La casa di ringhiera, quella dove tutti passano sul ballatoio, che dà sul cortile, è probabilmente un’evoluzione delle antiche corti. La casa di ringhiera era tipica di Milano, la Milano di inizio Novecento: molti ne parlano ancora con affetto, e alcune di queste corti sono state restaurate. La ragione di questa nostalgia, una nostalgia positiva, sta in questo: che nei palazzi e condomini moderni ognuno se ne sta per conto suo, mentre per le case di ringhiera si faceva, nel bene e nel male, vita in comune. Per cui, si finiva per conoscersi tutti e per sapere, volenti o nolenti, cosa faceva il vicino e come se la passava: il lato negativo di questa convivenza è chiaro, il lato positivo è che c’era tanta brava gente, e tutti finivano per aiutarsi al di là delle simpatie o antipatie personali.
Ovviamente, le case di ringhiera non c’erano solo a Milano: ma è a Milano che se ne parla con nostalgia, e – soprattutto – arrivato a questo punto mi sono reso conto che ho messo in fila un po’ di parole ormai desuete, di quelle che non si riesce più a capire di cosa si sta parlando, soprattutto se si è molto giovani. E dunque, premesso che io in una casa di ringhiera non ci ho mai abitato, prendo il dizionario e provo a mettere un po’ in chiaro:
Ringhiera: in sostanza, sinonimo di parapetto. Un parapetto in ferro, “barre e tubi di metallo variamente disposti e foggiati per scale, ballatoi, terrazzi, eccetera”. La parola “ringhiera” pare che provenga da “arengo, arengario” e simili: quindi un’origine molto antica.
Ballatoio: è un “balcone che gira tutto attorno ad un edificio o a parte di esso, sia esternamente che internamente, con parapetto di protezione”. L’etimologia è probabilmente latina: “ballatorium”, o forse “bellatorium”, con riferimento alle scuole di combattimento (lo Zingarelli dice che è un’etimologia poco chiara, discutibile).
Corte: non la corte del Re, ovviamente, ma la corte delle case contadine, l’aia, lo spiazzo dove si facevano i lavori. Spesso le case erano disposte a cerchio intorno alla corte, e comprendevano i fienili, eccetera. Nell’Ottocento a Milano erano ancora molti i contadini, e questa è forse l’origine della case di ringhiera.
Ma le case di ringhiera, si sa, “non ci sono più”, "gh'è minga pü, la ringhera"; e non ci sono più neanche i milanesi “cont el coeur in man”, i milanesi con il cuore in mano, che oggi in tempo di bossismo-maronismo, di leghismo e secessionismo sembra una battuta di spirito, ma c’erano – oh, se c’erano, ce n’erano tanti e io ne ho conosciuti tanti. Persone cordiali, solari, aperte, ben disposte verso il prossimo: ma i loro figli (quelli della mia età) non erano già più così, i loro nipoti men che meno. Provo a dare una spiegazione a tutto questo: negli anni ’20, ’30, ’40, ’50, la televisione non c’era. Negli anni ’60, ’70, ’80, il telefonino e i videogames non c’erano. Negli anni ’10, ’20, ’30, eccetera, c’erano campi e prati, anche a Milano, dove i ragazzi e i bambini andavano a giocare; eccetera eccetera. Insomma, è tutto un mondo che è cambiato.
(vignetta di Maramotti, dal mensile Linus, anno 1992)
venerdì 31 dicembre 2010
giovedì 30 dicembre 2010
Il caso Benitez
Il signor Moratti è, tra le altre cose, proprietario di una squadra di calcio a Milano; avendo bisogno di un tecnico che la guidi sul campo si rivolge al signor Benitez, che è spagnolo ma abita a Liverpool, dove ha conseguito grandi successi. Il signor Benitez è dunque una star e si fa pagare bene: dopo lunghe e dettagliate trattative dice “vengo, ma il mio stipendio è questo”. La conclusione, non nuova per Moratti, è questa: il rapporto di lavoro dura meno di sei mesi, Benitez viene liquidato con una somma favolosa (un milione di euro al mese, dicono gli informati), e via verso nuove avventure.
Non sono qui per parlare di calcio, vorrei piuttosto sottolineare una cosa che mi scandalizza: che tutto questo, in tempi di grave crisi economica, di chiusura di fabbriche, di precariato, di disoccupazione e di tagli alla scuola e alla cultura, è stato liquidato con un “ha i soldi, sono soldi suoi, ci fa quello che vuole”. La stessa cosa viene detta e ripetuta per le spese folli di Silvio Berlusconi (dieci milioni di euro all’anno per il calciatore Ibrahimovic, così come Moratti ne paga altri dieci all’africano Eto’o, per tacere del resto). La stessa cosa viene detta e ripetuta da anni per il miliardario russo Abramovic a Londra, con la squadra di calcio del Chelsea, per i ricconi arabi del Manchester City, eccetera.
Insomma, “chi ha i soldi fa quel che gli pare”. Insomma, “chi comanda è il padrone” è può anche buttare i soldi dalla finestra. Insomma, così si fa ed è cosa normale e naturale.
Mi stupisce molto ascoltare questi discorsi anche persone che hanno studiato, che hanno una cultura e che magari hanno una formazione di sinistra, o che si dicono di sinistra (vedi, in un campo più serio di quello del calcio, le recenti reazioni positive di Fassino e D’Alema ai diktat di Marchionne per Pomigliano e Mirafiori). Mi ha stupito molto anche vedere le alzate di spalle e i sorrisini, nei mesi scorsi, per la speculazione edilizia fatta da Silvio Berlusconi ad Antigua: a me è bastato vedere quell’enorme colata di cemento (sei chilometri di spiaggia!) a deturpare un autentico paradiso terrestre, e sono inorridito. Chi ha i soldi può fare quello che vuole? Ma come si fa a ribadire questo concetto nel 2010, prossimamente nel 2011...Addio civiltà, verrebbe da dire.
Mi permetto di segnalare, en passant, cosa fanno altri ricconi in giro per il mondo: finanziano scuole e musei (Gulbenkian, Guggenheim, un po’ tutti gli americani lo fanno da sempre), aprono scuole per bambini nei quartieri più disagiati del Venezuela (Josè Maria Abreu, che Dio lo benedica: dalla sua scuola sono già usciti e continuano a uscire grandi solisti e direttori d’orchestra), eccetera. Ma anche nel mondo del calcio c’è chi lavora diversamente: penso a personaggi discutibili come il signor Zamparini (un veneto che si è comperato il Palermo) o come il signor Preziosi (al Genoa), che valorizzano giovani talenti e poi li passano, a fior di quattrini, ai “ricchi scemi” delle grandi squadre di calcio; e così facendo ottengono ottimi risultati in città dove questi risultati non si erano mai visti o non si vedevano da decenni.
I ricchi possono dunque fare tutto quello che vogliono, anche bruciare le banconote? Queste scene si vedono nei dipinti di Grosz, il riccone che si accende il sigaro con la banconota da cinquecento euro. Ah no, pardon, non erano euro: erano marchi tedeschi del 1933...
Ma no, qui mi fermo, siamo alla fine dell’anno e basta pensieri cattivi. Voglio invece fare un brindisi col signor Benitez, che mi piace molto come persona, e lo immagino comodamente seduto in piscina, in vacanza in un bel posto, insieme al signor Cuper, al signor Tardelli, al signor Vampeta, al signor Farinos, e a tutti i (numerosissimi, sono più di cento) beneficati da un ricco signore che se avesse condotto così l’azienda di famiglia chissà dove sarebbe adesso. Un brindisi soltanto ideale, purtroppo: io sono fermo qui, nella nebbia, a fare i conti con le attuali leggi sul lavoro, con il precariato, con il divieto di lavoro per gli ultraquarantenni e per le madri e per gli handicappati, eccetera eccetera. Comunque sia, alzo lo stesso il bicchiere: que viva Benitez! que viva Cuper!
PS: il signor Moratti ha un fratello, molto più parco e molto innamorato, il che me lo rende simpatico. Questo Moratti non butta via soldi per i calciatori, ma spende cinque o sei milioni di euro per vedere la moglie, con cui è sposato da più di trent’anni, diventare sindaco di Milano. Questa però è con tutta evidenza una storia d’amore vero, quindi mi ritiro con rispetto.
Non sono qui per parlare di calcio, vorrei piuttosto sottolineare una cosa che mi scandalizza: che tutto questo, in tempi di grave crisi economica, di chiusura di fabbriche, di precariato, di disoccupazione e di tagli alla scuola e alla cultura, è stato liquidato con un “ha i soldi, sono soldi suoi, ci fa quello che vuole”. La stessa cosa viene detta e ripetuta per le spese folli di Silvio Berlusconi (dieci milioni di euro all’anno per il calciatore Ibrahimovic, così come Moratti ne paga altri dieci all’africano Eto’o, per tacere del resto). La stessa cosa viene detta e ripetuta da anni per il miliardario russo Abramovic a Londra, con la squadra di calcio del Chelsea, per i ricconi arabi del Manchester City, eccetera.
Insomma, “chi ha i soldi fa quel che gli pare”. Insomma, “chi comanda è il padrone” è può anche buttare i soldi dalla finestra. Insomma, così si fa ed è cosa normale e naturale.
Mi stupisce molto ascoltare questi discorsi anche persone che hanno studiato, che hanno una cultura e che magari hanno una formazione di sinistra, o che si dicono di sinistra (vedi, in un campo più serio di quello del calcio, le recenti reazioni positive di Fassino e D’Alema ai diktat di Marchionne per Pomigliano e Mirafiori). Mi ha stupito molto anche vedere le alzate di spalle e i sorrisini, nei mesi scorsi, per la speculazione edilizia fatta da Silvio Berlusconi ad Antigua: a me è bastato vedere quell’enorme colata di cemento (sei chilometri di spiaggia!) a deturpare un autentico paradiso terrestre, e sono inorridito. Chi ha i soldi può fare quello che vuole? Ma come si fa a ribadire questo concetto nel 2010, prossimamente nel 2011...Addio civiltà, verrebbe da dire.
Mi permetto di segnalare, en passant, cosa fanno altri ricconi in giro per il mondo: finanziano scuole e musei (Gulbenkian, Guggenheim, un po’ tutti gli americani lo fanno da sempre), aprono scuole per bambini nei quartieri più disagiati del Venezuela (Josè Maria Abreu, che Dio lo benedica: dalla sua scuola sono già usciti e continuano a uscire grandi solisti e direttori d’orchestra), eccetera. Ma anche nel mondo del calcio c’è chi lavora diversamente: penso a personaggi discutibili come il signor Zamparini (un veneto che si è comperato il Palermo) o come il signor Preziosi (al Genoa), che valorizzano giovani talenti e poi li passano, a fior di quattrini, ai “ricchi scemi” delle grandi squadre di calcio; e così facendo ottengono ottimi risultati in città dove questi risultati non si erano mai visti o non si vedevano da decenni.
I ricchi possono dunque fare tutto quello che vogliono, anche bruciare le banconote? Queste scene si vedono nei dipinti di Grosz, il riccone che si accende il sigaro con la banconota da cinquecento euro. Ah no, pardon, non erano euro: erano marchi tedeschi del 1933...
Ma no, qui mi fermo, siamo alla fine dell’anno e basta pensieri cattivi. Voglio invece fare un brindisi col signor Benitez, che mi piace molto come persona, e lo immagino comodamente seduto in piscina, in vacanza in un bel posto, insieme al signor Cuper, al signor Tardelli, al signor Vampeta, al signor Farinos, e a tutti i (numerosissimi, sono più di cento) beneficati da un ricco signore che se avesse condotto così l’azienda di famiglia chissà dove sarebbe adesso. Un brindisi soltanto ideale, purtroppo: io sono fermo qui, nella nebbia, a fare i conti con le attuali leggi sul lavoro, con il precariato, con il divieto di lavoro per gli ultraquarantenni e per le madri e per gli handicappati, eccetera eccetera. Comunque sia, alzo lo stesso il bicchiere: que viva Benitez! que viva Cuper!
PS: il signor Moratti ha un fratello, molto più parco e molto innamorato, il che me lo rende simpatico. Questo Moratti non butta via soldi per i calciatori, ma spende cinque o sei milioni di euro per vedere la moglie, con cui è sposato da più di trent’anni, diventare sindaco di Milano. Questa però è con tutta evidenza una storia d’amore vero, quindi mi ritiro con rispetto.
mercoledì 29 dicembre 2010
'o presepe
San Francesco semiologo, cui si attribuisce la prima edilizia presepiale, certamente ha voluto in ogni figura iconizzare le varianti delle emozioni umane di fronte alla greppia santa, nella notte fatidica: ed ecco la semplice donazione di primizie, il trepidante sacrificio dei lattonzoli, il balbettio d'una preghiera nuova, l'accorrere speranzoso dei diseredati, la solerzia dei pastori, la curiosità dei maghi. Sì, un mondo simbolico, una preghiera plastica e vivacissima che comprende, certo, il «Gloria a Dio», ma anche «Pace agli uomini di buona volontà». E lo sanno anche la lavandaia, il pescatore, il guardiano di porci, i cammelli, le galline, il negretto con gli ananas, la fruttivendola, i viandanti, le papere sullo specchio, le pecore e agnelli. Lo sanno perfino i lupi che, quando sono animali, riescono anche a dialogare con i Santi.
Lo sa anche quello lì, immerso nel sonno all'ombra d'un palmizio di cartoncino verde e marrone?
C'è in tutti i presepi, il dormiente. Dorme il sonno beato del negligente. Il suo sonno è simbolico, è il sopore della ragione neghittosa. Gli scolastici definiscono come neglegentia un peccato che consiste nel non scegliere (dal latino nec-eligo). Oggi, motteggiando, si allude a questa renitenza a scegliere dicendo «non so, non c'ero e se c'ero dormivo». Ma la fantasia popolare non è pigra: riflette, comprende, racconta e tramanda. E assolve il dormiente. Il mondo che descrive non s'accontenta della celebrazione ossequiosa, è un mondo problematico. E annovera Cristi, poveri Cristi e dormienti riottosi, con quel sonno, a scegliere d'essere scelti.
(Michele Mirabella, dal Venerdì di Repubblica, Natale 2005)
Lo sa anche quello lì, immerso nel sonno all'ombra d'un palmizio di cartoncino verde e marrone?
C'è in tutti i presepi, il dormiente. Dorme il sonno beato del negligente. Il suo sonno è simbolico, è il sopore della ragione neghittosa. Gli scolastici definiscono come neglegentia un peccato che consiste nel non scegliere (dal latino nec-eligo). Oggi, motteggiando, si allude a questa renitenza a scegliere dicendo «non so, non c'ero e se c'ero dormivo». Ma la fantasia popolare non è pigra: riflette, comprende, racconta e tramanda. E assolve il dormiente. Il mondo che descrive non s'accontenta della celebrazione ossequiosa, è un mondo problematico. E annovera Cristi, poveri Cristi e dormienti riottosi, con quel sonno, a scegliere d'essere scelti.
(Michele Mirabella, dal Venerdì di Repubblica, Natale 2005)
martedì 28 dicembre 2010
"A chi sei cane tu?"
Una volta scoprii Eduardo De Filippo che parlava con un cane. Eravamo a Bari, davanti al Teatro Piccinni. Con discrezione ascoltai. Sembrava un colloquio amichevole e abituale. L'uomo parlava a bassa voce, fitto fitto. Il cane ascoltava compreso, scodinzolando.
Eduardo chiedeva al cane, un bellissimo esemplare multirazziale, pezzato, con uno sguardo dolcissimo, «A chi sei cane?». Pensai di non aver capito e drizzai le orecchie, come, del resto, fece anche la bestiola. Eduardo chiese ancora: «Ne', si può sapere a chi sei cane?».
Il cane rispose con un guaito che era un lamento come per dire: «Caro Maestro, purtroppo non sono cane a nessuno. Mi piacerebbe molto essere cane a qualcuno ma, evidentemente, sono figlio di un dio minore e, quindi, non sono cane a nessuno». Eduardo capì, lo accarezzò sconsolato come per dirgli che avrebbe voluto che potesse diventargli cane, ma che non poteva, che non doveva e che la sua vita e il suo lavoro glielo impedivano. Si allontanò meditabondo verso l'ingresso del palcoscenico e io lo accompagnai, consapevole che quel cane ci avrebbe seguito con lo sguardo triste di chi non è cane a nessuno. Eduardo non parlava e io non mi azzardavo a rompere la sua magistrale pausa di sìlenzio, poi mi disse: «Quando si nasce cane è meglio nascere cane "a qualcuno"». Solo allora compresi il mirabile dativo di possesso, con il quale sanciva il rapporto strano e bellissimo tra questo umile amico dell'uomo e l'uomo quando l'uomo è onesto. Un rapporto che migliora entrambi i contraenti. Forse perché uno è una bestia.
