- Volete anche l’amarena, bambini?
La mamma ci aveva dato i soldi per il gelato, da prendere al bar sotto casa. Io avevo sei o sette anni, mia sorella due di più; il signore che vendeva i gelati era una presenza familiare, aveva una figlia dell’età di mia sorella. Insomma, se quel signore così gentile, quasi un amico, voleva offrirci l’amarena, di quelle del vasetto, con un po’ di sciroppo dolce... Invece no, l’amarena ce l’ha fatta pagare. E cara: dei soldi che ci aveva dato la mamma non era rimasto più niente, e quel gelato con l’amarena è stato difficile da mandare giù – tanto è vero che me lo ricordo ancora oggi, dopo più di quarant’anni.
Però la lezione mi è servita, mai fidarsi. Triste da imparare a sette anni, ma così almeno ho saputo decifrare e decodificare quello che successe quando ci fu il cambio della nostra moneta, dalla lira all’euro. La destra ne fece un suo cavallo di battaglia, e il loro grido di guerra risuona ancora oggi: «L’Euro di Prodi!» (da declamare con sdegno).
In realtà, il passaggio dalla lira all’euro era un semplice fattore matematico, moltiplicare per, dividere per. Se qualche negoziante ha venduto per un euro ciò che costava mille lire, o peggio, la colpa è del negoziante e non del cambio della moneta. Si sa che, da sempre, quando vai in vacanza all’estero bisogna fare attenzione al cambio perché ti fregano. La situazione qui, con l’Euro di Prodi, era identica: bisognava fare attenzione al cambio. E non era facile, ancora oggi mi sorprendo anch’io a pensare sbagliato di fronte ai prezzi in vetrina: un paio di scarpe a cento euro sembrano regalate, invece costano care – ma penso che per i ventenni di oggi, quelli che non hanno mai pensato in lire, sia tutto più chiaro.
Mi stupisce invece che tanti siano caduti nel tranello di quello slogan disgustato, “l’Euro di Prodi”. Innanzitutto perché fu una decisione presa da tutti i governi europei insieme; si poteva e si può discutere, ma non era certo “di Prodi”. Ma soprattutto perché se un negoziante vende a dei bambini, o a degli anziani, un gelato per il doppio del prezzo, è una truffa: roba magari da poco, ma una vera vergogna. Eppure gente così esiste, non solo non si vergognano ma sono convinti che sia giusto, e che se esistono “i fessi” è bene approfittarne; e oggi c’è perfino chi lo teorizza apertamente.
Non mi ricordo se io e mia sorella ne avevamo parlato a casa, la rabbia era troppo grande e la voglia di gelato era passata, e ci volle del tempo per tornare a mangiarne volentieri. Di sicuro posso dire una cosa: che è dal 1965 che io so di che materia è fatta la gente che vive in questo Paese, e quando ne trovo conferma posso esserne rammaricato ma non certo sorpreso. Per qualche anno mi sono illuso, pareva davvero che il mondo fosse migliorato ma così non era (ma piacciono ancora ai bambini le amarene sul gelato? temo che siano passate di moda...).
Aggiornamento al luglio 2012: dopo la stagione degli europeisti, come Prodi (che fu presidente della Commissione Europea) in Europa sono arrivati al potere gli euroscettici, quasi tutti di destra. Come volete che vada a finire l'Euro, se lo affidate agli euroscettici?
Promemoria per quanti rimpiangono la lira: di che lira state parlando? Perché c'è differenza, la lira del 1970 non è quella del 1975, in mezzo c'è la prima grande crisi petrolifera, l'inflazione galoppante... invece si continua a pensare e a dire (anche in tv, anche da commentatori famosi e rinomati) come se fosse sempre stato il dividere e moltiplicare per 1936,27: nossignori, quello era il cambio di dodici anni fa. Nel frattempo le cose sono cambiate, quel cambio, quel dividere o moltiplicare per due più gli zeri, è completamente insensato, è come vendere oro ragionando sui cambi del 1978, senza senso. Un piccolo esercizio per concludere: in uno dei suoi primi sketch in tv, appunto nel 1978, Roberto Benigni se la prendeva con il costo della tazzina di caffè al bar: centocinquanta lire, un furto. Ecco, adesso andate a prendere la calcolatrice, dividete e moltiplicate per 1936,27 e fate il confronto con il costo del caffè al bar come è oggi. Qualcosa non torna? (i cambi cambiano, lo dice la parola stessa...)
sabato 30 gennaio 2010
venerdì 29 gennaio 2010
«Sì, ma per fare cosa?»
Due piccole notizie apparse in questi ultimi giorni: i gridolini di giubilo verso il progresso della scuola “che non ha più i quaderni” (perché d’ora in poi si farà tutto al pc) e la protesta di alcune famiglie per aver trovato sul diario scolastico dei figli una canzone fascista, dettata dalla maestra perché fosse imparata e cantata in gita.
Per intendersi: io avevo già un Commodore negli anni ’80, a me il computer piace e mi sono sempre tenuto aggiornato – ma davanti a questi giubili ed entusiasmi perché “non si usa più la biro e il quaderno e quindi è arrivato il progresso” mi viene voglia di buttar via tutto e tornare alla penna col pennino e il calamaio. Il progresso sta nelle coscienze, se si accoppia il gadget tecnologico con le canzoni fasciste (che, per chi non lo sapesse, portano una sfiga tremenda) tanto vale tornare allo stilo e alle tavolette incerate degli antichi romani.
Per intendersi: io avevo già un Commodore negli anni ’80, a me il computer piace e mi sono sempre tenuto aggiornato – ma davanti a questi giubili ed entusiasmi perché “non si usa più la biro e il quaderno e quindi è arrivato il progresso” mi viene voglia di buttar via tutto e tornare alla penna col pennino e il calamaio. Il progresso sta nelle coscienze, se si accoppia il gadget tecnologico con le canzoni fasciste (che, per chi non lo sapesse, portano una sfiga tremenda) tanto vale tornare allo stilo e alle tavolette incerate degli antichi romani.
martedì 26 gennaio 2010
Una razza superiore
Felix Mendelssohn, Bruno Bettelheim, Gustav Mahler, Bruno Walter, Harpo Marx, Oliver Sacks, Arnold Schoenberg, Stanley Kubrick, Leonard Bernstein, Alban Berg, Ernest Bloch, Max Bruch, Daniel Barenboim, Yehudi Menuhin, Itzhak Perlman, Jakob Liebmann Meyerbeer, Jacques Offenbach, Artur Rubinstein, Jerry Lewis, Moni Ovadia, Franz Kafka, Primo Levi, Italo Svevo, Isaac B. Singer, Marc Chagall, Ignatz Semmelweiss, Siegmund Freud, Heinrich Heine, Albert Einstein, Gustav Meyrink: non finisce più, la lista di ebrei sui miei scaffali. Gente che mi ha tenuto compagnia, che mi ha insegnato tante cose, che mi ha regalato emozioni meravigliose ed esperienze che mi hanno aiutato a crescere. E pensare che c'è ancora gente così ignorante che alla parola ebreo associa subito quella di tirchio, di usuraio, di sionista. E pensare che abbiamo al governo e in Parlamento persone così ignoranti da aver “sdoganato” i neofascisti (a fine 1993: con conseguenze nefaste sulla coscienza civile della nazione) e da pensare che “par condicio” sia dare uguale spazio e pari dignità alle vittime e ai loro assassini. A me invece viene sempre più da pensare che siano davvero una razza superiore, questi benedetti ebrei; e se penso a tutte le volte che mi sono trovato a discutere, o magari a litigare, per “difenderli” (!), mi viene quasi da chiedere a loro asilo, in questo triste momento storico.
Poi ci sono tanti tanti scienziati, così tanti che non possiamo guardarci intorno senza vedere qualcosa che non sia stato scoperto da “uno di loro” (uno dei nostri, grazie al Cielo!) (a proposito, ma che brutto modo di ragionare, dire “uno dei nostri” e “uno di loro”). E poi Enrico Fermi (che aveva la moglie ebrea, e che per questo dovette scappare dall’Italia fascistarazzista del 1937), e Charlie Chaplin, che ebreo non era ma che al padre (birichino) doveva un fratello ebreo, e che così rispose sorridendo alla fatidica domanda: - No, non ho questa fortuna.
Anch’io “non ho questa fortuna” e ogni tanto mi dispiace. Ma mi dispiace ancora di più, in questo inizio di 2006, dover incontrare gente che ha studiato fare discorsi brutti e inaccettabili: passi per le persone ignoranti, ma almeno i laureati, i preti, le persone ricche e colte, i professori e i ministri, e perfino i presidenti del Senato, dovrebbero avere il compito di educare e invece fanno esattamente il contrario. E questa è davvero la tristezza più grande, in questo inizio di millennio.
