« Il DNA si presenta in lunghissimi filamenti e forma i famosi cromosomi, che sono i segmenti di DNA presenti all’interno del nucleo di ogni cellula. I cromosomi sono uguali in tutte le cellule di un individuo e sono caratteristici di quell’individuo particolare. (...) Le unità che compongono i cromosomi sono in numero elevatissimo ma possono essere solo di 4 tipi: A, G, C e T.
Le lettere si usano per comodità, e sono le iniziali di quattro composti chimici semplici e ben noti: Adenina, Guanina, Citosina, Timina. A e G sono della classe di sostanze chiamate “purine”, cui appartengono ad esempio anche la caffeina e l’acido urico; C e T sono delle “pirimidine”, molecole un po’ più piccole: la vitamina B1 è un derivato della pirimidina. Hanno tutte un comportamento chimico di alcali, o basi (l’opposto di acidi) e vengono perciò chiamate anche semplicemente “basi”. Ogni base è attaccata a una molecola di zucchero, il Desossiribosio (dal quale viene la D di DNA). La struttura generale di un filamento di DNA è molto semplice: lo scheletro è formato da un’alternanza regolare di acido fosforico e di un desossiribosio. Indicando con il simbolo P l’acido fosforico e con D lo zucchero, lo scheletro del DNA è quindi: ...-P-D-P -D-P-D-P-D-... Ad ogni zucchero D è attaccata una base, A C G o T, in una certa sequenza, che è diversa e caratteristica di ogni segmento di DNA (...)»Ho preso questa spiegazione da un bel libro del genetista Luca Cavalli Sforza (“Chi siamo – Storia della diversità umana”, capitolo quarto), che è anche un ottimo divulgatore scientifico.
Il che vuol dire che questo brano è stato scritto nella maniera più semplice e chiara possibile. Nonostante tutto, voi non ci avete capito niente lo stesso? Beh, è normale se non avete studiato almeno un po’ di chimica: che è quello che capita alla stragrande maggioranza degli italiani.
Eppure queste sono le basi per poter iniziare un qualsiasi discorso sulle cellule staminali, per esempio, o sugli OGM, o su un altro degli argomenti che tanto turbano le nostre coscienze di questi tempi. Mancando queste elementari conoscenze di chimica (si studiano a 16-17 anni, alle superiori), è praticamente impossibile affrontare l’argomento.
Beh, succede: si può parlare di Hiroshima anche senza avere nozioni di fisica nucleare, per intenderci, o di fede senza avere nozioni di teologia. Lo facciamo tutti i giorni, si va un po’ a tentoni ma ci può stare. La cosa che però mi sconvolge è questa: che io ho studiato poco e male, trent’anni fa, queste nozioni – poco e male non per colpa degli insegnanti ma per colpa mia, a dirla tutta. Ma queste quattro cose che ho appreso e poi anche messo in pratica, cioè conoscere la tavola periodica di Mendeleev e sapere che cos’è un amminoacido, mi mettono in posizione di grande competenza rispetto al 95% delle persone che incontro o che sento discutere in tv o sui giornali o in Parlamento di questi argomenti.
E’ una cosa che davvero mi sgomenta: io competente in qualcosa? Penso a quel ragazzo che ero trent’anni fa, ringrazio almeno un po’ il destino di avermi fatto prendere il diploma di perito chimico invece di andare al classico come la Moratti, ma non è che la cosa mi consoli molto e mi piacerebbe tanto avere, almeno in Parlamento a stendere le leggi, qualche persona capace di leggere quello che ha scritto Cavalli Sforza senza farsi venire il mal di testa. So già che non è possibile, ma pazienza: il mondo andrà avanti lo stesso, ma nella direzione che vogliono le multinazionali e i nipoti del dottor Stranamore (nel senso del film di Stanley Kubrick: questo è un fotogramma del finale, che una volta era famoso e oggi dovrebbe esserlo ancora di più, con tutto questo parlare di nucleare...).
domenica 29 novembre 2009
sabato 28 novembre 2009
Moplen
Nel 1954 il chimico ligure Giulio Natta riesce ad ottenere dei polimeri con struttura geometrica prestabilita: questa scoperta lo porterà a vincere il Premio Nobel nel 1963, insieme al tedesco Karl Ziegler.
