mercoledì 14 luglio 2010

Beaumarchais

«(...) No, signor conte, voi non l'avrete... non l'avrete. Perché siete un gran signore, vi credete un gran genio!... Nobiltà, ricchezza, gradi, cariche: fa diventare così superbi, tutto questo! Ma voi che avete fatto per meritare tanta fortuna? Vi siete data la pena di nascere, e basta. Del resto, siete un uomo abbastanza comune. Mentre io, perbacco!, sperso come ero nella folla anonima, ho dovuto spiegare più scienza e accortezza, solo per sopravvivere, che non voi in cent'anni per governare tutte le Spagne. E vorreste giostrare con me, voi?... Viene qualcuno... è lei... No, non c'è nessuno... La notte è nera come il diavolo, ed eccomi qua a fare lo stupido mestiere del marito, anche se lo sono soltanto a metà! (Si siede su una panca)(...). Non potendo avvilire l'intelligenza, tutti si vendicano maltrattandola. Le guance intanto mi si scavavano: la pigione era in arretrato: vedevo già l'orribile figura del cursore arrivare di lontano con la penna infilata nella parrucca; spaventato mi metto a stillarmi il cervello. In quella, sorge una discussione sulla natura delle ricchezze; e siccome, le cose, non è necessario possederle per poterne ragionare, pur non avendo un soldo in tasca mi metto a scrivere sul valore del denaro e sul suo reddito netto: immediatamente, dal fondo d'una carrozza, vedo abbassarsi per me il ponte di una fortezza sulla cui soglia lasciavo la speranza e la libertà. (Si alza) Ah, questi potenti da quattro giorni, che danno ordini malvagi così alla leggera! come vorrei averne uno fra le mani, dopo che una buona disgrazia gli avesse fatto smaltire l'orgoglìo! Gli direi... che tutte le sciocchezze che si stampano diventano importanti solo nei paesi dove si ostacola la loro diffusione; che, senza la libertà di biasimare, non esistono elogi lusinghieri; e che soltanto gli uomini piccoli temono i piccoli scritti. (Si rimette a sedere) Un giorno si stancano di mantenere un oscuro ospite come me, e mi rimettono in mezzo alla strada; e, siccome bisogna pranzare anche se non si sta più in prigione, io rifaccio la punta alla mia penna, e domando a tutti qual è l'argomento del giorno: mi dicono che durante il mio ritiro economico, si è istituito a Madrid un regime di libertà sulla vendita dei prodotti, compresi anche quelli della stampa; purché nei miei scritti non parli né dell'autorità, né del culto, né di politica, né di morale, né delle persone altolocate, né degli istituti di credito, né dell'opera, né degli altri spettacoli, né di alcuno che conti per qualche cosa, io posso stampare quello che voglio, previo controllo di due o tre censori. Per approfittare di questa dolce libertà, annuncio la pubblicazione di un periodico, e, credendo di non pestare i piedi a nessuno, lo intitolo « Giornale inutile ». Pàffete! Vedo levarmisi contro mille poveri diavoli di pennaiuoli; il giornale è soppresso, e io sono daccapo senza lavoro! � La disperazione stava per impadronirsi di me, quando qualcuno pensò a trovarmi un posto; ma, per disgrazia, era troppo adatto per me: occorreva un contabile, e fu un ballerino a ottenerlo. Non mi restava altro da fare che rubare; divento tenitore di banco al faraone; allora, brava gente!, ceno tutte le sere in città e le così dette persone come si deve mi aprono gentilmente le loro case, intascando i tre quarti dei miei guadagni. Avrei potuto ritornare bene a galla; cominciavo anche a capire che per far fortuna il saper fare conta più del sapere. Ma siccome intorno a me tutti truffavano, pretendendo che io fossi onesto, dovetti ancora una volta soccombere. Il colpo fu tale che abbandonai il mondo, e venti braccia d'acqua stavano già per separarmene, quando un dio benefico mi richiama alla mia primitiva professione. Riprendo il mio astuccio e il mio cuoio inglese; poi, lasciando il fumo agli sciocchi che se ne nutrono, e la vergogna in mezzo alla strada, come un fardello troppo pesante per chi va a piedi, vado radendo barbe di città in città, e vivo finalmente senza pensieri. Un giorno capita a Siviglìa un gran signore; mi riconosce, io riesco a farlo sposare; e adesso, ottenuta la moglie per merito mio, come premio vuol prendersi la mia!(...)»
(Pierre A. Caron de Beaumarchais, "Il matrimonio di Figaro", brani dal monologo di Figaro nell'ultimo atto)

