mercoledì 26 febbraio 2020

Darwinismo sociale


Tra i luoghi comuni più ripetuti ha un suo posto particolare l'espressione "darwinismo sociale". Da dove viene, che significa? A me piace leggere gli scritti di Charles Darwin, non mi posso dire un esperto ma nei suoi libri ho trovato tantissime osservazioni, pensieri, intuizioni, ma niente che giustificasse davvero questa espressione. Darwin è un attento osservatore della realtà: parla di evoluzione delle specie, di origini comuni per specie diverse, e anche di selezione naturale ma nel senso che il meno adatto all'ambiente ha difficoltà a sopravvivere, non certo che una specie si mangia l'altra e vince il più grosso e il più cattivo. Centrale nell'opera di Darwin è lo studio sui fringuelli delle Galapagos: nati come granivori, i fringuelli migrati su isole meno ricche di vegetazione erano diventati insettivori, e nel nuovo ambiente erano stati favoriti gli esemplari dotati di un becco più lungo e sottile, più adatti alla nuova dieta.
Un adattamento all'ambiente, una lotta per la vita (struggle for life) ma non nel senso che gli vorrebbero dare sociologi ed esperti di economia, per i quali "darwinismo sociale" ricorda molto "la legge della giungla", o comunque viene quasi sempre presentato così, il lupo mangia l'agnello, il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e così via. Non sto a tirarla troppo in lungo, l'intera storia si può trovare qui, per chi fosse interessato; la conclusione a cui sono arrivato io è che "darwinismo sociale" è una scemenza che si sono inventati i sociologi, e quando trovo questa espressione in uno scritto comincio a dare segni di insofferenza, salto qualche riga o qualche pagina, e prima o poi interrompo la lettura, a meno che proprio non ne valga la pena.

PS: mentre finisco di sistemare il post, trovo su un quotidiano importante "ferocia darwiniana": provate a leggere la biografia del povero Darwin, sarà difficile trovare una persona più mite e riservata, e quanto ai suoi libri vale quanto ho scritto sopra. Ma, ormai, i luoghi comuni hanno preso il posto delle virgole e dei punti, tutti li ripetono meccanicamente, non si pensa più a quello che si dice e si scrive, e anche questo è un segnale dei brutti tempi che stiamo vivendo. Un tempo, quantomeno, si potevano spiegare queste cose con l'ignoranza; ma oggi, in tempo di internet, l'ignoranza si potrebbe colmare facilmente. E invece...

 
(Gary Larson, dal mensile "Linus", anni '90)

sabato 22 febbraio 2020

El Alamein


Di El Alamein ho sentito parlare fin da bambino, ma senza sapere di preciso di cosa si trattasse; io immaginavo "la guerra" meglio che potevo, sapevo che c'era stata la guerra, uno zio disperso in Russia, altri parenti o vicini coinvolti, ma i dettagli non li conoscevo. A raccontarmi di El Alamein è stato un cugino di mio padre; le nostre famiglie andavano molto d'accordo e quindi lo vedevo spesso in casa. Io ascoltavo, e lui aveva bisogno di sfogarsi anche dopo tanti anni. Ho imparato così, nel corso degli anni, che fu una battaglia lunga e molto cruenta, più di due anni nel deserto del Sahara prima dello scontro finale.
Mi ricordo ancora bene le frasi che ripeteva più spesso: che i tedeschi avevano tutto e noi quasi niente, che l'acqua da bere sapeva di benzina perché la trasportavano nei camion che servivano anche per il carburante, che era cosa comune di rivolgere la parola a un amico lì vicino e accorgersi che era morto. E i pidocchi: anche nel deserto, in mezzo alla sabbia, anche nel gelo della notte, i pidocchi sopravvivono e sanno dove colpire; "ho ancora le cicatrici dove portavamo la cintura", diceva. Le cicatrici dei morsi dei pidocchi, non quelle dei proiettili: quasi un miracolo, perché il mio parente era un assaltatore - giù dal camion e correre, fucile in mano. "Di quattrocento siamo rimasti solo in quaranta", perché ti sparavano addosso. Lui di statura era piccolo, basso ma robusto e veloce; gli assaltatori li sceglievano così, se sei piccolo e svelto è meno facile che gli spari ti colpiscano. Meno facile, ma tutt'altro che impossibile. A un certo punto, dopo la battaglia finale, i superstiti si guardavano tra di loro e si dicevano: "o morto, o prigioniero". Di tornare a casa non si parlava più.

 Per fortuna, arrivò la resa; fatto prigioniero, Gigi (così lo abbiamo sempre chiamato) passò altri cinque anni prima di tornare a casa, ma il peggio era passato. Gli inglesi lo trattarono benissimo, come per tutti i prigionieri; il viaggio fu lungo, via nave, perché i prigionieri erano tanti e andavano scaricati un po' alla volta. Il viaggio toccò il Sudafrica, l'India, l'Australia, e infine la California dove Gigi se la passò benone anche da prigioniero, e qui nel ricordo cominciava a sorridere perché gli erano capitate cose comiche e anche belle avventure. "Sono tornato solo perché era previsto che tutti i prigionieri tornassero a casa", concludeva; dopo il rimpatrio sarebbe stato possibile tornare in California, ma al ritorno in Italia aveva trovato una ragazza con cui stava bene, si era sposato, e per un certo tempo (prima di sposarsi) venne ad abitare da noi, a casa di mio padre. Io sarei arrivato solo molti anni dopo, e ascoltandolo facevo fatica a credere che quell'ometto gentile e sorridente fosse passato attraverso tutte quelle cose, ma così era. Poche le ferite riportate: una scheggia di granata nel collo che era ancora lì, ma non dava fastidio, e la rottura del timpano di un orecchio. Però, come mi racconta mia mamma, di notte Gigi aveva gli incubi; alle volte bisognava svegliarlo, gridava nel sonno, El Alamein era ancora lì con lui.