PS: Questo brano l’ho scritto quattro anni fa, come si vede; ogni tanto lo aggiorno e cerco di completare la lista, che è sempre incompleta perché i nomi sono tanti e perché di solito non perdo tempo a chiedermi di che religione è uno che mi piace. Nell'anno 2009, proprio alla vigilia della Giornata della Memoria, papa Benedetto XVI ebbe un’altra uscita memorabile: ecco, almeno la Chiesa, almeno in questi giorni, quell’uscita poteva risparmiarsela. Speriamo che quest'anno vada meglio.
Poi ci sono tanti tanti scienziati, così tanti che non possiamo guardarci intorno senza vedere qualcosa che non sia stato scoperto da “uno di loro” (uno dei nostri, grazie al Cielo!) (a proposito, ma che brutto modo di ragionare, dire “uno dei nostri” e “uno di loro”). E poi Enrico Fermi (che aveva la moglie ebrea, e che per questo dovette scappare dall’Italia fascistarazzista del 1937), e Charlie Chaplin, che ebreo non era ma che al padre (birichino) doveva un fratello ebreo, e che così rispose sorridendo alla fatidica domanda: - No, non ho questa fortuna.
Anch’io “non ho questa fortuna” e ogni tanto mi dispiace. Ma mi dispiace ancora di più, in questo inizio di 2006, dover incontrare gente che ha studiato fare discorsi brutti e inaccettabili: passi per le persone ignoranti, ma almeno i laureati, i preti, le persone ricche e colte, i professori e i ministri, e perfino i presidenti del Senato, dovrebbero avere il compito di educare e invece fanno esattamente il contrario. E questa è davvero la tristezza più grande, in questo inizio di millennio.
PS: Questo brano l’ho scritto quattro anni fa, come si vede; ogni tanto lo aggiorno e cerco di completare la lista, che è sempre incompleta perché i nomi sono tanti e perché di solito non perdo tempo a chiedermi di che religione è uno che mi piace. Nell'anno 2009, proprio alla vigilia della Giornata della Memoria, papa Benedetto XVI ebbe un’altra uscita memorabile: ecco, almeno la Chiesa, almeno in questi giorni, quell’uscita poteva risparmiarsela. Speriamo che quest'anno vada meglio.
domenica 24 gennaio 2010
Merluzzo
Mio padre era andato a vedere una partita di calcio a Parma, e si divertiva ogni tanto a raccontare che i tifosi locali insultavano l’arbitro dicendogli “marlùss”, merluzzo. Non so bene a che periodo si riferisse, forse agli anni ’50, io ero molto piccolo e lui già ne parlava al passato.
L’epiteto era davvero bizzarro, e anch’io mi divertivo a sentirlo raccontare: dato che mia mamma è di Parma, la parola mi suonava familiare e buffa allo stesso tempo. Erano i tempi in cui il massimo della volgarità e della violenza erano del tipo “arbitro cornuto”, tempi felici (ma allora non lo si sapeva) che sarebbero durati a lungo, fino a tutti gli anni ’70. Per intenderci: il mondo del calcio aveva mantenuto una sua innocenza anche nel mezzo degli anni ’70, anni di bombe e di depistaggi, di terrorismo e rapimenti di persona, non certo anni tranquilli. Poi, da un certo momento, è cambiato tutto; e non so quanti sono oggi i padri che se la sentono di portare i bambini allo stadio. Magari ce li portano, ma con molta preoccupazione.
Come siamo arrivati a questo punto? Difficile dirlo, forse un po’ alla volta, sottovalutando i problemi, come capita sempre. Ma, di sicuro, c’è stato chi ha giocato duro, con il tifo calcistico.
Dai miei ricordi, si è cominciato negli anni ’80, con il grido “devi morire” rivolto ai calciatori in campo, quelli che avevano preso una botta e si rotolavano dal dolore; e non tutti facevano finta, le botte sulle caviglie fanno male – dura un attimo, ma è un male boia. “Devi morire” era una battuta da caserma: lo dicevano i “vecchi” (cioè quelli che erano lì da un anno, di leva) alle reclute appena arrivate. Forse in caserma queste battute avevano un senso (ne dubito), certo allo stadio erano brutte da sentire.
Poi anche il “devi morire” non è bastato più, si è passati all’apparentemente innocuo “chi non salta piripiri è” (piripiri sta per il colore della maglia dell’avversario), si è passati all’ostentazione di teschi e di simboli nazifascisti (ignorando che sono simboli di sconfitta, gli slogan mussoliniani portano una sfiga tremenda), poi alcuni politici improvvisati hanno parlato di “discesa in campo” e di “fare squadra” (la loro unica cultura essendo quella calcistica), poi si è passati alle bande organizzate... Tutto questo è stato tollerato, spesso anzi coltivato con cura, mentre gli addetti ai lavori continuavano a parlarne come di bande di giovinastri esuberanti o di hooligans: gli hooligans c’erano in Inghilterra, ma rispetto ai nostri c’era quantomeno una spiegazione, se non un’attenuante: quando commettevano delle violenze erano sempre ubriachi persi.
La strada che si sta seguendo oggi, negli ultimi mesi, è questa: la “tessera del tifoso” (qui managers e ministri vengono tutti dal marketing, il rimedio per tutti i mali è sempre una tesserina magnetica: ma negli stadi le telecamere esistono da quarant’anni, identificare i violenti e isolarli non sarebbe difficile), si parla di “fidelizzazione”, eccetera. Nelle ultime settimane, inoltre, si è decisa una grande novità, cioè che le partite si giocheranno spalmate per tutta la settimana; e io mi chiedo, come si fa a stare dietro al calcio se devi ricordarti ogni volta in che giorno gioca la tua squadra? Il calendarietto settimanale se lo faranno solo loro, gli ultras; i lavoratori, gli studenti e i padri di famiglia hanno altro a cui pensare. Forse è proprio questo che si vuole, gli stadi vuoti in mano agli ultras organizzati. Un mondo del calcio solo televisivo, con tanti abbonati “fidelizzati” che se ne stanno a casa a giocare con le loro brave carte magnetiche prepagate.
Non so, ogni tanto passano anche in tv i vecchi film degli anni ’60, dove magari c’è Gassman che fa il tifoso: i giovinastri esuberanti erano più o meno così, c’era già qualcuno che faceva a cazzotti e che aspettava l’arbitro alla fine della partita, e non era bello ma è senz’altro meno bello come si fa oggi.
Ripenso spesso a quel racconto di mio padre (grande appassionato di calcio, ma non tifoso), e ho una grande nostalgia dei “marlùss” e degli arbitri cornuti. Per quanto mi riguarda, sarei intervenuto subito. Io mi sono fermato molto prima, ai “devi morire”; gridare queste cose a un ragazzo di vent’anni è già ben oltre la mia personale sensibilità, ma ormai questi miei discorsi non hanno nessuna utilità pratica, il mondo è andato da un’altra parte. Che dire? Io avevo votato contro...
L’epiteto era davvero bizzarro, e anch’io mi divertivo a sentirlo raccontare: dato che mia mamma è di Parma, la parola mi suonava familiare e buffa allo stesso tempo. Erano i tempi in cui il massimo della volgarità e della violenza erano del tipo “arbitro cornuto”, tempi felici (ma allora non lo si sapeva) che sarebbero durati a lungo, fino a tutti gli anni ’70. Per intenderci: il mondo del calcio aveva mantenuto una sua innocenza anche nel mezzo degli anni ’70, anni di bombe e di depistaggi, di terrorismo e rapimenti di persona, non certo anni tranquilli. Poi, da un certo momento, è cambiato tutto; e non so quanti sono oggi i padri che se la sentono di portare i bambini allo stadio. Magari ce li portano, ma con molta preoccupazione.
Come siamo arrivati a questo punto? Difficile dirlo, forse un po’ alla volta, sottovalutando i problemi, come capita sempre. Ma, di sicuro, c’è stato chi ha giocato duro, con il tifo calcistico.
Dai miei ricordi, si è cominciato negli anni ’80, con il grido “devi morire” rivolto ai calciatori in campo, quelli che avevano preso una botta e si rotolavano dal dolore; e non tutti facevano finta, le botte sulle caviglie fanno male – dura un attimo, ma è un male boia. “Devi morire” era una battuta da caserma: lo dicevano i “vecchi” (cioè quelli che erano lì da un anno, di leva) alle reclute appena arrivate. Forse in caserma queste battute avevano un senso (ne dubito), certo allo stadio erano brutte da sentire.
