domenica 3 luglio 2011

Gli elefanti di Pompeo

Capita spesso, ancora oggi, di imbattersi in qualcuno che dice “la differenza fra noi gli animali è”: e si aggiunge la coscienza, la capacità di sorridere, la capacità di elaborare, tante altre cose. Di cose da dire ne avrei tante, ma ne scrivo qui una sola: che dicendo “differenza” si sottintende, sempre, la nostra superiorità. Cosa della quale non sono mai stato tanto certo, fin da quando ero piccolo e osservavo il lavoro delle api e delle formiche.

....La nuova prossimità con gli animali avrà pure dato luogo al boom commerciale di prodotti specifici, ma soprattutto a un appariscente cambio di paradigma mentale: oggi infatti ci si stupisce di più al pensiero dell'atteggiamento ottocentesco e novecentesco, che incorporava le battute di caccia grossa e il grande massacro degli animali, che non di fronte al sentimento di vicinanza, o di convivenza, con le bestie. Ma è un sentimento, una condivisione, che viene da lontano e appartiene alla memoria dell'umanità. Viene dal paradiso terrestre, prima del frutto proibito. Ma c'è anche in epoca storica: ancora la Nussbaum racconta che nel 55 avanti Cristo il generale romano Pompeo organizzò un combattimento tra uomini ed elefanti. «Accerchiati nell'arena, gli animali capirono di non avere alcuna speranza di fuga. Allora, secondo Plinio, essi cercarono di attirarsi la compassione degli spettatori con atteggiamenti indescrivibili, e li supplicarono come piangessero la propria sorte con una sorta di lamentazione. Gli spettatori, mossi a pietà e rabbia dalla loro situazione, si alzarono a insultare Pompeo: sentendo, scrive Cicerone, che gli elefanti hanno "qualcosa in comune" con la razza umana». Qualcosa in comune: l'emozione, la paura, l'irrequietezza, il dolore.
Il vaticanista Filippo Di Giacomo dice che avverte ancora un brivido quando ricorda il funerale di Raymond Dupas, il parroco che reggeva il seminario di Malole a Kananga (nel Congo), e aveva accompagnato nella formazione sacerdotale il giovane Albert Malula, destinato a diventare il primo vescovo africano. In quei lunghi pomeriggi africani, il parroco Dupas amava accudire la tribù dei suoi animali: sei cani, e poi vari pappagalli che imitavano la sua voce, perfino la sua tosse, e quando lo vedevano gli cantavano l'inno nazionale congolese. Senza contare i gatti, i tacchini, i polli, i colombi, due manguste. Allorché il carro funebre si avvicinò al rettilineo davanti al seminario, tutta la tribù animale si sollevò sulle zampe, alzò la testa, e cominciò un lamento corale, ciascuno con il suo verso, un pianto che non si interruppe se non quando l'auto con la bara attraversò i padiglioni e raggiunse il cimitero, fuori dalla vista di quelle bestie "amiche".
(da un articolo di E.Berselli, 15 giugno 2006, L'Espresso)

Ho cercato Raymond Dupas su un paio di motori di ricerca, ma non mi è uscito niente. Però Don Filippo Di Giacomo, sacerdote e giornalista, è commentatore di tematiche religiose per numerose testate tra cui il quotidiano l'Unità: se è lo stesso di cui si parla nell’articolo, un giorno o l’altro gli mando una mail.

4 commenti:

giacy.nta ha detto...

Capisco la tua insofferenza perchè la penso proprio come te. L'antropocentrismo è la traduzione "culturale" ( sigh ) del sistema gerarchico su cui poggia il potere. Penso che questi modelli siano risposte estremamente rozze ad un bisogno di difendersi dalla paura non sempre giustificata di perdere qualcosa ( dal cibo, al ruolo, al territorio, alla vita ).
Il bello è che , proprio le culture ( come quella degli indiani d'America ) che hanno mostrato amore e rispetto per ogni elemento naturale, per ogni essere animale e vegetale, e non hanno costruito sistemi gerarchici, sono sono considerate elementari, poco evolute, inferiori...
Il mondo a testa in giù!

Giuliano ha detto...

Il racconto su padre Dupas è bellissimo, e tutti noi abbiamo visto qualcosa di simile, basta aver avuto in casa un gatto.
Io non sono estremista, non sono vegetariano, cerco di stare nei limiti. Per esempio, in natura una cosa importantissima per tutti è lo spazio in cui si vive: abitando vicino a un piccolo tratto di bosco, è normale avere dei topini in garage. Finché i topini stanno sul loro, niente da dire: se entrano nei miei confini mi difendo. Idem per vespe, formiche, eccetera... Sarebbe già un grande passo avanti non considerare tutto il mondo come nostra proprietà.

Grazia ha detto...

Bellissimo il racconto di padre Dupas.I
Mi ricordo che il nostro cane di casa, il cane con cui mio padre andava a caccia è morto due giorni dopo mio babbo.Di crepacuore. Succede spesso, mi dicono. Non per questo è meno commovente

Giuliano ha detto...

sì, ed è un peccato non saperne di più. Anche a casa mia, ci ricordiamo ancora il comportamento del gatto di casa con mio papà che non stava bene.