Giuliano 27 agosto 2005
Vedo in tv (una tv piccola, di quelle locali) una lunga intervista a Nanni Svampa. Svampa faceva cabaret con i Gufi, 40 anni fa; poi si è specializzato in canzoni milanesi e lombarde, diventando un punto di riferimento assoluto. E qui viene da pensare, perché cantare canzoni milanesi, 40 anni fa o anche 30, era una cosa di sinistra. Nanni Svampa non ha mai preso posizioni politiche precise, penso che sia una persona che guarda con occhio critico alle cose del mondo, ma non saprei dire se è di sinistra e del resto la cosa non ha importanza. Però di sinistra (comunista) era Roberto Leydi, il massimo etnomusicologo italiano, scomparso l'anno scorso, che si ispirava a Béla Bartok e ad Alan Lomax, pionieri del recupero della tradizione popolare balcanica e anglo-americana. Di sinistra è Giovanna Marini, e di sinistra è Giancarlo Nostrini, che da una ventina d'anni tiene su Radio Popolare una bella rubrica settimanale dedicata alla musica popolare di tutto il mondo ( la domenica alle 20). Il dialetto era di sinistra, perché in dialetto si esprimevano operai e contadini, ed era bello andarsi a cercare i canti popolari delle mondine e degli operai, degli anarchici (come De André) e della Resistenza alla dittatura fascista.
Ma poi cos'è successo? Il mio dialetto, il mio bel dialetto milanese che una volta faceva sorridere perché rimandava a Gino Bramieri, a Tino Scotti, a Piero Mazzarella, oggi è diventato in quasi tutta Italia sinonimo di razzismo e di arroganza. Basta accennare una mezza battuta in milanese e si passa per razzisti. E' successo, sarà ben difficile riparare i danni, e sappiamo bene chi sono i responsabili di questo grave danno d'immagine.
Anche Svampa, l'altra sera, sia pure senza sbilanciarsi troppo ( Svampa è un signore, e non perde tempo a fare polemiche) ha detto e ripetuto alcune cose, non di sinistra ma di semplice buon senso, che vorrei provare a riassumere. Innanzitutto che Milano, proprio per la sua natura di "terra di mezzo" (Mediolanum) è sempre stata aperta a tutti; e poi che il dialetto è una lingua viva, che si modifica in continuazione e che è aperta a tutte le influenze: il milanese di Carlo Porta risale ormai a quasi 200 anni fa, non lo parla più nessuno da decenni ed è giusto che sia così. E, soprattutto, che il dialetto serve per comunicare con gli altri, e non per chiudersi. Infine, che i cartelli "bilingui" all'ingresso dei comuni sono una cosa simpatica, ma per l'80% sono sbagliati, o nell'ortografia o nel nome originario del toponimo.
Ma poi il dialetto non lo parla più nessuno, soprattutto a Milano; e anch'io sono messo molto male, visto che in casa mia si parlava solo l'italiano. Però ho scritto "dialetto milanese", e non "lombardo": parlare di dialetto lombardo, o magari di lingua lombarda, non ha senso. Io abito in una storica zona di confine, tra Como e Milano: e non è uno scherzo, il confine c'era davvero. Risale al tempo del Barbarossa, ma c'era; e, fino a qualche anno fa, alle orecchie attente era possibile percepirlo. Esisteva un confine linguistico tra Como e Milano, ma anche tra Como e Varese, e addirittura tra paese e paese; ma tutto questo è sparito, appiattito e omologato. Rimane solo l'arroganza di chi crede di parlare a nome di tutti i lombardi, e invece ne rappresenta solo una minima parte.
(27 agosto 2005)
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