in tv, trovo un servizio molto ben documentato, e capisco. Dev'essere andata proprio così, anche per mio zio.

Seicentomila volte no, La deportazione dell'esercito italiano
(da un documentario Rai 1973 di Sergio Valentini, consulente il tenente degli alpini Vittorio Emanuele Giuntella - che si vede e si ascolta in prima persona nel documentario)
...fronte Armir. L'operazione Asse, già pronta subito dopo l'armistizio, prevede cattura e deportazione dell'esercito italiano, dalla Francia alla Bielorussia, fino al Baltico e all'Egeo. Sono ottanta divisioni, un milione e mezzo di uomini, metà dei quali fuori dai confini italiani. I soldati italiani vengono colti di sorpresa, anche perché ricevono ordini contraddittori.
Martin Bormann, 28.9.1943, emana un foglio d'ordine segreto (siglato Geheim)dove ordina e specifica il trattamento per i soldati italiani; al paragrafo 3 si ordina che per tutti quelli che hanno opposto "resistenza attiva e passiva" sia previsto questo, deportazione per sottufficiali e truppa, fucilazione immediata per gli ufficiali. I soldati italiani vengono quindi arrestati e deportati a Treblinka, il paragrafo 3 viene applicato con assoluto rigore.
Il lager di Treblinka funzionò fino alla fine del settembre 1943, l'ultimo treno che vi arrivò fu appunto quello dei soldati italiani, "il treno degli italiani", tutti da liquidare. Gli ufficiali vengono subito fucilati, i loro corpi bruciati e le ceneri disperse.
Il centro di raccolta per l'Armir era a Leopoli, dove c'erano duemila soldati italiani al momento dell'armistizio. Di tutto il fronte russo, trentamila finiscono a Witzendorf, che sarà il centro principale; gli altri vengono dispersi in vari lager. I soldati e gli ufficiali subiscono la stessa sorte di ebrei, zingari, omosessuali: arrivano nei vagoni piombati, i morti e gli uccisi verranno bruciati nei forni crematori, di loro non c'è più traccia. Jacek Wilczur ha raccontato la storia di questi soldati italiani in due libri.
Per i sopravvissuti c'è la possibilità di tornare a combattere con la RSI, ma solo l'uno per cento aderirà (uno per cento). Per gli altri c'è il lavoro forzato, e la "morte a dosi": il vitto viene ridotto di giorno in giorno, fino a ridursi a niente. A Buchenwald cinquemila soldati vengono impiegati per costruire le V2; le impiccagioni sono quotidiane, così come le torture.
I soldati italiani vengono definiti "internati" e non prigionieri di guerra: è un ordine di Bormann, che pone i prigionieri fuori dagli aiuti della CRI. Questo è possibile anche per via della confusione che regnava in quel momento: il re era a Brindisi, la RSI non era riconosciuta da nessuno.
Stalag 333 a Beniaminovo, Lager 308 in Bassa Sassonia (Pollen?), nel documentario vediamo e ascoltiamo testimoni oculari polacchi che mostrano i luoghi delle fucilazioni, le fosse comuni dalle quali nel dopoguerra furono recuperati i corpi degli ufficiali fucilati, resi irriconoscibili.
Aprile 1944, incontro fra Mussolini e Hitler (reduce da un attentato); il duce dice a Hitler di tenere in Germania i prigionieri; dopo tre mesi un altro colloquio, cui segue un documento (agli atti, viene mostrato nel doc.) in cui Mussolini spiega che è meglio tenere in Germania i soldati italiani, perché le loro condizioni sono così disperate che se i loro familiari li vedessero nascerebbero molti problemi (i tedeschi insistevano nel rimandarli a casa, perché la Germania aveva enormi problemi per dar loro da mangiare, non avendo cibo a sufficienza nemmeno per i civili tedeschi). Questa notizia viene data in maniera estremamente positiva sul giornale "La voce della libertà", ed è presentato come un accordo per i lavoratori italiani spediti in Germania, il titolone è "Il problema degli IMI è risolto!" (internati militari italiani), con molte foto di soldati sorridenti e in buona salute.
(da un documentario Rai 1973 di Sergio Valentini, consulente il tenente degli alpini Vittorio Emanuele Giuntella - che si vede  e si ascolta in prima persona nel documentario)

Queste notizie, così come quelle sui gas e le torture fasciste in Libia e in Etiopia ed Eritrea, non circolano. Il documentario Rai è del 1973, quarantasei anni fa, quindi si tratta di cose ben note agli storici; eppure dei soldati dell'Armir mandati a Treblinka non si parla mai. Una vera e propria censura, e si capisce fin troppo bene a chi serve tacere e non far conoscere.
Si sa da tempo che altri soldati italiani finirono nei campi di concentramento dell'Unione Sovietica, ma sui gulag c'è già tanto materiale: perché su quello che ho riportato sopra invece c'è un silenzio assoluto? Un milione e mezzo di soldati italiani sono finiti nei lager nazisti, e con l'accordo dei dirigenti fascisti: un milione e mezzo mi sembra un numero impressionante, e per questo il silenzio è ancora più impressionante.