Da adulto poi mi sono informato, e ho dovuto constatare che su El Alamein ci sono tanti libri e troppi pareri che non aiutano a capire. Il racconto del mio Gigi, mite operaio con basso livello di istruzione, concordava invece con quello dei reduci da altri fronti, anche ufficiali e laureati come Rigoni Stern o Bedeschi per il fronte russo, o come Mario Tobino sul fronte libico: il valore dei soldati italiani non era in discussione, quello dei capi (fascisti o fascistissimi) invece sì. "I tedeschi avevano tutto, noi non avevamo niente": questa piccola frase nasconde la triste verità della guerra condotta dai fascisti. Dopo vent'anni di chiacchiere, di "sabati fascisti", di retorica sulla romanità, di salti nel cerchio di fuoco, e quant'altro ancora, al momento di combattere l'Italia fascista fu subito sconfitta e sbaragliata su tutti i fronti, non solo dagli inglesi ma anche dai greci e dai russi; ma di questa verità non troverete facilmente traccia nei libri che ricostruiscono la battaglia di El Alamein perché sono quasi tutti stati scritti da nostalgici del duce più o meno dichiarati.

 A El Alamein ancora oggi c'è una targa, molto grande: "mancò la fortuna, non il valore". Gli storici seri, studiando le forze in campo e basandosi su quello che è realmente accaduto, dicono che il valore dei soldati italiani è certo e riconosciuto anche dagli inglesi e dagli americani; ma che la fortuna con El Alamein non c'entra proprio nulla. El Alamein era una battaglia persa in partenza, troppo più forti inglesi e americani, i mezzi a disposizione degli Alleati (aerei, carri armati, armamenti, rifornimenti) non davano molto spazio alla retorica. Quelli come Gigi, e come i tanti soldati che a sua differenza non sono più tornati, erano solo "carne da cannone". Tristemente, Gigi era stato mandato a El Alamein per morire; e invece era tornato, per la mia fortuna e per quella della sua famiglia, e di tutte le persone che gli hanno voluto bene.

mercoledì 19 febbraio 2020

Lavorare con i guanti


Sono al reparto salumi e formaggi, e aspetto il mio turno; mentre aspetto guardo cosa succede. Il salumaio, o la salumaia, prende il prosciutto dallo scaffale e lo mette sull'affettatrice; ha i guanti monouso e si direbbe che usi tutte le precauzione. Finisce l'operazione, rimette a posto il prosciutto, e chiede se il cliente desidera altro. La risposta è, magari, il pane: senza cambiarsi i guanti, si prende il pane, lo si pesa, un sorriso e via. La stessa cosa capita con altri formaggi, mai visto cambiare i guanti o lavarsi le mani passando da una cosa all'altra, cioè da una crosta "vissuta" come è quella del taleggio o del grana, o magari dall'esterno del prosciutto o della coppa, o da un salame, e poi toccare pane, ricotta, primosale. La scena è sempre la stessa, così frequente e costante che non me la prendo neanche più e faccio finta di niente, ma se cominci a notarla è impossibile non farci caso.

Una mia parente che lavorava in un supermercato, qualche anno fa, me lo aveva raccontato: se lavori senza guanti la gente te lo fa notare, c'è anche chi ordina e pretende che si usino i guanti. I guanti monouso, tipo clinica; magari azzurri, così si vede bene che vengono indossati. Ma i guanti non proteggono affatto la merce che comperiamo; andrebbero usati come in clinica, una volta e via. Non è che medici e infermieri tocchino tutti i pazienti senza cambiarsi i guanti, o senza lavarsi le mani. Se non cambi i guanti ogni volta, il risultato è che l'operatore è protetto (il che è un'ottima cosa) ma quello che viene toccato non lo è.

Lo avevo notato anche sul mio posto di lavoro, il laboratorio di un'industria chimica: da un certo momento in avanti, più o meno dalla metà degli anni '90, un paio dei miei colleghi iniziarono a lavorare tutto il giorno con i guanti addosso. Io non l'ho mai fatto, in primo luogo perchè non ce ne era davvero bisogno, non per tutto il giorno (tanto per intenderci: i guanti li usavo sempre per maneggiare i prodotti pericolosi, non per lo shampoo o per il docciaschiuma diluito che si produceva in quella ditta) e poi perché per natura ho le mani molto calde e se usassi i guanti tutto il giorno poi mi troverei le mani sudate chiuse nel lattice per otto ore e alla fine dovrei ricorrere al dermatologo per curarmi. D'estate mi basta un minuto per avere le mani sudate, usando i guanti di lattice o di gomma; sudando e tenendosi addosso materiali che non fanno traspirare, le malattie della pelle sono quasi garantite.
Comunque sia, ognuno sarebbe in teoria libero di attrezzarsi come crede; e il mio racconto finirebbe qui se non fosse per un dettaglio tutt'altro che secondario. Lavorando con i guanti otto ore su otto, infatti, se ci si sporca è difficile accorgersi che si hanno le mani sporche, e il risultato è questo: ogni cosa che si tocca con le mani imbrattate (ma coperte dai guanti) diventa sporca. Maniglie sporche, rubinetti sporchi, documenti sporchi, strumenti sporchi (compresi quelli di precisione), stare attento se ti toccano perché poi ti ritrovi sporco. Mi ricordo ancora gli accidenti che tiravano i visitatori di passaggio, anche solo toccando una maniglia per aprire la porta; poi magari ci si va a lavare e anche il rubinetto del lavandino è impastato e si peggiora la situazione. Peggio che in un film di Stanlio e Ollio, ma i guanti parevano il toccasana, guai a toccare l'argomento. Oltretutto, lavorando in un laboratorio chimico, cosa mai sarà quello sporco? Semplice unto, o magari qualcosa di corrosivo?

Quantomeno, il salumaio o la salumaia che mi sta servendo deve preoccuparsi solo dell'unto, o magari delle muffe del taleggio, o della stagionatura della pelle del salame; tutte cose che poi ritroverò sul pane, o sulla ricotta, fate voi. Che fare? Secondo me aiuterebbe un po' di buonsenso, ma ormai il buonsenso è diventato merce rara. Oltretutto, comincio a chiedermi, cosa mai succederà quando il salumaio si ritira per qualche minuto nel retrobottega? Meglio non pensarci, in fin dei conti di anticorpi ne ho ancora a sufficienza.

P.S.: in uno dei supermercati dove vado, la direzione ha risparmiato sul personale, e il pane lo prendono direttamente i clienti: con i guanti, è sottinteso. Basta fermarsi cinque minuti per accorgersi che così non è, non tutti quelli che maneggiano il pane prendono i guanti monouso. Lo scrivo anche per sottolineare che molto spesso il problema è la direzione, i capi possono essere peggiori dei loro sottoposti.