Poi anche il “devi morire” non è bastato più, si è passati all’apparentemente innocuo “chi non salta piripiri è” (piripiri sta per il colore della maglia dell’avversario), si è passati all’ostentazione di teschi e di simboli nazifascisti (ignorando che sono simboli di sconfitta, gli slogan mussoliniani portano una sfiga tremenda), poi alcuni politici improvvisati hanno parlato di “discesa in campo” e di “fare squadra” (la loro unica cultura essendo quella calcistica), poi si è passati alle bande organizzate... Tutto questo è stato tollerato, spesso anzi coltivato con cura, mentre gli addetti ai lavori continuavano a parlarne come di bande di giovinastri esuberanti o di hooligans: gli hooligans c’erano in Inghilterra, ma rispetto ai nostri c’era quantomeno una spiegazione, se non un’attenuante: quando commettevano delle violenze erano sempre ubriachi persi.
La strada che si sta seguendo oggi, negli ultimi mesi, è questa: la “tessera del tifoso” (qui managers e ministri vengono tutti dal marketing, il rimedio per tutti i mali è sempre una tesserina magnetica: ma negli stadi le telecamere esistono da quarant’anni, identificare i violenti e isolarli non sarebbe difficile), si parla di “fidelizzazione”, eccetera. Nelle ultime settimane, inoltre, si è decisa una grande novità, cioè che le partite si giocheranno spalmate per tutta la settimana; e io mi chiedo, come si fa a stare dietro al calcio se devi ricordarti ogni volta in che giorno gioca la tua squadra? Il calendarietto settimanale se lo faranno solo loro, gli ultras; i lavoratori, gli studenti e i padri di famiglia hanno altro a cui pensare. Forse è proprio questo che si vuole, gli stadi vuoti in mano agli ultras organizzati. Un mondo del calcio solo televisivo, con tanti abbonati “fidelizzati” che se ne stanno a casa a giocare con le loro brave carte magnetiche prepagate.
Non so, ogni tanto passano anche in tv i vecchi film degli anni ’60, dove magari c’è Gassman che fa il tifoso: i giovinastri esuberanti erano più o meno così, c’era già qualcuno che faceva a cazzotti e che aspettava l’arbitro alla fine della partita, e non era bello ma è senz’altro meno bello come si fa oggi.
Ripenso spesso a quel racconto di mio padre (grande appassionato di calcio, ma non tifoso), e ho una grande nostalgia dei “marlùss” e degli arbitri cornuti. Per quanto mi riguarda, sarei intervenuto subito. Io mi sono fermato molto prima, ai “devi morire”; gridare queste cose a un ragazzo di vent’anni è già ben oltre la mia personale sensibilità, ma ormai questi miei discorsi non hanno nessuna utilità pratica, il mondo è andato da un’altra parte. Che dire? Io avevo votato contro...
venerdì 22 gennaio 2010
Il segreto del successo
Ermanno Olmi, da un'intervista a "La Repubblica" del 6 gennaio 2010
(...)
- Cosa prova nel rivedere i suoi film?
«Non provo nulla, perché non li rivedo. Perché in fondo non amo il cinema.»
- È un'affermazione paradossale detta da lei.
«Non lo amo come ragione principale della mia vita. Quando ho terminato un film, tutti gli scarabocchi, le cartacce, gli appunti che sono serviti per la preparazione, li butto via. Li distruggo. Non voglio restare prigioniero di frammenti di vita che è stata vissuta e non ho più l'opportunità di rivivere. E’ come per un bambino. L'energia che mi resta è rivolta all'attesa di accadimenti futuri che possono darmi la soddisfazione di sentirmi ancora vivo e presente al mondo».
- È strano, avrei detto che prediligeva il passato: la grande tradizione contadina, il cristianesimo, i mondi che rischiano di scomparire.
«C'è un cinema per sognare e un cinema per capire. E il cinema non può fare a meno del passato se vogliamo comprendere che cosa siamo diventati. Quando guardo indietro lo faccio soprattutto per vedere cosa ci accadrà nei prossimi anni. Lo dico senza smanie di profezia. La buona arte non può fare a meno del passato, ma d'altra parte non ne può restare prigioniera».
- A quale scrittore si sente più legato?
«Senz'altro Tolstoj: è una fonte inesauribile di ispirazione. Una forza che ha attraversato la letteratura, la società, la vita».
- E il regista?
«Rossellini, il suo Paisà, che vidi nel 1947 fu alla base del mio interesse per il cinema».
- Come reagisce di fronte a una stroncatura?
«Non mi arrabbio, se è questo che vuol sapere. Non ci resto male. Perché fare un film non è diverso da altre azioni della nostra vita: possono riuscire bene o meno bene. Tutto dipende dal momento, da quella misteriosa umoralità che in un certo istante ti attraversa. E poi, dico la verità, quando preparo un film non mi sento in gara per il successo. Ho sempre avuto la fortuna di non sentirmi in competizione con qualcuno. E non mi aspetto dal critico niente di più e niente di meno di ciò che pensa».
(Intervista con Ermanno Olmi, a cura di Antonio Gnoli, La Repubblica 6 gennaio 2010 )
(...)
- Cosa prova nel rivedere i suoi film?
«Non provo nulla, perché non li rivedo. Perché in fondo non amo il cinema.»
- È un'affermazione paradossale detta da lei.
«Non lo amo come ragione principale della mia vita. Quando ho terminato un film, tutti gli scarabocchi, le cartacce, gli appunti che sono serviti per la preparazione, li butto via. Li distruggo. Non voglio restare prigioniero di frammenti di vita che è stata vissuta e non ho più l'opportunità di rivivere. E’ come per un bambino. L'energia che mi resta è rivolta all'attesa di accadimenti futuri che possono darmi la soddisfazione di sentirmi ancora vivo e presente al mondo».
- È strano, avrei detto che prediligeva il passato: la grande tradizione contadina, il cristianesimo, i mondi che rischiano di scomparire.
«C'è un cinema per sognare e un cinema per capire. E il cinema non può fare a meno del passato se vogliamo comprendere che cosa siamo diventati. Quando guardo indietro lo faccio soprattutto per vedere cosa ci accadrà nei prossimi anni. Lo dico senza smanie di profezia. La buona arte non può fare a meno del passato, ma d'altra parte non ne può restare prigioniera».
- A quale scrittore si sente più legato?
«Senz'altro Tolstoj: è una fonte inesauribile di ispirazione. Una forza che ha attraversato la letteratura, la società, la vita».
- E il regista?
«Rossellini, il suo Paisà, che vidi nel 1947 fu alla base del mio interesse per il cinema».
- Come reagisce di fronte a una stroncatura?
«Non mi arrabbio, se è questo che vuol sapere. Non ci resto male. Perché fare un film non è diverso da altre azioni della nostra vita: possono riuscire bene o meno bene. Tutto dipende dal momento, da quella misteriosa umoralità che in un certo istante ti attraversa. E poi, dico la verità, quando preparo un film non mi sento in gara per il successo. Ho sempre avuto la fortuna di non sentirmi in competizione con qualcuno. E non mi aspetto dal critico niente di più e niente di meno di ciò che pensa».
(Intervista con Ermanno Olmi, a cura di Antonio Gnoli, La Repubblica 6 gennaio 2010 )
giovedì 21 gennaio 2010
Servizio traduzioni
Una volta, non so più se su “Cuore” o su “Tango” o su un altro giornale satirico, c’era il servizio traduzioni: cioè cosa ci sta dicendo veramente una persona al di là delle frasi di circostanza.
Siccome ne ho molta nostalgia, inizio qui una piccola serie; che si potrà eventualmente aggiornare un po’ alla volta (i contributi esterni sono benvenuti).
Per esempio:
- “Bisogna aiutarli a casa loro” (traduzione: “Non me ne frega niente e non muoverò un dito”)
- “I veri razzisti sono quelli che li fanno venire qui senza tutele” (traduzione: “I negri e gli extracomunitari non li sopporto”) (qui il servizio traduzioni ha inserito un gentile eufemismo e ha fatto qualche piccolo taglio per i lettori più sensibili)
- “Non si può continuare a dire che Berlusconi è brutto e cattivo” (traduzione: voto per Berlusconi e lo ammiro molto, ma mi vergogno ancora a dirlo)
- “A sinistra hanno ancora il mito del posto fisso” (traduzione: mio figlio ha il posto fisso, e io sono in pensione da tempo).
- “I disoccupati devono darsi da fare, rimboccarsi le maniche” (traduzione: “Non me ne frega niente e non muoverò un dito”).