mercoledì 20 novembre 2019

Questione di target

"No alla violenza sulle donne", dice il manifesto appeso davanti alla biblioteca, per una conferenza con dibattito. E' la quinta o sesta volta che passo di qui, il messaggio è più che chiaro: ma perché vengono a dirlo a me? Io non ho mai picchiato nessuno, né maschi né femmine, e spero di poter continuare così la mia vita. Anche in tv, finisco sempre sui programmi che parlano di violenza sulle donne: sono più che informato, ma perché vengono a dirlo a me?
Vi sembrerà una stupidaggine, invece siamo davanti a un clamoroso errore di comunicazione. Hanno sbagliato il target, direbbero i pubblicitari. I veri violenti non leggeranno mai questi poster, non guarderanno mai quelle trasmissioni, e quanto ad andare a quella conferenza pubblicizzata dal manifesto davanti alla biblioteca, figuriamoci. Se proprio uno di loro volesse andarci, sarebbe per farsi quattro risate.
Intendiamoci, è un problema serio. Che fare? La stessa cosa succede con chi irride i lager nazisti, con chi esalta il fascismo, con il bullismo... L'ultima uscita in ordine di tempo, quella spaventosa del sindaco di centrodestra che definisce "di parte" l'informazione su Auschwitz, parla purtroppo molto chiaro. Come è stato possibile arrivare fino a questo punto?

Pongo il problema perché mi sembra che si stia sbagliando, e tanto. Ci troviamo sempre tra di noi, sempre gli stessi e già più che informati, a dirci quanto è brutto e quanto è necessario intervenire, ma poi i "femminicidi" aumentano, idem le stragi in famiglia, idem le esaltazioni del fascismo e le irrisioni su Auschwitz. Penso a queste cose anche quando leggo gli interventi di Moni Ovadia, come l'ultimo sulle minacce e sulle ironie verso Liliana Segre: a un certo punto segue una dotta spiegazione sull'attuale governo di Israele, con i necessari distinguo, e vorrei tanto dire a Moni Ovadia (da lui ho imparato tanto, fin dai tempi del Gruppo Folk Internazionale; ho i suoi dischi e i suoi dvd) che sta sbagliando bersaglio anche lui, perché è inutile sensibilizzare chi è già sensibilizzato. L'attuale risorgere dell'antisemitismo e del nazifascismo nasce prima di tutto negli stadi del calcio, tra gli ultras: è con quella gente lì che bisogna confrontarsi, e non è facile. Io ho un ricordo nitido, purtroppo molto nitido, di battute e sarcasmi ascoltati negli ultimi quarant'anni, già a scuola, e poi sul lavoro; nel mio piccolo ho cercato di rispondere, di informare, ma l'ignoranza è una brutta bestia e con chi fa sarcasmi sulle ragazzine di tredici anni rapite e seviziate (come Anna Frank, come Liliana Segre) i dibattiti e i distinguo non servono. Possono essere utili ragionandone tra di noi, ma - appunto - siamo sempre qui a parlarne tra di noi, loro se ne fregano (citazione storica, ahimè) e pensano anche di essere furbi. E anche Michele Serra, che prende fiera posizione sui pagamenti senza contante, dimentica sempre di ricordare che con trecento o cinquecento euro al mese è dura tenere aperto un conto corrente; e su queste cose la destra specula e non poco, con le conseguenze che vediamo quando si va a votare.
 
E' un discorso complicato, lo so, e francamente non sono io quello che può salvare il mondo; ma le cure sbagliate, e le diagnosi sbagliate, non curano le malattie. Anche adesso, pochi minuti fa, ho sentito dire in tv (ed è l'ennesima volta) che la colpa di tutto è dei maschi, che i maschi sono violenti per natura, che qui sta il male. Mah. Io sono un maschio, per di più grande e grosso, ma non ho mai picchiato nessuno; e se volete vi porto un centinaio di esempi di maschi come me che non hanno mai picchiato nessuno, o di matrimoni felici che durano da quarant'anni e anche più. In compenso, sta aumentando il bullismo tra le ragazze. Mala tempora currunt, ma noi stiamo qui a contarcela tra di noi, ci innamoriamo di soluzioni semplicistiche, e anche questa è una forma di pigrizia mentale.

AGGIORNAMENTO al 3 dicembre 2019: adesso salta fuori anche il negazionista (professore universitario di diritto, pensa un po') che si appella alla libertà di pensiero per poter elogiare il nazismo; le risposte che leggo e ascolto sono poco adatte ai tempi che viviamo. Una risposta chiara e semplice è questa: dunque in un dibattito sulla pedofilia questo signore metterebbe un pedofilo di qua e le sue vittime di là, in nome della libertà di pensiero? E in un dibattito sui ladri in casa metterebbe un ladro di qua e un derubato di là, sempre in nome della libertà di pensiero?
Viviamo in tempi in cui la gente è distratta e smemorata, mai dimenticarselo quando si risponde: soprattutto se scrivi su Repubblica, sul Corriere, o se parli in tv.