AGGIORNAMENTO al 23 marzo 2020: mi piacerebbe molto anche che i miei condomini sempre attrezzati con guanti e mascherina dedicassero un po' d'attenzione al corrimano delle scale, magari solo una passatina con uno dei disinfettanti che sicuramente hanno in casa. Non dico lavare le scale (qualcuno dovrà pur farlo), ma almeno il corrimano, la maniglia del portoncino... So già che non succederà.

lunedì 17 febbraio 2020

Bestemmie & Divani


L'ultima novità in fatto di divani è la bestemmia: non paghi del quotidiano e assillante martellamento per venderci sofà e poltrone, quelli della nota ditta (troppo nota, ahimè) passano anche, apertamente, alla bestemmia. Dapprima una voce dall'alto, sul tipo di quello che capita a don Camillo nei film tratti da Guareschi, poi una citazione blasfema su san Tommaso. Avessero detto a chiare lettera una delle bestemmie più note, lo spot non sarebbe mai passato; così è tutto più soft, la gente è distratta, l'istituto di autodisciplina dei pubblicitari è sparito chissà dove, la maggior parte dei presenti fa più o meno quello che faccio io (cambiar canale, togliere l'audio, andare in bagno, eccetera - e fanno bene) e così anche questa passa inosservata. O, meglio, questa è la migliore delle ipotesi: la peggiore (che temo sia vera) è che in Italia non si legge il Vangelo e non si sa di cosa si sta parlando. Forse, a pensarci bene, in Italia il Vangelo non si è mai letto. Forse, a pensarci bene, in Italia non si legge più niente (vedi "ogni uomo è un'isola").

L'episodio di san Tommaso, dal Vangelo di san Giovanni (verso la fine, versi 24-29) tocca tutti noi profondamente, perché all'aldilà prima o poi tutti ci pensiamo. Cosa succede, dopo? Tommaso che per credere vuole toccare le ferite di Gesù è l'esempio di tutti noi. Vorremmo avere un Dio che si possa verificare, toccare, che ci venga in soccorso quando lo chiamiamo; ma così non è. Dio tace? O forse siamo noi che non vogliamo né sentire né vedere?
Per dirla con le parole di Fellini e di Benigni:
- ...sempre la stessa domanda: ma è possibile che non si sappia più niente di voi, ma niente, mai, di nessuno? Certo, siete morti tutti, lo so, siete stati bravi, bravissimi, non dev’essere facile...a me non mi è mai riuscito, io non so neanche immaginare come si fa. E non ci si può incontrare più, non può succedere, “non deve”... Ma dov’è che siete? Certe volte penso: ma ci sarà pure un posto nel mondo, dove c’è un foro, un buco, che dà da quell’altra parte?
(da "La voce della luna" di Federico Fellini, minuto 20 dall'inizio)

Insomma, vengono i brividi quando si pensa a san Tommaso, gli orizzonti che ci si aprono sono così vasti che fanno spavento. Ma, invece, ecco qui lo spot dei creativi/cretini. Da parte mia, posso aggiungere solo questo: il giorno che dovessi comperare un divano, andrò sicuramente da un'altra parte.

sabato 15 febbraio 2020

Icaro di Brueghel


Alle volte capitano delle sorprese, cose felici o comunque inaspettate, a cui non si sarebbe mai arrivati da soli; capita leggendo, guardando un film, parlando con qualcuno. Per esempio, "The man who fell to Earth" di Nicholas Roeg è un film che non ho mai amato molto e che ho guardato solo per non aver niente di meglio da fare; guardandolo ho scoperto che contiene questi versi di W. H. Auden a commento di un dipinto di Pieter Brueghel, "Icarus". E' un dipinto molto particolare, perché ci si aspetterebbe che il volo di Icaro, o comunque Icaro con le sue ali, sia in primo piano; ma questo accade in altri dipinti, non in Brueghel. In Brueghel (Pieter Brueghel il vecchio, il dipinto è del 1558 circa ) si vede in primo piano un contadino che ara la sua terra, e solo cercando bene si arriva a vedere un dettaglio (le gambe, in fondo a destra) di Icaro caduto in mare; sullo sfondo, una nave veleggia. E' il minuto 20, quando un libro viene sfogliato; la copertina del libro dice "Auden - Musée de Beaux Arts"
In Brueghel's Icarus, for instance, how everything turns away
quite leisurely from the disaster; the ploughman may
have heard the splash, the forsaken cry,
but for him it was not an important failure; the sun shone
as it had to on white legs disappearing into the green
water; and the expensive delicate ship that must have seen
something amazing, a boy falling out of the sky,
had somewhere to get to and sailed calmly on.
(Nell'Icaro di Brueghel, per esempio, come tutto si volta via comodamente dal disastro; l'uomo che sta arando ha sentito il rumore della caduta in mare, il grido di rinuncia, ma per lui non è stata una caduta importante; il sole splende come deve sulle bianche gambe che scompaiono nell'acqua verde; e la costosa delicata nave che deve aver visto qualcosa di sorprendente, un ragazzo caduto dal cielo, ha un qualche posto dove andare e naviga tranquillamente verso la sua meta.)
(Wystan Hugh Auden, 1907-1973)



giovedì 13 febbraio 2020

Hans Holbein il giovane

 
Traversarono le medesime stanze per le quali il principe era passato prima; Rogozin andava avanti e il principe lo seguiva. Entrarono in una gran sala: vi erano appesi alle pareti vari quadri: tutti ritratti di vescovi e paesaggi, nei quali non si poteva distinguer nulla. Sopra l'uscio che dava nella stanza successiva pendeva un quadro di forma piuttosto strana, lungo circa due arscini e mezzo e non più alto di sei verskì. Rappresentava il Salvatore appena deposto dalla croce. Il principe vi gettò un'occhiata di sfuggita, con l'aria di rammentare qualcosa, ma, senza fermarsi, già voleva passar oltre. Si sentiva molto a disagio e desiderava di uscire al più presto da quella casa. Ma Rogozin si fermò bruscamente davanti al quadro.
- Tutti i quadri che son qui, - disse, - furono comperati per un rublo o due nelle aste pubbliche dal babbo buon’anima: era un amatore. Un conoscitore che li esaminò tutti disse che erano robaccia, ma questo, ecco, questo quadro che sta sopra l’uscio, comperato anch'esso per due rubli, non é robaccia, disse. Un tale cercò di acquistarlo da mio padre e voleva dargli trecentocinquanta rubli, e Saveliev Ivan Dmitric', un mercante, grande amatore di quadri, arrivò fino a quattrocento, e la settimana scorsa ne offerse cinquecento a mio fratello Semion Semionic’. Io ho preferito tenerlo.
- Ma questa... questa è una copia di Hans Holbein, - disse il principe, che aveva avuto il tempo di esaminare il quadro, - e per quanto io non sia un gran conoscitore, mi pare sia una copia eccellente. Questo quadro l’ho veduto all'estero e non posso dimenticarlo. Ma... perché tu...
 