(continua)
Siccome ne ho molta nostalgia, inizio qui una piccola serie; che si potrà eventualmente aggiornare un po’ alla volta (i contributi esterni sono benvenuti).
Per esempio:
- “Bisogna aiutarli a casa loro” (traduzione: “Non me ne frega niente e non muoverò un dito”)
- “I veri razzisti sono quelli che li fanno venire qui senza tutele” (traduzione: “I negri e gli extracomunitari non li sopporto”) (qui il servizio traduzioni ha inserito un gentile eufemismo e ha fatto qualche piccolo taglio per i lettori più sensibili)
- “Non si può continuare a dire che Berlusconi è brutto e cattivo” (traduzione: voto per Berlusconi e lo ammiro molto, ma mi vergogno ancora a dirlo)
- “A sinistra hanno ancora il mito del posto fisso” (traduzione: mio figlio ha il posto fisso, e io sono in pensione da tempo).
- “I disoccupati devono darsi da fare, rimboccarsi le maniche” (traduzione: “Non me ne frega niente e non muoverò un dito”).
(continua)
martedì 19 gennaio 2010
Mallory
Non è una cosa grave, ma non sopporto più i malloristi. Che non sono i seguaci di un ipotetico Mallory, ma quelli che parlano con te e ti rispondono "Ah, ma allora tu...".
Lo so, non è grave e c'è di peggio: ma è ben difficile ragionare con un (o una) mallorista. (Forse la grafia esatta dovrebbe essere "maallorista", ma sarebbe un po' troppo complicato).
Come si comporta un (o una) mallorista? Si sta conversando tranquillamente, tu esponi il tuo punto di vista, e la risposta che arriva, quasi sempre un po' brutale e aggressiva, e spesso anche ironica, è una di queste: "Ah, ma allora tu pensi..." oppure "Ah, ma allora tu credi..." . E invece noi non pensavamo niente, non credevamo niente: stavamo solo chiacchierando del più o del meno, per passare il tempo, magari riportando una notizia appena letta sul giornale, ma senza una nostra personale interpretazione. Di tutte, la più terribile: "Ah, ma allora tu pensi di essere migliore degli altri!": alla quale affermazione (disponibile in più varianti, per esempio: “ah, ma allora tu pensi di essere perfetto, hai la verità sempre pronta, chi ti credi di essere?”, eccetera ) non c'è modo di rispondere - non in modo educato quantomeno.
Lo so, c'è ben di peggio, a questo mondo. Ma, ormai, i malloristi li riconosco da lontano e cerco di evitarli; e, siccome sono una razza in continua crescita (insieme a quelli che, sempre di ispirazione televisiva, ti intimano: "lasciami finire, non interrompermi!" se provi a mettere una virgola nei loro discorsi di tre quarti d’ora filati), mi sono fatto una rapida fama di orso e di uomo dal pessimo carattere.
Per quello che ne ho capito degli orsi (ne ho incontrati pochissimi, nella mia vita), direi che hanno tutte le loro bravi ragioni, per avere quel carattere lì. Chissà quanti malloristi che hanno incontrato, mentre si grattavano felici la schiena contro un albero.
Lo so, non è grave e c'è di peggio: ma è ben difficile ragionare con un (o una) mallorista. (Forse la grafia esatta dovrebbe essere "maallorista", ma sarebbe un po' troppo complicato).
Come si comporta un (o una) mallorista? Si sta conversando tranquillamente, tu esponi il tuo punto di vista, e la risposta che arriva, quasi sempre un po' brutale e aggressiva, e spesso anche ironica, è una di queste: "Ah, ma allora tu pensi..." oppure "Ah, ma allora tu credi..." . E invece noi non pensavamo niente, non credevamo niente: stavamo solo chiacchierando del più o del meno, per passare il tempo, magari riportando una notizia appena letta sul giornale, ma senza una nostra personale interpretazione. Di tutte, la più terribile: "Ah, ma allora tu pensi di essere migliore degli altri!": alla quale affermazione (disponibile in più varianti, per esempio: “ah, ma allora tu pensi di essere perfetto, hai la verità sempre pronta, chi ti credi di essere?”, eccetera ) non c'è modo di rispondere - non in modo educato quantomeno.
Lo so, c'è ben di peggio, a questo mondo. Ma, ormai, i malloristi li riconosco da lontano e cerco di evitarli; e, siccome sono una razza in continua crescita (insieme a quelli che, sempre di ispirazione televisiva, ti intimano: "lasciami finire, non interrompermi!" se provi a mettere una virgola nei loro discorsi di tre quarti d’ora filati), mi sono fatto una rapida fama di orso e di uomo dal pessimo carattere.
Per quello che ne ho capito degli orsi (ne ho incontrati pochissimi, nella mia vita), direi che hanno tutte le loro bravi ragioni, per avere quel carattere lì. Chissà quanti malloristi che hanno incontrato, mentre si grattavano felici la schiena contro un albero.
lunedì 18 gennaio 2010
Rime
Ieri è venuta una zingara incinta - “ comprateme ‘na paletta, comprateme ‘na paletta “ - , poi ha capito il tipo e mi ha predetto l’avvenire. Ci sta due donne, una lontana - “ che se more d’amore per mia “ - una ( ignota ) vicina, che pensa tutto il giorno - “ faciteme ‘nu figghiareddu “- . Quanto a me - “ puttaneri “ - ci vogliono fatti e non parole - “ e dateme ‘n’altro segno de moneta e ve dico tutto “. Io, che ormai ne sapevo abbastanza, non le ho più aggiunto niente e la zingara mi ha predetto gran corna. Così, per una lira, una bella donna incinta mi ha guastata la giornata. (Cesare Pavese, lettera a sua sorella Maria, 1935)
Mi pare d’essere quella vecchia trojona che in una delle mie passeggiate solitarie lungo il Tevere vidi venir su dal canneto soffiando come un vitello marino ed esclamando “ Nun ne pozzo più, nun ne pozzo più “ . Un giovinastro l’aveva impantanata giù là e poi se l’era data a gambe senza pagare lo scotto. Così mi spiegò, facendomi delle proposte a me. Al mio cortese rifiuto di adire a pratiche illecite tra le canne, disse: “ Ah, siete ammogliato “. Glielo lasciai credere: e mediante oblazione di Lire 5 me ne liberai. (Carlo Emilio Gadda, lettera a Leone Traverso, 1949)
Una volta, quando il Corriere era il Corriere, era facile trovare nelle sue pagine dei piccoli tesori come questi. Non so bene perchè, ma questi due frammenti li metto sempre insieme; sono diversissimi ma mi sembra sempre che facciano rima tra di loro.
Mi pare d’essere quella vecchia trojona che in una delle mie passeggiate solitarie lungo il Tevere vidi venir su dal canneto soffiando come un vitello marino ed esclamando “ Nun ne pozzo più, nun ne pozzo più “ . Un giovinastro l’aveva impantanata giù là e poi se l’era data a gambe senza pagare lo scotto. Così mi spiegò, facendomi delle proposte a me. Al mio cortese rifiuto di adire a pratiche illecite tra le canne, disse: “ Ah, siete ammogliato “. Glielo lasciai credere: e mediante oblazione di Lire 5 me ne liberai. (Carlo Emilio Gadda, lettera a Leone Traverso, 1949)
Una volta, quando il Corriere era il Corriere, era facile trovare nelle sue pagine dei piccoli tesori come questi. Non so bene perchè, ma questi due frammenti li metto sempre insieme; sono diversissimi ma mi sembra sempre che facciano rima tra di loro.
venerdì 15 gennaio 2010
Stevenson
Ma il giorno seguente si levò con tanto splendore,
e la sua casa era tanto incantevole,
che egli dimenticò i suoi terrori.
(Robert Louis Stevenson, "The devil in the bottle")
Uno dei racconti più belli di tutta la storia della Letteratura. Quando mi dicono "quello lì è un grande scrittore" penso sempre a "Il diavolo nella bottiglia" - e anche a tutto Stevenson. Ma scrittori come Stevenson ce ne sono sempre stati pochi.
e la sua casa era tanto incantevole,
che egli dimenticò i suoi terrori.
(Robert Louis Stevenson, "The devil in the bottle")
Uno dei racconti più belli di tutta la storia della Letteratura. Quando mi dicono "quello lì è un grande scrittore" penso sempre a "Il diavolo nella bottiglia" - e anche a tutto Stevenson. Ma scrittori come Stevenson ce ne sono sempre stati pochi.
giovedì 14 gennaio 2010
Acido tartarico
Ero alla macchinetta del caffè e, avendo tempo ed essendo goloso, mi ero comperato anche un pacchettino di wafer. Essendo anche curioso, finiti i wafer mi sono guardato per bene il pacchettino, e c'erano scritti gli ingredienti in ben sei lingue. Ovviamente me li sono letti tutti, facendo i confronti fra le diverse parole, farina zucchero aromi...