(di Michele Mirabella, dal venerdì di Repubblica 15.07.2005)
Eduardo chiedeva al cane, un bellissimo esemplare multirazziale, pezzato, con uno sguardo dolcissimo, «A chi sei cane?». Pensai di non aver capito e drizzai le orecchie, come, del resto, fece anche la bestiola. Eduardo chiese ancora: «Ne', si può sapere a chi sei cane?».
Il cane rispose con un guaito che era un lamento come per dire: «Caro Maestro, purtroppo non sono cane a nessuno. Mi piacerebbe molto essere cane a qualcuno ma, evidentemente, sono figlio di un dio minore e, quindi, non sono cane a nessuno». Eduardo capì, lo accarezzò sconsolato come per dirgli che avrebbe voluto che potesse diventargli cane, ma che non poteva, che non doveva e che la sua vita e il suo lavoro glielo impedivano. Si allontanò meditabondo verso l'ingresso del palcoscenico e io lo accompagnai, consapevole che quel cane ci avrebbe seguito con lo sguardo triste di chi non è cane a nessuno. Eduardo non parlava e io non mi azzardavo a rompere la sua magistrale pausa di sìlenzio, poi mi disse: «Quando si nasce cane è meglio nascere cane "a qualcuno"». Solo allora compresi il mirabile dativo di possesso, con il quale sanciva il rapporto strano e bellissimo tra questo umile amico dell'uomo e l'uomo quando l'uomo è onesto. Un rapporto che migliora entrambi i contraenti. Forse perché uno è una bestia.
(di Michele Mirabella, dal venerdì di Repubblica 15.07.2005)
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L'entomologo-Storie naturali
lunedì 27 dicembre 2010
Un curriculum inutile
...mi domandò se sapessi qualche mestiere, e se potessi guadagnarmi da vivere senza essere di peso agli altri. Gli risposi che conoscevo la giurisprudenza, la grammatica, la poesia, e soprattutto che scrivevo perfettamente bene.
- Con tutto ciò, - egli rispose - in questo paese non guadagnerete neppure il pane: nulla è più inutile di tale sapienza.
(storia del secondo monaco, in "Storia del facchino di Bagdad", da Le Mille e Una Notte)
Va però detto che al principe-monaco di questa storia servirà molto saper scrivere così bene, quando sarà mutato in scimmia dal genio demoniaco. (In ogni caso, qualsiasi studio abbiate portato a termine, se imparate a guidare il muletto, in questo Paese, troverete più facilmente un lavoro - a meno che non vi chiamiate Renzo Bossi, o qualcosa di simile: nel qual caso avrete le porte spalancate, qui a Bagdad, indipendentemente da quel che sapete fare).
- Con tutto ciò, - egli rispose - in questo paese non guadagnerete neppure il pane: nulla è più inutile di tale sapienza.
(storia del secondo monaco, in "Storia del facchino di Bagdad", da Le Mille e Una Notte)
Va però detto che al principe-monaco di questa storia servirà molto saper scrivere così bene, quando sarà mutato in scimmia dal genio demoniaco. (In ogni caso, qualsiasi studio abbiate portato a termine, se imparate a guidare il muletto, in questo Paese, troverete più facilmente un lavoro - a meno che non vi chiamiate Renzo Bossi, o qualcosa di simile: nel qual caso avrete le porte spalancate, qui a Bagdad, indipendentemente da quel che sapete fare).
domenica 26 dicembre 2010
Monteverdiana ( VIII )
Claudio Monteverdi, rime dall'Ottavo Libro dei Madrigali.
Lamento della Ninfa
Non havea Febo ancora recato al mondo il di, ch'una donzella fuora del proprio albergo uscì. Sul pallidetto volto scorgeasi il suo dolor; spesso gli venia sciolto un gran sospir dal cor. Sì calpestando fiori errava hor qua; i suoi perduti amori così piangendo va:
" Amor, " dicea,
il ciel mirando, il piè fermo,
" Dov’è, dov'è la fe'
che 'l traditor giurò ?
Fa che ritorni il mio amor
com'ei pur fu,
o tu m'ancidi, ch'io non mi tormenti più,
non mi tormenti più...
Non vo' più ch'ei sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i martiri
più non darammi affè.
Perchè di lui mi struggo,
tutt'orgoglioso sta,
che sì, che sì se 'l fuggo
ancor mi pregherà ?
Se ciglio ha più sereno
colei che 'l mio non è,
già non rinchiude in seno
amor si bella fè.
Nè mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
nè più soavi,
ah taci, taci,
che troppo il sai.... "
Sì tra sdegnosi pianti spargea le voci al ciel;
così ne' cori amanti mesce amor fiamma e gel.
Ottavio Rinuccini (1562-1621)
Hor che 'l ciel e la terra e 'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz'onda giace;
veglio, penso, ardo, piango; e chi mi sface,
sempre m'è innanzi per mia dolce pena:
guerra è il mio stato, d'ira e di duol piena;
e sol di lei pensando, ho qualche pace.
Cosi sol d'una chiara fonte viva
move il dolce e l'amaro ond'io mi pasco:
una man sola mi risana e punge:
e perchè il mio martir non giunga a riva,
mille volte il dì moro, e mille nasco,
tanto della salute mia son lunge.
Francesco Petrarca, Rime
COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA
Combattimento in Musica di Tancredi et Clorinda, descritto dal Tasso; il quale volendosi esser fatto in genere rappresentativo, si farà entrare alla sprovista (dopo cantatosi alcuni Madrigali senza gesto) dalla parte de la Camera in cui si farà la Musica, Clorinda a piedi armata, seguita da Tancredi armato sopra ad un Cavallo Mariano, et il Testo all'hora comincierà il Canto. Faranno gli passi et gesti nel modo che l'oratione esprime, et nulla di più ne meno, osservando questi diligentemente gli tempi, colpi et passi, et gli ustrimentisti gli suoni incitati e molli; et il Testo le parole a tempo pronuntiate, in maniera, che le creationi venghino ad incontrarsi in una imitatione unita; Clorinda parlerà quando gli toccherà, tacendo il Testo; così Tancredi. Gli ustrimenti, cioè quattro viole da brazzo, Soprano, Alto, Tenore et Basso, et contrabasso da Gamba, che continuerà con il Clavicembano, doveranno essere tocchi ad immitatione delle passioni dell'oratione; la voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia alquanto discosta da gli ustrimenti, atiò meglio sii intesa nel oratione; Non doverà far gorghe né trilli in altro loco, che solamente nel canto de la stanza, che incomincia Notte; il rimanente porterà le pronuntie a similitudine delle passioni del'oratione. In tal maniera (già dodeci Anni) fu rapresentato nel Pallazzo del'Illustrissimo et Eccelentissimo Signor Girolamo Mozzenigo, mio particolar Signore. Con ogni compitezza, per essere Cavaliere di bonissimo et delicato gusto; In tempo però di Carnevale per passatempo di veglia; Alla presenza di tutta la Nobilità, la quale restò mossa dal'affetto di compassione in maniera, che quasi fu per gettar lacrime: et ne diede applauso per essere statto canto di genere non più visto nè udito.
Tancredi, che Clorinda un homo stima,
vol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
ver altra porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso onde assai prima
che giunga in guisa avien che d'armi suone,
ch'ella si volge, e grida: "O tu, che porte,
correndo sì?" Rispose: "E guerra e morte".
" Guerra e mort'havrai, " disse. " Io non rifiuto
dàrlati, se le cerchi, e fermo attendi. " (...)
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, xii 52-62, 64-68
IL BALLO DELLE INGRATE
Prima si fa una scena la cui prospettiva formi una bocca d'Inferno con quatro strade per banda, che gettino fuoco, di quali usciscono a due a due le Anime Ingrate, cori gesti lamentevoli al suono della entrata che sarà il principio del ballo, il qual va cotante volte ripetito da suonatori fino che si trovino poste nel mezzo del loco in cui assi da dar principio al ballo, Plutone sta nel mezzo conducendole a passi gravi, poi ritiratosi e alquanto dopo finita la entrata, danno principio al ballo, poscia Plutone fattolo fermare nel mezzo, parla verso alla Principessa, e Damme, che saranno presenti, nel modo, che sta scritto; Delle Anime ingrate, il lor vestito sarà di color ceneritio, adornato di lacrime finte; finito il ballo tornano nel Inferno, nel medesimo modo del'uscita, e al medesimo suono lamentevole, restandone una nella fine in scena, facendo il lamento che sta scritto, poi entra nel'Inferno. Al levar de la tela si farà una sinfonia a beneplacito.
Amore
De l'implacabil Dio
eccone giunt'al regno:
seconda, o bella Madre,
il pregar mio.
Venere
Non tacerà mia voce
dolci lusinghe e prieghi
fin che l'alma feroce
del Re severo al tuo voler non pieghi.
Amore
Ferma, Madre, il bel piè, non por le piante
nel tenebroso impero
che l'aer tutto nero
non macchiass'il candor del bel sembiante.
Io sol n'andrò nella maggion oscura
e pregand'il gran Re trarotti avante.
Venere
Va por come t'agrada.
Io qui t'aspetto,
discreto pargoletto.
Sinfonia
Udite, donne, udite, i saggi detti
di celeste parlar nel cor serbate:
Chi, nemica d'Amor, ne' crudi affetti
armerà il cor nella fiorita etade
sentirà come poscia arde e saetta
quando più non havrà gratia e beltate,
E invan risonerà, tardi pentita,
di lisci e d'acque alla fallace aita. (...)
Qui con gesti lamentevoli, le Ingrate a dui a dui incominciano a passi gravi a danzare la presente entrata, stando Plutone nel mezzo, camminando a passi naturali e gravi.
Entrata e Ballo (...)
Qui ripigliano le Anime Ingrate la seconda parte del Ballo al suono come prima, la qual finita così Plutone gli parla:
Tornate al negro chiostro,
anime sventurate,
tornate ove vi sforza
il fallir vostro.
Qui tornano al Inferno al suono della prima entrata, nel modo con gesti, e passi come prima restandone una in scena, nella fine facendo il lamento come segue, epoi entra nell'Inferno.
Una delle Ingrate
Ahi troppo, ahi troppo è duro,
crudel sentenza, e viè più cruda pena,
tornar a lagrimar ne l'antro oscuro.
Aer sereno e puro, addio, per sempre.
Addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle...
Apprendere pietà, donne e donzelle.
Quattro Ingrate insieme
Apprendete pietà, donne e donzelle.
Una delle Ingrate
Al fumo, a' gridi, a' pianti,
a sempiterno affanno!
Ahi dove son le pompe,
ove gli amanti,
dove sen vanno
donne che sì pregiate
al mondo furo?
Aer sereno e puro, addio, per sempre.
Addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle...
Apprendete pietà, donne e donzelle.
(versi di Ottavio Rinuccini)
Lamento della Ninfa
Non havea Febo ancora recato al mondo il di, ch'una donzella fuora del proprio albergo uscì. Sul pallidetto volto scorgeasi il suo dolor; spesso gli venia sciolto un gran sospir dal cor. Sì calpestando fiori errava hor qua; i suoi perduti amori così piangendo va:
" Amor, " dicea,
il ciel mirando, il piè fermo,
" Dov’è, dov'è la fe'
che 'l traditor giurò ?
Fa che ritorni il mio amor
com'ei pur fu,
o tu m'ancidi, ch'io non mi tormenti più,
non mi tormenti più...
Non vo' più ch'ei sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i martiri
più non darammi affè.
Perchè di lui mi struggo,
tutt'orgoglioso sta,
che sì, che sì se 'l fuggo
ancor mi pregherà ?
Se ciglio ha più sereno
colei che 'l mio non è,
già non rinchiude in seno
amor si bella fè.
Nè mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
nè più soavi,
ah taci, taci,
che troppo il sai.... "
Sì tra sdegnosi pianti spargea le voci al ciel;
così ne' cori amanti mesce amor fiamma e gel.
Ottavio Rinuccini (1562-1621)
Hor che 'l ciel e la terra e 'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz'onda giace;
veglio, penso, ardo, piango; e chi mi sface,
sempre m'è innanzi per mia dolce pena:
guerra è il mio stato, d'ira e di duol piena;
e sol di lei pensando, ho qualche pace.
Cosi sol d'una chiara fonte viva
move il dolce e l'amaro ond'io mi pasco:
una man sola mi risana e punge:
e perchè il mio martir non giunga a riva,
mille volte il dì moro, e mille nasco,
tanto della salute mia son lunge.
Francesco Petrarca, Rime
COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA
Combattimento in Musica di Tancredi et Clorinda, descritto dal Tasso; il quale volendosi esser fatto in genere rappresentativo, si farà entrare alla sprovista (dopo cantatosi alcuni Madrigali senza gesto) dalla parte de la Camera in cui si farà la Musica, Clorinda a piedi armata, seguita da Tancredi armato sopra ad un Cavallo Mariano, et il Testo all'hora comincierà il Canto. Faranno gli passi et gesti nel modo che l'oratione esprime, et nulla di più ne meno, osservando questi diligentemente gli tempi, colpi et passi, et gli ustrimentisti gli suoni incitati e molli; et il Testo le parole a tempo pronuntiate, in maniera, che le creationi venghino ad incontrarsi in una imitatione unita; Clorinda parlerà quando gli toccherà, tacendo il Testo; così Tancredi. Gli ustrimenti, cioè quattro viole da brazzo, Soprano, Alto, Tenore et Basso, et contrabasso da Gamba, che continuerà con il Clavicembano, doveranno essere tocchi ad immitatione delle passioni dell'oratione; la voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia alquanto discosta da gli ustrimenti, atiò meglio sii intesa nel oratione; Non doverà far gorghe né trilli in altro loco, che solamente nel canto de la stanza, che incomincia Notte; il rimanente porterà le pronuntie a similitudine delle passioni del'oratione. In tal maniera (già dodeci Anni) fu rapresentato nel Pallazzo del'Illustrissimo et Eccelentissimo Signor Girolamo Mozzenigo, mio particolar Signore. Con ogni compitezza, per essere Cavaliere di bonissimo et delicato gusto; In tempo però di Carnevale per passatempo di veglia; Alla presenza di tutta la Nobilità, la quale restò mossa dal'affetto di compassione in maniera, che quasi fu per gettar lacrime: et ne diede applauso per essere statto canto di genere non più visto nè udito.
Tancredi, che Clorinda un homo stima,
vol ne l'armi provarla al paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
ver altra porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso onde assai prima
che giunga in guisa avien che d'armi suone,
ch'ella si volge, e grida: "O tu, che porte,
correndo sì?" Rispose: "E guerra e morte".
" Guerra e mort'havrai, " disse. " Io non rifiuto
dàrlati, se le cerchi, e fermo attendi. " (...)
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, xii 52-62, 64-68
IL BALLO DELLE INGRATE
Prima si fa una scena la cui prospettiva formi una bocca d'Inferno con quatro strade per banda, che gettino fuoco, di quali usciscono a due a due le Anime Ingrate, cori gesti lamentevoli al suono della entrata che sarà il principio del ballo, il qual va cotante volte ripetito da suonatori fino che si trovino poste nel mezzo del loco in cui assi da dar principio al ballo, Plutone sta nel mezzo conducendole a passi gravi, poi ritiratosi e alquanto dopo finita la entrata, danno principio al ballo, poscia Plutone fattolo fermare nel mezzo, parla verso alla Principessa, e Damme, che saranno presenti, nel modo, che sta scritto; Delle Anime ingrate, il lor vestito sarà di color ceneritio, adornato di lacrime finte; finito il ballo tornano nel Inferno, nel medesimo modo del'uscita, e al medesimo suono lamentevole, restandone una nella fine in scena, facendo il lamento che sta scritto, poi entra nel'Inferno. Al levar de la tela si farà una sinfonia a beneplacito.
Amore
De l'implacabil Dio
eccone giunt'al regno:
seconda, o bella Madre,
il pregar mio.
Venere
Non tacerà mia voce
dolci lusinghe e prieghi
fin che l'alma feroce
del Re severo al tuo voler non pieghi.
Amore
Ferma, Madre, il bel piè, non por le piante
nel tenebroso impero
che l'aer tutto nero
non macchiass'il candor del bel sembiante.
Io sol n'andrò nella maggion oscura
e pregand'il gran Re trarotti avante.
Venere
Va por come t'agrada.
Io qui t'aspetto,
discreto pargoletto.