lunedì 18 novembre 2019

Ingres e Degas

 
Come tutte le mattine, arriva il caldaista in laboratorio: deve fare le analisi sulle acque di caldaia, il pH e la conducibilità. Il caldaista cambia a seconda del turno, le analisi no: dalla caldaia dipende anche il demineralizzatore, e per esempio la misura della conducibilità dà un'idea della durezza dell'acqua, cioè del contenuto di sali. Più sali (cioè il comune calcare) ci sono nell'acqua, e maggiore sarà la conducibilità. L'acqua distillata non conduce elettricità, difatti; e l'acqua demineralizzata, se il lavoro è ben fatto, è praticamente la stessa cosa.
Il caldaista ha con sè due vasetti, tipo quelli della marmellata o dei sottaceti, con i suoi campioni d'acqua da analizzare. Sul coperchio bianco ci sono delle scritte col pennarello: ingres e degas. Io lo so cosa significano: sono le abbreviazioni di ingresso e degaso. O, meglio, è quello che si può scrivere, delle due parole, sul coperchio del vasetto (il resto non ci stava) ; ma ogni volta che mi capita di leggerlo la tentazione è troppo forte.
- Ma tu lo sai chi erano Ingres e Degas? - chiedo al caldaista.
- Ah, non so niente, non mi interessano queste cose qui. Non l'ho mica scritto io, li ho trovati così, i vasetti. Piuttosto, queste analisi qui dovrebbe farle il laboratorio, mica noi che non siamo mica periti chimici. Va bene quel valore qui? Sei sicuro che funziona bene questo strumento?
Peccato non aver sottomano un libro di storia dell'arte. Sono sicuro che al caldaista brontolone farebbe piacere dare un'occhiata ai dipinti dei due pittori francesi; probabilmente ammirerebbe Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867), e di sicuro gli piacerebbero le ballerine di Edgar Degas (1834-1917). Il libro dovrò portarmelo da casa, e mi riprometto di farlo, prima o poi.
 
 
 

sabato 16 novembre 2019

Il refuso germoglia ( IX )


Esistono, nel parlato e sempre più nello scritto, neologismi anche in inglese; molti di loro vengono anche scritti, e mettono in seria difficoltà gli strumenti di correzione ortografica. Io mi sono segnato agrire (to agree) e setappare (to set up). I refusi esistono però in tutte le lingue: I might be ear the end, cantava (forse) Enya.
E questo forse non è spagnolo, ma le istruzioni & metodi per perdere pesos sono geniali. Peccato che i pesos non ci siano più, in Espagna...

Altri refusi, tutti miei personali: lasciare i buoi nel buio, trasformare persone in pesone, eseguire un allineameno (cioè un allineamento, ma non troppo), accendere il fuco nel camino (chissà cosa ne pensano le altre api), magari svegliarsi di notte dopo un osgno, che forse non è un incubo ma come sogno non dev'essere un granché. E il brindisi dall'Amleto di Ambroise Thomas: ovin, discaccia la tristezza, (disse Amleto alla pecora...)
... e tutto il mio repertorio
di cose che non so
di cose che non uso
di cose che non oso
di use che non coso
di cose che non coso
da cosa nasce cosa
da coso nasce coso
che noia oh Dio che noia
domani ormai mi sposo
per ora mi riposo
da sposa nasce sposo...

Personalmente trovo molto fastidioso, anche se non è propriamente un errore, quando tu scrivi se no e invece ti esce se non . Ma queste cose le segnala sempre il correttore ortografico di word, insieme a tante altre amenità o suggerimenti inaspettati. Per esempio (esmepio?) scrivo dei versi della mia Arca di Noè, ed ecco che io scrivo topini, e il correttore ortografico suggerisce t'opini.
Ammetto che è un bel colpo di fortuna, e che io non ci sarei mai arrivato, da solo. Ne capitano di cose, a scrivere e batter testi... Quasi meglio che leggere un romanzo o andare a vedere un film, soprattutto con i tempi che corrono che di libri e film veramente belli ce ne sono sempre meno. Negli errori di battitura c'è, sicuramente, più suspence, e spero umilmente di avervi divertito con questi miei pochi mezzi.


Mi son portato qui una fisarmonica
che è fatta tutta delle mie avventure;
dalle fessure fuoriesce musica
ma anche le bellezze e le lordure
che ho seminato e che vi espongo impavido
sol per il gusto di narrare mie sventure.
Ed è una musica che scorre e che par pura,
e invece io vi compaio come un méndico
che non si sa cercar né se ne cura;
che invano chiede e risposta non attende
che ascolta e parla ma risposta non intende
che s'alza e corre e ama e non intende
e che il richiamo di Amore non intende -
è tempo, orsù, di andare e di levar le tende...


