martedì 15 dicembre 2009

Falce e Martello


Falce e martello, contadini e operai: simboli del lavoro. Simboli del passato, mi si fa notare: ottocenteschi o d’inizio novecento. Capisco benissimo che chi viene da un Paese dell’Est possa non gradirne la vista, ma questo è un simbolo tra i più belli.
Bisognerebbe finalmente imparare a guardare chi c’è, come persona fisica, dietro ai simboli: chi porta avanti le idee o dice di farlo. E questa è una cosa che andrebbe sempre detta, fin dalla prima infanzia: diffidare delle singole persone, confrontare sempre le idee con la strada che si sta facendo. Perfino dietro al Crocifisso si sono nascosti (e si nascondono tutt’oggi) persone spregevoli – ma questo è un discorso lungo che mi porterebbe fuori strada.
Falce e martello sono il simbolo della fatica, la fatica fisica: è per questo che appaiono così fuori moda. Lavorare costava grande fatica e resistenza fisica: oggi andiamo in palestra e giochiamo con la playstation, è normale che questo simbolo ci appaia vecchio e incomprensibile.
Il martello si usa per il bricolage, la falce è proprio estinta: anche per pochi centimetri quadrati di prato ormai si usa la motofalciatrice, vuoi mettere? Oppure si asfalta tutto, si mettono gli autobloccanti, si usa il diserbante: l’uomo del Duemila in questo modo è convinto di risolvere tutto.
E io, che la falce non l’ho mai usata, penso invece a mio nonno: che era alto e magro, ma aveva dei muscoli eccezionali, così duri che parevano di legno. Forte come una quercia, si diceva una volta; e mio nonno era già anziano al tempo di questo ricordo. Dimenticatevi i culturisti: quelli dei contadini erano muscoli veri, non roba gonfiata. Mio nonno era sempre gentile e sorridente, una persona mite (somigliava un po’ a Stan Laurel, ma solo nelle foto dove Stanlio era serio), ma in casa si raccontava ancora che era stato capace di fronteggiare un toro fuggito dalla stalla, almeno due volte, e di riportarlo alla calma.
La falce piccola, il falcetto del simbolo, a dire il vero qualche volta l’ho usata: ma non sapevo come fare, era tutt’altro che facile e richiedeva molta pratica. La falce grande, quella per segare il frumento, evoca ricordi maestosi; ed era anche molto pericolosa, richiedeva grande abilità manuale.
In anni lontani ho visto da vicino lo spettacolo (perché era davvero uno spettacolo) dell’affilare le falci con la cote: esercizio pericolosissimo, che andava ripetuto più volte nel corso della giornata. E l’atto del falciare, così come quello del seminare, ha molto a che vedere con la nascita della musica: è un atto ritmico, quasi una danza lenta. Se si semina male, andando fuori tempo, non in maniera ordinata, il frumento crescerà male; se si falcia male, il lavoro risulterà più difficile e più duro.
Le misure di lunghezza e di superficie dell’Ottocento, spesso antichissime, sono state tutte soppiantate dal metro e dai suoi derivati. Avevano nomi che oggi appaiono strani, perfino ridicoli: pertiche, biolche; e variavano sensibilmente da un posto all’altro, anche a poca distanza. Al di là della comodità dell’uso del sistema metrico, va ricordato che non erano semplici misure lineari o di superficie, ma tenevano conto anche del tempo e delle difficoltà da superare. Fare cento metri in salita non è la stessa cosa che fare cento metri in piano; allo stesso modo, arare un campo di terra morbida non è la stessa cosa che arare un campo di terra dura e sassosa. La superficie è la stessa, ma il lavoro richiede più tempo: di tutte queste cose si teneva conto. Il sistema metrico va benissimo per i geometri, che devono solo sbancare e costruire: per il contadino, quello che usa la falce, forse era davvero meglio pensare in biolche.
Da mio nonno, a Parma, si parlava in termini di parsón e di piana: una “piana” era la porzione di terreno che si poteva lavorare in un giorno, e il “parsón” era una suddivisione della piana, il tempo (e la distanza) necessari per andare avanti e indietro, come la navetta nel telaio, e ripartire per fare un’altra porzione (forse l’etimologia è questa?) della “piana”.
Mio zio, suo figlio, classe 1927, mi diceva sempre (anche lui sorridendo) “voi siete nati nella bambagia, queste cose qui non le capite”. E aveva ragione. Lui faceva il muratore, ed era fiero del suo mestiere; al cantiere gli affidavano sempre le cose difficili, quelle da fare con precisione. Gli archi, le volte, le piastrelle. Il lavoro manuale costa molta fatica, ma costruire un muro a regola d’arte, o falciare perfettamente un prato, sono cose che danno soddisfazione.
A noi, di tutto questo, è arrivato poco o niente. La mia generazione è davvero cresciuta nella bambagia (cioè nel cotone, sul morbido), ma quelle successive sono generazioni di plastica e di mondi virtuali, da videogioco o da omini del Lego, dove per la fatica fisica non c’è posto – a meno di andare in palestra per le arti marziali.
Per tutto il resto, c’è un libro bellissimo, breve e di facile lettura, che si chiama “La fattoria degli animali”(autore George Orwell, testimone oculare). In URSS è andata così: ma io, figlio di operai, ho potuto studiare e fare la vita del signore. Nell’Ottocento, quando nacque e si diffuse il simbolo della falce e martello, non mi sarebbe andata così bene: e per sapere come mi sarebbe andata si potrebbe provare a leggere un libro qualsiasi di Dickens, basta anche “Oliver Twist”.
N.B.: potrei essere stato impreciso nei termini che ho usato. Innanzitutto per la pronuncia: il dialetto non è una lingua scritta, e il parmigiano (pramsàn) è davvero difficile da rendere con l’italiano. La esse di “parsón” è un suono intermedio tra esse e zeta, e le A di “piana” sono diverse da quelle dell’italiano. Anche tutto il resto andrebbe verificato, però il concetto è quello: le antiche misure di superficie tenevano conto anche del tempo, e della fatica fisica.

4 commenti:

davide ha detto...

Mi viene da piangere al pensiero di come ci siamo e ci hanno ridotto la nostra stupenda democratia!!

Giuliano ha detto...

l'ultima trovata è quella di "abolire" la parola compagno: che in Emilia e un po' in tutta la pianura padana significa "uguale", due scarpe compagne sono due scarpe uguali.
abbiamo perso completamente il vero significato delle parole che diciamo...
grazie del commento!

bibliomatilda ha detto...

Buona sera, Compagno!
Leggere il tuo post, sul lavoro, sull'amore, sulla passione, sull'abiltà con le quali lo si può fare, quasi mi ha commosso, per questo ti chiamo compagno!
PS: non ho mai preso una false in mano, anche se mi è capitato di vederla da vicino, ne ho sempre avuto un sacro timore, come qualcosa da lasciar fare a chi sa!

Giuliano ha detto...

compagno significa uguale, in Emilia - ma sono sicuro che tu sei più bella di me
:-)
(ho visto la foto...)
questo post fa parte di una serie sui simboli, "segni e simboli". Ho messo on line quelle quattro cose che so, perché mi ero accorto che con quelle quattro cose che so ero diventato un Sapiente... con l'ignoranza che c'è in giro, anche uno che ha letto un libro e sa ripetere quello che ha letto diventa importante.
Che tristezza, però.
La falce l'ho vista usare dai miei nonni e dai miei zii, è uno strumento pericoloso, specialmente quando bisogna affilarla con la cote. Io ho usato il falcetto, quello per l'erba bassa, ma molto maldestramente...