Sinfonia
Udite, donne, udite, i saggi detti
di celeste parlar nel cor serbate:
Chi, nemica d'Amor, ne' crudi affetti
armerà il cor nella fiorita etade
sentirà come poscia arde e saetta
quando più non havrà gratia e beltate,
E invan risonerà, tardi pentita,
di lisci e d'acque alla fallace aita. (...)
Qui con gesti lamentevoli, le Ingrate a dui a dui incominciano a passi gravi a danzare la presente entrata, stando Plutone nel mezzo, camminando a passi naturali e gravi.
Entrata e Ballo (...)
Qui ripigliano le Anime Ingrate la seconda parte del Ballo al suono come prima, la qual finita così Plutone gli parla:
Tornate al negro chiostro,
anime sventurate,
tornate ove vi sforza
il fallir vostro.
Qui tornano al Inferno al suono della prima entrata, nel modo con gesti, e passi come prima restandone una in scena, nella fine facendo il lamento come segue, epoi entra nell'Inferno.
Una delle Ingrate
Ahi troppo, ahi troppo è duro,
crudel sentenza, e viè più cruda pena,
tornar a lagrimar ne l'antro oscuro.
Aer sereno e puro, addio, per sempre.
Addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle...
Apprendere pietà, donne e donzelle.
Quattro Ingrate insieme
Apprendete pietà, donne e donzelle.
Una delle Ingrate
Al fumo, a' gridi, a' pianti,
a sempiterno affanno!
Ahi dove son le pompe,
ove gli amanti,
dove sen vanno
donne che sì pregiate
al mondo furo?
Aer sereno e puro, addio, per sempre.
Addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle...
Apprendete pietà, donne e donzelle.
(versi di Ottavio Rinuccini)
venerdì 24 dicembre 2010
Piste ciclabili: una lettera di Natale
Qui intorno era tutta una pista ciclabile: facevo trenta, quaranta chilometri, del tutto indisturbato. Tenuto conto che siamo poco a nord di Milano, magari sembrerà strano: ma era ieri, 2004-2005. Poi è cambiato tutto.
Le piste ciclabili andavano fatte a Milano, non qui, non in Veneto, non in Emilia, non in Brianza. Il comasco e il varesotto, il Veneto, l’Emilia Romagna intera, la Brianza, erano una gigantesca pista ciclabile, prima che ci facessero le piste ciclabili.
Vi sembra un paradosso? Lo spiego subito: le piste ciclabili diventano necessarie quando il traffico automobilistico è così intenso da far diventare pericoloso andare in bicicletta. Era questo che bisognava evitare, evitare che il traffico di Milano, il cemento di Milano, l’asfalto di Milano, il sovraffollamento di Milano, arrivassero fin qui. A Milano sì, a Milano le piste ciclabili erano necessarie: ma a Milano non le hanno mai fatte, le hanno fatte qui.
Fino a cinque o sei anni fa, prendevo la bici e facevo i miei 30-40 Km, senza essere un vero ciclista: andavo a passeggio, bastava fare qualche pedalata ed ero in mezzo ai campi, evitando senza problemi le strade affollate. Adesso no, adesso c’è la Pedemontana che si è mangiata i campi; adesso c’è la quarta, quinta, sesta, settima, prossimamente ottava corsia dell’autostrada (ma qui c’era un boschetto), adesso ci sono villette e condomini (ma prima c’era un prato, e uno stagno).
Adesso ci sono le piste ciclabili, dove prima biciclettavo tranquillamente; e io ho messo la bici a riposo, ogni tanto controllo le gomme, spolvero, ma non la uso più. Tra un po’ mi diranno che se voglio uscire in bici e fare cinquecento metri dovrò mettermi il casco e la tuta riflettente, e allora butterò via la bici, che me ne faccio? Se devo bardarmi come un pilota di formula uno per andare a comperare il pane, tanto vale prendere la macchina.
Il prossimo passo, suppongo, sarà l’abolizione del pedone: penso che sia già allo studio nel prossimo codice stradale, ormai manca solo questo – ma è una norma inutile, i pedoni già non esistono più.
PS: Visto che è la vigilia, ecco la mia richiesta per un regalo di Natale: che si cancelli come per magia tutto quello che è stato fatto negli ultimi 10-15 anni, ma proprio tutto, leggi e leggine comprese. Se si cancellasse tutto quello che è stato fatto, ne trarremmo tutti vantaggio (se sono state fatte cose buone, si fa sempre in tempo a sistemare). Una richiesta impegnativa, vorrei fare come Erland Josephson in “Sacrificio” di Tarkovskij, ma temo che la mia persona non valga molto e quindi so già che non sarò esaudito.
Le piste ciclabili andavano fatte a Milano, non qui, non in Veneto, non in Emilia, non in Brianza. Il comasco e il varesotto, il Veneto, l’Emilia Romagna intera, la Brianza, erano una gigantesca pista ciclabile, prima che ci facessero le piste ciclabili.
Vi sembra un paradosso? Lo spiego subito: le piste ciclabili diventano necessarie quando il traffico automobilistico è così intenso da far diventare pericoloso andare in bicicletta. Era questo che bisognava evitare, evitare che il traffico di Milano, il cemento di Milano, l’asfalto di Milano, il sovraffollamento di Milano, arrivassero fin qui. A Milano sì, a Milano le piste ciclabili erano necessarie: ma a Milano non le hanno mai fatte, le hanno fatte qui.
Fino a cinque o sei anni fa, prendevo la bici e facevo i miei 30-40 Km, senza essere un vero ciclista: andavo a passeggio, bastava fare qualche pedalata ed ero in mezzo ai campi, evitando senza problemi le strade affollate. Adesso no, adesso c’è la Pedemontana che si è mangiata i campi; adesso c’è la quarta, quinta, sesta, settima, prossimamente ottava corsia dell’autostrada (ma qui c’era un boschetto), adesso ci sono villette e condomini (ma prima c’era un prato, e uno stagno).
Adesso ci sono le piste ciclabili, dove prima biciclettavo tranquillamente; e io ho messo la bici a riposo, ogni tanto controllo le gomme, spolvero, ma non la uso più. Tra un po’ mi diranno che se voglio uscire in bici e fare cinquecento metri dovrò mettermi il casco e la tuta riflettente, e allora butterò via la bici, che me ne faccio? Se devo bardarmi come un pilota di formula uno per andare a comperare il pane, tanto vale prendere la macchina.
Il prossimo passo, suppongo, sarà l’abolizione del pedone: penso che sia già allo studio nel prossimo codice stradale, ormai manca solo questo – ma è una norma inutile, i pedoni già non esistono più.
PS: Visto che è la vigilia, ecco la mia richiesta per un regalo di Natale: che si cancelli come per magia tutto quello che è stato fatto negli ultimi 10-15 anni, ma proprio tutto, leggi e leggine comprese. Se si cancellasse tutto quello che è stato fatto, ne trarremmo tutti vantaggio (se sono state fatte cose buone, si fa sempre in tempo a sistemare). Una richiesta impegnativa, vorrei fare come Erland Josephson in “Sacrificio” di Tarkovskij, ma temo che la mia persona non valga molto e quindi so già che non sarò esaudito.
giovedì 23 dicembre 2010
Monteverdiana ( VII )
Gli innamorati nella poesia del ‘500 avevano nomi ben strani: Filli, Ergasto, Mirtillo, Tirsi, Clori, Licori... Ma, poi, ascoltando Monteverdi, chi ci fa più caso? (edizioni consigliate: quelle dirette da Rinaldo Alessandrini, Roberto Gini, e un po’ tutti i complessi italiani) (il Settimo Libro è il più vasto, ventinove brani tutti di altissima qualità: difficile fare una scelta...)
Claudio Monteverdi, dal Settimo Libro dei Madrigali
Tempro la cetra, e per cantar gli onori
di Marte alzo talor lo stile e i carmi;
ma invan la tento ed impossibil parmi
ch'ella giammai risuoni altro che amori.
Così, pur tra l'arene e pur tra fiori,
note amorose Amor torna a dettarmi:
né vuol ch'io prenda ancora a cantar d'armi,
se non di quelle ond'egli impiaga i cuori.
Or l'umil plettro e i rozzi accenti indegni,
Musa, qual dianzi accorda, infin che al vanto
de la tromba sublime il ciel ti degni;
riedi a' teneri scherzi: e dolce intanto
lo Dio guerrier, temprando i fieri sdegni,
in grembo a Citerea dorma al tuo canto.
(Sonetto del Sig. Giambattista Marino)
Vorrei baciarti, o Filli,
ma non so
non so prima
ove il mio bacio scocchi,
ne la bocca o ne gli occhi
nella bocca o negli occhi...
Cedan le labbra a voi,
lumi divini,
fidi specchi del core,
vive stelle d'amore.
Ah, pur mi volgo a voi,
perle e rubini,
tesoro di bellezza,
fontana di dolcezza,
bocca, onor del bel viso:
nasce il pianto da lor,
tu m'apri il riso.
(Madrigale da "Gli Amori" del Sig. G. Marino)
Dice la mia bellissima Licori
quando talor favello seco d'amor,
ch'Amor è un spiritello
che vaga e vola,
e non si può tenere,
né toccar, né vedere;
e pur, se gli occhi giro,
ne' suoi begli occhi il miro:
il miro ma nol posso toccar,
ché sol si tocca
in quella bella bocca.
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Non vedrò mai le stelle, mai,
ne' bei celesti giri,
perfida,
ch'io non miri
gli occhi che fur presenti
alla dura cagion de' miei tormenti,
e ch'io non dica lor:
o luci belle,
deh siate sì rubelle di lume
a chi rubella è sì di fede,
che anzi a tant’occhi e tanti lumi ha core
tradire amante sotto fe' d'amore.
(Madrigale d'Incerto)
Ecco vicine, o bella Tigre, l'ore
che del tuo sole mi nasconda i rai:
ah che l'anima mia non sentì mai,
meglio che dal partir, le tue dimore!
Fuggimi pur con sempiterno errore:
sotto straniero ciel, ovunque sai
che, quanto più peregrinando vai,
cittadina ti sento in mezzo al core.
Ma potess'io seguir, solingo errante,
o sia per valli o sia per monti o sassi,
l'orme del tuo bel pié leggiadre e sante,
ch'andrei là dove spiri e dove passi,
con la bocca e col cor, devoto amante,
baciando l'aria ed adorando i passi.
(Sonetto del Sig. Claudio Achillini)
Eccomi pronta ai baci:
baciami, Ergasto mio:
ma bacia in guisa
che de' denti mordaci
nota non resti nel mio volto incisa
perch'altri non m'additi e in essa poi
legga le mie vergogne e i baci tuoi.
Ahi, tu mordi e non baci;
tu mi segnasti, ahi ahi!
Possa io morir se più ti bacio mai!
(Madrigale da "Gli Amori" del Sig. Giambattista Marino)
Parlo, misero, o taccio?
S'io taccio,
che soccorso avrà il morire?
S'io parlo,
che perdono avrà l'ardire?
Taci che ben s'intende
chiusa fiamma talor da chi l'accende;
parla in me la pietade,
parla in lei la beltade
e dice quel bel volto al crudo core:
chi può mirarmi
e non languir d'amore?
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Al lume delle stelle
Tirsi, sotto un alloro,
si dolea lagrimando
in questi accenti:
"O celesti facelle,
di lei ch'amo ed adoro
rassomigliate voi gli occhi lucenti.
Luci care e serene,
sento gli affanni,
ohimé, sento le pene;
luci serene e liete,
sento le fiamme lor
mentre splendete".
(Madrigale del Sig. Torquato Tasso)
Con che soavità, labbra odorate.
e vi bacio e v'ascolto:
ma se godo un piacer, l'altro m'è tolto.
Come i vostri diletti
s'ancidono fra lor,
se dolcemente
vive per ambedue l'anima mia?
Che soave armonia
fareste, o dolci baci,
o cari detti,
se foste unitamente
d'ambedue le dolcezze ambo capaci,
baciando i detti e ragionando i baci!.
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Se i languidi miei sguardi,
se i sospiri interrotti,
se le tronche parole
non han sin or potuto,
o bell'idolo mio,
farvi delle mie fiamme intera fede,
leggete queste note,
credete a questa carta,
a questa carta in cui
sotto forma d'inchiostro il cor stillai.
Qui sotto scorgerete
quegl'interni pensieri
che con passi d'amore
scorron l'anima mia; (...)
(Lettera Amorosa del Sig. Claudio Achillini)
Claudio Monteverdi, dal Settimo Libro dei Madrigali
Tempro la cetra, e per cantar gli onori
di Marte alzo talor lo stile e i carmi;
ma invan la tento ed impossibil parmi
ch'ella giammai risuoni altro che amori.
Così, pur tra l'arene e pur tra fiori,
note amorose Amor torna a dettarmi:
né vuol ch'io prenda ancora a cantar d'armi,
se non di quelle ond'egli impiaga i cuori.
Or l'umil plettro e i rozzi accenti indegni,
Musa, qual dianzi accorda, infin che al vanto
de la tromba sublime il ciel ti degni;
riedi a' teneri scherzi: e dolce intanto
lo Dio guerrier, temprando i fieri sdegni,
in grembo a Citerea dorma al tuo canto.
(Sonetto del Sig. Giambattista Marino)
Vorrei baciarti, o Filli,
ma non so
non so prima
ove il mio bacio scocchi,
ne la bocca o ne gli occhi
nella bocca o negli occhi...
Cedan le labbra a voi,
lumi divini,
fidi specchi del core,
vive stelle d'amore.
Ah, pur mi volgo a voi,
perle e rubini,
tesoro di bellezza,
fontana di dolcezza,
bocca, onor del bel viso:
nasce il pianto da lor,
tu m'apri il riso.
(Madrigale da "Gli Amori" del Sig. G. Marino)
Dice la mia bellissima Licori
quando talor favello seco d'amor,
ch'Amor è un spiritello
che vaga e vola,
e non si può tenere,
né toccar, né vedere;
e pur, se gli occhi giro,
ne' suoi begli occhi il miro:
il miro ma nol posso toccar,
ché sol si tocca
in quella bella bocca.
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Non vedrò mai le stelle, mai,
ne' bei celesti giri,
perfida,
ch'io non miri
gli occhi che fur presenti
alla dura cagion de' miei tormenti,
e ch'io non dica lor:
o luci belle,
deh siate sì rubelle di lume
a chi rubella è sì di fede,
che anzi a tant’occhi e tanti lumi ha core
tradire amante sotto fe' d'amore.
(Madrigale d'Incerto)
Ecco vicine, o bella Tigre, l'ore
che del tuo sole mi nasconda i rai:
ah che l'anima mia non sentì mai,
meglio che dal partir, le tue dimore!
Fuggimi pur con sempiterno errore:
sotto straniero ciel, ovunque sai
che, quanto più peregrinando vai,
cittadina ti sento in mezzo al core.
Ma potess'io seguir, solingo errante,
o sia per valli o sia per monti o sassi,
l'orme del tuo bel pié leggiadre e sante,
ch'andrei là dove spiri e dove passi,
con la bocca e col cor, devoto amante,
baciando l'aria ed adorando i passi.
(Sonetto del Sig. Claudio Achillini)
Eccomi pronta ai baci:
baciami, Ergasto mio:
ma bacia in guisa
che de' denti mordaci
nota non resti nel mio volto incisa
perch'altri non m'additi e in essa poi
legga le mie vergogne e i baci tuoi.
Ahi, tu mordi e non baci;
tu mi segnasti, ahi ahi!
Possa io morir se più ti bacio mai!
(Madrigale da "Gli Amori" del Sig. Giambattista Marino)
Parlo, misero, o taccio?
S'io taccio,
che soccorso avrà il morire?
S'io parlo,
che perdono avrà l'ardire?
Taci che ben s'intende
chiusa fiamma talor da chi l'accende;
parla in me la pietade,
parla in lei la beltade
e dice quel bel volto al crudo core:
chi può mirarmi
e non languir d'amore?
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Al lume delle stelle
Tirsi, sotto un alloro,
si dolea lagrimando
in questi accenti:
"O celesti facelle,
di lei ch'amo ed adoro
rassomigliate voi gli occhi lucenti.
Luci care e serene,
sento gli affanni,
ohimé, sento le pene;
luci serene e liete,
sento le fiamme lor
mentre splendete".
(Madrigale del Sig. Torquato Tasso)
Con che soavità, labbra odorate.
e vi bacio e v'ascolto:
ma se godo un piacer, l'altro m'è tolto.
Come i vostri diletti
s'ancidono fra lor,
se dolcemente
vive per ambedue l'anima mia?
Che soave armonia
fareste, o dolci baci,
o cari detti,
se foste unitamente
d'ambedue le dolcezze ambo capaci,
baciando i detti e ragionando i baci!.
