sabato 25 aprile 2020

«Nuova normalità»


1) Quell'apparecchio, che veniva chiamato teleschermo, si poteva abbassare di volume, mai annullare del tutto.
2) Lontano, un elicottero volava fra un tetto e l'altro; se ne restava librato per qualche istante come un moscone, e poi saettava con una curva in un'altra direzione. Era la squadra di polizia, che curiosava nelle finestre della gente. Le squadre non erano granché importanti, tuttavia: quello che soprattutto contava era la polizia del pensiero, la cosiddetta Psicopolizia.
3) Si doveva vivere, o meglio si viveva per un'abitudine che era infine diventata istinto, tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto.
(George Orwell, 1984, le prime tre pagine)
Nella cosiddetta "fase due" del periodo del Covid-19 dovremo dunque andare in giro con le mascherine sul volto, e con una "app" sullo smartphone che segnali tutti i nostri movimenti: alla tv, sui tg Rai, questa viene definita "nuova normalità". Siamo dunque ben dentro alla "neolingua" immaginata da George Orwell settant'anni fa: inventarsi una frase come "nuova normalità" è soltanto ipocrisia, perché la normalità consiste nell'andare in giro senza mascherine, nell'abbracciarsi, nello stringersi le mani. Il resto sono balle, invenzioni linguistiche senza senso, l'ennesima trovata degli inventori di slogan pubblicitari che ormai hanno invaso ogni nostra comunicazione. Che mai significa "nuova normalità"? (sarà come questa, magari) E che dire dell'altro slogan, "andrà tutto bene"? Ci sono 500 morti al giorno, da due mesi in qua: andatelo a dire ai parenti delle vittime che andrà tutto bene e vediamo cosa vi risponderanno.

Meno male che c'è il Papa a ricordarlo, ancora una volta papa Francesco dice le cose come stanno: la normalità è nel contatto umano, in un sorriso, in un abbraccio. Il resto sono balle, ipocrisia: stiamo vivendo un periodo di emergenza, prendiamo i provvedimenti più adatti e speriamo che passi presto, che si possa tornare presto alla normalità - quella senza aggettivi, per piacere. Confesso che sono molto più preoccupato del "dopo" che non del virus in sè. Siamo in un periodo molto delicato, è la democrazia stessa ad essere in pericolo. Oggi è il 25 aprile, la democrazia non è stata un regalo ma una conquista; l'auspicio è di non perdere questi ultimi 75 anni di pace e di buona convivenza, ma quello che vedo e ascolto non mi dà molte speranze.
 
La gente semplicemente non capisce, pochi hanno letto Orwell (1984) e Huxley (Brave new world) e anche tra quelli che li hanno letti pochi hanno capito. Le nuove tecnologie sono belle ma molto pericolose; in ballo c'è proprio la normalità, e la democrazia che della normalità fa parte.
Gli imbonitori non mancano: una notizia recente circola a proposito di Google view, con un giovane uomo che dice "ho rivisto mio padre": morto sette anni fa, il padre di quest'uomo era stato immortalato su Google View e non è mai stato cancellato. Le nostre immagini, riprese e mandate in diretta, dunque non vengono mai cancellate: la violazione della privacy è colossale, ma è così ben cammuffata dal modo in cui è data la notizia che quasi non ci si fa caso. I teleschermi nelle stazioni, il riconoscimento facciale, le videocamere ovunque, gli smartphone, la smart tv che memorizza le nostre preferenze, perfino le bambole che registrano cosa dicono le bambine e lo trasmettono al produttore del giocattolo (per quest'ultima cosa è in corso un procedimento giudiziario in Germania, purtroppo non è una notizia inventata). La scusa è sempre pronta: il terrorismo e la criminalità, adesso anche le malattie, fanno mettere da parte la privacy come cosa secondaria. Del resto, la privacy è stata ridotta a barzelletta da leggi e regolamenti recenti: non ci si può opporre all'invadenza, se non dai il consenso al trattamento dei tuoi dati ormai non puoi fare più niente. Sui siti internet, e purtroppo anche su Raiplay (parte del servizio pubblico) puoi dialogare solo con un tasto con su scritto "ok approvo". O approvi, o sei fuori: e così andrà anche con la app "Immuni".

Altri esempi di neolingua, o di sbadataggine pura e semplice (fate voi): nei corridoi di un ospedale comasco è apparso un cartello con una frase di Paul Claudel: «Quando pensiamo che sia giunta la fine, ecco che un pettirosso si mette a cantare». La metto a confronto con un'altra notizia, sempre dallo stesso giornale (La Provincia di Como) e nella stessa data (21 aprile 2020): a Lambrugo si costruirà un nuovo supermercato, su un'area agricola a cui è stata cambiata destinazione. C'è ancora spazio per i pettirossi? In un servizio recente del telegiornale si mostrava come si stia pensando di sostituire le api con piccoli droni, per l'impollinazione; figuriamoci cosa importa dei pettirossi a chi passa le giornate chino sullo smartphone. E, soprattutto, non sono mica tanto sicuro che i parenti dei morti in quell'ospedale (e in altri) leggano volentieri queste frasi. Per i loro cari, il pettirosso non canterà mai più.
In questi giorni, da lombardo, ho anche scoperto che quelle che io chiamavo ASL, azienda sanitaria locale, sono diventate ATS. La novità è di tre anni fa, ma io non ci avevo fatto caso e ci sono arrivato solo dopo una conferenza stampa del presidente della Regione. La A è rimasta ed è sempre quella, significa "azienda": diventare come delle aziende, che magari fanno profitti, era la parola d'ordine dei Formigoni, dei Berlusconi, dei Brunetta, della Lega. Sono passati più di vent'anni, era già neolingua.
Infine, io non ho uno smartphone. Cosa mi succederà?

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