Rogozin a un tratto aveva lasciato il quadro ed era andato avanti. Certo, la sua distrazione e quello speciale umore stranamente irritabile che si era manifestato in modo così repentino in Rogozin avrebbero forse potuto spiegare quel gesto impetuoso; ma tuttavia parve strano al principe che fosse stata cosi bruscamente interrotta una conversazione che non era stata iniziata da lui e che Rogozin non gli avesse nemmeno risposto.
- Dimmi, Lev Nikolaievic, te lo volevo domandare da un pezzo, credi in Dio o no? - riprese a dire all’improvviso Rogozin, dopo aver fatto alcuni passi in avanti.
- Che strano modo d’interrogare e... di guardare! - osservò senza volerlo il principe,
- Ma mi piace contemplare questo quadro, - mormorò Rogozin, dopo un breve silenzio, come se avesse nuovamente dimenticato la propria domanda.
- Questo quadro! - proruppe a un tratto il principe, sotto l'influsso d'un subitaneo pensiero: - questo quadro! Ma più d’uno, guardando questo quadro, può perdere la fede!
- Si perde anche quella, - confermò inattesamente Rogozin. Erano ormai arrivati alla porta d’uscita.
- Come, - disse il principe fermandosi a un tratto: - che dici mai! Io quasi scherzavo e tu parli così seriamente! E perché mi hai domandato se credo in Dio?
- Così, per niente. Volevo domandartelo anche prima d’ora: ci sono molti, oggi, che non credono. Ed è vero (tu che sei stato all’estero), come mi diceva un tale ubriaco, che da noi in Russia vi sono persone che non credono in Dio più che in tutti gli altri paesi? « Per noi », diceva, - é più facile che per loro, perché noi siamo andati più avanti degli altri»...
Rogozin sorrise sarcastico; dopo aver formulato la domanda, a un tratto aperse la porta e, tenendo la mano sulla maniglia, attese che il principe passasse. (...)

Fjodor Dostoevskij, L'idiota, parte seconda capitolo quarto (ed. BUR 1954, traduzione di Giovanni Faccioli)

Note del traduttore:
- ‘L'arscin corrisponde a m, 0,711, il verskì a 4,5 cm circa
- Il Cristo morto di Hans Holbein (il Giovane), quadro di un tragico e potente reallsmo, dipinto nel 1521, aveva prodotto un'impressione straordinaria su Dostoevskij durame la sua visita al Museo di Basilea il 12 (24) agosto 1867.

il discorso sul quadro di Holbein viene ripreso in parte terza capitolo sesto (verso la fine del capitolo) con le osservazioni di Ippolit.


lunedì 10 febbraio 2020

Foibe e negazionismo

Sulla tragedia delle foibe, nel primo dopoguerra, c'è stato un lungo silenzio. Nessuno ne parlava, io stesso ne ho sentito parlare per la prima volta già da adulto, dopo i vent'anni. Di conseguenza, un negazionismo non c'è mai stato, e spiace che anche il presidente Mattarella si sia fatto spingere a dire una cosa che non è vera. Piuttosto, nella ricorrenza di quella strage, bisognerebbe chiedersi il perché di quel silenzio: che è il silenzio dei governi democristiani, perfino di De Gasperi, di Moro, di Fanfani, di Andreotti. Perché nessuno parlò delle foibe dal 1946 in qua, per quasi quarant'anni? Il silenzio si deve alla situazione che si era creata in quegli anni, ed è stato in primo luogo un silenzio voluto dagli americani, dagli Usa. In Jugoslavia si era venuto a trovare un governo antistalinista, ed era una notizia inattesa e, sempre nel contesto di quegli anni, buona per gli americani e per la Nato che stava nascendo. Il governo di Tito non andava contrastato, perché faceva da cuscinetto contro l'avanzata dell'URSS (che già si era presa Ungheria, Polonia, Bulgaria, Cecoslovacchia, metà Germania...). Da qui, l'invito degli americani di lasciar perdere, di far silenzio. Qualcosa di simile avvenne con i processi di Norimberga: ci furono molti processi a Norimberga, che durarono fino all'inizio degli anni '60. I primi processi furono durissimi, poi la durezza venne attenuata e alla fine ci fu l'ordine di lasciar perdere, di attenuare: era la pacificazione che interessava, venne ritenuto inutile rinfocolare ricordi pesanti e dolorosi, e i familiari delle vittime dovettero rassegnarsi e abituarsi a convivere con quelli che avevano denunciato e mandato a morte i loro cari (questa vicenda è descritta, fra l'altro, nel film "Vincitori e vinti" del 1961, regia di Stanley Kramer, con Spencer Tracy nel ruolo dell'anziano giudice spedito a Norimberga dal governo americano: il titolo originale è "Judgement at Nuremberg")

Mattarella, nel suo discorso di domenica scorsa, ha fatto il gioco dei negazionisti, quelli veri: usare le foibe contro Auschwitz. Il gioco dei negazionisti è chiaro e sporco, direi lurido più che sporco, ed è un gioco due volte infame: infame contro le vittime dei lager nazisti, e ancora più infame verso le vittime delle foibe usate come una clava o come un megafono per nascondere altri crimini. La somma di due crimini non è zero crimini, ma una cifra enorme di morti innocenti. Oltretutto, è infame agitare le foibe anche per nascondere la strage delle Fosse Ardeatine, o le innumerevoli stragi compiute dai nazisti e dai fascisti repubblichini nel 1944: Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, Boves, quante sono queste stragi? Quasi impossibile ricordarle tutte, per alcune ci fu un silenzio paragonabile a quello sulle foibe... Perché da destra si tace sempre su queste stragi? Si può essere di destra anche senza coprire le dittature, invece da destra si giustificano perfino i Pinochet e le dittature militari dell'Argentina anni '70 (le storie dei desaparecidos sono paragonabili a quelle delle foibe, e durarono per molti anni). 