Da qualche anno, nelle etichette dei prodotti alimentari, è obbligatorio indicare gli ingredienti in ordine decrescente secondo la quantità: perciò se si compera un cioccolato fondente al primo posto ci deve essere il cioccolato, se si compera un torrone al primo posto si devono leggere nocciole e miele, eccetera. Molte etichette sono ben fatte, e alcune indicano anche i grassi che sono stati usati, specificando: non un generico “oli vegetali” ma per esempio se se sono stati usati olio di palma e di cocco (il gusto è buono, ma sono i due peggiori se si ha il colesterolo alto).
Nei biscotti e nelle torte, oltre a farina, uova, zucchero, nomi familiari, ci sono dei nomi chimici: ma non bisogna spaventarsi, è il lievito.
Nel lievito chimico, ci sono due componenti tradizionali: uno è il bicarbonato di sodio, che se acidificato produce le bollicine (di anidride carbonica) necessarie al rigonfiamento della pasta; e l'altro è un acido debole, che il più delle volte è l'acido tartarico. Ci possono essere altri nomi, per esempio sali a base di ammonio, perché il lievito si può fare in tanti modi diversi.
Sulla mia etichetta, anche l'acido tartarico (è una polverina bianca, come il bicarbonato) era scritto in sei lingue: in inglese tartaric acid, in francese (vado a memoria) acide tartarique; in spagnolo, in portoghese e perfino in romeno "acido tartarico", come in italiano. Rimane il tedesco: e in tedesco acido tartarico si dice Weinsteinartigsäure, una parola decisamente impressionante che mi fa sobbalzare sulla sedia.
Però qualche parola di tedesco la conosco: Wein è il vino, per esempio; e Stein è la pietra. In più, dalle etichette dei reagenti so che Säure indica l'acido. Prendo un appunto e a casa, sul dizionario, alla voce Artig trovo: garbato, educato. Un'altra piccola ricerca e metto insieme tutti i pezzi: l'acido tartarico venne scoperto nel residuo che rimane sulle pareti delle botti dov'era tenuto il vino, e da questa materia prima fu prodotto per molto tempo. E' da qui che deriva anche il nome italiano: dal tartaro, per l'appunto, e non dal Michele Strogoff di Jules Verne.
E poi si dice dei luoghi comuni! I tedeschi sono davvero molto meticolosi, e questa parola, che al suo apparire sembrava un piccolo mostro, è in realtà un condensato di storia della chimica, quasi un'enciclopedia intera racchiusa dentro una parola.
Da qualche anno, nelle etichette dei prodotti alimentari, è obbligatorio indicare gli ingredienti in ordine decrescente secondo la quantità: perciò se si compera un cioccolato fondente al primo posto ci deve essere il cioccolato, se si compera un torrone al primo posto si devono leggere nocciole e miele, eccetera. Molte etichette sono ben fatte, e alcune indicano anche i grassi che sono stati usati, specificando: non un generico “oli vegetali” ma per esempio se se sono stati usati olio di palma e di cocco (il gusto è buono, ma sono i due peggiori se si ha il colesterolo alto).
Nei biscotti e nelle torte, oltre a farina, uova, zucchero, nomi familiari, ci sono dei nomi chimici: ma non bisogna spaventarsi, è il lievito.
Nel lievito chimico, ci sono due componenti tradizionali: uno è il bicarbonato di sodio, che se acidificato produce le bollicine (di anidride carbonica) necessarie al rigonfiamento della pasta; e l'altro è un acido debole, che il più delle volte è l'acido tartarico. Ci possono essere altri nomi, per esempio sali a base di ammonio, perché il lievito si può fare in tanti modi diversi.
Sulla mia etichetta, anche l'acido tartarico (è una polverina bianca, come il bicarbonato) era scritto in sei lingue: in inglese tartaric acid, in francese (vado a memoria) acide tartarique; in spagnolo, in portoghese e perfino in romeno "acido tartarico", come in italiano. Rimane il tedesco: e in tedesco acido tartarico si dice Weinsteinartigsäure, una parola decisamente impressionante che mi fa sobbalzare sulla sedia.
Però qualche parola di tedesco la conosco: Wein è il vino, per esempio; e Stein è la pietra. In più, dalle etichette dei reagenti so che Säure indica l'acido. Prendo un appunto e a casa, sul dizionario, alla voce Artig trovo: garbato, educato. Un'altra piccola ricerca e metto insieme tutti i pezzi: l'acido tartarico venne scoperto nel residuo che rimane sulle pareti delle botti dov'era tenuto il vino, e da questa materia prima fu prodotto per molto tempo. E' da qui che deriva anche il nome italiano: dal tartaro, per l'appunto, e non dal Michele Strogoff di Jules Verne.
E poi si dice dei luoghi comuni! I tedeschi sono davvero molto meticolosi, e questa parola, che al suo apparire sembrava un piccolo mostro, è in realtà un condensato di storia della chimica, quasi un'enciclopedia intera racchiusa dentro una parola.
mercoledì 13 gennaio 2010
Négher
« Al diséva anca San Péder / che quèl bon l’era quel négher...»
Nero, cioè rosso: “quèl négher”, cioè il vino rosso, quello di una volta, da contadini: quello così scuro e corposo da sembrare nero, quand’era versato nel bicchiere.
Questa versione lombarda delle canzoni da osteria, molto divertente, porta indietro ad un mondo che non c’è più; e che io, quasi astemio (sottolineo il quasi) ho frequentato pochissimo, anche per ragioni di età. Intendiamoci, l’alcolismo è sempre stato una piaga, e ha sempre prodotto tragedie: ma quel mondo era anche un mondo di ubriachi allegri, del bere in compagnia. Un mondo dove un bicchiere di vino non si rifiutava mai, e dove il vino era considerato una ricchezza. “Il vino fortifica”, dicevano i nostri vecchi: e in Emilia e nel mantovano lo mettevano anche nel brodo – usanza tipica del mondo contadino. L’ho visto fare da mio nonno e ho provato a farlo anch’io: non è male, ma è proprio un sapore rustico, strano: uno di quelli che oggi (abituati come siamo alla nutella e ai dolcificanti) non sappiamo più comprendere. I montanari, in Valtellina e dintorni, usavano molto anche il vino nel latte.
Di questo mondo è rimasto poco, il bere oggi è uno stordirsi, vanno di moda soprattutto birra e superalcolici. Di quel mondo “antico” ci sono rimaste due canzoni di Giorgio Gaber, molto belle ma anch’esse ormai vicine al mezzo secolo di vita: “Barbera e champagne” e “Trani a go-go”.
Sono titoli ormai incomprensibili, bisognerà spiegarli alle nuove generazioni. Nelle osterie non si beveva vino bianco, “quel bon l’era quel négher”: lo diceva anche San Pietro, quello buono è quello nero – ma in italiano “negro”, cioè nero, non fa rima con “San Pietro”. Lo champagne lo bevevano i signori, il barbera era dei contadini, dei muratori, dei popolani. “Barbera e champagne” , come spiega bene la canzone, è dunque la storia di un incontro, di un dialogo: annegare nel vino le delusioni della vita. Una canzone che all’inizio era triste e che poi diventava allegra, e Gaber la cantava sempre come bis nei suoi spettacoli.
Il “Trani” era invece il vino meridionale, di Trani: vino della Puglia. Vino rosso e forte, a buon mercato; le osterie dove si beveva lo usavano come insegna, e “trani” era diventato sinonimo di osteria. “Go-go” è invece probabilmente un anticipo dell’invasione inglese nella lingua italiana, o forse l’insegna di un trani milanese.
Va detto che “négher” non ha nessuna connotazione razzista: indica soltanto il colore nero, come del resto il latino “niger, nigro” e lo spagnolo “negro”. Detto en passant, mi dispiace molto che ormai “negro” e “négher” siano considerate parole razziste. Di per sè le parole sono innocenti, mi piacerebbe molto poter tornare a dire “negro” come si faceva negli anni ’60 (“negro” e “nigger” erano un’offesa solo nei Paesi di lingua inglese, dove “nero” si dice “black”, tutt’altra parola). Siamo noi, quelli di questa generazione, che le parole le roviniamo, e non solo le parole ma anche il vivere insieme – ma questo è un discorso troppo serio e troppo complicato. Mi fermo qui e propongo un brindisi, che fa così: «A lassàl vöj». E’ un brindisi che verrà bene a chi ha studiato il francese: “lassàl” si pronuncia come il cognome Lassalle, e “vöj” si potrebbe scrivere anche “voeuj”, bisillabo: prima il “voeu” e poi, subito di seguito la i. E’ tipico della zona di confine, tra Varese, Como e il Canton Ticino: suona come “alla salute” ma il significato è un altro, un piccolo gioco di parole: “a lasciarlo vuoto”.