(Madrigale del Sig. Battista Guarini)
Se i languidi miei sguardi,
se i sospiri interrotti,
se le tronche parole
non han sin or potuto,
o bell'idolo mio,
farvi delle mie fiamme intera fede,
leggete queste note,
credete a questa carta,
a questa carta in cui
sotto forma d'inchiostro il cor stillai.
Qui sotto scorgerete
quegl'interni pensieri
che con passi d'amore
scorron l'anima mia; (...)
(Lettera Amorosa del Sig. Claudio Achillini)
martedì 21 dicembre 2010
Monteverdiana ( VI )
Il sesto libro dei madrigali viene stampato a Venezia, nel 1614: il fatto che siano passati nove anni tra il quinto e il sesto libro non deve far pensare che Monteverdi non abbia scritto niente in quel periodo, anzi. Sono successe molte cose nella vita del compositore, che nel frattempo è rimasto vedovo, e ha lasciato Mantova e la corte dei Gonzaga per un posto molto ambito, in quella che era la città più importante del suo tempo. Va anche ricordato che il libro a stampa è ancora un’invenzione recente (Gutenberg nacque agli inizi del ‘400 e morì nel 1468) e che anche il diritto d’autore era un’invenzione recente (Cervantes, contemporaneo di Monteverdi, parla spesso della “pirateria” e dei falsi nella seconda parte del Don Chisciotte). Stampare un libro era anche un modo per evitare trascrizioni arbitrarie, come faranno anche Haendel e Vivaldi nel secolo successivo.
Il sesto libro dei madrigali si apre con una versione a più voci (polifonica) del Lamento di Arianna, in origine per una voce sola: è l’unico frammento rimastoci del più grande successo di Monteverdi, l’opera “Arianna”. Ed è ben curioso che non ci rimanga niente di un’opera rappresentata più volte e in città diverse, che ebbe grande successo: ma così funzionava a quel tempo, e non è detto che dagli archivi non salti fuori, prima o poi, una versione dell’opera più o meno completa. Fin qui non è ancora successo, ma non bisogna disperare.
Si dispera invece Arianna: abbandonata da Teseo dopo l’impresa nel Labirinto. Una volta sconfitto il Minotauro, l’eroe greco abbandonerà sull’isola di Nasso la donna che lo ha aiutato e volerà via verso altre imprese. Arianna si dispera e invoca la morte, ma ci sarà il lieto fine: sarà Dioniso stesso (Bacco, se preferite) a prenderla in sposa. L’aria è piena di cose strane, di riferimenti a mostri marini, davvero un’aria di pazzia e di delirio: non sorprende che Dioniso ne sia rimasto colpito.
LAMENTO D'ARIANNA
Lasciatemi morire, lasciatemi morire...
E che volete voi che mi conforte
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire...
O Teseo, o Teseo mio,
sì, che mio ti vo' dir,
che mio pur sei,
benchè t'involi, ahi crudo,
a gli occhi miei.
Volgiti, Teseo mio,
volgiti, Teseo, o Dio!
Volgiti indietro a rimirar colei
che lasciato ha per te la patria e il regno,
e in questa arena ancora,
cibo di fere dispietate e crude,
lascierà l'ossa ignude.
O Teseo, o Teseo mio,
Se tu sapessi, o Dio,
se tu sapessi, ohimè! come s'affanna
la povera Arianna,
forse, forse pentito
rivolgeresti ancor la prora al lito...
Ma con l'aure serene
tu te ne vai felice
et io qui piango;
a te prepara Atene
liete pompe superbe,
et io rimango
cibo di fera in solitarie arene;
te l'uno e l'altro tuo vecchio parente
stringerà lieto, et io
più non vedrovvi, o madre, o padre mio.
Dove, dove è la fede,
che tanto mi giuravi?
così ne l'alta sede
tu mi ripon de gli avi?
Son queste le corone
onde m'adorni il crine?
Questi gli scettri sono,
queste le gemme e gli ori:
lasciarmi in abbandono
a fera che mi stracci e mi divori!
Ah Teseo, ah Teseo mio,
lascierai tu morire,
invan piangendo, invan gridando aita,
la misera Arianna
che a te fidossi e ti diè gloria e vita ?
Ahi, che non pur risponde...
Ahi, che più d'aspe è sordo a' miei lamenti...
O nembi, o turbi, o venti,
sommergetelo voi dentr'a quell'onde!
Correte, orchi e balene,
e de le membra immonde
empiete le voragini profonde!
Che parlo, ahi, che vaneggio?
Misera, ohimè, che chieggio?
O Teseo, o Teseo mio,
non son, non son quell'io,
non son quell'io che i féri detti sciolse:
parlò l'affanno mio, parlò il dolore;
parlò la lingua sì, ma non già il core.
(versi di Ottavio Rinuccini)
Il sesto libro dei madrigali si apre con una versione a più voci (polifonica) del Lamento di Arianna, in origine per una voce sola: è l’unico frammento rimastoci del più grande successo di Monteverdi, l’opera “Arianna”. Ed è ben curioso che non ci rimanga niente di un’opera rappresentata più volte e in città diverse, che ebbe grande successo: ma così funzionava a quel tempo, e non è detto che dagli archivi non salti fuori, prima o poi, una versione dell’opera più o meno completa. Fin qui non è ancora successo, ma non bisogna disperare.
Si dispera invece Arianna: abbandonata da Teseo dopo l’impresa nel Labirinto. Una volta sconfitto il Minotauro, l’eroe greco abbandonerà sull’isola di Nasso la donna che lo ha aiutato e volerà via verso altre imprese. Arianna si dispera e invoca la morte, ma ci sarà il lieto fine: sarà Dioniso stesso (Bacco, se preferite) a prenderla in sposa. L’aria è piena di cose strane, di riferimenti a mostri marini, davvero un’aria di pazzia e di delirio: non sorprende che Dioniso ne sia rimasto colpito.
LAMENTO D'ARIANNA
Lasciatemi morire, lasciatemi morire...
E che volete voi che mi conforte
in così dura sorte,
in così gran martire?
Lasciatemi morire...
O Teseo, o Teseo mio,
sì, che mio ti vo' dir,
che mio pur sei,
benchè t'involi, ahi crudo,
a gli occhi miei.
Volgiti, Teseo mio,
volgiti, Teseo, o Dio!
Volgiti indietro a rimirar colei
che lasciato ha per te la patria e il regno,
e in questa arena ancora,
cibo di fere dispietate e crude,
lascierà l'ossa ignude.
O Teseo, o Teseo mio,
Se tu sapessi, o Dio,
se tu sapessi, ohimè! come s'affanna
la povera Arianna,
forse, forse pentito
rivolgeresti ancor la prora al lito...
Ma con l'aure serene
tu te ne vai felice
et io qui piango;
a te prepara Atene
liete pompe superbe,
et io rimango
cibo di fera in solitarie arene;
te l'uno e l'altro tuo vecchio parente
stringerà lieto, et io
più non vedrovvi, o madre, o padre mio.
Dove, dove è la fede,
che tanto mi giuravi?
così ne l'alta sede
tu mi ripon de gli avi?
Son queste le corone
onde m'adorni il crine?
Questi gli scettri sono,
queste le gemme e gli ori:
lasciarmi in abbandono
a fera che mi stracci e mi divori!
Ah Teseo, ah Teseo mio,
lascierai tu morire,
invan piangendo, invan gridando aita,
la misera Arianna
che a te fidossi e ti diè gloria e vita ?
Ahi, che non pur risponde...
Ahi, che più d'aspe è sordo a' miei lamenti...
O nembi, o turbi, o venti,
sommergetelo voi dentr'a quell'onde!
Correte, orchi e balene,
e de le membra immonde
empiete le voragini profonde!
Che parlo, ahi, che vaneggio?
Misera, ohimè, che chieggio?
O Teseo, o Teseo mio,
non son, non son quell'io,
non son quell'io che i féri detti sciolse:
parlò l'affanno mio, parlò il dolore;
parlò la lingua sì, ma non già il core.
(versi di Ottavio Rinuccini)
domenica 19 dicembre 2010
Monteverdiana ( V )
Il quinto libro dei madrigali (siamo nel 1605) inizia con un capolavoro di scrittura musicale. I suoi versi iniziali a noi suonano strani: “Cruda Amarilli”. Amarilli è un nome di donna, un nome greco che ad un orecchio italiano sembra contenere la parola “amaro”; e “cruda” sta per crudele, cattiva, spietata. E’ dunque il lamento di un innamorato che se la prende con Amore, che non corrisponde ai suoi desideri. I versi sono di Guarini, e vengono da uno dei grandi successi dell’epoca barocca,“Il pastor fido”: come capita spesso (ed è una lezione da tenere in gran conto) i grandi successi di un’epoca vengono presto dimenticati, e oggi ricordare il nome di Guarini sarà dura anche per chi ha studiato Lettere.
Ma su queste due parole, “cruda Amarilli”, Monteverdi scrive una delle grandi meraviglie della musica: l’esecuzione che consiglio caldamente è quella di Rinaldo Alessandrini e del Concerto Italiano (cd Opus 111), ma è un brano che ha avuto molte ottime esecuzioni.
Cruda Amarilli, che col nome ancora,
d'amar, ahi lasso! amaramente insegni;
Amarilli, del candido ligustro
più candida e più bella,
ma de l'aspido sordo
e più sorda e più fera e più fugace;
poi che col dir t'offendo,
io mi morrò tacendo.
Gian Battista Guarini (1538-1612), da Il Pastor Fido (1590)
Monteverdi è uno dei grandi riformatori della musica, uno degli snodi fondamentali nella storia. Non capita a tutti: non a Mozart, per esempio, che è una stella d’assoluta grandezza ma riprende stili che già esistono intorno a lui, a partire da Gluck e da Haydn, ma anche dall’opera napoletana (Pergolesi e Paisiello, per esempio). Monteverdi fa una scelta di campo precisa, in quell’anno 1605, quando pubblica il Quinto Libro dei Madrigali. Una scelta che gli viene rimproverata aspramente dai musicisti di quel periodo, ben documentata da Paolo Fabbri nel suo “Monteverdi” pubblicato dalla EDT-Musica (pag.48, la polemica del canonico Artusi) e che qui provo a riassumere.
A quell’epoca, a metà del 1500, prevaleva la polifonia. Uno stile meraviglioso, che aveva dato capolavori che ancora ammiriamo e che permettono di cantare “a cappella”; lo stile di Palestrina e dei grandi fiamminghi. Però, sembra dirci Monteverdi, “io ho per le mani versi meravigliosi, di Petrarca, di Guarini, di Tasso: e non se ne capisce una parola...”. La novità, la rivoluzione che sconvolge i musici del primo ‘600, è proprio questa: la grande importanza data alla parola, ad ogni parola. E’ la rivoluzione che porterà ai grandi capolavori della parola in musica: di lì a poco, nel 1607, Monteverdi scriverà l’Orfeo, considerato il vero capostipite nella storia del teatro in musica.
Ch'io t'ami, e t'ami più de la mia vita,
se tu nol sai, crudele,
chiedilo a queste selve,
che tel diranno, e tel diran con esse
le fere loro e i duri sterpi e i sassi
di questi alpestri monti,
ch'i' ho sì spesse volte
inteneriti al suon de' miei lamenti.
Gian Battista Guarini, Il Pastor Fido
Troppo ben può questo tiranno, Amore,
poiché non val fuggire
a chi no'l può soffrire.
Quand'io penso talor com'arde, e punge,
io dico: " Ah! core stolto,
non l'aspettar; che fai ?
Fuggilo sì, che non ti prenda mai. "
Ma non so com'il lusinghier mi giunge,
ch'io dico: "Ah, core sciolto,
perché fuggito l'hai ?
Prendilo sì che non ti fugga mai. "
Gian Battista Guarini, Rime
Ma su queste due parole, “cruda Amarilli”, Monteverdi scrive una delle grandi meraviglie della musica: l’esecuzione che consiglio caldamente è quella di Rinaldo Alessandrini e del Concerto Italiano (cd Opus 111), ma è un brano che ha avuto molte ottime esecuzioni.
Cruda Amarilli, che col nome ancora,
d'amar, ahi lasso! amaramente insegni;
Amarilli, del candido ligustro
più candida e più bella,
ma de l'aspido sordo
e più sorda e più fera e più fugace;
poi che col dir t'offendo,
io mi morrò tacendo.
Gian Battista Guarini (1538-1612), da Il Pastor Fido (1590)
Monteverdi è uno dei grandi riformatori della musica, uno degli snodi fondamentali nella storia. Non capita a tutti: non a Mozart, per esempio, che è una stella d’assoluta grandezza ma riprende stili che già esistono intorno a lui, a partire da Gluck e da Haydn, ma anche dall’opera napoletana (Pergolesi e Paisiello, per esempio). Monteverdi fa una scelta di campo precisa, in quell’anno 1605, quando pubblica il Quinto Libro dei Madrigali. Una scelta che gli viene rimproverata aspramente dai musicisti di quel periodo, ben documentata da Paolo Fabbri nel suo “Monteverdi” pubblicato dalla EDT-Musica (pag.48, la polemica del canonico Artusi) e che qui provo a riassumere.
A quell’epoca, a metà del 1500, prevaleva la polifonia. Uno stile meraviglioso, che aveva dato capolavori che ancora ammiriamo e che permettono di cantare “a cappella”; lo stile di Palestrina e dei grandi fiamminghi. Però, sembra dirci Monteverdi, “io ho per le mani versi meravigliosi, di Petrarca, di Guarini, di Tasso: e non se ne capisce una parola...”. La novità, la rivoluzione che sconvolge i musici del primo ‘600, è proprio questa: la grande importanza data alla parola, ad ogni parola. E’ la rivoluzione che porterà ai grandi capolavori della parola in musica: di lì a poco, nel 1607, Monteverdi scriverà l’Orfeo, considerato il vero capostipite nella storia del teatro in musica.
Ch'io t'ami, e t'ami più de la mia vita,
se tu nol sai, crudele,
chiedilo a queste selve,
che tel diranno, e tel diran con esse
le fere loro e i duri sterpi e i sassi
di questi alpestri monti,
ch'i' ho sì spesse volte
inteneriti al suon de' miei lamenti.
Gian Battista Guarini, Il Pastor Fido
Troppo ben può questo tiranno, Amore,
poiché non val fuggire
a chi no'l può soffrire.
Quand'io penso talor com'arde, e punge,
io dico: " Ah! core stolto,
non l'aspettar; che fai ?
Fuggilo sì, che non ti prenda mai. "
Ma non so com'il lusinghier mi giunge,
ch'io dico: "Ah, core sciolto,
perché fuggito l'hai ?
Prendilo sì che non ti fugga mai. "
Gian Battista Guarini, Rime
giovedì 16 dicembre 2010
Il caso RAI
Cosa fa una ditta che riesce a mettere le mani su una diretta concorrente? Di solito la svuota: si tiene i marchi che gli interessano, vende tutto quello che può vendere, licenzia il personale. C’è chi lo fa brutalmente, c’è chi deve andare con i piedi di piombo: il risultato finale non cambia.
A me è successo almeno due volte, quando lavoravo per una multinazionale, di veder arrivare nuovi colleghi da ditte concorrenti: la prima volta dai dintorni di Milano, cioè abbastanza vicino, la seconda volta addirittura da Bologna. Le produzioni vengono spostate altrove, si tengono ricette e disegni che interessano, e del resto non è che importi molto. Vuoi lavorare? Il tuo posto adesso è a Timbuctù, se ti va bene è così se no lì c’è il cancello.
E’ quello che è successo e sta succedendo in RAI: basta guardare la programmazione dei nuovi canali del digitale terrestre per capire che dietro non c’è niente, nessun programma per il futuro. Mediaset ci ha messo dieci o dodici anni, ma adesso è arrivato il momento del colpo finale.
Lo schema è il solito, collaudatissimo: se si abbatte un albero in piena salute, nascerà un comitato di protesta; se l’albero però si ammala, diventa difficile protestare. L’importante, dunque, è far ammalare l’albero: missione riuscita, o quasi. Per intanto sono già partite le prime voci sul disavanzo RAI per i prossimi anni, un disavanzo coltivato per anni con estrema cura; “privatizzare, licenziare” sono le parole che volano nell’aria già da qualche settimana. Se regge il governo Berlusconi, in primavera si farà.