 


(continua)

giovedì 14 novembre 2019

Il refuso germoglia ( VIII )


Battendo un testo l'anagramma è sempre in agguato; e gli appassionati di enigmistica sapranno battezzare meglio di me gli eventi che seguono, forse dei neologismi ai quali provo a dare spiegazione plausibile:
riffare (rifare le estrazioni del lotto?); opeari (operai negli alveari?); diceci (invece di dieci) ; peperonauta (colui che attraversa una notte travagliata, tra incubi al bicarbonato, si direbbe ); Stati Unti (letto su un quotidiano...); pornostico (no comment).
Il chimico può facilmente vedersi confondere il ciclamino con la ciclammina, o magari il glucomannano con il lupomannaro; uno scrittore potrebbe trovarsi a scrivere dell'uomo invivibile (sarebbe un bel soggetto), oppure diventare un drammaturco (tragediografo bizantino?), oppure scrivere un romanzo uomoristico (umanista e umoristico). E, se fosse uno scrittore di gialli, trarre profitto da qualcuno che muore dal rudere.
Invece, ggrapparsi dà proprio l'idea di essere appesi ad un precipizio; ma chi mai cercherebbe asilo e protezione in un rifguio? E sarà lecito a uno scrittore di favole trasformare Tonino in un Tonno?
Trovo infine decisamente poetico lo scambio sognifica/significa (la o e la i sono vicinissime, sulla tastiera); ma sarebbe bello anche gaudagnare, cioè guadagnare con gaudio.


Storiche ostriche
tristi e stoiche
s'immolan tragiche
fra i nostri asparagi;
mancan le perle,
ma fra gli asparagi
forse un po' stonano
perfin le parole.
Io sto in disparte
osservo e medito
non amo asparagi
ma assaggio provole
non amo ostriche
ma ho amiche storiche
cui non dispiacciono
vongole amabili
giù nello stomaco.


Un'altra bella sagoma è lo scanner. Avete mai combattuto contro uno scanner, o meglio contro il suo software, incorporeo, assurdo, servizievole ma dispettoso? Basta poco, un puntino sulla carta di giornale, una carta un po’ ingiallita, un carattere tipografico particolare, per introdurre cambiamenti epocali, belli o raccapriccianti.
Per esempio, dopo aver cercato a lungo un libro con tutti i testi dei madrigali di Monteverdi, mi sono infine rassegnato a copiarli con lo scanner dai libriccini allegati ai cd. I caratteri di stampa però sono piccolissimi, e in questo caso il software ha dunque tutte le sue buone ragioni se "Ah dolente partita" mi diventa prima AH, DOLEN'E pZh'lu! e poi AH, d.leme p t. ; e se l'idol mio diventa L'idol inio (tra Metastasio e Guerre stellari...).

Ho portato sul computer qualche altro articolo (non molti), ed ecco una piccola antologia di cose che non avrei mai pensato d’incontrare: ariagrammi (anagrammi); crifico (critico) ; trainato (tramato); pretonde (pretende); orinai (ormai) ; semanfico, matemafico, ricombiriate (ricombinate); pennutazioni (permutazioni); squafiore (squallore) ; inondo (mondo) ; interiorniente; bicerto (incerto) e infine, parlando di un filosofo, apprendo che il suo maestro è raclito.

Ah, dolente partita!
Ah, fin de la mia vita!
Da te parto e non moro?
E pur i' provo
La pena de la morte,
E sento nel partire
Un vivace morire,
Che dá vita al dolore
Per far che moia immortalmente il core.
Guarini: "Il pastor fido 111, 3
(Claudio Monteverdi, Quarto Libro dei Madrigali)



(continua)


martedì 12 novembre 2019

Il refuso germoglia ( VII )


Sono qui, un po' imbarazzato, a contemplare me steso. Infatti, mi è appena arrivata una e-mail: come puoi vedere da te steso...
Beh, pazienza. Cosa ci posso fare, capita. Avrei preferito un me esteso, ma forse era chiedere troppo. Mi rialzo e tiro giù un po' di polvere dai vestiti, poi si vedrà. Tutto questo dà da pensare, bisognerebbe evitare gli errori ma prima o poi ci si casca dentro. E' inevitabile, stante la nostra natura umana e fallibile.
 
A volte i nostri errori sono leggeri e svaniscono subito, altre volte lasciano lividi e ammaccature, altre volte ancora lasciano ferite che fanno male. E quasi mai impariamo dai nostri errori, che pure avrebbero molto da insegnarci.

SOFFERENSA
Soffro di sofferenza
mista a riconoscenza
io non so farne senza
ma se potessi appena...
Soffro per la tua assenza
cerco la tua presenza
io non so farne senza
e quasi quasi vengo
vengo a trovare te.

Molti errori avvengono in togliere: basta poco per trasformare un'autopista in un'utopista, magari con la testa fra le nuvole; bisogna invece aggiungere qualcosa in altri casi. Una C, per esempio, può trasformare un aquilone in un acquilone, e il drago di carta non s'apparenta più all'aquila che vola ma all'acqua che scorre. Gli errori sono come le erbacce nel nostro giardino: alcune infestano e basta, altre è un peccato strapparle.
Per esempio, Esmepio: Esmepio, chi era costui? Vi giuro che arrivarci non è stato facile: ancora non so come ho fatto, ci ho riprovato sei o sette volte, anche a occhi chiusi, giocando sulla tastiera del pc ma senza più riuscire ad evocare lo spettro di questo misterioso filosofo d'un altro mondo, mondo di ombre erranti. Infatti, Esmepio non è un antico greco seguace di Esculapio, e neanche uno dei dialoghi socratici; e se scrivo "Per Esmepio!" non si tratta di un'imprecazione ma di un peresempio qualsiasi, anch'esso corrotto (corretto?) e deformato dall'errore. Ma basta con la filosofia, se no si diventa noiosi.