E dunque, in alto i bicchieri, e “a lassal vöj!”
Nero, cioè rosso: “quèl négher”, cioè il vino rosso, quello di una volta, da contadini: quello così scuro e corposo da sembrare nero, quand’era versato nel bicchiere.
Questa versione lombarda delle canzoni da osteria, molto divertente, porta indietro ad un mondo che non c’è più; e che io, quasi astemio (sottolineo il quasi) ho frequentato pochissimo, anche per ragioni di età. Intendiamoci, l’alcolismo è sempre stato una piaga, e ha sempre prodotto tragedie: ma quel mondo era anche un mondo di ubriachi allegri, del bere in compagnia. Un mondo dove un bicchiere di vino non si rifiutava mai, e dove il vino era considerato una ricchezza. “Il vino fortifica”, dicevano i nostri vecchi: e in Emilia e nel mantovano lo mettevano anche nel brodo – usanza tipica del mondo contadino. L’ho visto fare da mio nonno e ho provato a farlo anch’io: non è male, ma è proprio un sapore rustico, strano: uno di quelli che oggi (abituati come siamo alla nutella e ai dolcificanti) non sappiamo più comprendere. I montanari, in Valtellina e dintorni, usavano molto anche il vino nel latte.
Di questo mondo è rimasto poco, il bere oggi è uno stordirsi, vanno di moda soprattutto birra e superalcolici. Di quel mondo “antico” ci sono rimaste due canzoni di Giorgio Gaber, molto belle ma anch’esse ormai vicine al mezzo secolo di vita: “Barbera e champagne” e “Trani a go-go”.
Sono titoli ormai incomprensibili, bisognerà spiegarli alle nuove generazioni. Nelle osterie non si beveva vino bianco, “quel bon l’era quel négher”: lo diceva anche San Pietro, quello buono è quello nero – ma in italiano “negro”, cioè nero, non fa rima con “San Pietro”. Lo champagne lo bevevano i signori, il barbera era dei contadini, dei muratori, dei popolani. “Barbera e champagne” , come spiega bene la canzone, è dunque la storia di un incontro, di un dialogo: annegare nel vino le delusioni della vita. Una canzone che all’inizio era triste e che poi diventava allegra, e Gaber la cantava sempre come bis nei suoi spettacoli.
Il “Trani” era invece il vino meridionale, di Trani: vino della Puglia. Vino rosso e forte, a buon mercato; le osterie dove si beveva lo usavano come insegna, e “trani” era diventato sinonimo di osteria. “Go-go” è invece probabilmente un anticipo dell’invasione inglese nella lingua italiana, o forse l’insegna di un trani milanese.
Va detto che “négher” non ha nessuna connotazione razzista: indica soltanto il colore nero, come del resto il latino “niger, nigro” e lo spagnolo “negro”. Detto en passant, mi dispiace molto che ormai “negro” e “négher” siano considerate parole razziste. Di per sè le parole sono innocenti, mi piacerebbe molto poter tornare a dire “negro” come si faceva negli anni ’60 (“negro” e “nigger” erano un’offesa solo nei Paesi di lingua inglese, dove “nero” si dice “black”, tutt’altra parola). Siamo noi, quelli di questa generazione, che le parole le roviniamo, e non solo le parole ma anche il vivere insieme – ma questo è un discorso troppo serio e troppo complicato. Mi fermo qui e propongo un brindisi, che fa così: «A lassàl vöj». E’ un brindisi che verrà bene a chi ha studiato il francese: “lassàl” si pronuncia come il cognome Lassalle, e “vöj” si potrebbe scrivere anche “voeuj”, bisillabo: prima il “voeu” e poi, subito di seguito la i. E’ tipico della zona di confine, tra Varese, Como e il Canton Ticino: suona come “alla salute” ma il significato è un altro, un piccolo gioco di parole: “a lasciarlo vuoto”.
E dunque, in alto i bicchieri, e “a lassal vöj!”
lunedì 11 gennaio 2010
Tommaso Landolfi
Tommaso Landolfi
Il racconto del lupo mannaro
(da “Il mar delle Blatte”, 1939)
L'amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l'aria si colma d'ombre verdognole e talvolta s'affumica d'un giallo sinistro, tutto c'è da temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, una notte di luna. E quel che è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma l'amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch'è la stanza più riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano sospesa l'aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l'amico entrò all'improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po' più brillante.
Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sottopelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse.
- Che è questo? - gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell'aspetto e, dirò, nel comportamento della vescica.
- Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla... - rispose l'amico guardandomi con un sorriso incerto.
- La luna! - esclamai allora.
L'amico annuì tacendo.
Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l'altro sudava un liquido ialino che gocciava di tra le dita dell'amico. Questo però non si decideva a deporla.
- Oh mettila in quell'angolo - urlai, - troveremo il modo di ammazzarla!
- No, - disse l'amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta, - ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c'è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d'argento vivo.
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s'elevò colla rapidità d'un razzo e sparì nella gola del camino.
- Oh, - disse l'amico - che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e grassa com'è! E ora speriamo bene; - e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei flati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s'empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urrah, gridammo come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo.
Io poi fui preso da un dubbio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l'amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m'accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d'andare a vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo, bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po' in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c'era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l'alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l'amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c'era; e ci guardava rabbuiata di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l'avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l'andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un'eclisse, pure ogni giorno un po' più chiara; finché ridivenne così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s'è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L'amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano.
Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c'è niente da fare.
Uno dei più grandi scrittori italiani. Questo racconto è anche quello che apre la raccolta che fu curata da Italo Calvino per ricordarlo (una raccolta che fu pubblicata da Rizzoli; i libri di Landolfi hanno avuto diversi editori, oggi sono quasi tutti reperibili in edizione Adelphi).
Il racconto del lupo mannaro
(da “Il mar delle Blatte”, 1939)
L'amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l'aria si colma d'ombre verdognole e talvolta s'affumica d'un giallo sinistro, tutto c'è da temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, una notte di luna. E quel che è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma l'amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch'è la stanza più riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano sospesa l'aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l'amico entrò all'improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po' più brillante.
Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sottopelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse.
- Che è questo? - gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell'aspetto e, dirò, nel comportamento della vescica.
- Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla... - rispose l'amico guardandomi con un sorriso incerto.
- La luna! - esclamai allora.
L'amico annuì tacendo.
Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l'altro sudava un liquido ialino che gocciava di tra le dita dell'amico. Questo però non si decideva a deporla.
- Oh mettila in quell'angolo - urlai, - troveremo il modo di ammazzarla!
- No, - disse l'amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta, - ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c'è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d'argento vivo.
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s'elevò colla rapidità d'un razzo e sparì nella gola del camino.
- Oh, - disse l'amico - che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e grassa com'è! E ora speriamo bene; - e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei flati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s'empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urrah, gridammo come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo.
Io poi fui preso da un dubbio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l'amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m'accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d'andare a vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo, bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po' in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c'era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l'alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l'amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c'era; e ci guardava rabbuiata di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l'avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l'andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un'eclisse, pure ogni giorno un po' più chiara; finché ridivenne così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s'è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L'amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano.
Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c'è niente da fare.
Uno dei più grandi scrittori italiani. Questo racconto è anche quello che apre la raccolta che fu curata da Italo Calvino per ricordarlo (una raccolta che fu pubblicata da Rizzoli; i libri di Landolfi hanno avuto diversi editori, oggi sono quasi tutti reperibili in edizione Adelphi).
venerdì 8 gennaio 2010
Chi vota a destra è un imbecille? ( IV )
Il governo Prodi è stato l’unico a sospendere il campionato di calcio: in una città vi furono scontri fra ultras e polizia che portarono alla morte di un poliziotto. Non era la prima volta e non si poteva andare avanti così, e non si poteva dare la colpa solo a quella città o a quella squadra di calcio, perché il problema riguardava tutta l’Italia. Bisognava dare un segnale forte, e la sospensione del campionato di calcio era l’occasione buona per pensare a cos’era successo e a come era stato possibile arrivare fino a quel punto.