Intanto, i servi fedeli e ignoranti (cioè la Lega Nord e Umberto Bossi) abbaiano contro il canone: inneggiando al secessionismo e usando per l’ennesima volta a sproposito il coro di Verdi, che è simbolo del Risorgimento e dell’Italia unita. Il pezzo sul coro dall’atto terzo del Nabucco l’ho messo altre volte, copio e incollo qui sotto; due cose però vanno dette, e cioè: 1) attenzione: se il governo non cambia le regole, non pagando il canone RAI vi pignoreranno l’automobile o il frigorifero. 2) questo partito ha in mano il ministero degli Interni, che ogni due o tre giorni lancia l’allarme sul terrorismo: siamo sicuri che dietro questi appelli non ci sia già una falange organizzata? Non lo sapremo mai, con Maroni agli Interni...
Va' pensiero
L'idea di usare il "Va' pensiero" come inno nazionale risale ad Enzo Tortora e al suo programma televisivo Portobello, molto popolare negli anni '70 : e questo la dice lunga sulla preparazione e la cultura di chi porta avanti questa idea.
Certamente, il coro dal terzo atto del Nabucco di Giuseppe Verdi (1842) è un brano musicale molto bello e toccante: ma è del tutto inadatto a svolgere la funzione di inno nazionale, come ben sanno i musicisti e gli appassionati d'opera.
Basterebbe chiedere: innanzitutto, questo coro va cantato piano : l'inizio è quasi inintellegibile, e poi la voce sale gradualmente, ma senza mai toccare l'emissione a piena voce, né tantomeno l'urlo che lo storpia in tante esecuzioni assembleari. Dovendo essere cantato a mezza voce, diventa molto difficile per chi non è cantante di professione; e chi non sa cantare, come me, è meglio che canti qualcos'altro.
E poi il soggetto: l'episodio biblico degli Ebrei a Babilonia, che sono schiavi e sottomessi e rimpiangono la Patria lontana ( O mia Patria sì bella e perduta...). Tanto è vero che, alla fine del famoso coro, arriva Zaccaria, il "Gran Pontefice degli Ebrei", e rimprovera aspramente il suo popolo: non si deve perdere la Fede! Bisogna aver Fede nel Signore, e anche saper reagire alle avversità senza rassegnarsi, dice nella sua aria Zaccaria (voce di basso) al coro che aveva appena cantato il "va' pensiero": che è un canto del ricordo e della nostalgia, del tutto inadatto alla funzione di inno nazionale. Un canto bellissimo, ma è questo il concetto che esprime. Basterebbe chiedere, informarsi, leggere...
Giuliano, 9 dicembre 2003
A me è successo almeno due volte, quando lavoravo per una multinazionale, di veder arrivare nuovi colleghi da ditte concorrenti: la prima volta dai dintorni di Milano, cioè abbastanza vicino, la seconda volta addirittura da Bologna. Le produzioni vengono spostate altrove, si tengono ricette e disegni che interessano, e del resto non è che importi molto. Vuoi lavorare? Il tuo posto adesso è a Timbuctù, se ti va bene è così se no lì c’è il cancello.
E’ quello che è successo e sta succedendo in RAI: basta guardare la programmazione dei nuovi canali del digitale terrestre per capire che dietro non c’è niente, nessun programma per il futuro. Mediaset ci ha messo dieci o dodici anni, ma adesso è arrivato il momento del colpo finale.
Lo schema è il solito, collaudatissimo: se si abbatte un albero in piena salute, nascerà un comitato di protesta; se l’albero però si ammala, diventa difficile protestare. L’importante, dunque, è far ammalare l’albero: missione riuscita, o quasi. Per intanto sono già partite le prime voci sul disavanzo RAI per i prossimi anni, un disavanzo coltivato per anni con estrema cura; “privatizzare, licenziare” sono le parole che volano nell’aria già da qualche settimana. Se regge il governo Berlusconi, in primavera si farà.
Intanto, i servi fedeli e ignoranti (cioè la Lega Nord e Umberto Bossi) abbaiano contro il canone: inneggiando al secessionismo e usando per l’ennesima volta a sproposito il coro di Verdi, che è simbolo del Risorgimento e dell’Italia unita. Il pezzo sul coro dall’atto terzo del Nabucco l’ho messo altre volte, copio e incollo qui sotto; due cose però vanno dette, e cioè: 1) attenzione: se il governo non cambia le regole, non pagando il canone RAI vi pignoreranno l’automobile o il frigorifero. 2) questo partito ha in mano il ministero degli Interni, che ogni due o tre giorni lancia l’allarme sul terrorismo: siamo sicuri che dietro questi appelli non ci sia già una falange organizzata? Non lo sapremo mai, con Maroni agli Interni...
Va' pensiero
L'idea di usare il "Va' pensiero" come inno nazionale risale ad Enzo Tortora e al suo programma televisivo Portobello, molto popolare negli anni '70 : e questo la dice lunga sulla preparazione e la cultura di chi porta avanti questa idea.
Certamente, il coro dal terzo atto del Nabucco di Giuseppe Verdi (1842) è un brano musicale molto bello e toccante: ma è del tutto inadatto a svolgere la funzione di inno nazionale, come ben sanno i musicisti e gli appassionati d'opera.
Basterebbe chiedere: innanzitutto, questo coro va cantato piano : l'inizio è quasi inintellegibile, e poi la voce sale gradualmente, ma senza mai toccare l'emissione a piena voce, né tantomeno l'urlo che lo storpia in tante esecuzioni assembleari. Dovendo essere cantato a mezza voce, diventa molto difficile per chi non è cantante di professione; e chi non sa cantare, come me, è meglio che canti qualcos'altro.
E poi il soggetto: l'episodio biblico degli Ebrei a Babilonia, che sono schiavi e sottomessi e rimpiangono la Patria lontana ( O mia Patria sì bella e perduta...). Tanto è vero che, alla fine del famoso coro, arriva Zaccaria, il "Gran Pontefice degli Ebrei", e rimprovera aspramente il suo popolo: non si deve perdere la Fede! Bisogna aver Fede nel Signore, e anche saper reagire alle avversità senza rassegnarsi, dice nella sua aria Zaccaria (voce di basso) al coro che aveva appena cantato il "va' pensiero": che è un canto del ricordo e della nostalgia, del tutto inadatto alla funzione di inno nazionale. Un canto bellissimo, ma è questo il concetto che esprime. Basterebbe chiedere, informarsi, leggere...
Giuliano, 9 dicembre 2003
mercoledì 15 dicembre 2010
L'opinione degli altri
Giuliano, 18 novembre 2004
- Where do you come from? - mi chiede, incuriosito, il gestore del negozio di Amsterdam dove sono andato a fare un po' di spesa. Non sono biondo, ma in fin dei conti in mezzo agli olandesi potevo mimetizzarmi piuttosto bene; e mi è capitato altre volte di sentirmi chiedere se ero tedesco, americano, e perfino se ero greco (per via dei baffi, che tutti i greci portano e che allora portavo anch'io). Aggiunto che il mio inglese è tutt'altro che perfetto, la curiosità del gentile droghiere è più che legittima; così gli rispondo senza problemi.
- Ah, Italiamafia! - è la sua sorridente reazione. Lo dice come cosa scontata, la frase gli sale spontanea e sorridente. Insomma, non ha nessuna intenzione di offendermi e forse non se ne rende conto.
Correva l'anno 1992, la stagione di Di Pietro, Borrelli e Mani Pulite apriva molte speranze; gli accordi di Maastricht erano sulla bocca di tutti, al governo c'era Giuliano Amato, che stava varando la più terribile e pesante manovra finanziaria della storia d'Italia per provare a riparare agli anni della disastrosa gestione di Craxi e De Mita (i governi più lunghi nella storia della Repubblica, quelli in cui si aprì la voragine del debito pubblico).
Adesso siamo a fine 2004, abbiamo una sentenza definitiva secondo la quale Giulio Andreotti è stato sicuramente, fino al 1980 (e perciò per 32-34 anni) in contatto con i mafiosi, e abbiamo i Berlusconi, i Bossi e i Fini al governo. Cosa potrei rispondere al negoziante olandese? Forse la stessa cosa che gli risposi allora, cercando di sorridergli: "non io, non la mia famiglia..."
Sono passati un po’ di anni. Cosa è successo, nel frattempo? Sono arrivate due sentenze, una definitiva e l’altra quasi, che dicono a chiare lettere questa cosina qua: IL PARTITO CHE GOVERNA L’ITALIA È STATO FONDATO DA UN CORRUTTORE DI GIUDICI (CESARE PREVITI) E DA UN PROBABILE MAFIOSO (MARCELLO DELL’UTRI). Si può dire senza timore di querele: sto facendo riferimento a sentenze per un totale di sette anni di carcere ciascuno (il totale per ora fa quattordici, se non sbaglio). Ed è di questi giorni l’inchiesta (con centinaia di arresti) che denuncia il controllo della ‘ndrangheta su tutta la Padania (pardon, Lombardia); un’altra inchiesta denuncia il racket dei rifiuti in mano al gruppo camorristico dei “casalesi”, legatissimi anch’essi ai politici locali. Che dire? Che probabilmente per un olandese pronunciare correttamente la parola “ndràngheta” è molto difficile, e che ormai per farmi capire sarò costretto a dire che vengo da Gemonio, o da Varese, o da Arcore, o da Lazzate, o da Milano, una delle tanti capitali della Padaniamafia-Brianzamafia.
- Where do you come from? - mi chiede, incuriosito, il gestore del negozio di Amsterdam dove sono andato a fare un po' di spesa. Non sono biondo, ma in fin dei conti in mezzo agli olandesi potevo mimetizzarmi piuttosto bene; e mi è capitato altre volte di sentirmi chiedere se ero tedesco, americano, e perfino se ero greco (per via dei baffi, che tutti i greci portano e che allora portavo anch'io). Aggiunto che il mio inglese è tutt'altro che perfetto, la curiosità del gentile droghiere è più che legittima; così gli rispondo senza problemi.
- Ah, Italiamafia! - è la sua sorridente reazione. Lo dice come cosa scontata, la frase gli sale spontanea e sorridente. Insomma, non ha nessuna intenzione di offendermi e forse non se ne rende conto.
Correva l'anno 1992, la stagione di Di Pietro, Borrelli e Mani Pulite apriva molte speranze; gli accordi di Maastricht erano sulla bocca di tutti, al governo c'era Giuliano Amato, che stava varando la più terribile e pesante manovra finanziaria della storia d'Italia per provare a riparare agli anni della disastrosa gestione di Craxi e De Mita (i governi più lunghi nella storia della Repubblica, quelli in cui si aprì la voragine del debito pubblico).
Adesso siamo a fine 2004, abbiamo una sentenza definitiva secondo la quale Giulio Andreotti è stato sicuramente, fino al 1980 (e perciò per 32-34 anni) in contatto con i mafiosi, e abbiamo i Berlusconi, i Bossi e i Fini al governo. Cosa potrei rispondere al negoziante olandese? Forse la stessa cosa che gli risposi allora, cercando di sorridergli: "non io, non la mia famiglia..."
Sono passati un po’ di anni. Cosa è successo, nel frattempo? Sono arrivate due sentenze, una definitiva e l’altra quasi, che dicono a chiare lettere questa cosina qua: IL PARTITO CHE GOVERNA L’ITALIA È STATO FONDATO DA UN CORRUTTORE DI GIUDICI (CESARE PREVITI) E DA UN PROBABILE MAFIOSO (MARCELLO DELL’UTRI). Si può dire senza timore di querele: sto facendo riferimento a sentenze per un totale di sette anni di carcere ciascuno (il totale per ora fa quattordici, se non sbaglio). Ed è di questi giorni l’inchiesta (con centinaia di arresti) che denuncia il controllo della ‘ndrangheta su tutta la Padania (pardon, Lombardia); un’altra inchiesta denuncia il racket dei rifiuti in mano al gruppo camorristico dei “casalesi”, legatissimi anch’essi ai politici locali. Che dire? Che probabilmente per un olandese pronunciare correttamente la parola “ndràngheta” è molto difficile, e che ormai per farmi capire sarò costretto a dire che vengo da Gemonio, o da Varese, o da Arcore, o da Lazzate, o da Milano, una delle tanti capitali della Padaniamafia-Brianzamafia.
martedì 14 dicembre 2010
Il caso wikileaks
Qualsiasi cosa si possa pensare sulle rivelazioni di wikileaks, una cosa è certa e documentata: Cesare Previti è stato condannato per corruzione.
Condanna definitiva, sette o otto anni di carcere, per aver corrotto un giudice: quanto basta per far chiudere la carriera politica a lui e a tutti quelli che gli sono stati accanto nell'opera di corruzione. Magari wikileakes sta facendo soltanto fumo, ma questa di Previti condannato definitivamente per corruzione è una cosa certa; e magari tra un po' sarà certa e documentata anche la condanna di Dell'Utri per mafia. Via questi due, e via anche chi gli è stato più vicino, Lega compresa.
C'è bisogno d'altro?
Condanna definitiva, sette o otto anni di carcere, per aver corrotto un giudice: quanto basta per far chiudere la carriera politica a lui e a tutti quelli che gli sono stati accanto nell'opera di corruzione. Magari wikileakes sta facendo soltanto fumo, ma questa di Previti condannato definitivamente per corruzione è una cosa certa; e magari tra un po' sarà certa e documentata anche la condanna di Dell'Utri per mafia. Via questi due, e via anche chi gli è stato più vicino, Lega compresa.
C'è bisogno d'altro?
lunedì 13 dicembre 2010
Il caso Gelmini (o Moratti, che fa lo stesso)
Quando ho visto questa vignetta di Massimo Bucchi (ottobre 2010, sul Venerdì di Repubblica) mi sono detto: ecco una sintesi perfetta di quello che accade nel mondo della scuola. Non è la prima volta che Bucchi tira fuori qualcosa di così perfetto (anzi, è quasi sempre così), però magari qualcuno non l’ha capita e allora provo a spiegare.
L’iscrizione al liceo nido, come dice la signora nella vignetta, è qualcosa che mi ha sempre spaventato fin da quando, ormai una decina d’anni fa, è diventato obbligatorio iscrivere i figli a scuola (e anche all’asilo nido!) con almeno un anno d’anticipo. Ho ripensato a me stesso dodicenne, o sedicenne, e mi sono detto: mamma mia! Questi qua pretendono davvero che a dodici anni si sappia già tutto della vita, che si sia programmato tutto, che non siano previsti cambi d’idea e incidenti di percorso, immaginano che nella vita di un adolescente o teenager non ci saranno mai colpi di testa, innamoramenti, crisi di follia (a Milano si dice: “l’età della stupidera”)... Ripenso a me stesso sedicenne, o diciassettenne, penso all’oggi, e concludo: meno male che non ho avuto figli. Ed è una riflessione molto amara, perché a me sarebbe piaciuto avere dei figli.
L’altra idea portante delle Moratti e delle Gelmini (Letizia Moratti fu ministro dell’istruzione per molti anni, magari qualcuno se l’è già dimenticato) è che il liceo sia l’unica scuola seria. Anzi, no: il liceo classico, perchè quelli del classico ripetono da sempre che “lo scientifico è per gli asini”. Quindi, nella riforma berlusconiana è previsto che tutte le scuole siano d’ora innanzi chiamate licei: un po’ come quando un Famoso Politico consigliò alla Fiat di chiamare tutte le macchine “Ferrari”, così gli acquirenti felici sarebbero accorsi a frotte a comperarsi la Pandaferrari (e suppongo che intendesse: in contanti).
Un’altra idea trionfante gelminian-morattiana (lo dico con sgomento) è che si faccia un’ottima istruzione bocciando ed essendo severissimi. Più bocci, e più sei bravo; più studenti lasci per strada, e più meriti applausi e prebende (e io speravo, desideravo con tutto il cuore, che fosse invece l’opposto, soprattutto se stiamo parlando delle medie inferiori e delle elementari: più riesci a recuperare anche gli asini e gli svogliati...).
Io ho fatto un Istituto Tecnico, e ne sono orgoglioso. Ho imparato moltissime cose, studiando da perito chimico; e ho anche avuto ottimi insegnanti (non tutti ottimi, alcuni pessimi: va da sè). Intendo: non solo ottimi insegnanti di chimica, ma anche di Lettere, di Diritto, eccetera. Se poi a scuola non rendevo, e lo dico parlando dalla prospettiva della mia veneranda età attuale, è perché avevo 15-17 anni e non avevo idee chiarissime su quello che mi stava succedendo, sul mio futuro eccetera. Oltretutto, il mio diploma di perito chimico mi è servito: è il mestiere che ho svolto per più di vent’anni nella mia vita, e che mi ha garantito la tranquillità economica.