Ma qui mi fermo, della strage nelle foibe avevo già scritto qui  quiqui  molto tempo fa, portando testimonianze importanti; spiace doversene occupare ancora, in questi termini, anche nel 2020. Le foibe furono una tragedia orribile, ma non furono "i comunisti" a compierla, fu una strage etnica che si spiega meglio con ciò che avvenne a metà anni '90 con il dissolvimento della Jugoslavia: nazionalisti croati e serbi si ammazzarono anche tra fratelli, e stragi paragonabili a quelle delle foibe furono compiute in Bosnia. Tutto già dimenticato? La vera colpa per la strage delle foibe va ricercata nel nazionalismo esasperato, nel sovranismo oggi tanto di moda, nell'intolleranza.

PS: Anche la storia degli esuli fiumani e istriani andrebbe raccontata meglio: come mai Fiume e l'Istria passarono alla Jugoslavia, di chi fu la colpa? De Gasperi dovette lavorare duramente per non perdere anche Trieste, e le altre città perdute da Mussolini in una guerra disastrosa voluta dal fascismo. Nel caso si volesse dare delle colpe ai "comunisti", consiglio i documentari realizzati dal triestino Franco Giraldi: la storia dell'Isola Calva, per esempio, raccontata dai superstiti in "Ex Jugoslavia - Fogli di viaggio" e in "Trieste 1948", prodotti dalla Rai nel 1994. Anche per questa storia, come per le foibe, c'è stato un silenzio totale; che, in questi casi, dura ancora.

domenica 9 febbraio 2020

Acido solforico


Se vi capitasse di naufragare su un'isola deserta, vi verrebbe mai in mente di darvi da fare per avere dell'acido solforico? Eppure Jules Verne, in "L'isola misteriosa", descrive minutamente come verrà prodotto dai suoi cinque naufraghi (più il cane), guidati dal magnifico ingegnere Cyrus Smith. Nell'isola misteriosa c'è di tutto, animali, vegetali, materie prime, perfino troppo; lo scopo del lavoro che state per leggere è rendere abitabile una grande caverna vicina a un lago. Jules Verne, per L'isola misteriosa, deve aver letto una gran quantità di libri di chimica e di manuali per ingegneri; queste pagine ne sono solo una piccola parte, nella prima metà quasi tutto il libro è così. Un suggerimento per gli insegnanti di chimica è proporre questo testo come compito in classe, o come spunto per una tesina. Anche solo limitandosi a trascrivere le reazioni chimiche qui accennate, c'è da lavorare parecchio.

Si rendeva pertanto indispensabile fabbricare una sostanza esplosiva che potesse spaccare una larga breccia in un altro punto della riva granitica del lago. Ecco quello che si proponeva Cyrus valendosi dei minerali che abbondavano nell'isola. (...) Nab e Pencroff furono incaricati di estrarre il grasso dalla carne del dugongo, e di e di conservarne la carne, destinata all'alimentazione della colonia; e i due si avviarono senza indugio verso il lago. Qualche minuto dopo, Cyrus, Spilett e Harbert, tirandosi dietro il graticcio, risalivano il fiume e si dirigevano verso il giacimento di carbone dove Cyrus aveva visto in abbondanza le piriti schistose delle quali aveva trovato, durante la prima esplorazione, alcuni esemplari. Per tutto quel giorno si cercarono piriti che furono caricate sul graticcio e trasportate, in numerosi viaggi, alla Camminata. Quando venne la notte, ve n'erano adunate alla grotta alcune tonnellate. L'indomani, 8 maggio, l'ingegnere cominciò le sue manipolazioni.
Quelle piriti schistose erano composte principalmente di carbone, di silicio, d'alluminio e, in abbondanza, di solfuro di ferro; bisognava isolare quest'ultimo e trasformarlo in solfato il più rapidamente possibile; dal solfato, si sarebbe estratto l'acido solforico. Era lo scopo da raggiungere, perché l'acido solforico è uno degli elementi più utilizzati e l'importanza industriale di una nazione può misurarsi dal consumo che fa di acido solforico. Questo acido doveva poi essere più tardi di una grandissima utilità ai coloni per fabbricare delle candele, per conciare le pelli, e così via, ma in quel momento un altro era lo scopo che si prefiggeva Cyrus. Egli scelse, dietro la Camminata, un luogo dove il terreno fosse accuratamente eguale e liscio; su quel suolo collocò un mucchio di legna tagliata, e sopra dei pezzi di pirite schistosa appoggiati gli uni contro gli altri; sopra vi stese uno strato di altre piriti, ma frantumate e ridotte non più grosse di una noce. Ciò fatto, pose fuoco sul rogo e presto le fiamme raggiunsero le piriti che si incendiarono subito essendo composte anche di carbone e di zolfo. A questo punto, altri strati di grosse piriti furono collocate sul rogo così da formare un grosso mucchio, chiuso tutto all'intorno da terriccio, con qualche spiraglio qua e là per lasciarvi circolare l'aria. Perché la trasformazione dal solfuro di ferro in solfato di ferro e d'alluminio in solfato di alluminio fosse condotta a termine, non ci vollero meno di dieci giorni. Nel frattempo Cyrus faceva compiere altre operazioni.
Nab e Pencroff avevano tolto tutto il grasso dalla carne del dugongo, che era stato raccolto in alcune grandi anfore di terra. Si trattava di isolarne uno degli elementi costitutivi, la glicerina, saponificandola. Per ottenere questo, bastava trattarla con la soda o la calce: e difatti l'una o l'altra di queste sostanze, dopo aver attaccato il grasso, formerebbero un sapone isolando la glicerina: ed era proprio questa glicerina che l'ingegnere voleva utilizzare. La calce non gli mancava, come s'è visto; ma usando la calce, non si sarebbe avuto che del sapone calcare, insolubile, e perciò inutile; mentre usando la soda si sarebbe ottenuto del sapone solubile che poteva essere usato dai coloni per la pulizia. Da uomo pratico qual era, Cyrus doveva allora cercare di avere della soda. Era difficile?
No; perché sulla costa abbondavano quelle piante marine che producevano fuchi e grasso vegetale. Se ne raccolsero in grande quantità, si fecero seccare e quindi bruciare in fosse, all'aria. Per parecchi giorni durò questo rogo, e le fiamme vennero continuamente alimentate così che perfino le ceneri ottenute si fondevano e si otteneva una massa compatta, grigiastra, conosciuta sotto il nome di soda naturale. Con questa soda, fu trattato il grasso di dugongo, e l'ingegnere ottenne da una parte il sapone solubile dall'altra quella sostanza neutra chiamata glicerina.