Un’occasione persa: il governo Prodi è ormai un lontano ricordo, gli incidenti negli stadi e fuori continuano (non c’è ancora scappato il morto, per pura fortuna) e il rimedio proposto è “la tessera del tifoso”: i nostri manager e ministri, allevati nel culto del marketing, sanno ragionare solo con parole da supermarket, tessere magnetiche e fidelizzazione del cliente. In realtà, gli ultras del calcio sono relativamente pochi e facilmente identificabili anche grazie alle riprese tv delle partite: e questo da decenni. Se si volesse davvero intervenire, sarebbe abbastanza facile.
Più interessante, però, mi sembra il risalire a quel “come siamo arrivati a questo punto”. Gli studi in proposito non mancano: la deriva razzista e violenta della nostra società ha basi profonde proprio lì, dentro gli stadi, fra gli ultras del calcio. Dagli anni ’90, alcune nostre società calcistiche hanno girato l’Europa mostrando alti svastiche e vessilli fascisti: e questo nel disinteresse generale. Forze politiche ben individuabili, oggi “sdoganate”, hanno preparato questa deriva per anni, accuratamente; tra gli ultras hanno solide basi elettorali. Inchieste accurate, già negli anni ’90, mostravano gli addestramenti di questi ultras, addestramenti quasi militari: si prendevano ragazzi di 13-15 anni e gli si spiegava per bene cosa fare, “chi non è con noi è contro di noi”.
Qualche risposta c’è stata: si è detto che a Livorno c’erano tifosi che salutavano col pugno chiuso, e che quindi andava bene tutto. Come dire che se io faccio una cretinata e tu ne fai un’altra le due cretinate si annullano a vicenda: ma non funziona così, le cretinate si sommano. Una cretinata più una cretinata fanno due cretinate, dovrebbe essere facile arrivare a capirlo.
E poi, soprattutto, gli ultras organizzati “di sinistra” esistono quasi soltanto a Livorno (e non sono certo tra i peggiori); la maggior parte delle “curve” calcistiche di tutta Italia usa simboli di tutt’altra matrice politica: simboli razzisti, fascisti, nazisti.
I quindicenni degli anni ’90 oggi hanno trent’anni; altri quindicenni sono arrivati, sono stati catechizzati in quel modo, eccetera. Insomma, il fenomeno ha ormai radici solidissime, ma la maggior parte degli addetti ai lavori (politici e giornalisti su tutti) continua a stupirsi e a fare facce indignate davanti a questi “esecrabili atti di violenza compiuti da persone che non possono chiamarsi tifosi”.
E così quest’inverno mi è toccato sentirmi dare del razzista: alcuni ultras della mia squadra del cuore hanno insultato un ragazzo di origini africane, e quindi anch’io sono razzista. Mi piacerebbe avere uno stuolo di avvocati per poter querelare tutti quelli che lo hanno detto, purtroppo non posso permettermeli; mi piacerebbe anche poter votare alle elezioni e mandare a casa tutte quelle forze che sull’odio razzista e sull’istigazione alla violenza hanno costruito la loro fortuna, ma da solo non posso farlo.
La maggior parte della gente, qui, vota da tre lustri per quelle forze politiche; e se dopo così tanto tempo votano ancora lì, cosa vuoi che gli dica. Forse sono io che sbaglio. Saranno mica tutti imbecilli, no?
Un’occasione persa: il governo Prodi è ormai un lontano ricordo, gli incidenti negli stadi e fuori continuano (non c’è ancora scappato il morto, per pura fortuna) e il rimedio proposto è “la tessera del tifoso”: i nostri manager e ministri, allevati nel culto del marketing, sanno ragionare solo con parole da supermarket, tessere magnetiche e fidelizzazione del cliente. In realtà, gli ultras del calcio sono relativamente pochi e facilmente identificabili anche grazie alle riprese tv delle partite: e questo da decenni. Se si volesse davvero intervenire, sarebbe abbastanza facile.
Più interessante, però, mi sembra il risalire a quel “come siamo arrivati a questo punto”. Gli studi in proposito non mancano: la deriva razzista e violenta della nostra società ha basi profonde proprio lì, dentro gli stadi, fra gli ultras del calcio. Dagli anni ’90, alcune nostre società calcistiche hanno girato l’Europa mostrando alti svastiche e vessilli fascisti: e questo nel disinteresse generale. Forze politiche ben individuabili, oggi “sdoganate”, hanno preparato questa deriva per anni, accuratamente; tra gli ultras hanno solide basi elettorali. Inchieste accurate, già negli anni ’90, mostravano gli addestramenti di questi ultras, addestramenti quasi militari: si prendevano ragazzi di 13-15 anni e gli si spiegava per bene cosa fare, “chi non è con noi è contro di noi”.
Qualche risposta c’è stata: si è detto che a Livorno c’erano tifosi che salutavano col pugno chiuso, e che quindi andava bene tutto. Come dire che se io faccio una cretinata e tu ne fai un’altra le due cretinate si annullano a vicenda: ma non funziona così, le cretinate si sommano. Una cretinata più una cretinata fanno due cretinate, dovrebbe essere facile arrivare a capirlo.
E poi, soprattutto, gli ultras organizzati “di sinistra” esistono quasi soltanto a Livorno (e non sono certo tra i peggiori); la maggior parte delle “curve” calcistiche di tutta Italia usa simboli di tutt’altra matrice politica: simboli razzisti, fascisti, nazisti.
I quindicenni degli anni ’90 oggi hanno trent’anni; altri quindicenni sono arrivati, sono stati catechizzati in quel modo, eccetera. Insomma, il fenomeno ha ormai radici solidissime, ma la maggior parte degli addetti ai lavori (politici e giornalisti su tutti) continua a stupirsi e a fare facce indignate davanti a questi “esecrabili atti di violenza compiuti da persone che non possono chiamarsi tifosi”.
E così quest’inverno mi è toccato sentirmi dare del razzista: alcuni ultras della mia squadra del cuore hanno insultato un ragazzo di origini africane, e quindi anch’io sono razzista. Mi piacerebbe avere uno stuolo di avvocati per poter querelare tutti quelli che lo hanno detto, purtroppo non posso permettermeli; mi piacerebbe anche poter votare alle elezioni e mandare a casa tutte quelle forze che sull’odio razzista e sull’istigazione alla violenza hanno costruito la loro fortuna, ma da solo non posso farlo.
La maggior parte della gente, qui, vota da tre lustri per quelle forze politiche; e se dopo così tanto tempo votano ancora lì, cosa vuoi che gli dica. Forse sono io che sbaglio. Saranno mica tutti imbecilli, no?
giovedì 7 gennaio 2010
A che punto è la notte?
- Sentinella, a che punto è la notte?
- Viene il mattino e poi anche la notte, se volete domandare domandate; poi convertitevi.
- Sentinella, quanto resta della notte?
(Isaia 21, tratto dalla Sinfonia n.2 di Felix Mendelssohn, "Lobgesang")
(non fatevi ingannare dalla simpatia dei disegni: qui l'amico Schulz è molto profondo, e sta ancora parlando direttamente a noi.) (la vignetta viene dal mensile "Linus" che si pubblicava negli anni '80: cliccando sopra la vignetta tutto diventa molto più leggibile)
- Viene il mattino e poi anche la notte, se volete domandare domandate; poi convertitevi.
- Sentinella, quanto resta della notte?
(Isaia 21, tratto dalla Sinfonia n.2 di Felix Mendelssohn, "Lobgesang")
(non fatevi ingannare dalla simpatia dei disegni: qui l'amico Schulz è molto profondo, e sta ancora parlando direttamente a noi.) (la vignetta viene dal mensile "Linus" che si pubblicava negli anni '80: cliccando sopra la vignetta tutto diventa molto più leggibile)
martedì 5 gennaio 2010
I tre pilastri del liberismo
Un mio amico ha subìto un furto in negozio: gli hanno spaccato la vetrina e hanno preso su quello che hanno potuto, prima di scappare. Per sua fortuna, aveva un sistema di videocamere: adesso sa chi è stato, dal filmato risulta chiaramente che un tizio col passamontagna, di corporatura media, con i guanti, gli ha sfondato la vetrina.
Un altro esempio, stavolta molto piccolo, al limite del “chi se ne frega” ma a suo modo significativo: sto guardando un film in tv, e mi chiedo che cos’è. Adesso, con i nuovi televisori e con il digitale terrestre, non serve nemmeno più alzarsi e andare a prendere il giornale: premo l’apposito tasto sul telecomando, appare il menu, scelgo agevolmente la pagina informativa. Cosa trasmettono adesso? Semplice, trasmettono “Nessun dato”. Che non è il titolo del mio film: è che nessuno ha aggiornato le informazioni.