E’ proprio in questo periodo, i primi anni 60, che Gino Bramieri con la sua faccia simpatica riempie le nostre serate televisive con la pubblicità del Moplen e con uno slogan azzeccato: “Ma signora guardi ben / che sia fatto di Moplen!”. Da allora, secchi catini e mastelli non saranno più fatti di legno o di metallo, ma di plastica: è questo uno dei risultati della scoperta di Natta.
E’ anche l’epoca, a metà degli anni ’60, nella quale fanno la loro comparsa i sacchi neri della spazzatura: anch’essi di plastica. Prima, non ce n’era mai stato bisogno.
Non so come facessero nelle città, ma qui da noi i rifiuti di cucina si buttavano nella rudéra, cioè nell’orto, in una buca, a far concime; carta e legno si bruciavano nella stufa, per riscaldare la casa; e i rifiuti metallici erano destinati allo straccivendolo, che li rivendeva all’industria. Insomma, non si buttava via nulla e non c’era bisogno di discariche.
Poi è arrivato il moplen (polipropilene isotattico), e tutte le altre materie plastiche oggi di uso comune: Polivinilcloruro (PVC), polistirolo, polietilentereftalato (PET)... Materie perfette per l’uso, ma anche indistruttibili. Molecole che in natura non c’erano e non ci sarebbero mai state senza l’intervento umano.
Non che prima la plastica non ci fosse: c’era la bakelite, per esempio, con la quale si costruivano le manopole delle radio, i portalampade, e altri piccoli oggetti. Ma la bakelite (o baccalite, dal nome del chimico danese Baekeland) era una resina informe, creta da modellare o poco più. C'era anche il nylon, un'altra pasta informe che però si poteva filare come la seta, e altre fibre tessili.
La scoperta di Natta però permise di disporre le molecole a piacere, secondo l’uso che ne vogliamo fare. E’ come inanellare gli atomi in una collana o in una catenella, di lunghezza teoricamente infinita: da qui la definizione di “polimero isotattico”. Dapprima l’operazione si fa col propilene, che è una piccola molecola gassosa: tante molecoline di propilene messe in fila ad una ad una, proprio come la catenella, in fila come le perline di una collanina, ed è il moplen di Bramieri. Poi via via si fanno cose sempre più complesse, quelle che vediamo tutti i giorni e alle quali ormai abbiamo fatto l’abitudine.
Sull’enciclopedia, Giulio Natta ha tre righe molto smilze. Eppure, dovrebbe essere famoso come Garibaldi: ha influito più lui sulla nostra vita, sicuramente non volendolo, di tanti capi di Stato e filosofi e leader religiosi che si ripromettevano di cambiare il mondo...
E’ proprio in questo periodo, i primi anni 60, che Gino Bramieri con la sua faccia simpatica riempie le nostre serate televisive con la pubblicità del Moplen e con uno slogan azzeccato: “Ma signora guardi ben / che sia fatto di Moplen!”. Da allora, secchi catini e mastelli non saranno più fatti di legno o di metallo, ma di plastica: è questo uno dei risultati della scoperta di Natta.
E’ anche l’epoca, a metà degli anni ’60, nella quale fanno la loro comparsa i sacchi neri della spazzatura: anch’essi di plastica. Prima, non ce n’era mai stato bisogno.
Non so come facessero nelle città, ma qui da noi i rifiuti di cucina si buttavano nella rudéra, cioè nell’orto, in una buca, a far concime; carta e legno si bruciavano nella stufa, per riscaldare la casa; e i rifiuti metallici erano destinati allo straccivendolo, che li rivendeva all’industria. Insomma, non si buttava via nulla e non c’era bisogno di discariche.
Poi è arrivato il moplen (polipropilene isotattico), e tutte le altre materie plastiche oggi di uso comune: Polivinilcloruro (PVC), polistirolo, polietilentereftalato (PET)... Materie perfette per l’uso, ma anche indistruttibili. Molecole che in natura non c’erano e non ci sarebbero mai state senza l’intervento umano.
Non che prima la plastica non ci fosse: c’era la bakelite, per esempio, con la quale si costruivano le manopole delle radio, i portalampade, e altri piccoli oggetti. Ma la bakelite (o baccalite, dal nome del chimico danese Baekeland) era una resina informe, creta da modellare o poco più. C'era anche il nylon, un'altra pasta informe che però si poteva filare come la seta, e altre fibre tessili.