Ma non bastava ancora: occorreva, per il fine che si proponeva Cyrus, un'altra sostanza, l'azotato di potassa, più conosciuto sotto il nome di salnitro. Si sarebbe potuto ottenere trattando il carbonato di potassa, che si estrae dalle ceneri dei vegetali, con l‘acido nitrico; ma l'acido nitrico mancava; ed era proprio quest‘acido che Cyrus voleva ottenere. Era, insomma, una specie di circolo vizioso; e Cyrus non sarebbe riuscito a cavarsela, se la natura non gli fosse venuta in soccorso fornendogli quel salnitro senz'altra difficoltà se non quella del raccoglierlo. Harbert infatti ne scoprì un intero giacimento ai piedi del monte Franklin, nella parte settentrionale dell‘isola, e non ci fu che da purificare questo sale. Tutte queste operazioni durarono otto giorni, ed erano finite prima che fosse condotta a termine la trasformazione del solfuro in solfato di ferro. Nei giorni che seguirono i coloni fabbricarono delle pentole refrattarie in argilla plastica e un forno di mattoni disposti in modo speciale perché servisse alla distillazione del solfato di ferro. Tutto questo fu terminato verso il 18 maggio (...)
Quando il mucchio di piriti fu interamente ridotto dal fuoco, il risultato di quell'operazione, consistente in solfato di ferro, solfato di alluminio, silicio e residuati di carbone e cenere, venne depositato in un grande bacile d'acqua. Si mescolò a lungo quel miscuglio, si lasciò depositare, e si ottenne un liquido chiaro, contenente disciolti i due solfati, poiché le altre materie, insolubili, erano rimaste allo stato solido. Poi, il liquido così ottenuto essendosi vaporizzato in parte, i cristalli di solfuro di ferro vennero a depositarsi sul fondo. Cyrus venne così in possesso di una forte quantità di questi cristalli di solfato di ferro dai quali si doveva adesso estrarre l'acido solforico.
Senza ricorrere a difficili e complicate operazioni, l'ingegnere pensò di calcinare dentro un vaso chiuso quei cristalli così che l'acido solforico si distillasse in vapori che, per condensazione, avrebbero poi prodotto l'acido richiesto. A far questo servirono le pentole refrattarie che erano state fabbricate, e il forno il cui calore doveva distillare l'acido solforico in parola. (...)
Ma per quale motivo egli desiderava avere l'acido solforico senza indugio? Semplicemente per estrarre l'acido nitrico, e questo gli riuscì facile perché l'acido solforico, attaccato dal salnitro, gli diede per distillazione quello azotico. Quello però che i suoi compagni ignoravano era perché mai volesse avere dell'acido azotico. (...) 
Cyrus saponificò, con la la calce, il grasso e ne ottenne una specie di sapone calcareo che l'acido solforico subito decompose nei suoi acidi fondamentali, facendo precipitare la calce allo stato di solfato. Dei tre acidi risultanti quello oleico, essendo liquido, venne agevolmente cacciato dalla miscela; gli altri due, e cioè l'acido margarico e quello stearico, formavano proprio quella sostanza che doveva servire a fare le candele. L'operazione non duro più di ventiquattro ore. Gli stoppini furono fatti con delle libre vegetali sottilissime, e poco dopo le candele erano pronte. Naturalmente, non erano né candide né perfettamente lisce: erano state confezionate a mano; ma servivano perfettamente allo scopo.
Jules Verne, L'isola misteriosa, parte prima capitolo XX;  traduttore non indicato, ed. Crescere 2018
 
(la mappa dell'isola misteriosa viene da wikipedia, il cartello segnaletico da un catalogo per le industrie chimiche)