Pensavo a queste cose, e ad altre (come il titolo di “dottore” anche per chi fa il Conservatorio: una cosa del tutto inutile, chi esce dal Conservatorio deve saper suonare, cantare, leggere e conoscere la musica e la sua storia, dire “diploma” non è mica un insulto, anche la laurea è un diploma), leggendo la notizia che sono stati istituiti, con la riforma Tremonti (pardon, Gelmini) anche i licei sportivi: con ovvio boom di iscrizioni. Un successo, insomma: l’ennesimo di questo governo – ma poi cosa faranno questi ragazzi, una volta diplomati al liceo sportivo? Mistero, e temo che la delusione al termine del ciclo di studi sarà grande, a meno di avere un papà che ti finanzi l’apertura di una palestra, o qualcosa di simile.
Perché, alla fine dei conti, l’unica cosa importante è che l’economia consenta un lavoro per i ragazzi e le ragazze che escono da scuola. Ma qui in Lombardia, e soprattutto nel comasco e in Brianza e nel varesotto, da una decina d’anni in qua le industrie chiudono, delocalizzano, svaniscono nell’aria come neve al sole. Quando una fabbrica chiude, dove c’era la fabbrica costruiscono villette a schiera o aprono un centro commerciale: più in là di questo non si va. Ma guai a parlarne, le Gelmini e le Moratti si offendono, i Bossi e i Maroni diventano cattivissimi, i Berlusconi e i Cicchitto ti rivolgono sguardi sprezzanti. E io non voglio mica offendere nessuno, ripiego su il mio post e vado a chiudermi in casa, ascolto Bach: finché me lo lasciano fare... (ma temo che tra poco sarà vietato, e lo dico guardando gli enormi schermi tv che sparano jingle pubblicitari ormai ovunque).
PS: di Bach, per la precisione, il Preludio corale in fa minore BWV 639: quello che apre “Solaris” di Andrej Tarkovskij.
L’iscrizione al liceo nido, come dice la signora nella vignetta, è qualcosa che mi ha sempre spaventato fin da quando, ormai una decina d’anni fa, è diventato obbligatorio iscrivere i figli a scuola (e anche all’asilo nido!) con almeno un anno d’anticipo. Ho ripensato a me stesso dodicenne, o sedicenne, e mi sono detto: mamma mia! Questi qua pretendono davvero che a dodici anni si sappia già tutto della vita, che si sia programmato tutto, che non siano previsti cambi d’idea e incidenti di percorso, immaginano che nella vita di un adolescente o teenager non ci saranno mai colpi di testa, innamoramenti, crisi di follia (a Milano si dice: “l’età della stupidera”)... Ripenso a me stesso sedicenne, o diciassettenne, penso all’oggi, e concludo: meno male che non ho avuto figli. Ed è una riflessione molto amara, perché a me sarebbe piaciuto avere dei figli.
L’altra idea portante delle Moratti e delle Gelmini (Letizia Moratti fu ministro dell’istruzione per molti anni, magari qualcuno se l’è già dimenticato) è che il liceo sia l’unica scuola seria. Anzi, no: il liceo classico, perchè quelli del classico ripetono da sempre che “lo scientifico è per gli asini”. Quindi, nella riforma berlusconiana è previsto che tutte le scuole siano d’ora innanzi chiamate licei: un po’ come quando un Famoso Politico consigliò alla Fiat di chiamare tutte le macchine “Ferrari”, così gli acquirenti felici sarebbero accorsi a frotte a comperarsi la Pandaferrari (e suppongo che intendesse: in contanti).
Un’altra idea trionfante gelminian-morattiana (lo dico con sgomento) è che si faccia un’ottima istruzione bocciando ed essendo severissimi. Più bocci, e più sei bravo; più studenti lasci per strada, e più meriti applausi e prebende (e io speravo, desideravo con tutto il cuore, che fosse invece l’opposto, soprattutto se stiamo parlando delle medie inferiori e delle elementari: più riesci a recuperare anche gli asini e gli svogliati...).
Io ho fatto un Istituto Tecnico, e ne sono orgoglioso. Ho imparato moltissime cose, studiando da perito chimico; e ho anche avuto ottimi insegnanti (non tutti ottimi, alcuni pessimi: va da sè). Intendo: non solo ottimi insegnanti di chimica, ma anche di Lettere, di Diritto, eccetera. Se poi a scuola non rendevo, e lo dico parlando dalla prospettiva della mia veneranda età attuale, è perché avevo 15-17 anni e non avevo idee chiarissime su quello che mi stava succedendo, sul mio futuro eccetera. Oltretutto, il mio diploma di perito chimico mi è servito: è il mestiere che ho svolto per più di vent’anni nella mia vita, e che mi ha garantito la tranquillità economica.
Pensavo a queste cose, e ad altre (come il titolo di “dottore” anche per chi fa il Conservatorio: una cosa del tutto inutile, chi esce dal Conservatorio deve saper suonare, cantare, leggere e conoscere la musica e la sua storia, dire “diploma” non è mica un insulto, anche la laurea è un diploma), leggendo la notizia che sono stati istituiti, con la riforma Tremonti (pardon, Gelmini) anche i licei sportivi: con ovvio boom di iscrizioni. Un successo, insomma: l’ennesimo di questo governo – ma poi cosa faranno questi ragazzi, una volta diplomati al liceo sportivo? Mistero, e temo che la delusione al termine del ciclo di studi sarà grande, a meno di avere un papà che ti finanzi l’apertura di una palestra, o qualcosa di simile.
Perché, alla fine dei conti, l’unica cosa importante è che l’economia consenta un lavoro per i ragazzi e le ragazze che escono da scuola. Ma qui in Lombardia, e soprattutto nel comasco e in Brianza e nel varesotto, da una decina d’anni in qua le industrie chiudono, delocalizzano, svaniscono nell’aria come neve al sole. Quando una fabbrica chiude, dove c’era la fabbrica costruiscono villette a schiera o aprono un centro commerciale: più in là di questo non si va. Ma guai a parlarne, le Gelmini e le Moratti si offendono, i Bossi e i Maroni diventano cattivissimi, i Berlusconi e i Cicchitto ti rivolgono sguardi sprezzanti. E io non voglio mica offendere nessuno, ripiego su il mio post e vado a chiudermi in casa, ascolto Bach: finché me lo lasciano fare... (ma temo che tra poco sarà vietato, e lo dico guardando gli enormi schermi tv che sparano jingle pubblicitari ormai ovunque).
PS: di Bach, per la precisione, il Preludio corale in fa minore BWV 639: quello che apre “Solaris” di Andrej Tarkovskij.
sabato 11 dicembre 2010
Il caso Berlusconi
L’altro giorno ho portato qui un appunto preso da Tiziano Terzani: «Le antiche società sapevano che non si poteva lasciare ai commercianti la gestione del mondo, e non a caso Confucio, sistematizzando la struttura piramidale della società cinese, relegò i mercanti al livello più basso: dopo i sapienti, i militari e i contadini. Oggi le società moderne hanno rovesciato quella piramide ed i mercanti, con la loro etica e la loro estetica, sono in testa a tutti. (Tiziano Terzani, Corriere della Sera 17.1.99 )»
Chi l’abbia detto non ha importanza, che sia Socrate o Confucio o John Belushi o Sant’Agostino mi sembra comunque qualcosa su cui riflettere. E dunque: al primo posto stanno i sapienti, nel senso di quelli che sanno come si fa. Muratori, ingegneri, medici, panettieri, sarti, calzolai, letterati, artisti e artigiani: senza di loro bisognerebbe ogni volta ricominciare da capo. I sapienti hanno le conoscenze e sanno come trasmetterle.
Dopo i sapienti, i militari: nel senso della difesa, perché per espandersi vanno bene anche altri mezzi, i trattati, i matrimoni, gli accordi del tipo “io faccio pascolare le mucche sul tuo terreno, e poi ti dò una parte del loro latte”. La difesa invece è importante, perché se sei aggredito da un malintenzionato le arti diplomatiche servono a poco. Al terzo posto, i contadini: aggiungerei gli operai, i cuochi, e tutte le persone che fanno materialmente il lavoro. Ci vuole qualcuno che faccia materialmente il lavoro, che sudi e che si sporchi le mani: altrimenti tutto il sapere del mondo non serve a niente. I commercianti, e tutti quelli che maneggiano il denaro (compresi i capi del personale e gli economisti) sono meno importanti perché arrivano dopo: come si può commerciare una merce che non c’è, perché nessuno l’ha seminata e coltivata a dovere, o che c’era ma è stata rubata perché nessuno l’ha difesa?
Terzani, già nel 1999, ci stava dicendo proprio questo: che per un commerciante vendere il made in Italy o il made in China, o in Malaysia, o in Corea, non fa nessuna differenza. Anzi, per i gestori dei grandi centri commerciali può essere molto più conveniente vendere il made in China; e fin qui niente di male, ma poi succede che l’economia locale ne risente. Lo stesso discorso vale per i pubblicitari: per un pubblicitario, l’importante è che il cliente paghi e sia contento. Che poi sia arabo o cinese o brianzolo, poco importa. I risultati di questo “rovesciamento” sono sotto gli occhi di tutti: nei centri commerciali trovate ancora merci tedesche (Siemens, Bosch, Vaillant...), o magari finlandesi (i telefoni Nokia), ma gli italiani sono riusciti nel capolavoro di comperare perfino i pomodori dalla Cina.
Così va l’Italia, Padania compresa: ma non era affatto scontato che andasse così. Questo risultato viene da trent’anni di martellamento sulle nuove generazioni, che sono state convinte che i mestieri giusti fossero il marketing e la pubblicità, e che l’unica cosa che conta sia il denaro. E non importa da che parte arrivi il denaro, l’importante è che arrivi e che io possa avere il telefonino, il Suv, gli abiti firmati. Questa predicazione “a rovescio” è stata fatta per trent’anni da Silvio Berlusconi, e adesso i suoi esperti ci spiegano che la crisi arriva dal di fuori, che non è colpa di nessuno e che caso mai è tutta colpa dell’attentato a New York del 2001. In questi trent’anni (Berlusconi appare come personaggio pubblico sul finire degli anni ’70) tutti i migliori sono stati sistematicamente emarginati, e la lista potrebbe essere lunghissima: tutto questo è ovviamente avvenuto con il consenso degli elettori, molti dei quali sono dispostissimi a farsi abbagliare da un abito elegante, da un tailleur, da un macchinone sportivo, da Tanzi e da Cragnotti e da Fiorani.
Se a tutto questo si aggiunge che il successo di Silvio Berlusconi negli anni ’70 è dovuto alla speculazione edilizia (dove ci sono oggi le case di Milano2 un tempo c’era la grande tenuta agricola dei Casati Stampa, per tacere di ciò che è stato fatto ad Antigua o in Sardegna), si spiega bene anche la colata di cemento che ha coperto tutta Italia negli ultimi decenni: che dire, speriamo che il prossimo presidente del consiglio sia un geologo, perché ne avremo sicuramente bisogno.
Chi l’abbia detto non ha importanza, che sia Socrate o Confucio o John Belushi o Sant’Agostino mi sembra comunque qualcosa su cui riflettere. E dunque: al primo posto stanno i sapienti, nel senso di quelli che sanno come si fa. Muratori, ingegneri, medici, panettieri, sarti, calzolai, letterati, artisti e artigiani: senza di loro bisognerebbe ogni volta ricominciare da capo. I sapienti hanno le conoscenze e sanno come trasmetterle.
Dopo i sapienti, i militari: nel senso della difesa, perché per espandersi vanno bene anche altri mezzi, i trattati, i matrimoni, gli accordi del tipo “io faccio pascolare le mucche sul tuo terreno, e poi ti dò una parte del loro latte”. La difesa invece è importante, perché se sei aggredito da un malintenzionato le arti diplomatiche servono a poco. Al terzo posto, i contadini: aggiungerei gli operai, i cuochi, e tutte le persone che fanno materialmente il lavoro. Ci vuole qualcuno che faccia materialmente il lavoro, che sudi e che si sporchi le mani: altrimenti tutto il sapere del mondo non serve a niente. I commercianti, e tutti quelli che maneggiano il denaro (compresi i capi del personale e gli economisti) sono meno importanti perché arrivano dopo: come si può commerciare una merce che non c’è, perché nessuno l’ha seminata e coltivata a dovere, o che c’era ma è stata rubata perché nessuno l’ha difesa?
Terzani, già nel 1999, ci stava dicendo proprio questo: che per un commerciante vendere il made in Italy o il made in China, o in Malaysia, o in Corea, non fa nessuna differenza. Anzi, per i gestori dei grandi centri commerciali può essere molto più conveniente vendere il made in China; e fin qui niente di male, ma poi succede che l’economia locale ne risente. Lo stesso discorso vale per i pubblicitari: per un pubblicitario, l’importante è che il cliente paghi e sia contento. Che poi sia arabo o cinese o brianzolo, poco importa. I risultati di questo “rovesciamento” sono sotto gli occhi di tutti: nei centri commerciali trovate ancora merci tedesche (Siemens, Bosch, Vaillant...), o magari finlandesi (i telefoni Nokia), ma gli italiani sono riusciti nel capolavoro di comperare perfino i pomodori dalla Cina.
Così va l’Italia, Padania compresa: ma non era affatto scontato che andasse così. Questo risultato viene da trent’anni di martellamento sulle nuove generazioni, che sono state convinte che i mestieri giusti fossero il marketing e la pubblicità, e che l’unica cosa che conta sia il denaro. E non importa da che parte arrivi il denaro, l’importante è che arrivi e che io possa avere il telefonino, il Suv, gli abiti firmati. Questa predicazione “a rovescio” è stata fatta per trent’anni da Silvio Berlusconi, e adesso i suoi esperti ci spiegano che la crisi arriva dal di fuori, che non è colpa di nessuno e che caso mai è tutta colpa dell’attentato a New York del 2001. In questi trent’anni (Berlusconi appare come personaggio pubblico sul finire degli anni ’70) tutti i migliori sono stati sistematicamente emarginati, e la lista potrebbe essere lunghissima: tutto questo è ovviamente avvenuto con il consenso degli elettori, molti dei quali sono dispostissimi a farsi abbagliare da un abito elegante, da un tailleur, da un macchinone sportivo, da Tanzi e da Cragnotti e da Fiorani.
Se a tutto questo si aggiunge che il successo di Silvio Berlusconi negli anni ’70 è dovuto alla speculazione edilizia (dove ci sono oggi le case di Milano2 un tempo c’era la grande tenuta agricola dei Casati Stampa, per tacere di ciò che è stato fatto ad Antigua o in Sardegna), si spiega bene anche la colata di cemento che ha coperto tutta Italia negli ultimi decenni: che dire, speriamo che il prossimo presidente del consiglio sia un geologo, perché ne avremo sicuramente bisogno.
martedì 7 dicembre 2010
Gerarchie
Le antiche società sapevano che non si poteva lasciare ai commercianti la gestione del mondo, e non a caso Confucio, sistematizzando la struttura piramidale della società cinese, relegò i mercanti al livello più basso: dopo i sapienti, i militari e i contadini. Oggi le società moderne hanno rovesciato quella piramide ed i mercanti, con la loro etica e la loro estetica, sono in testa a tutti.
(Tiziano Terzani, dal Corriere della sera 17.1.99 )
(Tiziano Terzani, dal Corriere della sera 17.1.99 )
Tirèmm innanz
Cossa me importa de savé in doe voo
se incontra a un poo de pas o ai trebuleri
quand tutti i strad gh'han de menà al foppon!
E cossa cunta smazzuccass el coo
per revangà cossa demoni séri
prima de nass, se adess che sont nassuu
sont el fradell d'ogni fedel mincion!
Tiremm innanz quiett quiett, de porta in porta,
che poeu quand saront stracch pondaroo el cuu
in sul prim sass e disaroo: - Limorta! -
(Delio Tessa, Tiremm innanz)
(edizione Einaudi a cura di Dante Isella, II volume)
...cosa m'importa di sapere dove vado,
se incontro a un po' di pace o alle tribolazioni,
quando tutte le strade han da portarti alla fossa!
E cosa conta martellarsi la testa
per ricordarmi cosa diavolo ero
prima di nascere, se adesso che son nato
sono fratello d'ogni fedel minchione!
Tiriamo avanti quieti, di porta in porta,
che poi quando sarò stanco mi siederò
sul primo sasso che trovo, e dirò: "Limorta!"
("Limorta" è la frase che poneva fine al gioco dei bambini, anche solo per un attimo; mentre "arivivis" lo faceva ricominciare)("Tiremm innanz" è la frase, un tempo proverbiale, pronunciata dal patriota milanese del Risorgimento Amatore Sciesa, quando lo portarono davanti alla sua casa prima di andare al patibolo, nella speranza che facesse i nomi dei suoi compagni).
se incontra a un poo de pas o ai trebuleri
quand tutti i strad gh'han de menà al foppon!
