sabato 22 febbraio 2020

El Alamein


Di El Alamein ho sentito parlare fin da bambino, ma senza sapere di preciso di cosa si trattasse; io immaginavo "la guerra" meglio che potevo, sapevo che c'era stata la guerra, uno zio disperso in Russia, altri parenti o vicini coinvolti, ma i dettagli non li conoscevo. A raccontarmi di El Alamein è stato un cugino di mio padre; le nostre famiglie andavano molto d'accordo e quindi lo vedevo spesso in casa. Io ascoltavo, e lui aveva bisogno di sfogarsi anche dopo tanti anni. Ho imparato così, nel corso degli anni, che fu una battaglia lunga e molto cruenta, più di due anni nel deserto del Sahara prima dello scontro finale.
Mi ricordo ancora bene le frasi che ripeteva più spesso: che i tedeschi avevano tutto e noi quasi niente, che l'acqua da bere sapeva di benzina perché la trasportavano nei camion che servivano anche per il carburante, che era cosa comune di rivolgere la parola a un amico lì vicino e accorgersi che era morto. E i pidocchi: anche nel deserto, in mezzo alla sabbia, anche nel gelo della notte, i pidocchi sopravvivono e sanno dove colpire; "ho ancora le cicatrici dove portavamo la cintura", diceva. Le cicatrici dei morsi dei pidocchi, non quelle dei proiettili: quasi un miracolo, perché il mio parente era un assaltatore - giù dal camion e correre, fucile in mano. "Di quattrocento siamo rimasti solo in quaranta", perché ti sparavano addosso. Lui di statura era piccolo, basso ma robusto e veloce; gli assaltatori li sceglievano così, se sei piccolo e svelto è meno facile che gli spari ti colpiscano. Meno facile, ma tutt'altro che impossibile. A un certo punto, dopo la battaglia finale, i superstiti si guardavano tra di loro e si dicevano: "o morto, o prigioniero". Di tornare a casa non si parlava più.

 Per fortuna, arrivò la resa; fatto prigioniero, Gigi (così lo abbiamo sempre chiamato) passò altri cinque anni prima di tornare a casa, ma il peggio era passato. Gli inglesi lo trattarono benissimo, come per tutti i prigionieri; il viaggio fu lungo, via nave, perché i prigionieri erano tanti e andavano scaricati un po' alla volta. Il viaggio toccò il Sudafrica, l'India, l'Australia, e infine la California dove Gigi se la passò benone anche da prigioniero, e qui nel ricordo cominciava a sorridere perché gli erano capitate cose comiche e anche belle avventure. "Sono tornato solo perché era previsto che tutti i prigionieri tornassero a casa", concludeva; dopo il rimpatrio sarebbe stato possibile tornare in California, ma al ritorno in Italia aveva trovato una ragazza con cui stava bene, si era sposato, e per un certo tempo (prima di sposarsi) venne ad abitare da noi, a casa di mio padre. Io sarei arrivato solo molti anni dopo, e ascoltandolo facevo fatica a credere che quell'ometto gentile e sorridente fosse passato attraverso tutte quelle cose, ma così era. Poche le ferite riportate: una scheggia di granata nel collo che era ancora lì, ma non dava fastidio, e la rottura del timpano di un orecchio. Però, come mi racconta mia mamma, di notte Gigi aveva gli incubi; alle volte bisognava svegliarlo, gridava nel sonno, El Alamein era ancora lì con lui.

Da adulto poi mi sono informato, e ho dovuto constatare che su El Alamein ci sono tanti libri e troppi pareri che non aiutano a capire. Il racconto del mio Gigi, mite operaio con basso livello di istruzione, concordava invece con quello dei reduci da altri fronti, anche ufficiali e laureati come Rigoni Stern o Bedeschi per il fronte russo, o come Mario Tobino sul fronte libico: il valore dei soldati italiani non era in discussione, quello dei capi (fascisti o fascistissimi) invece sì. "I tedeschi avevano tutto, noi non avevamo niente": questa piccola frase nasconde la triste verità della guerra condotta dai fascisti. Dopo vent'anni di chiacchiere, di "sabati fascisti", di retorica sulla romanità, di salti nel cerchio di fuoco, e quant'altro ancora, al momento di combattere l'Italia fascista fu subito sconfitta e sbaragliata su tutti i fronti, non solo dagli inglesi ma anche dai greci e dai russi; ma di questa verità non troverete facilmente traccia nei libri che ricostruiscono la battaglia di El Alamein perché sono quasi tutti stati scritti da nostalgici del duce più o meno dichiarati.

 A El Alamein ancora oggi c'è una targa, molto grande: "mancò la fortuna, non il valore". Gli storici seri, studiando le forze in campo e basandosi su quello che è realmente accaduto, dicono che il valore dei soldati italiani è certo e riconosciuto anche dagli inglesi e dagli americani; ma che la fortuna con El Alamein non c'entra proprio nulla. El Alamein era una battaglia persa in partenza, troppo più forti inglesi e americani, i mezzi a disposizione degli Alleati (aerei, carri armati, armamenti, rifornimenti) non davano molto spazio alla retorica. Quelli come Gigi, e come i tanti soldati che a sua differenza non sono più tornati, erano solo "carne da cannone". Tristemente, Gigi era stato mandato a El Alamein per morire; e invece era tornato, per la mia fortuna e per quella della sua famiglia, e di tutte le persone che gli hanno voluto bene.

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