Eh già, perché quelle informazioni non appaiono in automatico: serve un omino, o una donnina, che li digiti nel database da dove va a pescare il mio telecomando. E l’omino, o la donnina, vanno pagati: e costano, il lavoro costa.
Lo stesso discorso vale per le videocamere di sicurezza. Il senso delle videocamere, l’utilità vera, sarebbe questa: un controllore osserva le videocamere; appena vede qualcosa di brutto informa gli addetti alla sicurezza che sono per strada; gli addetti corrono subito sul posto, bloccano lo scippatore, fermano il rapinatore. Tradotto in denaro, cinque o dieci stipendi da pagare, che vanno moltiplicati per tre turni quotidiani: la vigilanza va fatta giorno e notte, ventiquattr’ore su ventiquattro. E, se nessuno ruba o scippa o stupra o spacca vetrine, così tanti stipendi pagati per niente, tasse e contributi compresi: che disdetta.
I tre pilastri del liberismo, di quello “di casa nostra”, s’intende, sono questi: 1) ridurre il personale; 2) ridurre i costi; 3) licenziare. Tutti i nostri manager che sono oggi nei posti di comando sono stati allevati per seguire questi criteri; appena c’è qualcosina in più da fare – e che non sia marketing o pubblicità - vanno in crisi. Una volta che si è ridotto il personale, che si sono ridotti i costi (cioè chiusura di stabilimenti, riduzione della manutenzione, eccetera), che si è licenziato il licenziabile, cosa resta? Ma “il personale è un costo”, questo è il dogma e i dogmi non si contestano mai.
Esistono studi accurati sul catastrofico attentato del 2001 a New York: molti di questi studi, quelli passati sotto silenzio e di cui meno si è parlato, riguardano proprio questo dato. Per risparmiare sul personale, e sulla sicurezza, gli aeroporti erano passati dalla gestione militare a quella dei privati; il risultato fu che quattro aerei di linea vennero dirottati contemporaneamente, cosa mai vista né mai successa in precedenza. Ovviamente, i privati avevano per prima cosa ridotto i costi del personale: altrimenti non avrebbero vinto l’appalto. Riducendo il personale, si riduce anche la manutenzione; poi si nega tutto con fermezza estrema (“ridurre la manutenzione??? ma non scherziamo!”), e magari (quando si può) si fanno spot sorridenti dove si dice che va tutto benissimo.
Ma qui mi fermo (potrei parlare della tragedia recente di Viareggio, o dei treni TAV nuovissimi bloccati da venti centimetri di neve e da un po’ di ghiaccio), perché andare avanti si fa troppo complicato e anche perché penso che il discorso sia chiarissimo, ma anche inutile: chi non vuole vedere la realtà continuerà a guardare altrove.
Un altro esempio, stavolta molto piccolo, al limite del “chi se ne frega” ma a suo modo significativo: sto guardando un film in tv, e mi chiedo che cos’è. Adesso, con i nuovi televisori e con il digitale terrestre, non serve nemmeno più alzarsi e andare a prendere il giornale: premo l’apposito tasto sul telecomando, appare il menu, scelgo agevolmente la pagina informativa. Cosa trasmettono adesso? Semplice, trasmettono “Nessun dato”. Che non è il titolo del mio film: è che nessuno ha aggiornato le informazioni.
Eh già, perché quelle informazioni non appaiono in automatico: serve un omino, o una donnina, che li digiti nel database da dove va a pescare il mio telecomando. E l’omino, o la donnina, vanno pagati: e costano, il lavoro costa.
Lo stesso discorso vale per le videocamere di sicurezza. Il senso delle videocamere, l’utilità vera, sarebbe questa: un controllore osserva le videocamere; appena vede qualcosa di brutto informa gli addetti alla sicurezza che sono per strada; gli addetti corrono subito sul posto, bloccano lo scippatore, fermano il rapinatore. Tradotto in denaro, cinque o dieci stipendi da pagare, che vanno moltiplicati per tre turni quotidiani: la vigilanza va fatta giorno e notte, ventiquattr’ore su ventiquattro. E, se nessuno ruba o scippa o stupra o spacca vetrine, così tanti stipendi pagati per niente, tasse e contributi compresi: che disdetta.
I tre pilastri del liberismo, di quello “di casa nostra”, s’intende, sono questi: 1) ridurre il personale; 2) ridurre i costi; 3) licenziare. Tutti i nostri manager che sono oggi nei posti di comando sono stati allevati per seguire questi criteri; appena c’è qualcosina in più da fare – e che non sia marketing o pubblicità - vanno in crisi. Una volta che si è ridotto il personale, che si sono ridotti i costi (cioè chiusura di stabilimenti, riduzione della manutenzione, eccetera), che si è licenziato il licenziabile, cosa resta? Ma “il personale è un costo”, questo è il dogma e i dogmi non si contestano mai.
Esistono studi accurati sul catastrofico attentato del 2001 a New York: molti di questi studi, quelli passati sotto silenzio e di cui meno si è parlato, riguardano proprio questo dato. Per risparmiare sul personale, e sulla sicurezza, gli aeroporti erano passati dalla gestione militare a quella dei privati; il risultato fu che quattro aerei di linea vennero dirottati contemporaneamente, cosa mai vista né mai successa in precedenza. Ovviamente, i privati avevano per prima cosa ridotto i costi del personale: altrimenti non avrebbero vinto l’appalto. Riducendo il personale, si riduce anche la manutenzione; poi si nega tutto con fermezza estrema (“ridurre la manutenzione??? ma non scherziamo!”), e magari (quando si può) si fanno spot sorridenti dove si dice che va tutto benissimo.
Ma qui mi fermo (potrei parlare della tragedia recente di Viareggio, o dei treni TAV nuovissimi bloccati da venti centimetri di neve e da un po’ di ghiaccio), perché andare avanti si fa troppo complicato e anche perché penso che il discorso sia chiarissimo, ma anche inutile: chi non vuole vedere la realtà continuerà a guardare altrove.
venerdì 1 gennaio 2010
El gran tarloco
El tenpo no se misura,
eternamente el score,
e duto nasse e duto more
nel lume alegro che l'aria inasùra.
Xe ben savê che passa duto,
l'ora de zogia, el momento de luto;
e spetâ calmi,
ben intonai,
cantando salmi.
Stâ fermi e fasse palo
quando vien la tormenta,
quando el più grando ben se piega al calo;
e la luse del sol in noltri stenta.
Sol tramontao
senpre el ritorna
e senpre azorna
nel cuor più tormentao.
La vita mia,
sielo de nùoli luminosi,
i vinti pitigoli e furiosi
me l'ha sufiagia via.
Co poco che ha bastùo
a disfâ el gno reame
lustro d'oro e de rame
e nel ninte cagiùo.
Luse viva e culuri
i feva festa
intorno a la mia testa
portagia via da quî splenduri.
A poco a poco
i roseri s'ha spento
per poco de vento,
el gran tarloco.
Biagio Marin , da "Nel silenzio più teso" ed. BUR 1981
(nùoli sono le nuvole; zògia è la gioia; i venti sono pettegoli e furiosi, soffiano via la mia vita - quel tanto che basta a disfare il mio reame, lustro d'oro e di rame) (stare fermi e farsi palo, quando vien la tempesta...)
(e tutto nasce e tutto muore, nel lume allegro che rende l'aria azzurra)
eternamente el score,
e duto nasse e duto more
nel lume alegro che l'aria inasùra.
Xe ben savê che passa duto,
l'ora de zogia, el momento de luto;
e spetâ calmi,
ben intonai,
cantando salmi.
Stâ fermi e fasse palo
quando vien la tormenta,
quando el più grando ben se piega al calo;
e la luse del sol in noltri stenta.
Sol tramontao
senpre el ritorna
e senpre azorna
nel cuor più tormentao.
La vita mia,
sielo de nùoli luminosi,
i vinti pitigoli e furiosi
me l'ha sufiagia via.
Co poco che ha bastùo
a disfâ el gno reame
lustro d'oro e de rame
e nel ninte cagiùo.
Luse viva e culuri
i feva festa
intorno a la mia testa
portagia via da quî splenduri.
A poco a poco
i roseri s'ha spento
per poco de vento,
el gran tarloco.
Biagio Marin , da "Nel silenzio più teso" ed. BUR 1981
(nùoli sono le nuvole; zògia è la gioia; i venti sono pettegoli e furiosi, soffiano via la mia vita - quel tanto che basta a disfare il mio reame, lustro d'oro e di rame) (stare fermi e farsi palo, quando vien la tempesta...)
(e tutto nasce e tutto muore, nel lume allegro che rende l'aria azzurra)
Iscriviti a:
Post (Atom)