E cossa cunta smazzuccass el coo
per revangà cossa demoni séri
prima de nass, se adess che sont nassuu
sont el fradell d'ogni fedel mincion!
Tiremm innanz quiett quiett, de porta in porta,
che poeu quand saront stracch pondaroo el cuu
in sul prim sass e disaroo: - Limorta! -
(Delio Tessa, Tiremm innanz)
(edizione Einaudi a cura di Dante Isella, II volume)
...cosa m'importa di sapere dove vado,
se incontro a un po' di pace o alle tribolazioni,
quando tutte le strade han da portarti alla fossa!
E cosa conta martellarsi la testa
per ricordarmi cosa diavolo ero
prima di nascere, se adesso che son nato
sono fratello d'ogni fedel minchione!
Tiriamo avanti quieti, di porta in porta,
che poi quando sarò stanco mi siederò
sul primo sasso che trovo, e dirò: "Limorta!"
("Limorta" è la frase che poneva fine al gioco dei bambini, anche solo per un attimo; mentre "arivivis" lo faceva ricominciare)("Tiremm innanz" è la frase, un tempo proverbiale, pronunciata dal patriota milanese del Risorgimento Amatore Sciesa, quando lo portarono davanti alla sua casa prima di andare al patibolo, nella speranza che facesse i nomi dei suoi compagni).
lunedì 6 dicembre 2010
Filologia del bunga bunga
Adesso che le acque si sono un po’ calmate, posso dirlo: io c’ero. Non al bunga-bunga presidenziale di cui si è parlato in questi giorni, s’intende, ma al Teatro dell’Elfo nel gennaio 1987: ad ascoltare Claudio Bisio che raccontava la storiella del bunga-bunga. E’ un storiella che ho memorizzato e raccontato più volte, in questo quarto di secolo che è passato, perché è vero che non è il massimo della finezza, ma è divertente e ha inaspettati risvolti filosofici; e va a toccare uno dei temi cruciali della nostra esistenza.
Non sto scherzando: quante volte vi è successo che vi stessero mettendo davanti a una scelta, per poi accorgervi che la scelta, in realtà, non esiste? E non è finita qui, perchè non solo la scelta non esiste, ma la vostra decisione in merito non ha alcuna importanza. Un classico e lampante caso di bunga-bunga, in questi ultimi mesi, è stato il dibattito aperto alla Fiat di Pomigliano d’Arco: qualcuno ha davvero pensato che ci fosse una possibilità di scelta? Il bunga-bunga può anche essere divertente, ma lo è solo per il vincitore.
La storiella, così come la raccontava Claudio Bisio, la trascriverò qui sotto (vado a memoria), per intanto racconto qualcosa dello spettacolo, che si chiamava “Comedians” e che raggruppava un bel gruppetto di attori: Paolo Rossi, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Antonio Catania, Renato Sarti, Alberto Storti, Renato Carpentieri,Gianni Palladino, Gigio Alberti, Luca Toracca. Regia teatrale di Gabriele Salvatores, che avrebbe poi tratto un film dallo spettacolo, “Kamikazen”, uscito nel 1987. “Comedians” nell’originale era opera dell’inglese Trevor Griffiths, e fu molto riadattato nella versione italiana, perché è un testo che ben si presta a improvvisazioni e cambiamenti calibrati sui diversi attori che lo interpretano di volta in volta. Nel film, e anche a teatro, Paolo Rossi esponeva con estrema serietà la filosofia dello Sgurz: ma dello Sgurz, e delle sue implicazioni filosofiche, converrà parlare un’altra volta, se no questo post non finisce più. E’ dunque l’ora del bunga bunga, eccolo qua.
Siamo nell’Africa dell’Ottocento, tempo di guerre coloniali: immaginarsi qualcosa come la guerra anglo-boera, o “Le quattro piume” di Zoltan Korda. Un drappello di soldati inglesi in perlustrazione viene assalito dagli africani, che sono in numero esorbitante e vincono la battaglia. Rimangono tre superstiti: un ufficiale e due soldati. I tre vengono portati al campo dei guerrieri africani, dove assistono ai festeggiamenti. Sono un bel po’ spaventati, e la preoccupazione cresce quando vedono staccarsi dal gruppo dei festanti, e avvicinarsi a loro, due persone: il capo, e uno dei guerrieri che parla un buon inglese e si presenta come interprete. Il capo sta in silenzio, parla l’interprete.
Interprete: Il Grande Capo ha osservato il vostro coraggio durante il combattimento, e ha deciso di offrirvi una possibilità: di solito non diamo scampo ai prigionieri, ma stavolta potrete scegliere fra la morte e il bunga bunga.
Uno dei soldati inglesi: Cos’è il bunga bunga?
Interprete: Non so tradurre bene...non trovo parola inglese corrispondente. Bunga bunga è un rito, una festa, come dire? Bunga bunga è bunga bunga...
Il primo soldato accetta subito la proposta: la morte si sa cos’è, il bunga bunga chissà. Viene preso e sodomizzato da tutti i guerrieri; ma alla fine si rialza, un po’ stordito ma vivo. Il secondo soldato, che ha visto tutto, non è affatto contento: ma che fare, in fin dei conti il suo collega è ancora vivo, sia pure un po’ barcollante appare in condizioni accettabili. Anche il secondo soldato accetta il bunga bunga; ora è il turno dell’ufficiale. L’interprete e il Capo sono davanti a lui, in attesa della sua decisione.
Ufficiale: Non posso accettare. Io sono di nobile stirpe, stirpe di soldati che hanno sempre combattuto con onore; questo sarebbe un disonore. Scelgo la morte.
L’interprete traduce e il Capo ascolta con grandi cenni di meraviglia; poi abbraccia l’ufficiale, è commosso, e gli fa un lungo discorso in cui l’unica parola comprensibile, detta alla fine, è bunga bunga.
Interprete: Grande Capo commosso. Ho tradotto il tuo discorso parola per parola, e Grande Capo ha apprezzato molto. Tu hai scelto la morte, e morte avrai. (nell’allontanarsi, festante) Ma, prima, un po’ di bunga bunga!
(siccome sono stato bravo e ho conservato il programma di sala, metto le foto originali: faccio notare che Bisio era già pettinato come oggi) (“da che pulpito!”)
PS: chi volesse trovare la versione “storica” del bunga-bunga può fare un giro in rete usando un motore di ricerca: si tratta, a quanto dicono, di una magnifica burla (ma niente sesso) fatta da alcuni studenti inglesi alla Reale Marina Britannica, e vi sarebbe coinvolta nientemeno che Virginia Woolf, allora giovanissima.
PPS: siamo ad un livello culturale così basso, ma così basso, che sono riusciti perfino a rovinare la storiella del bunga-bunga. Non sono ancora riuscito a darmene pace.
Non sto scherzando: quante volte vi è successo che vi stessero mettendo davanti a una scelta, per poi accorgervi che la scelta, in realtà, non esiste? E non è finita qui, perchè non solo la scelta non esiste, ma la vostra decisione in merito non ha alcuna importanza. Un classico e lampante caso di bunga-bunga, in questi ultimi mesi, è stato il dibattito aperto alla Fiat di Pomigliano d’Arco: qualcuno ha davvero pensato che ci fosse una possibilità di scelta? Il bunga-bunga può anche essere divertente, ma lo è solo per il vincitore.
La storiella, così come la raccontava Claudio Bisio, la trascriverò qui sotto (vado a memoria), per intanto racconto qualcosa dello spettacolo, che si chiamava “Comedians” e che raggruppava un bel gruppetto di attori: Paolo Rossi, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Antonio Catania, Renato Sarti, Alberto Storti, Renato Carpentieri,Gianni Palladino, Gigio Alberti, Luca Toracca. Regia teatrale di Gabriele Salvatores, che avrebbe poi tratto un film dallo spettacolo, “Kamikazen”, uscito nel 1987. “Comedians” nell’originale era opera dell’inglese Trevor Griffiths, e fu molto riadattato nella versione italiana, perché è un testo che ben si presta a improvvisazioni e cambiamenti calibrati sui diversi attori che lo interpretano di volta in volta. Nel film, e anche a teatro, Paolo Rossi esponeva con estrema serietà la filosofia dello Sgurz: ma dello Sgurz, e delle sue implicazioni filosofiche, converrà parlare un’altra volta, se no questo post non finisce più. E’ dunque l’ora del bunga bunga, eccolo qua.
Siamo nell’Africa dell’Ottocento, tempo di guerre coloniali: immaginarsi qualcosa come la guerra anglo-boera, o “Le quattro piume” di Zoltan Korda. Un drappello di soldati inglesi in perlustrazione viene assalito dagli africani, che sono in numero esorbitante e vincono la battaglia. Rimangono tre superstiti: un ufficiale e due soldati. I tre vengono portati al campo dei guerrieri africani, dove assistono ai festeggiamenti. Sono un bel po’ spaventati, e la preoccupazione cresce quando vedono staccarsi dal gruppo dei festanti, e avvicinarsi a loro, due persone: il capo, e uno dei guerrieri che parla un buon inglese e si presenta come interprete. Il capo sta in silenzio, parla l’interprete.
Interprete: Il Grande Capo ha osservato il vostro coraggio durante il combattimento, e ha deciso di offrirvi una possibilità: di solito non diamo scampo ai prigionieri, ma stavolta potrete scegliere fra la morte e il bunga bunga.
Uno dei soldati inglesi: Cos’è il bunga bunga?
Interprete: Non so tradurre bene...non trovo parola inglese corrispondente. Bunga bunga è un rito, una festa, come dire? Bunga bunga è bunga bunga...
Il primo soldato accetta subito la proposta: la morte si sa cos’è, il bunga bunga chissà. Viene preso e sodomizzato da tutti i guerrieri; ma alla fine si rialza, un po’ stordito ma vivo. Il secondo soldato, che ha visto tutto, non è affatto contento: ma che fare, in fin dei conti il suo collega è ancora vivo, sia pure un po’ barcollante appare in condizioni accettabili. Anche il secondo soldato accetta il bunga bunga; ora è il turno dell’ufficiale. L’interprete e il Capo sono davanti a lui, in attesa della sua decisione.
Ufficiale: Non posso accettare. Io sono di nobile stirpe, stirpe di soldati che hanno sempre combattuto con onore; questo sarebbe un disonore. Scelgo la morte.
L’interprete traduce e il Capo ascolta con grandi cenni di meraviglia; poi abbraccia l’ufficiale, è commosso, e gli fa un lungo discorso in cui l’unica parola comprensibile, detta alla fine, è bunga bunga.
Interprete: Grande Capo commosso. Ho tradotto il tuo discorso parola per parola, e Grande Capo ha apprezzato molto. Tu hai scelto la morte, e morte avrai. (nell’allontanarsi, festante) Ma, prima, un po’ di bunga bunga!
(siccome sono stato bravo e ho conservato il programma di sala, metto le foto originali: faccio notare che Bisio era già pettinato come oggi) (“da che pulpito!”)
PS: chi volesse trovare la versione “storica” del bunga-bunga può fare un giro in rete usando un motore di ricerca: si tratta, a quanto dicono, di una magnifica burla (ma niente sesso) fatta da alcuni studenti inglesi alla Reale Marina Britannica, e vi sarebbe coinvolta nientemeno che Virginia Woolf, allora giovanissima.
PPS: siamo ad un livello culturale così basso, ma così basso, che sono riusciti perfino a rovinare la storiella del bunga-bunga. Non sono ancora riuscito a darmene pace.
domenica 5 dicembre 2010
Sindaci e prefetti
L’idea di dare ai sindaci le funzioni dei prefetti torna a galla con una certa regolarità, e soprattutto in area leghista c’è chi pensa di trasformare il sindaco in qualcosa di simile agli sceriffi americani. Dato che siamo già a buon punto con quest’idea (lo si voglia o no, sono sempre più i sindaci che salgono alla ribalta con decisioni personali di vario tipo) mi sono messo a ragionarci sopra.
E dunque: chi è il sindaco e chi è il prefetto?
Il prefetto è un funzionario statale, addetto più che altro a questioni di ordine pubblico; la sua nomina avviene dopo un percorso di formazione piuttosto lungo, e dopo alcuni anni come viceprefetto accanto ad una persona con molta esperienza. Insomma, un prefetto può magari essere una persona discutibile, ma di sicuro non si diventa prefetti per caso.
Il sindaco invece viene eletto, di solito fa capo ad un partito politico, e può avere provenienze professionali e culturali molto eterogenee: avvocato, medico, ingegnere, professore, figlio o moglie o amante di qualche ricco e influente signore, qualsiasi cosa. Il sindaco può anche essere molto efficiente, ma prima che prenda in mano il Comune non si sa mai bene chi è e se può davvero svolgere quella funzione. Inoltre, il sindaco deve sempre stare attento agli umori del suo elettorato: se prende decisioni che non convincono, rischia di non essere rieletto.
Ci sono dei pro e dei contro, come in tutte le cose: per non sbagliare, in questo caso, io personalmente preferisco andare sulla persona preparata ed esperta in materia. Ve la immaginate anche solo una partita di calcio con ultras ed hooligans gestita da una persona inesperta? Non oso pensare a questioni ancora più serie...
Come dicevo prima, un prefetto può anche essere una persona discutibile (nel qual caso può essere rimosso facilmente, almeno in teoria), ma di sicuro un’occhiata addosso, prima di diventare prefetto, qualcuno gliela avrà pur data. Invece per diventare sindaco magari basta essere simpatico a questo e quello, o avere un marito petroliere che spende quattro o cinque milioni di euro per tappezzare ogni angolo della città con la tua faccia e il tuo nome; ma questa è soltanto una mia ipotesi, sia ben chiaro, se chi mi legge non è d’accordo vuol dire che il mio parere lo buttiamo via.
Del resto, le mie opinioni e le mie ipotesi vengono quasi sempre regolarmente contraddette dalla realtà; in questi casi, che dire, non mi resta che rimanere fedele al titolo che mi sono scelto per questo blog. “De là del mur, cantàven...” diceva uno stupito Delio Tessa, in bicicletta, cent’anni fa, passando di fianco al muro del manicomio di Mombello. Essere “de là del mur”, insomma, può anche diventa un’ipotesi piacevole, soprattutto di questi tempi.
E dunque: chi è il sindaco e chi è il prefetto?
Il prefetto è un funzionario statale, addetto più che altro a questioni di ordine pubblico; la sua nomina avviene dopo un percorso di formazione piuttosto lungo, e dopo alcuni anni come viceprefetto accanto ad una persona con molta esperienza. Insomma, un prefetto può magari essere una persona discutibile, ma di sicuro non si diventa prefetti per caso.
Il sindaco invece viene eletto, di solito fa capo ad un partito politico, e può avere provenienze professionali e culturali molto eterogenee: avvocato, medico, ingegnere, professore, figlio o moglie o amante di qualche ricco e influente signore, qualsiasi cosa. Il sindaco può anche essere molto efficiente, ma prima che prenda in mano il Comune non si sa mai bene chi è e se può davvero svolgere quella funzione. Inoltre, il sindaco deve sempre stare attento agli umori del suo elettorato: se prende decisioni che non convincono, rischia di non essere rieletto.
Ci sono dei pro e dei contro, come in tutte le cose: per non sbagliare, in questo caso, io personalmente preferisco andare sulla persona preparata ed esperta in materia. Ve la immaginate anche solo una partita di calcio con ultras ed hooligans gestita da una persona inesperta? Non oso pensare a questioni ancora più serie...
Come dicevo prima, un prefetto può anche essere una persona discutibile (nel qual caso può essere rimosso facilmente, almeno in teoria), ma di sicuro un’occhiata addosso, prima di diventare prefetto, qualcuno gliela avrà pur data. Invece per diventare sindaco magari basta essere simpatico a questo e quello, o avere un marito petroliere che spende quattro o cinque milioni di euro per tappezzare ogni angolo della città con la tua faccia e il tuo nome; ma questa è soltanto una mia ipotesi, sia ben chiaro, se chi mi legge non è d’accordo vuol dire che il mio parere lo buttiamo via.
Del resto, le mie opinioni e le mie ipotesi vengono quasi sempre regolarmente contraddette dalla realtà; in questi casi, che dire, non mi resta che rimanere fedele al titolo che mi sono scelto per questo blog. “De là del mur, cantàven...” diceva uno stupito Delio Tessa, in bicicletta, cent’anni fa, passando di fianco al muro del manicomio di Mombello. Essere “de là del mur”, insomma, può anche diventa un’ipotesi piacevole, soprattutto di questi tempi.
giovedì 2 dicembre 2010
John Renbourn
«Just an old english song: “I wish I were John Renbourn...”». Una vecchia canzone inglese, da suonare – mi sembra ovvio - con la chitarra. Me la sono inventata io, ma esprime un sentimento autentico: invidia. Invidia buona, s'intende, di quella che fa solo sospirare: vorrei tanto saper suonare così, ma perché mai io non sono capace...