mercoledì 5 febbraio 2020

Major Tom to Ground Control


Quando uscì "Space oddity" io ero sui quattordici anni, l'ho imparata subito a memoria e me la ricordo ancora quasi tutta; era da poco che studiavo l'inglese, non ricordo se avevo trovato il testo scritto da qualche parte ma forse non era necessario perché la dizione era molto chiara. Ricordo anche un conduttore alla radio ("Per voi giovani", credo) che aveva sottolineato: non è Odyssey, è "oddity". La stranezza dello spazio, dunque, anche nel senso dell'essere "dispari", dato che odd ha anche quel significato. Dopo averla imparata a memoria, però, il me stesso quattordicenne cominciò ad avere qualche dubbio che posso trascrivere così: sono cose da bambini, avrei potuto scriverla anch'io questa cosa. Major Tom to ground control, con tutte quelle immagini di astronauti che abbondavano negli anni '60, le passeggiate nello spazio, i primi passi sulla Luna, e andando ancora più indietro nel tempo Juri Gagarin, la cagnetta Laika che avevo tra i miei giocattoli, il bip bip dello Sputnik (proprio nell'anno in cui sono nato)...
Beh, sì, non c'era niente di davvero particolare in quella canzone, però piaceva e aveva successo. Un po' me ne vergognavo: mi era piaciuta questa cosa da tredicenni, meglio non dirlo a nessuno. Qualche tempo dopo avrei visto le fotografie di David Bowie, non mi piaceva per niente e lo avrei presto abbandonato - però vedo che per gli altri non è stato così, e ancora me ne meraviglio. E' vero che ognuno ha i suoi gusti, ma a volte mi sembra che ci sia chi prende gusto nel crogiolarsi nel se stesso da bambino. Lo penso ogni volta che sento dire "grande cantante" o "grande musicista" o magari addirittura "maestro" a questo e a quella, e magari sono canzoncine banali, da Canzonissima. Ecco, Canzonissima è stata un altro dei miei piccoli incubi da bambino o da adolescente, quante puntate me ne sono dovuto sorbire. Ne rivedo qualche estratto su "Rai Storia", c'erano cose belle o divertenti (Walter Chiari...) ma c'era tanta fuffa, battute grevi, qualunquismo a quintali (Paolo Panelli).
A quattordici anni ho buttato via quella zavorra e mi sono messo a cercare cose grandi e belle, ormai avevo un'età in cui potevo cominciare a muovermi da solo e l'ho fatto. Ho fatto anche molti errori, ma del mio percorso musicale sono contento e lascio più che volentieri le canzoni di musica leggera e "Major Tom to ground control" a chi le desidera; o meglio, lo farei volentieri ma le canzonette sono dappertutto e mi tocca subirle ancora oggi come cinquant'anni fa. Di David Bowie si parla come di un genio, è come santificato; Sanremo e Canzonissima vengono presentati come unica immagine dell'Italia, e chi non è d'accordo viene deplorato e magari, chissà, forse anche sanzionato in un prossimo futuro. Magari fosse vero che ognuno ascolta ciò che vuole, a me tocca ascoltare ancora oggi proprio tutte quelle cose che avevo scartato quando avevo quattordici anni: negozi, sale d'attesa, banca, ovunque. Mica sempre posso tapparmi le orecchie: magari fossimo fatti come gli ornitorinchi e gli ippopotami, che hanno le palpebre anche sulle orecchie!
In conclusione, e per non tirarla troppo in lungo, nelle scorse settimane ho fatto una chiacchierata con un'amica che mi ha detto di aver abitato per dieci anni in Germania, e che alle volte fa fatica a collegarsi con ciò che le dice la gente. Ecco, è la sensazione che ho anch'io, pur essendo sempre rimasto qui a casa mia: la sensazione di un buco, di una voragine. C'è gente che ha girato il mondo ma ne ha capito poco, forse proprio per via di questo rinchiudersi in quelle quattro cosette che ascoltavano da bambini. Io mi guardo indietro (ho l'età per farlo) e penso che quello che mi ha fregato, nella vita, è stato proprio nei momenti in cui ho cercato di migliorarmi. Non me lo hanno perdonato, fossi rimasto nei miei difetti, fossi stato più superficiale, sarei piaciuto di più. Per intanto, perso anch'io nello spazio siderale (ma come l'astronauta di Kubrick, non quello tarocco di David Bowie), continuo nel mio viaggio verso Giove senza la minima idea su come andrà a finire.
(disegno di Hedwig Wylie, 1962, e una pubblicità anni '60)

domenica 2 febbraio 2020

Gli occhiali in laboratorio


- Antefatto (gennaio). Porto gli occhiali da quando facevo la terza elementare, e ormai sono parte di me stesso. Ma sono lenti spesse e pesanti: manca poco alle 10 dieci diottrie. Così, quando l'oculista durante una normale visita di controllo mi dice che io sarei il soggetto ideale per un'operazione di correzione della miopia, comincio a prendere seriamente in considerazione la cosa. Oltretutto, già l'anno prima, durante un'altra visita, l'oculista mi aveva accennato a questa possibilità. La tecnica è nuova ma ormai collaudata, il mio oculista è bravissimo e ormai lo conosco bene, e così mi sottopongo subito ad una visita più accurata, mirata all'intervento.
L'operazione riesce benissimo, e nel giro di un mese gli occhiali sono ormai solo un ricordo. Nel frattempo ho ripreso a lavorare; e siccome lavoro in un laboratorio chimico comincio a pormi qualche domanda. E' vero che il laboratorio non è dei peggiori, anzi: però qualche volta capita di usare l'acido solforico concentrato, o magari la soda caustica al 50%...Prima avevo sempre gli occhiali da vista, che un minimo di protezione me la davano; adesso non è più così, e allora vado dal mio amico magazziniere a chiedere gli occhiali di protezione, che fin qui non avevo mai adoperato.
Sorpresa: il magazziniere, ottimo amico e bravo persona, mi dice di no, che non può darmeli: - Mi dispiace, ma gli occhiali di protezione non sono previsti fra i dpi del laboratorio. Non sono indispensabili, e non vengono forniti. Puoi averli, ma devi chiederli al direttore: se lui fa una deroga, vieni qui che te li dò.
Dpi è l'abbreviazione che si usa per indicare i "dispositivi di protezione individuale": la Direzione, insieme al Medico di Fabbrica e alla Commissione per la Sicurezza, composta da gente esperta, decide fabbrica per fabbrica, nel rispetto della legge, quali sono i dpi necessari reparto per reparto. Gli occhiali di sicurezza spettano ai lavoratori che fanno travasi, dai fusti alle cisterne, per esempio; o dai serbatoi ai fusti, e via dicendo. Nei reparti il rischio di vedersi schizzare qualcosa in un occhio è piuttosto alto, ed allora è necessario premunirsi. La Direzione invece ha valutato i rischi che si corrono in laboratorio: pressoché nulli, hanno concluso. E allora, perché spendere soldi inutilmente?

- Prologo (gennaio). La Direzione, riunita con tutta la Commissione di Sicurezza, vuole ridurre al minimo i rischi. Per quanto riguarda il laboratorio, d'ora in avanti molte materie prime non verranno più campionate: troppo rischioso il prelevamento del campione e il suo stoccaggio. L'acido solforico e l'acido cloridrico, per esempio, possono corrodere coperchi e guarnizioni dei vasetti nei quali vengono campionati e stoccati; ma la lista è piuttosto lunga e alle volte sorprendente, tenuto conto che siamo tutti chimici di buoni studi e di lunga carriera.
- Anche l'acqua ossigenata? - chiedo io
- Sì, hai ragione: ma tanto a te cosa ti interessa? A loro va bene così, e per noi è tutto lavoro in meno.
Boh, un po' a me dispiace: fare il chimico di laboratorio è divertente, e analizzare le materie prime aiuta a tenere in mente concetti e formule... Comunque il mio collega ha ragione: non è una decisione che spetta a me, e mi toglie un po' di lavoro. Pazienza: si può fare, perché lavoriamo in regime di Certificazione di Qualità. Le materie prime arrivano dai nostri fornitori con il loro bravo Certificato d'Analisi, che è un Documento Ufficiale; e anche noi facciamo così con i nostri prodotti in uscita. Se tutto è certificato non c'è bisogno di controllare, no?

