A Venezia, nel 1640, va in scena “Il ritorno di Ulisse in patria”: testi di Giacomo Badoaro, musica di Claudio Monteverdi. Si tratta quindi dell’Odissea, la parte finale: massacro dei Proci compreso. Come tutti i grandi registi e autori drammatici, Monteverdi non si tira indietro: c’è tutto, la scena dell’arco, la lotta con Iro, il riconoscimento con la nutrice, il massacro, l’incontro finale e il riconoscimento con Penelope, che inizia così:
- Et illustratevi, o cieli! Rinfioratevi, prati! Aure, gioite! ...
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria )
Non mancano nemmeno le divinità, Minerva in primo luogo. Ulisse viene infatti accolto da Minerva, al suo arrivo ad Itaca, e di fronte a Minerva nelle sembianze di un pastorello si mostra non solo sorpreso ma anche un po’ seccato (ne ha viste troppe, verrebbe da dire):
- Chi crederebbe mai, le deità
vestite in uman velo!
Si fanno queste mascherate in cielo?
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria)
La musica è molto bella, come sempre; ma sembra proprio che non sia tutta di Monteverdi, e che alcune sue parti siano state scritte da Cavalli, che di Monteverdi fu il continuatore, a Venezia. Una volta detto che lo stile è identico, e che il passaggio di mano è inavvertibile (i musicologi hanno dovuto consultare antiche carte e manoscritti), bisogna ricordare che era cosa normale, a quel tempo, scrivere a più mani, sia per l’opera che per il teatro di prosa. Non esisteva ancora il copyright come lo intendiamo oggi, e soprattutto la cosa non era considerata di fondamentale importanza. L’importante, insomma, era che tutto andasse avanti con successo: l’opera, o il testo teatrale, cambiavano a seconda delle serate e dell’interprete (un cantante o un attore particolarmente bravi avevano sempre con sè arie e monologhi da inserire nel momento giusto). Insomma, tutto era molto diverso da quello che siamo abituati a vedere oggi: è anche per questo che tra gli appassionati d’opera queste opere passano per noiose, ma la colpa non è né di Monteverdi né dei poeti che gli scrivevano i testi, la colpa è prima di tutto del tempo che è passato. Capita la stessa cosa anche con Shakespeare, e con Cervantes: entrambi contemporanei di Monteverdi. Molti non lo sanno, e anche al cinema o a teatro molti non l’hanno ancora capito: a teatro, al tempo di Shakespeare e di Monteverdi, si poteva entrare ed uscire a piacimento, senza aspettare gli intervalli; non era necessario stare seduti al buio e in religioso silenzio. Quest’usanza “sacrale” arriverà solo nell’Ottocento: è solo la prima delle molte cose che si dovrebbero ricostruire per tornare ad apprezzare davvero questo magnifico repertorio.
Che è ricco di sorprese, alcune buffe e del tutto inaspettate: per esempio quando Penelope, in dubbio se rimanere fedele dopo tanti anni passati in attesa di Ulisse, usa questa metafora:
...come sta in dubbio un ferro
se fra due calamite
da due parti diverse egli è chiamato
così sta in forse il cuore
nel tripartito amore ...
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria)
L’opera è ricca di momenti davvero belli o curiosi, e necessita di attori che sappiano cantare e di cantanti che sappiano recitare: cose rare. Però alle volte capita che tutto vada bene. Questo, per esempio, viene dal duetto fra Eurimaco e Melanto (Melanto è una ragazza, i nomi greci – come Andrea, del resto – traggono spesso in inganno noi italiani):
- Ah, come volentieri cangerei questa reggia in un deserto...
Per rimanere da soli, s’intende: è il recitativo che precede uno dei momenti più belli dell’opera dal punto di vista della musica, il duetto che inizia con “lieto mio ben...dolce mio bene, dolce mia vita” nel duetto di Melanto ed Eurimaco, atto primo.
Il momento forse più spettacolare, a metà fra canto e recitazione, è quando i Proci provano a tendere l’arco di Ulisse, senza riuscirci: momento difficile da rendere bene in teatro, a meno che non sia un teatro piccolo, come succedeva a Venezia. Sappiamo già chi vincerà la sfida, e sappiamo anche come la vincerà: vincerà Ulisse, in parte per la sua bravura, in parte perché l’arco l’ha costruito lui e ne conosce i segreti, ma soprattutto perché Minerva impedisce agli altri di riuscire nell’impresa.
In fondo l’Iliade e l’Odissea e, come insegna il Mahabharata, anche la nostra vita, altro non sono che un gioco di dadi truccato.
(le immagini vengono dal film “The Mahabharata” di Peter Brook, girato nel 1989, edito su dvd dalla Dolmen)
Fango bollente - Vittorio Salerno
1 giorno fa
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