Felicemente
con l'alacre mente
pondero;
infine penso
ma senza insistere
che sono un bischero
fatto di sughero
e mi sollucchero
con versi insipidi.
Ahimè insensibili
versi invisibili
poco solubili
fatti di zucchero
e tante lacrime.


(continua)

domenica 10 novembre 2019

Ufficio complicazione affari semplici

Come si fa per conoscere la quantità di sostanza attiva presente in uno shampoo? Quella che lava e che fa schiuma, intendo. Il metodo ufficiale prevede questa procedura: si mette una quantità pesata di detergente in un cilindro, si aggiungono un po' di cloroformio e l'apposito indicatore, e poi (goccia a goccia, o quasi) il reagente. Si sbatte il tutto, si aspetta un attimo che il cloroformio si separi (sul fondo, il cloroformio ha un peso specifico superiore a quello dell'acqua) e se ne osserva il colore. Il cambiamento di colore, dovuto all'indicatore, indica la fine dell'analisi; si mettono i dati in una formula (quantità di reagente, quantità di detergente pesato, eccetera) e si ottiene il dato cercato - il cosiddetto "metodo Epton". Questo succedeva prima dell'avvento degli elettrodi per titolazione, non molto tempo fa; immagino che il metodo con il dimidio bromuro (è il nome dell'indicatore, in miscela con disulphine blau se non ricordo male) si usi ancora in qualche laboratorio, ed è molto bello conoscerlo ma se si riesce a fare a meno del cloroformio è tutta salute guadagnata.

Lavorando in un'industria che produce detergenti, e che ha un impianto di notevoli dimensioni, essere veloci e precisi è importanti. Con un po' di esperienza, gli analisti diventano veloci e precisi; ma ormai dappertutto usano gli elettrodi per titolazione, e anche per noi è meglio adeguarsi. Il Direttore di Fabbrica decide quindi di partire con l'elettrodo invece del dimidio bromuro, e si fa la necessaria sperimentazione a parte. La Dottoressa, capo del laboratorio, è entusiasta (però lei non c'è mai, in laboratorio); io esprimo sottovoce le mie preoccupazioni all'amico Pierluigi, che ha condotto le prove con l'elettrodo. Le mie perplessità sono queste: l'elettrodo ha bisogno di manutenzione continua, va controllato e sistemato quasi ad ogni analisi. Sempre sottovoce, Pierluigi conferma: siamo vecchi del mestiere e conosciamo bene i nostri colleghi, c'è il volonteroso che fa pasticci, c'è Enzo che teorizza apertamente che dobbiamo avere una persona apposta per riempire le bottiglie dei reagenti... Mamma mia, tempeste in arrivo.

Si parte, e subito i conti non tornano. Il Dottor Biribò (direttore di produzione da moltissimi anni) non si fida e chiede che si faccia tutto "in doppio", cioè sia con l'indicatore che con l'elettrodo: ma proprio tutto, analisi d'impianto, analisi sui prodotti finiti, tutto. Siamo ormai sull'orlo del burrone, la confusione e la frenesia cominciano a regnare; a questo punto arriva anche il dottor Donato, alto dirigente delle Vendite; dice che i clienti (anzi, i Clienti) si lamentano e minacciano di troncare ogni rapporto con noi e ordina (intima) che si trascrivano tutti i dati di tutte le titolazioni, cc consumati, pesate, moltiplicazioni, tutto. Dato che le macchinette salvano i dati sulla scheda interna, oppure su foglio tipo scontrino del supermarket, bisogna per forza di cose ricopiare tutto a mano sui quadernetti. Dati che, si può già immaginare, non controllerà mai nessuno: ma così si comincia a fare. Poi Biribò non si fida ancora (è diffidente per natura), fa rifare ancora tutte le analisi e tutte in doppio; gli elettrodi del titrino vanno in tilt definitivamente o quasi. Come previsto, i nostri colleghi non hanno fatto manutenzione. Stavolta hanno delle giustificazioni, ma del resto c'è chi non fa mai manutenzione: anche le bilance analitiche sono messe male, piene di liquido, sporche, non si capisce come facciano a funzionare. Quanto al bancone, meglio avvicinarsi con tutte le cautele: chissà cosa potrebbero essere quelle patacche e quelle montagnette di roba abbandonata. "Non spetta a me" dice da sempre Enzo su domanda precisa, più volte nel corso degli anni.