- Tragedia (agosto) E' l'ultimo giorno di lavoro, poi la fabbrica chiude. Io sono già in vacanza e lo verrò a sapere a fine mese, ma proprio all'ultimo giorno di lavoro il mio collega che si cura del prelevamento dei campioni ha un incidente serio: nel riordinare i vasetti dei campioni, scivola sulla scaletta e ne rovescia alcuni dagli scaffali. Sfortuna vuole che uno dei vasetti, rovesciandosi, versi una parte del suo contenuto nei suoi occhi; fortuna vuole che il danno non sia grave, anche se l'amico avrà da tribolare per tutto il mese di agosto.
L'uomo viene trasportato d'urgenza al pronto soccorso, e di conseguenza si apre un verbale relativo all'infortunio, cosa che fa sempre cattiva impressione, nei riguardi dell'azienda, e fa scattare aumenti assicurativi. Di conseguenza, il Direttore in persona piomba in laboratorio, convoca tutti i presenti e ordina (sottolinea: ORDINA) che d'ora in poi, per prevenire questi incidenti, tutti (dicasi: TUTTI) dovranno portare gli occhiali di protezione; e dovranno portarli sempre (ovvero: SEMPRE ) qualsiasi cosa si faccia, anche un travaso d'acqua distillata.
Al mio rientro in fabbrica, provo a discutere la cosa e a ragionarci sopra. Primo: il vasetto conteneva acido solforico. Da dove veniva l'acido solforico, per di più concentrato? Non ne erano stati vietati il campionamento e lo stoccaggio? Secondo: il campionatore stava usando una scaletta a norma, questo sì: ma il terreno sul quale poggiava non era livellato, e anzi un po' accidentato. La scaletta, d'alluminio e leggera, non era in piano; e già una volta io, salendoci, avevo rischiato di ribaltarmi. Terzo: com'è che sei mesi fa gli occhiali non erano necessari, e adesso invece bisogna portarli sempre ma proprio sempre?

- Conclusione (settembre). Sono nell'ufficio del Direttore. Con lui c'è il Capo del Personale. Mancherebbe la Dottoressa, che è quella che mi ci ha mandato: ma forse è meglio che non ci sia, meglio discutere queste cose tra addetti ai lavori. Espongo le mie considerazioni, e il Direttore risponde ad alcune delle mie osservazioni, ma non a tutte. Per esempio, io so perché c'era qual vasetto di acido solforico: veniva dall'impianto di solfatazione, del quale è un sottoprodotto. Quando l'impianto non funziona bene e c'è qualche dubbio, il dottor Biribò fa prelevare un campione di acido solforico per farne il titolo (cioè la concentrazione). E' un acido solforico nero e fumante, non quello limpido e denso che gli alchimisti chiamarono, per l'appunto, vetriolo: è nero perché sporco, e fuma perché contiene anidride solforosa e solforica. Come procedura, disposizioni interne a parte, può andare; non può andar bene invece il fatto che detto acido solforico fumante venga campionato dentro vasetti di vetro buoni per la marmellata o i sottaceti, come facciamo da sempre in questa Ditta. Il Direttore ascolta questa mia considerazione e anche tutte le altre, e scuote la testa: non ho capito, e se ne dispiace sinceramente perché mi conosce bene e apprezza molto il mio lavoro. Ribadisce l'obbligo di portare sempre e comunque gli occhiali di plastica trasparente: fanno così anche in Germania, non lo sapevo forse? E' la norma, e non si discute. E poi, via, non è vero che la scaletta traballa! Ma la parola finale la lascia al Capo del Personale, che fin lì è rimasto zitto o quasi. Anche lui è una brava persona, è molto comprensivo e fin qui ha avuto pazienza, mi spiega; ma ormai certe cose dovrei saperle, dice: siamo in fabbrica, e si esige disciplina. Il concetto lo spiega ancora meglio, e lo ribadisce più volte durante il suo intervento:
- Lei non deve rompere i coglioni. Lei deve smetterla di rompere i coglioni. Se proprio vuole rompere i coglioni, vada a farlo da un'altra parte...
Eccetera, con variazioni sul tema, ma non molte. L'importante è il concetto, che è solido e ben chiaro.

- Epilogo. Esco dall'ufficio del Direttore e vado finalmente in magazzino a ritirare il mio dpi, cioè gli occhiali di plastica trasparente che mi serviranno da protezione.
- Sono piccoli, mi vanno stretti e rischio di cacciarmi le stanghette in un occhio. E poi mi segnano il naso, - dico all'amico magazziniere, forte della mia trentennale esperienza di utilizzatore di occhiali.
- Spingi un po' che entrano. - mi risponde l'amico.
Ed è vero. Spingendo un po', entrano; e dopo un po' si assestano. L'unico problema è se si appannano, o magari se si rigano...

- Finalino moralistico (marzo, l'anno dopo). Arriva in laboratorio Luciano B. con un vasetto (tipo sottaceti, coperchio metallico) pieno di roba nera, fumante. Ha i guanti, il casco, gli occhiali e la maschera di protezione.
- Che cos'è? - gli chiedo.
- Ah, niente, le solite cose. L'impianto di solfatazione non va bene e il dottor Biribò vuole sapere com'è il titolo dell'acido solforico. Telefona subito in reparto, che è urgente.
(anni 2000-2003)

PS: ad oggi, anno 2020, gli incidenti sul lavoro continuano ad esistere. Per essere più precisi: ci sono meno posti di lavoro, ma gli incidenti sul lavoro (anche gravi, o gravissimi) continuano a crescere. L'illusione è che tutto si possa risolvere con un casco, un paio d'occhiali, i guanti: sono più che sicuro che gli operai morti all'acciaieria Thyssen di Torino avevano il casco in testa, e magari anche tutti i dpi; ma se avessero detto cosa non andava sarebbero stati licenziati. Negli anni '90, prima delle leggi sul lavoro oggi in vigore, i corsi sulla sicurezza (l'allora legge 626) erano gestiti insieme da Sindacati e Confindustria, alla pari: si insegnava che lavoratori e datori di lavoro avevano pari valore, quando si trattava di non farsi male. Ma, a quei tempi, essere licenziati era ancora abbastanza difficile; oggi non serve nemmeno più licenziare, esistono i contratti a termine.