lunedì 13 settembre 2010

Inti Illimani

Gli Inti Illimani arrivarono in Italia nel 1973, dopo il terribile colpo di Stato in Cile. Furono accolti con molto affetto, così come altri esuli politici cileni: che sarebbero rimasti volentieri nel loro Paese, ma le stragi del dittatore Pinochet non glielo avevano permesso. Moltissimi giovani cileni e argentini, in quegli anni ’70, persero la vita a causa delle dittature militari; chi poteva, si rifugiava all’estero.
Gli Inti Illimani, in Cile, stavano studiando e riproponendo la tradizione musicale del loro Paese; essendo dei bravi musicisti gli si chiese di fare dei concerti, e in poco tempo la loro musica divenne conosciuta anche da noi, e molto eseguita. E’ musica piacevole, in quel periodo pochissimo conosciuta, che si incontrò anche, in modo del tutto casuale, con il successo di film come “Aguirre furore di Dio” di Werner Herzog: che si svolgeva non in Cile ma in Perù, comunque sulle Ande, dove i confini tra gli Stati sono spesso solo un’invenzione dei politici.
Un’operazione simile a quella degli Inti Illimani la stavano facendo in molti, in quegli anni, un po’ in tutto il mondo: da noi c’era la Nuova Compagnia di Canto Popolare, che esplorava il grande repertorio napoletano guidata dal musicologo Roberto De Simone (in seguito direttore del Conservatorio di Napoli); in Francia c’era il bretone Alan Stivell a ripescare le cornamuse e l’arpa celtica; in Inghilterra e in America il recupero delle tradizioni popolari c’era da molto tempo, a partire da Woody Guthrie e da Bob Dylan, passando per gruppi come i Pentangle e i Fairport Convention, e molti altri. Queste operazioni di recupero della cultura popolare e della tradizione, in contrasto con la musica napoletana e sudamericana “di maniera” , commerciale, erano molto ben accette e anche molto belle, in quegli anni sono stati registrati dischi diventati famosi e ancora oggi validissimi, ben conosciuti anche fra gli appassionati del rock e del blues (il rock e il blues hanno le loro radici nella musica popolare dell’Africa nera, detto per inciso).
E’ quel fenomeno che in seguito si sarebbe chiamato “musica etnica” o “world music”, ma che negli anni ’70 non si aveva paura di chiamare con il suo nome giusto, musica popolare, folklore, folk music. In Italia, la ricerca sulla musica popolare la portavano avanti persone diversissime tra loro, come Roberto Leydi (grandissimo musicologo) e Virgilio Savona (musicologo attento anche lui, ma più famoso nel repertorio leggero come membro del Quartetto Cetra), e tanti altri, compresi il Duo di Piadena, e molti altri ancora.
Di tutto questo, cosa è arrivato? Già allora, già negli anni ’70, gli Inti Illimani vennero da molti trattati come se fosse musica qualsiasi; non come qualcosa da conoscere ma come qualcosa da giudicare con i “mi piace / non mi piace” da festival di Sanremo o da radio commerciale. Per molti, ancora oggi, gli Inti Illimani sono legati unicamente alla politica; e anche questo è un fraintendimento doloroso.
Di recente, ed è questa la ragione per cui ne parlo adesso (ma gli Inti Illimani ci sono ancora, e sono ancora in giro a far concerti come quarant’anni fa), capita di ascoltare frasi come “negli anni ’70 stavano lì ad ascoltare gli Inti Illimani”, battute superficiali che rivelano solo l’ignoranza di chi le fa – ed è purtroppo un’ignoranza voluta e coltivata con cura da adulti della mia generazione, in questo caso non mi sento di incolpare i giovani se non riescono a inquadrare bene quegli anni ormai lontani, perché è stato quasi impossibile, negli ultimi vent’anni, ascoltare e conoscere qualcosa che non sia musica commerciale (spesso di bassa qualità). Gli Inti Illimani sono semplicemente un gruppo musicale che propone musica andina, e negli anni ’60 e ’70 ognuno ascoltava quello che gli pare: a molti la musica andina piaceva (me incluso), altri la trovavano noiosa; ma, soprattutto, c’era una vastità di scelta e di novità (novità vere, musica nuova e non facce e corpi nuovi) che in seguito non c’è più stata. Risolvere tutto con i “mi piace / non mi piace”, o peggio ancora con i “kepalle” non è un bel segnale, e non soltanto per quanto riguarda la musica.

