mercoledì 30 dicembre 2009

Non si può imparare tutto a Varese

Di Gianni Brera prima o poi bisognerà parlare: grande scrittore, alternava cose serissime a colossali stupidaggini, sempre divertendosi molto. Io gli devo molto, da Gianni Brera ho imparato tanto; anche quando scriveva o diceva cose discutibili si avvertiva sempre in lui una grande preparazione culturale.
Di questo, e di altro, parla un altro grande giornalista sportivo lombardo, Gianni Clerici. Riporto qui l'inizio di una lunga intervista comparsa sulla Stampa (penso che si possa reperire intera sul sito della "Stampa"). Penso che sia molto utile, e che dica cose importanti, concetti un tempo scontati ma che di questi tempi è bene ribadire: parlare il dialetto è bello, ma se parli solo dialetto appena esci di casa non ti capiscono più.

INTERVISTA AL CRONISTA DI TENNIS E SCRITTORE
Gianni Clerici: non chiamatemi Gran Lombardo
da "La Stampa" 6/3/2009 - di Mario Baudino
Il Vecchio Scriba ha imparato il dialetto quando era già cresciutello, e lavorava con suo padre. Gli serviva ad avere un rapporto umano con i camionisti della ditta di famiglia; gli fu molto meno utile da ufficiale degli alpini, quando si ritrovò a dialogare con commilitoni bergamaschi, e scoprì che non li capiva.
«Io parlo il milanese - racconta Gianni Clerici - ma l’ho dovuto studiare sulle poesie di Carlo Porta, perché coi miei genitori si è sempre usato l’italiano. In compenso mia nonna, gran signora, parlava solo francese oppure dialetto, e non conosceva gli spaghetti».
Ragion per cui, di fronte alla riscossa lombarda e non solo, lo scrittore che ha inventato una nuova lingua per il tennis ma ha distillato anche una sua personale via nella letteratura che Maria Corti, la grande filologa, definì «lombardese», rimane alla finestra. Attento, un po’ ironico. Incuriosito, un po’ perplesso. E non parlategli di «Gran Lombardi», lui non si sente in quel pantheon, per modestia e per convinzione.
«Gran Lombardo era Gadda, che pure è finito nel romanesco».
- Scusi, Clerici. Però c’è qualcuno della nobile schiatta vicinissimo a lei. Che ci dice di Gianni Brera?
«Brera è stato un fratello maggiore. Ma non credo che abbia avuto una vera influenza sul mio modo di scrivere. Lo sosteneva anche lui: “certe volte ci associano, diceva, ma tu sei molto diverso da me. Anche se ti chiamano il Brera junior”. Lui era partito dalla cultura francese, aveva persino tradotto, questo lo ricordano in pochi, dei deliziosi racconti di De Gobineau, il teorico delle razze. Io mi ero formato sugli inglesi».
- Diversi ma simili nello sparigliare il gioco della scrittura. Uno parlando di calcio, sport con radici persino vernacolari; l’altro di tennis, che ha una base linguistica universale, l’inglese.
«Lui ha inventato un modo nuovo di narrare il calcio, io ho fatto qualcosa di simile con il tennis. È semplice: da quando c’è la tv, non puoi più scrivere di sport raccontando i fatti. Devi cercare qualcos’altro che lo schermo non dice. I miei maestri sono stati Giorgio Bassani e Mario Soldati, che mi parlava in piemontese. Io gli rispondevo in milanese e ci si capiva alla perfezione. Ma c’è anche uno scrittore americano che amo moltissimo, sconosciuto in Italia se non per l’adattamento fatto da Garinei & Giovannini di un suo racconto, Bulli & pupe. Si chiamava Damon Runyon. Continuo a leggerlo con amore, come fosse Brera. Francis Scott Fitzgerald diceva che se non avesse scritto di sport sarebbe stato messo alla pari sia con lui sia con Hemingway. Forse era una cattiveria nei confronti di Hemingway, resta il fatto che Runyon è davvero un autore straordinario».
- E non ha niente a che fare col dialetto.
«Però ho imparato qualcosa»
- Molto lontano da Milano.
«Lontanissimo. Non si può imparare tutto a Milano, se restiamo fermi lì facciamo provincia». (...)

(http://www.lastampa.it/)

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