In tutto questo casino, che va avanti per mesi, la nostra Dottoressa (in teoria responsabile del laboratorio) quasi sparisce: passa in secondo, terzo, quarto piano. Comanda il primo che passa (Biribò, Donato, il Direttore, chiunque). Gli elettrodi sono sottoposti a stress continuo, troppe analisi; la verità è che servirebbero più elettrodi, e soprattutto servirebbe un controllo già in impianto (cosa che farà, da subito, la Ditta che acquisterà il nostro stabilimento: ma solo qualche anno dopo). So che Pierluigi (sempre sottovoce) mi dà ragione, ma non serve a niente e si va avanti così, a rifare le stesse analisi fino a dieci volte, a trascrivere su foglietti e foglietti i calcoli delle analisi che poi nessuno va a leggere. Una follia. Biribò furente, Donato è serissimo e incazzato, la Dottoressa è messa in disparte, il Direttore è in Germania o forse in Spagna, l'impianto di solfatazione va avanti a vista, praticamente senza avere i dati perché non si riesce mai ad avere un dato di cui si fidino i capi. Adesso portano campioni su campioni, ogni mezz'ora o venti minuti, ed è una follia totale: abbiamo due soli elettrodi con il titrino, due sole burette, due soli analisti per turno e c'è da guardare anche tutto il resto della fabbrica. Campioni su campioni, trascrivere tutto, firmare tutto, e intanto fare anche tutto il resto, gli altri reparti, il magazzino, le autobotti in entrata e in uscita...
(i miei ultimi mesi in laboratorio, anno 2003) (mesi, non giorni o settimane)

In seguito, la ditta verrà rilevata da un'altra multinazionale e le analisi si faranno direttamente nei reparti, come era giusto che si facesse fin da subito. Biribò, messo in pensione dai nuovi dirigenti, non ha mai capito che la struttura "familiare" in cui aveva cominciato a lavorare, in cui tutto deve passare dal laboratorio, non aveva più senso da quando era arrivato il nuovo e potente impianto di solfatazione, e si era triplicata o quadruplicata la produzione oraria. Era molto facile accorgersene, ma io non potevo dirlo apertamente in consiglio di fabbrica quando si discuteva sugli inquadramenti e si dicevano cose del tipo "voi siete operai e agite su indicazioni scritte" (ma le indicazioni scritte non c'erano...) perché andava contro i miei interessi, e anche contro gli interessi degli altri lavoratori nei reparti. Era tutto molto evidente, ma ovviamente la colpa andava data agli analisti infingardi. Così va, o meglio così andava - oggi non so, non lavoro più lì da tanto di quel tempo.

PS: la mia classifica personale, in ordine di stupidità, vede al primo posto il dottor Donato (trascrivere tutto??? a mano, con la biro??? ma quando mai, forse nei laboratori di ricerca...) e all'ultimo il dottor Biribò, povera anima, che trova tutte le mia comprensione anche se non la mia simpatia (per quel che conta, cioè zero). Nel mezzo, ma non saprei dire in quale posto, il Direttore di Fabbrica che non ha saputo o potuto scegliere un capo di laboratorio degno di questo nome. Quanto alla Dottoressa, mi spiace dirlo perché io avevo fatto il tifo per lei ed ero contento, agli inizi, di avere una donna come capo, ma devo dichiararla non pervenuta. Impossibile dare un voto a chi non c'è.

giovedì 7 novembre 2019

Il razzismo negli stadi


La questione del razzismo negli stadi torna periodicamente, e con molta frequenza. Le domande da porsi sono molte, la questione si trascina da tanto di quel tempo che finisce per sembrare irrisolvibile; per provare a fare un po' di ordine prendo le dichiarazioni del capo degli ultras del Verona, apparse in questi giorni sulla stampa.

La prima cosa che mi ha colpito è l'appartenenza di questo capo ultras a Forza Nuova: se non ho capito male, un dirigente di Forza Nuova. Non è una novità, praticamente tutti gli ultras sono di estrema destra, e spesso confondono il tifo per una squadra di calcio con un'organizzazione paramilitare. Questo è il primo punto di cui si dovrebbe discutere, cioè come sia stato possibile che organizzazioni dichiaratamente nazifasciste e dichiaratamente razziste abbiano potuto prosperare in tutti questi anni (venti, forse trent'anni di propaganda senza che si sia cercato seriamente di fermarli).

Il secondo punto è la parola "negro": qui il capo ultras ha ragione, è una parola italiana e di per sè non va considerata offensiva. Negro viene dal latino, niger, nigra...in quasi tutti i dialetti italiani parole molto simili a "negro" equivalgono a "nero". In spagnolo, "negro" è proprio la parola che si usa per definire il colore nero. Su questo punto si potrebbe sorvolare ed evitare di fare polemiche che fanno perdere tempo, tanto più che perfino Martin Luther King usa spesso le parole "Negro people" nei suoi discorsi, e Leopold Senghor usò la parola "Négritude" (Negritudine) con orgoglio. Ma so già che è una battaglia persa, la parola "negro" resterà come un'arma nelle mani dei razzisti quando invece potrebbe essere smontata facilmente con un sorriso.

Il terzo punto riguarda la presenza di calciatori dalla pelle scura in tutte le squadre di calcio, a tutti i livelli. Quando il capo ultras del Verona fa notare che anche nella sua squadra ci sono dei "negri", dice una cosa ovvia e andrebbe ascoltato. E' dunque razzismo quello che c'è negli stadi? Io direi che è qualcosa di peggio, è pura e semplice stupidità, una stupidità colossale. L'idea dei cori razzisti nasce dal pensiero di mettere in difficoltà i calciatori avversari: e per far questo ogni cosa va bene. Se si viene a sapere che a un calciatore della squadra avversaria è morta la madre, si fanno cori contro la madre di questo calciatore. Se si viene a sapere che il figlio di un calciatore avversario ha una grave malattia, si fanno cori contro il figlio (bambino) del calciatore avversario. Funziona questa tattica? Alle volte sì, per esempio in un Inter-Napoli il senegalese Koulibaly venne talmente esasperato da avere una reazione nervosa (non violenta) per la quale venne espulso: volete sapere come finì la partita? Koulibaly scontò la sua squalifica, gli autori della provocazione rimasero impuniti.