4 commenti:

Mauro ha detto...

Penso di sapere bene a cosa ti riferisci, non sai quante volte mi sono quasi dovuto giustificare di fronte alle facce perplesse o ai commenti caustici di chi, salendo sulla mia auto o entrando nel mio ufficio (ho la fortuna di avere un ufficio tutto mio e la musica, pur bassa e dal pc, non manca mai)commentava sprezzante i miei gusti liquidandoli con dei laconici "cheppalle", o "ma cos`è 'sta lagna".
Lo sforzo richiesto per apprezzare certa musica, ma anche cinema o letteratura o arte in generale, non credo sia eccessivo (le cose troppo concettuali non mi fanno impazzire, non quando il loro scopo principale è quello di far sentire alcune persone più intelligenti di altre, e questa cosa non mi interessa) ma oggi sembra ci sia sempre meno gente diposta a fare anche solo poca fatica per comprendere le cose, per andare un poco più in profondità.
Io stesso con gli Inti Illimani ci ho litigato parecchio: condizionato dai preconcetti li ho sempre snobbati, salvo andare a ricercarli dopo aver sentito la "Te recuerdo Amanda" di Robert Wyatt.
Ma oggi quante probabilità ha un ragazzo di 16 anni di incontrare la musica di Robert Wyatt, e di soffermarsi su di essa abbastanza a lungo?

Giuliano ha detto...

Il problema vero è che oggi i "kepallisti" sono al governo, sono ministri, sono managers, dirigenti...Negli anni '70 e '80 a queste cose si poteva anche non dare importanza.
Forse non tutti se lo ricordano, ma nel 1988-89 perfino Rete4 e Canale5 trasmettevano in tv e in orari di primo ascolto i concerti della Filarmonica della Scala. Sono bastati pochi mesi, e tutto è stato buttato nel sacco della spazzatura, con grande sollievo di chi dirigeva quei canali: un milione di spettatori, o centomila spettatori, gli facevano proprio schifo. (Centomila spettatori non li fa neanche lo stadio calcistico di Milano...). E si sono felicemente buttati su "La pupa e il secchione" o sui programmi della trucida Maria De Filippi. (scrivo "trucida" perché ho letto ieri su Repubblica che lei se la prende, ed è ben strano che se la prenda. La tv è diventata una schifezza, e si vuole anche che io sia contento?)

Mauro ha detto...

Ho deciso che, finchè potrò, rinuncerò ad abbonarmi a quelle tv a pagamento che promettono palinsesti sensazionali. Attenderò con fiducia l'avvento del digitale terrestre (tra l'altro tecnologia vecchia e bello che superata, mai fatto caso alla ricezione quando c'è brutto tempo o molto vento?) per vedere qualche canale RAI che dia fondo alle teche. Male che vada mi terrò stretta la tv svizzera, ne approfitterò per leggere qualche libro in più, o cercare di parlare con qualcuno. E' vero, i "kepallisti" sono al governo, da tanto di quel tempo che fa paura a pensarci bene, e questo sta generando un clima brutto, odioso, violento. Ieri sera ho visto Blob ed è stato quasi insostenibile. I titoli di coda sono passati sulla De Filippi e Gerri Scotti che si sganasciaveno mentre sul palco del loro "talent show" due energumeni si esibivano in una coreografia di "New York New York" interpretata dai loro culi (non sto scherzando).

Giuliano ha detto...

Non ci crede nessuno, ma è terribilmente vero: da bambino, negli anni '60, con due canali Rai e uno svizzero, e con 14-16 ore di trasmissione al giorno invece di 24 su 24, c'era più offerta di oggi.
Non in termini di ore, ovviamente, ma di qualità, di varietà. Trasmettevano perfino la Coppa Campioni di basket...e in più c'erano trasmissioni di quiz, c'erano i varietà del sabato sera, meno ore ma più varietà.
La spiegazione dell'apparente paradosso sta qui: dirigenti più capaci, e obbligo di scegliere visto che le ore a disposizione erano poche. Dovendo scegliere, si sceglie la qualità...è quasi inevitabile. Restavano fuori tante cose belle o interessanti, ma i 99 canali del digitale terrestre e i tremila del satellite con cosa sono riempiti? Fuffa, e le Canzonissime del 1969.
Vedere per credere, io il digitale terrestre ce l'ho già da un paio d'anni.
PS: sui canali Premium, fuffa a pagamento, con le card e i microchip ricaricabili dal tabaccaio.