mercoledì 26 ottobre 2011

El Alamein

Sulla battaglia di El Alamein ho avuto testimonianze dirette da un mio carissimo parente nato nel 1920, che purtroppo non c’è più da un paio d’anni. Era un soldato semplice, un assaltatore, quello che corre più rischi di tutti: giù dal camion, fucile in mano, e correre. «Eravamo in 400, siamo rimasti in 40»: gliel’ho sentito dire molte volte. Da bambino non capivo, era una persona mite e gentile, e come tutti i bambini avevo un’idea completamente diversa su cosa fosse un soldato. Lui non era un gigante, era piccolo di statura e molto robusto; ed essere piccoli di statura è un ottimo requisito, per un assaltatore: difatti lui se l’era cavata tutto sommato bene, un timpano rotto e una scheggia nel collo, per il resto è arrivato fino a novant’anni in forma splendida.  L’ho sempre ascoltato con attenzione, e mi ha detto alcune cose che ricorderò sempre, perché la guerra vista dal basso, vista dai soldati semplici, è un racconto molto istruttivo. Teneva per sè le cose più terribili, ma raccontava spesso di quei due anni nel deserto, forse anche per liberarsi di un peso. Le cose che più mi sono rimaste nella memoria sono queste: che l’acqua ce l’avevano i tedeschi, che camion e autobotti erano quasi tutti dei tedeschi, che armi e logistica erano quasi tutte in mano dei tedeschi, e che ad un certo punto, dopo la battaglia, vagando per il deserto, ci si ripeteva: “o morto, o prigioniero”.

Da questi racconti, identici su tutti i fronti, emerge una costante terribile: l’impreparazione e il pressappochismo dei vertici militari fascisti. Dopo vent’anni di preparazione alla guerra e di istruzioni martellanti, l’esercito fascista si fece cogliere del tutto impreparato: sul fronte russo, sul fronte greco-albanese, nel deserto libico-egiziano, ovunque. Mario Rigoni Stern, che era un ufficiale, racconta dei suoi primi giorni al fronte, sulle Alpi: era vietato accendere fuochi (avrebbero segnalato la presenza al nemico), ma le scorte di cibo erano tutte di cose da cuocere. Che fare? I soldati italiani mangiarono carne e verdure crude, alternative non ce n’erano; ma era un gran brutto inizio, un segnale di improvvisazione generale che purtroppo avrebbe avuto conferma nei mesi successivi (l’intervista con Rigoni Stern, autore di “Il sergente nella neve”, realizzata da Marco Paolini, è disponibile anche su dvd). I ricordi di Rigoni Stern, e di tutti i reduci dalla campagna di Russia, sono molto simili a quelli di El Alamein: i camion li avevano quasi soltanto i tedeschi, i carri armati li avevano i tedeschi, la logistica era tutta in mano ai tedeschi. I nostri alpini erano lì con i muli: e tutti quelli a cui l'ho fatto notare mi hanno risposto che sì, ma sì, ma ceerto, i muli, la montagna, la neve, gli alpini. Invece quelli che sono tornati (per esempio Peppino Prisco, avvocato milanese ed ex vicepresidente dell'Inter) sono sempre stati categorici: si sono salvati quelli che erano sui camion, o comunque sui mezzi motorizzati. I muli, a venti gradi sotto zero, fanno la stessa fine degli alpini: non ce la fanno più, si fermano, e finiscono col morire assiderati.

Quando arrivarono gli inglesi e lo fecero prigioniero, il mio parente tirò un sospiro di sollievo. Da lì in avanti, sarebbe andato tutto in discesa: quattro anni da prigioniero, ma trattato bene, in California. Il bello è che, se gli si chiedeva un parere su Mussolini, rispondeva che “lo avevano tradito”: potenza della propaganda. Se veramente Mussolini si era fatto prendere per il naso, e per vent’anni, questa sarebbe una aggravante; ma quando si parla di El Alamein la retorica gonfia sempre tutto, e non si riesce mai a ragionare. A me sta bene, anzi benissimo, che si parli del valore dei soldati italiani: ma i soldati italiani furono mandati allo sbaraglio, a sicura morte. Vincere ad El Alamein era impossibile, troppo più forti gli inglesi, e molto meglio organizzati.

Di questi racconti ne ho ascoltati tanti, perché i reduci dalla guerra erano ancora giovani, negli anni ’60 e ’70 in cui sono cresciuto; e ogni famiglia aveva qualcuno che raccontava cos’era successo. Uno dei miei zii, per esempio, era tra i soldati che in Germania rifiutarono di aderire alla RSI: la maggioranza assoluta, più del 90% dei soldati italiani, si rifiutò di tornare a combattere con i nazisti. Un altro mio zio, fratello di mio padre (che ha schivato la guerra per un pelo: compiva 19 anni nel 1945), è tra i dispersi in Russia. Per decenni lo abbiamo immaginato così, disperso in Russia, nel gelo, o magari riparato presso qualche famiglia di contadini, chissà. Invece, temo che la realtà sia questa: dopo l’8 settembre 1943, i soldati “badogliani” presenti in Ucraina e in Polonia vennero rinchiusi nei campi di concentramento, nei lager tedeschi: e lì fecero la stessa fine degli ebrei, degli zingari, dei prigionieri politici. Qualcuno è tornato e ha raccontato, e le documentazioni in proposito sono imponenti, ma non se ne parla mai. Addirittura, esiste ed è ben conservato un documento firmato Benito Mussolini: il duce scriveva ai nazisti di non rimandargli a casa i soldati dell’Armir, erano troppo magri e debilitati, poi cosa avrebbero detto i parenti. Anche mio zio, temo, avrà fatto la stessa fine: passato per il camino o sepolto in una fossa comune, anche da servitore della Patria col fascismo si correvano questi rischi.

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