Quarto punto, poi mi fermo perché tanto so già che non serve a niente ragionare e che tutto continuerà come prima, ad offendersi sulla parola "negro" per esempio. Il capo ultras del Verona dice un'altra cosa interessante, questa: "Che cosa mi faranno? Mi faranno arrestare dalla commissione Segre?". Una frase terrificante, orribile se si pensa che Liliana Segre è passata, da bambina, attraverso i lager nazisti. "Una vecchia non eletta in Parlamento", si aggiunge; ed è ancora più orribile, perché in Parlamento sono stati eletti di recente dei capi ultras. Vale a dire: invece di fermare il fenomeno degli ultras li si è incoraggiati, non solo a Bergamo o a Verona ma anche (soprattutto) a Roma, sui due versanti Roma e Lazio.

Che dire? Questi ultras sono pericolosi, spesso protagonisti di scontri di piazza con poliziotti feriti e città messe a soqquadro (eufemismo). Il capo ultras del Verona irride polizia e magistrati, e purtroppo per noi può farlo. Ci sono responsabilità politiche precise dietro questa deriva, e mi fa effetto vedere che nessuno le ricorda, e che anzi i promotori e i difensori di movimenti come Forza Nuova e Casa Pound siano intervistati in merito e dicano parole di circostanza.
Il razzismo negli stadi è una maschera, dietro la quale si nascondono interessi preoccupanti. O, meglio, che dovrebbero preoccupare: invece ci si nasconde dietro a parole ormai svuotate di senso.
Cosa si può fare, dunque? Molto: tanto per cominciare, a Torino la Juventus ha denunciato questi ultras, e la polizia è intervenuta; e la società calcistica del Verona ha vietato l'ingresso alle partite a questo capo ultras per i prossimi dieci anni. Cosa aspettano le altre società?

martedì 5 novembre 2019

Il vecchietto in automobile


In queste settimane si sono verificati molto incidenti d'auto spaventosi, con morti e feriti; difficile tenerne il conto ma una cosa mi ha colpito, i guidatori (o le guidatrici) erano sui 25-40 anni, cioè l'età in cui, secondo i luoghi comuni più frequenti, una persona dovrebbe essere al meglio per quanto riguarda la prontezza di riflessi e l'esperienza di guida. Se si vanno a guardare le statistiche, la prima causa di incidenti, di quelli gravi, è la velocità eccessiva; poi viene l'uso del telefonino mentre si guida, e quindi alcool e droghe. Dai resoconti in cronaca, spesso queste tre cause sono presenti tutte insieme. E, spesso, causa degli incidenti è la segnaletica poco leggibile o poco chiara.

Dato che conosco diverse persone anziane (sopra gli ottanta, intendo) so cosa si deve passare per avere la patente a quell'età: revisione biennale, visite mediche costose, una vera e propria vessazione nata dal luogo comune che vuole il "vecchietto alla guida" come causa di tutti i mali. Una volta detto che i controlli sanitari sono più che necessari (constatazione ovvia), nessuno ricorda mai che gli anziani sono quelli che hanno veramente bisogno dell'automobile. Gli anziani, le donne incinte e i disabili: disabili momentanei compresi (fratture, slogature...). Gli altri, i più giovani, potrebbero anche usare i mezzi pubblici o la bicicletta. Il vero problema, a mio parere, è che ad occuparsi di mobilità e di patenti sono quasi sempre gli appassionati di automobile; in tv chiamano a dare consigli i piloti di rally e di formula uno, e questo viene presentato come una scelta logica ma non ne sarei tanto sicuro. Il vero passo in avanti ci sarà quando si smetterà di pensare all'automobile e alla moto come un fatto agonistico, quindi i piloti di rallies e di formula uno dovrebbero limitarsi a fare il loro mestiere e non essere chiamati come esperti. Secondo me, un tassista o un guidatore di autobus ne sanno molto di più, su che cosa è la strada e su come si guida.
Tanti anni fa avevo una Dyane 6: impossibile correre con la Dyane, aveva un motore piccolo ed era una macchina pesante; anche in autostrada al massimo si arrivava ai 120 all'ora, ma solo se lanciati e in discesa. Ecco, se la Dyane 6 fosse obbligatoria per legge, penso proprio che avremmo tanti incidenti in meno, ma tanti: e la storiella del vecchietto in automobile andate a raccontarla a qualcun altro, per piacere (a quando qualche statistica seria in proposito?).