Quando ascolto John Renbourn mi dispiace di non aver imparato a suonare la chitarra. E’ un sentimento di invidia (invidia pacifica, sia ben chiaro) che non si prova con tutti i musicisti: come si fa, per esempio, a essere invidiosi di Yehudi Menuhin o di Arturo Benedetti Michelangeli? Questa è gente piovuta da un altro pianeta, inarrivabile. Non riesco ad essere geloso nemmeno di gente come Jimi Hendrix, o Tim Buckley: troppo diversi da me.
John Renbourn invece ha la caratteristica di essere, nel contempo, un grande chitarrista e una persona normale. Renbourn è grande e grosso, col tempo ha maturato una bella barba bianca (la barba l’aveva anche da giovane), entra sul palcoscenico un po’ goffamente (e fin qui mi riconosco), poi dice due parole di saluto, si siede e comincia a suonare, e anche a cantare, con una bella voce calda e piena. E qui cominciano da una parte l’incanto dell’ascolto, dall’altra parte l’invidia: perché lui sì e io no? Un’invidia difficile da mandare via, ma poi passa perché si ascoltano cose magnifiche, e soprattutto perché a quelli come John Renbourn si finisce per voler bene.
Il repertorio di Renbourn è molto vasto: si parte dal seicento inglese, il periodo elisabettiano, e si arriva fino al blues e al rock, e al jazz, passando per il folk inglese e americano, le antiche ballate da cantastorie, storie d’amore e di esplorazioni, di soldati, di condannati a morte. Un repertorio a cui non siamo abituati, anche i cantanti più famosi sono spesso chiusi dentro un piccolo giro di accordi (sempre quelli, tanto non se ne accorge nessuno) e non vanno oltre un’ottava; questa è probabilmente la ragione per cui il nome di Renbourn non dirà molto alla maggior parte delle persone. Oltretutto, nessuno gli ha mai fatto pubblicità: e viene da pensare che un agente che gli avesse proposto qualcosa di diverso dal semplice suonare e cantare, John Renbourn l’avrebbe mandato subito al diavolo. Sugli scaffali dei negozi di dischi, John Renbourn e i Pentangle (il gruppo con cui ha suonato per molti anni, cinque musicisti bravi come lui) vengono messi sbrigativamente fra la musica celtica: una definizione stupida, la musica del tempo di Shakespeare e le ricerche musicali di Alan Lomax, o il jazz, non hanno niente a che fare con gli antichi celti – purtroppo l’ignoranza e la superficialità regnano spesso da sovrane anche nella critica musicale. L’Inghilterra ha avuto grandissimi cantanti e chitarristi (cioè no, liutisti e violisti: ma qui fa lo stesso) da sempre, dai tempi di John Dowland, o magari di Ferrabosco; e sono ascolti che consiglio caldamente.
Renbourn ha registrato moltissimi dischi, a partire da quel 1966 in cui incise il suo primo album. Per l’elenco completo, rimando a wikipedia e al sito personale di Renbourn; qui mi limito a mettere i nomi dei suoi compagni d’avventura al tempo dei Pentangle (almeno cinque dischi bellissimi, in perfetta sintonia) e a ricopiare una poesia elisabettiana, strana e fascinosa, musicata da Renbourn nel suo primo disco (John Donne, 1572-1631, contemporaneo di Shakespeare, di Monteverdi, e di Cervantes, è uno dei più grandi poeti inglesi di tutti i tempi).
I Pentangle: Jacqui McShee, meravigliosa e infallibile cantante; Bert Jansch e John Renbourn, voci e chitarre; Terry Cox, percussioni; e lo straordinario bassista (contrabbasso acustico) Danny Thompson.
John Donne, “Song”.
Goe, and catche a falling starre,
get with child a mandrake roote,
tell me, where all past yeares are,
or who cleft the Devils foot,
teach me to heare Mermaides singing,
or to keep off envies stinging,
and finde
what winde
serves to advance an honest minde.
If thou beest borne to strange sights,
things invisible to see,
ride ten thousand daies and nights,
till age snow white haires on thee,
thou, when thou retorn'st, wilt tell mee
all strange wonders that befell thee,
and sweare
no where
lives a woman true, and faire.
If thou findst one, let mee know,
such a Pilgrimage vere sweet,
yet doe not, I would not goe,
though at next doore wee might meet,
though shee were true, when you met her,
and fast, till you write your letter,
yet shee
will be
false, ere I come, to two, or three.
(Canzone. Va' ad afferrare una stella cadente, impregna una radice di mandragola, dimmi dove sono tutti gli anni passati, o chi fendette il piede del diavolo, insegnami a udire il canto delle Sirene, o ad evitare la trafittura d'invidia, e trova qual vento occorra per far progredire un animo onesto.
Se tu sei nato a strane visioni, a veder cose invisibili, cavalca giorni e notti diecimila, fino a che la vecchiezza nevichi su te bianchi crini; e al tuo ritorno mi racconterai tutti i portenti strani che ti accaddero, e giurerai che in nessun luogo vive donna fedele e bella.
Se ne trovi una, fammelo sapere, dolce sarebbe un tal pellegrinaggio; ma se no, non dirmelo; io non vi andrei anche se potessi incontrarla alla porta accanto; per quanto fosse fedele quando tu l'incontrasti, e lo rimanesse fino che tu mi abbia scritto la lettera, ella però sarà infedele, prima ch'io venga, a due o tre.)
Quando ascolto John Renbourn mi dispiace di non aver imparato a suonare la chitarra. E’ un sentimento di invidia (invidia pacifica, sia ben chiaro) che non si prova con tutti i musicisti: come si fa, per esempio, a essere invidiosi di Yehudi Menuhin o di Arturo Benedetti Michelangeli? Questa è gente piovuta da un altro pianeta, inarrivabile. Non riesco ad essere geloso nemmeno di gente come Jimi Hendrix, o Tim Buckley: troppo diversi da me.
John Renbourn invece ha la caratteristica di essere, nel contempo, un grande chitarrista e una persona normale. Renbourn è grande e grosso, col tempo ha maturato una bella barba bianca (la barba l’aveva anche da giovane), entra sul palcoscenico un po’ goffamente (e fin qui mi riconosco), poi dice due parole di saluto, si siede e comincia a suonare, e anche a cantare, con una bella voce calda e piena. E qui cominciano da una parte l’incanto dell’ascolto, dall’altra parte l’invidia: perché lui sì e io no? Un’invidia difficile da mandare via, ma poi passa perché si ascoltano cose magnifiche, e soprattutto perché a quelli come John Renbourn si finisce per voler bene.
Il repertorio di Renbourn è molto vasto: si parte dal seicento inglese, il periodo elisabettiano, e si arriva fino al blues e al rock, e al jazz, passando per il folk inglese e americano, le antiche ballate da cantastorie, storie d’amore e di esplorazioni, di soldati, di condannati a morte. Un repertorio a cui non siamo abituati, anche i cantanti più famosi sono spesso chiusi dentro un piccolo giro di accordi (sempre quelli, tanto non se ne accorge nessuno) e non vanno oltre un’ottava; questa è probabilmente la ragione per cui il nome di Renbourn non dirà molto alla maggior parte delle persone. Oltretutto, nessuno gli ha mai fatto pubblicità: e viene da pensare che un agente che gli avesse proposto qualcosa di diverso dal semplice suonare e cantare, John Renbourn l’avrebbe mandato subito al diavolo. Sugli scaffali dei negozi di dischi, John Renbourn e i Pentangle (il gruppo con cui ha suonato per molti anni, cinque musicisti bravi come lui) vengono messi sbrigativamente fra la musica celtica: una definizione stupida, la musica del tempo di Shakespeare e le ricerche musicali di Alan Lomax, o il jazz, non hanno niente a che fare con gli antichi celti – purtroppo l’ignoranza e la superficialità regnano spesso da sovrane anche nella critica musicale. L’Inghilterra ha avuto grandissimi cantanti e chitarristi (cioè no, liutisti e violisti: ma qui fa lo stesso) da sempre, dai tempi di John Dowland, o magari di Ferrabosco; e sono ascolti che consiglio caldamente.
Renbourn ha registrato moltissimi dischi, a partire da quel 1966 in cui incise il suo primo album. Per l’elenco completo, rimando a wikipedia e al sito personale di Renbourn; qui mi limito a mettere i nomi dei suoi compagni d’avventura al tempo dei Pentangle (almeno cinque dischi bellissimi, in perfetta sintonia) e a ricopiare una poesia elisabettiana, strana e fascinosa, musicata da Renbourn nel suo primo disco (John Donne, 1572-1631, contemporaneo di Shakespeare, di Monteverdi, e di Cervantes, è uno dei più grandi poeti inglesi di tutti i tempi).
I Pentangle: Jacqui McShee, meravigliosa e infallibile cantante; Bert Jansch e John Renbourn, voci e chitarre; Terry Cox, percussioni; e lo straordinario bassista (contrabbasso acustico) Danny Thompson.
John Donne, “Song”.
Goe, and catche a falling starre,
get with child a mandrake roote,
tell me, where all past yeares are,
or who cleft the Devils foot,
teach me to heare Mermaides singing,
or to keep off envies stinging,
and finde
what winde
serves to advance an honest minde.
If thou beest borne to strange sights,
things invisible to see,
ride ten thousand daies and nights,
till age snow white haires on thee,
thou, when thou retorn'st, wilt tell mee
all strange wonders that befell thee,
and sweare
no where
lives a woman true, and faire.
If thou findst one, let mee know,
such a Pilgrimage vere sweet,
yet doe not, I would not goe,
though at next doore wee might meet,
though shee were true, when you met her,
and fast, till you write your letter,
yet shee
will be
false, ere I come, to two, or three.
(Canzone. Va' ad afferrare una stella cadente, impregna una radice di mandragola, dimmi dove sono tutti gli anni passati, o chi fendette il piede del diavolo, insegnami a udire il canto delle Sirene, o ad evitare la trafittura d'invidia, e trova qual vento occorra per far progredire un animo onesto.
Se tu sei nato a strane visioni, a veder cose invisibili, cavalca giorni e notti diecimila, fino a che la vecchiezza nevichi su te bianchi crini; e al tuo ritorno mi racconterai tutti i portenti strani che ti accaddero, e giurerai che in nessun luogo vive donna fedele e bella.
Se ne trovi una, fammelo sapere, dolce sarebbe un tal pellegrinaggio; ma se no, non dirmelo; io non vi andrei anche se potessi incontrarla alla porta accanto; per quanto fosse fedele quando tu l'incontrasti, e lo rimanesse fino che tu mi abbia scritto la lettera, ella però sarà infedele, prima ch'io venga, a due o tre.)
(le immagini vengono dal sito http://www.john-renbourn.com/ )
"Cosa protestano a fare"
L’altra sera, mentre stavo cucinando, ascoltavo un dibattito su Radio Popolare, riguardante i cortei, le occupazioni e le proteste fatte da studenti e insegnanti. A un certo punto il conduttore non ha potuto fare a meno di dire (cogliendo, da giornalista vero, il punto principale della discussione) : “Ma, signori, un po’ me l’aspettavo che non tutti fossero solidali con chi protesta; però questa è una radio di sinistra e non mi aspettavo tutti questi pareri contrari”. Poi il dibattito è proseguito, sempre con le telefonate da casa: e molto seriamente, non parlando a vanvera – ed è un’ottima cosa che ci siano ancora giornalisti così.
Le obiezioni alla protesta erano di questo tipo: “gli insegnanti sono fannulloni, i ricercatori non fanno un tubo dalla mattina alla sera, gli studenti vadano a lavorare”, eccetera. Tutte cose che conosciamo bene, compresi gli immancabili “e io, allora??” e “li manteniamo noi con i nostri soldi”.
Ecco, secondo me è proprio questo il punto. Perché, sia pure con grande ritardo, insegnanti e studenti e ricercatori, toccati nel vivo, fanno le loro manifestazioni di protesta: e invece impiegati e operai si sono lasciati fare di tutto, ma proprio di tutto, e per di più - da perfetti masochisti – anche sorridendo e approvando contenti? E non per un mese o due, si badi bene: per 15 anni filati.
E non è ancora finita. Stamattina ho comperato il giornale locale, e c’era questo titolo.
Premesso che il giornale locale non lo compero per me (fosse stato per me, con quel titolo, l’avrei lasciato a prender polvere in edicola), conosco bene i miei comaschi e so come la pensano; ma, per quanto mi riguarda, mi sono venuti i brividi e mi è salita una gran rabbia. Sono troppo grosso e robusto per essere credibile come iettatore, dovrei perdere almeno trenta chili per sembrare attendibile, ma stavolta ci ho provato, e ho augurato tutti i mali peggiori a chi propone e approva queste cose. Mali tipo chemioterapia e dialisi, per intenderci; o magari un malato da assistere personalmente, uno di quelli senza speranza.
Cattivo gusto? Probabilmente sì, ma sono cose che capitano quotidianamente e non mi va di chiudere gli occhi e far finta che non succedano. Probabilmente non avrei dovuto pensare queste cose, e nemmeno scriverle qui, ma provate a pensare a un vostro collega che viene a lavorare di fianco a voi pur avendo la febbre a 39, o una malattia infettiva. Provate a pensare a tutti i morti per lavoro: una media di due o tre al giorno, nella civile ed evoluta Lombardia (mi dicono che gli infortuni sono in calo? per forza, hanno chiuso i tre quarti delle industrie, e nelle altre gli infortuni non si denunciano per non perdere il posto...).
Queste sono le stesse persone che, a parole, dicono di difendere la Famiglia e l’Integrità della Persona Umana. I fatti sono diversi, e lo si constata ogni giorno di più.
PS: questo post è dedicato anche alla memoria di Mario Monicelli, oltre che a tutti i malati che stanno soffrendo in questi giorni, e ai loro parenti che li assistono. (“assistere i malati”, non ricordo le parole esatte ma mi pare che sia scritto da qualche parte nel Catechismo Cattolico Cristiano...).
Le obiezioni alla protesta erano di questo tipo: “gli insegnanti sono fannulloni, i ricercatori non fanno un tubo dalla mattina alla sera, gli studenti vadano a lavorare”, eccetera. Tutte cose che conosciamo bene, compresi gli immancabili “e io, allora??” e “li manteniamo noi con i nostri soldi”.
Ecco, secondo me è proprio questo il punto. Perché, sia pure con grande ritardo, insegnanti e studenti e ricercatori, toccati nel vivo, fanno le loro manifestazioni di protesta: e invece impiegati e operai si sono lasciati fare di tutto, ma proprio di tutto, e per di più - da perfetti masochisti – anche sorridendo e approvando contenti? E non per un mese o due, si badi bene: per 15 anni filati.
E non è ancora finita. Stamattina ho comperato il giornale locale, e c’era questo titolo.
Premesso che il giornale locale non lo compero per me (fosse stato per me, con quel titolo, l’avrei lasciato a prender polvere in edicola), conosco bene i miei comaschi e so come la pensano; ma, per quanto mi riguarda, mi sono venuti i brividi e mi è salita una gran rabbia. Sono troppo grosso e robusto per essere credibile come iettatore, dovrei perdere almeno trenta chili per sembrare attendibile, ma stavolta ci ho provato, e ho augurato tutti i mali peggiori a chi propone e approva queste cose. Mali tipo chemioterapia e dialisi, per intenderci; o magari un malato da assistere personalmente, uno di quelli senza speranza.
Cattivo gusto? Probabilmente sì, ma sono cose che capitano quotidianamente e non mi va di chiudere gli occhi e far finta che non succedano. Probabilmente non avrei dovuto pensare queste cose, e nemmeno scriverle qui, ma provate a pensare a un vostro collega che viene a lavorare di fianco a voi pur avendo la febbre a 39, o una malattia infettiva. Provate a pensare a tutti i morti per lavoro: una media di due o tre al giorno, nella civile ed evoluta Lombardia (mi dicono che gli infortuni sono in calo? per forza, hanno chiuso i tre quarti delle industrie, e nelle altre gli infortuni non si denunciano per non perdere il posto...).
Queste sono le stesse persone che, a parole, dicono di difendere la Famiglia e l’Integrità della Persona Umana. I fatti sono diversi, e lo si constata ogni giorno di più.
PS: questo post è dedicato anche alla memoria di Mario Monicelli, oltre che a tutti i malati che stanno soffrendo in questi giorni, e ai loro parenti che li assistono. (“assistere i malati”, non ricordo le parole esatte ma mi pare che sia scritto da qualche parte nel Catechismo Cattolico Cristiano...).
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