Per molto tempo ho considerato il personaggio di Figaro, il barbiere di Siviglia , come una figura un po' bolsa. Umorismo d'altri tempi, pensavo; la cavatina è così usurata da essere diventata inascoltabile.e Rossini ha scritto opere molto più divertenti, la Cenerentola e l'Italiana in Algeri, per esempio. Poi ho scoperto Mozart: Le nozze di Figaro, scritta in collaborazione con Lorenzo Da Ponte; e poi, sempre a ritroso, ho scoperto l'origine del personaggio di Figaro, e cioè Beaumarchais. Dopo aver aiutato il Conte d'Almaviva a sposare la sua innamorata (è il soggetto del "Barbiere"), Figaro, ormai al servizio del Conte, decide di sposarsi.
Il grande successo di Beaumarchais risale al 1775-1784, subito prima della Rivoluzione Francese; e la novità (la ragione del grande successo) sta nel fatto che il "proletario" Figaro si muove alla pari con il Conte, sulla scena non c'è differenza tra i due. Ma il Conte ha delle mire su Susanna: Figaro, come è ovvio, si è scelto una bella moglie e il Conte rimpiange i bei momenti quando c'era ancora lo jus primae noctis, e i padroni facevano quello che ritenevano giusto, e nessuno ci metteva il becco. Da qui nasce tutta la commedia, e anche l'equivoco per cui Figaro se la prende con le donne, all'inizio del suo monologo finale. Quando Mozart musica "Le nozze di Figaro" (1786), non fa che riprenderne il grande successo. La versione italiana di Lorenzo Da Ponte è bellissima, e la musica di Mozart anche; viene però censurata tutta la parte "politica", e nell'opera di Mozart Figaro, nell'aria finale, se la prende solo con le donne, e con il Conte...
Rileggendo Carlo Goldoni (stesso periodo), e riascoltando Mozart, mi sono reso conto di quanto sia simile questa nostra epoca a quel Settecento in apparenza così lontano.
Anche da noi, oggi, i Conti d'Almaviva sono ben presenti, vorrebbero risuscitare il passato in cui facevano quello che gli garba e nessuno (i sindacati e i comunisti, magari) poteva metterci becco, e ci sono ormai riusciti, con la nostra fattiva collaborazione s'intende.
E infatti, se vi guardate solo un po' in giro (ovviamente senza dimenticare gli specchi) potete facilmente riconoscere un esercito di lacché, maggiordomi, servitori, factotum, cortigiane e cortigiani. All'epoca del Conte d'Almaviva, quando un giovane servitore provava a pensare e alzava un po' la cresta, come capita nell'opera con il paggio Cherubino, lo si mandava a fare il soldato (lo si levava dai coglioni, insomma), sperando che in guerra poi avesse il fatto suo. Il Settecento è pieno di questi personaggi, che forse non si sono mai del tutto estinti ma solo cammuffati nelle nostre recenti vicende; ma ormai i tempi sono maturi e ognuno di noi può smettere di dissimulare e tornare alla sua immortale maschera, Pantalone Arlecchino Brighella e Colombina che sia. E anche, ovviamente, il terribile Capitan Fracassa: ma tutti rigorosamente alle dipendenze di qualcuno, Conte o Cavaliere che sia.
(settembre 2004)

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