PS: c'è anche un'altra questione, che riguarda le compagnie di assicurazione: i neopatentati pagano molto più degli altri di assicurazione, e direi che è giusto perché non si sa mai, l'esperienza arriva guidando. Ma, se il neopatentato guida bene e non provoca incidenti, altrettanto giusto sarebbe ridargli indietro quei soldi in più che ha pagato, magari un po' alla volta e sotto forma di sconti graduali. Fantascienza, voi dite? Mi sa di sì. Vrum vrum a tutti.

domenica 3 novembre 2019

Baby boom


Quando si cominciò a parlare di "baby boom", cioè di tutte le persone nate fra gli anni '50 e i primi anni '60, mi venne spontaneo pormi qualche domanda. Mi venne spontaneo anche perché io faccio parte di quel contingente, e quindi posso dire di essere informato sui fatti: in quel periodo sono nati tanti bambini, c'è stato un boom della natalità insomma. Lo si ripete ancora, e lo si dà per scontato: ma a me basta pensare alle generazioni precedenti alle mie, cioè ai miei genitori e ai miei nonni, per accorgermi che c'è qualcosa che non va in quel ragionamento. Per le generazioni precedenti alla mia, era frequente sentir parlare di sei, nove, dieci, perfino diciassette figli. A casa mia siamo tre, e anche tra i miei coetanei e compagni di classe il numero era più o meno quello; due mie cugine erano figlie uniche, i miei vicini di casa avevano due figli, mio cugino aveva due figli, insomma il conto non torna. Le cose cominciano a diventare chiare quando si completa il discorso che facevano quasi sempre i nostri nonni: erano frasi del tipo "nove figli, sei sopravvissuti". Sì, non è stato un "baby boom" quello degli anni '50 e '60, ma un calo della mortalità infantile. Sulfamidici e antibiotici, disponibili solo dalla fine degli anni '40, e i vaccini, e i dispensari dove si faceva prevenzione contro la tubercolosi: un lavoro capillare e meticoloso che ha ridotto moltissimo la mortalità infantile. Oggi viviamo in un mondo dove una donna che muore di parto è uno scandalo che finisce subito nel telegiornale nazionale: ma non era così prima degli anni '50 del Novecento. Insomma, "baby boom" è un ragionamento che non funziona, e basta poco per rendersene conto: noi "bambini degli anni '50" siamo sopravvissuti in tanti, e questo grazie ai vaccini e agli antibiotici. Poi, dopo, a partire dalla fine degli anni '60, sono arrivati gli anticoncezionali e da qui comincia il calo della natalità che dura ancora oggi.
 
Ecco dunque un altro dei luoghi comuni che si sentono ripetere ogni giorno, quasi sempre a vanvera. Sono tanti, denotano pigrizia e superficialità, e mancanza di professionalità se a ripeterli sono giornalisti di mestiere. A me dà molto fastidio sentirli ripetere in continuazione, anche quando è evidente che sono cose superate o mai state vere. Mi esercito quindi a smontarne qualcun altro, pur sapendo che è un esercizio del tutto inutile, viste le teste che circolano oggi nel mondo dell'informazione professionistica. Nei social media è molto peggio, ma almeno qui non si tratta di professionisti. Vado dunque avanti con il mio elenco di pigrizia, ignoranza, malafede, superficialità, e quant'altro ancora. Avverto soltanto che è un elenco lungo, chi mi legge dovrà avere un po' di pazienza e di costanza.
 

 
(le immagini vengono da "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, tanto per ricordare a chi parla di "baby boom" un'altra delle ragioni per cui i nati degli anni 50 e 60 sono ancora così tanti: da settantacinque anni, in questa parte del mondo, non si fanno guerre. Speriamo che le nuove generazioni riescano a fare altrettanto, i film come questo servono anche come lezione di vita - a noi questo film è servito, e molto).
 

 

venerdì 1 novembre 2019

Anna Frank è come Yara Gambirasio


Anna Frank è come Yara Gambirasio: una ragazza, poco più che bambina, rapita e uccisa in modo atroce. Nelle fotografie, Yara ha più un aspetto da bambina e Anna Frank sembra più donna, ma la differenza d'età è davvero poca. Ci vuole tanto a dirlo? Invece in questi giorni, dopo la stupidità dimostrata da un gruppo di tifosi di calcio, ho letto e ascoltato tanti balbettamenti, tanto girare in tondo ripetendo frasi fatte, perfino degli ammiccamenti e dei tentativi di sminuire il fatto. In questi casi io non vado nemmeno a discutere, chi ride o scherza su questi argomenti va emarginato e rieducato. Invece, non solo non va così ma passa perfino il messaggio (passa perfino su giornali come Repubblica o sul Corriere) che "per combattere la criminalità serve il fascismo": nel 1924, agli inizi del fascismo, ci fu chi portò in Parlamento le prove delle ruberie fasciste, lo scandalo di una Banca molto simile a quelle che succedono oggi. Fu ucciso dai fascisti, cioè ucciso dai criminali per nascondere i crimini. Il nome, per chi se lo fosse scordato, è Giacomo Matteotti. Matteotti, Gobetti, don Minzoni, e le decine e centinaia di Yara Gambirasio o di Anna Frank rapite e uccise in modo atroce dai fascisti e dai nazisti loro alleati. Ci vuole così tanto a dirlo?