La scoperta di Natta però permise di disporre le molecole a piacere, secondo l’uso che ne vogliamo fare. E’ come inanellare gli atomi in una collana o in una catenella, di lunghezza teoricamente infinita: da qui la definizione di “polimero isotattico”. Dapprima l’operazione si fa col propilene, che è una piccola molecola gassosa: tante molecoline di propilene messe in fila ad una ad una, proprio come la catenella, in fila come le perline di una collanina, ed è il moplen di Bramieri. Poi via via si fanno cose sempre più complesse, quelle che vediamo tutti i giorni e alle quali ormai abbiamo fatto l’abitudine.
Sull’enciclopedia, Giulio Natta ha tre righe molto smilze. Eppure, dovrebbe essere famoso come Garibaldi: ha influito più lui sulla nostra vita, sicuramente non volendolo, di tanti capi di Stato e filosofi e leader religiosi che si ripromettevano di cambiare il mondo...
venerdì 27 novembre 2009
Denaturato
Un paio d’anni fa ero lì con una bella mora (una signora milanese un po’ più giovane di me) e mi sono ritrovato a parlare per un quarto d’ora dell’alcool denaturato.
Insomma, io pensavo che fosse qualcosa di banale, invece lei non ne sapeva niente: “Ho sempre usato l’alcool denaturato ma di queste cose non ne sapevo niente”, mi ha detto con gran sorpresa.
E dunque, considerato che forse non è un concetto così scontato, ecco quello che so.
Alcool denaturato è un alcool etilico a cui sono stati aggiunti un colorante e una sostanza odorosa, che dà cattivo sapore nel caso lo si voglia bere. L’alcool etilico è lo stesso che si usa per dolci e liquori; di per sè costa poco, ma sull’alcool etilico puro c’è una tassa da pagare, ben evidenziata dall’apposita strisciolina di carta sul tappo di grappa, whisky, brandy. Invece l’alcool etilico denaturato si usa per le pulizie di casa e per disinfettare: per evitare che lo si ricicli in liquori e ciliegine sotto spirito lo si rende sgradevole al gusto e all’odorato.
Il trucco è questo: le sostanze sgradevoli, l’odore e tutto il resto (hanno nomi complicati che non sto qui a trascrivere, ma li dovreste trovare sull’etichetta), sono studiate in modo da avere lo stesso punto di ebollizione dell’alcool etilico, così che non si possano allontanare distillando. E’ ancora possibile rendere puro l’alcool denaturato, ma farlo verrebbe a costare uno sproposito. Insomma, non conviene: ecco perché sull’alcool denaturato non c’è l’etichettina che troviamo sui liquori.
A mio parere, sull’etichetta dell’alcool denaturato manca un’informazione essenziale: il contenuto d’acqua. Infatti, può capitare che due bottiglie apparentemente uguali contengano una percentuale diversa di alcool: non è un gran problema perché l’alcool denaturato costa poco, ma è comunque un’informazione che viene a mancare – più acqua c’è, meno l’alcool sgrassa e disinfetta.
Insomma, io pensavo che fosse qualcosa di banale, invece lei non ne sapeva niente: “Ho sempre usato l’alcool denaturato ma di queste cose non ne sapevo niente”, mi ha detto con gran sorpresa.
E dunque, considerato che forse non è un concetto così scontato, ecco quello che so.
Alcool denaturato è un alcool etilico a cui sono stati aggiunti un colorante e una sostanza odorosa, che dà cattivo sapore nel caso lo si voglia bere. L’alcool etilico è lo stesso che si usa per dolci e liquori; di per sè costa poco, ma sull’alcool etilico puro c’è una tassa da pagare, ben evidenziata dall’apposita strisciolina di carta sul tappo di grappa, whisky, brandy. Invece l’alcool etilico denaturato si usa per le pulizie di casa e per disinfettare: per evitare che lo si ricicli in liquori e ciliegine sotto spirito lo si rende sgradevole al gusto e all’odorato.
Il trucco è questo: le sostanze sgradevoli, l’odore e tutto il resto (hanno nomi complicati che non sto qui a trascrivere, ma li dovreste trovare sull’etichetta), sono studiate in modo da avere lo stesso punto di ebollizione dell’alcool etilico, così che non si possano allontanare distillando. E’ ancora possibile rendere puro l’alcool denaturato, ma farlo verrebbe a costare uno sproposito. Insomma, non conviene: ecco perché sull’alcool denaturato non c’è l’etichettina che troviamo sui liquori.
A mio parere, sull’etichetta dell’alcool denaturato manca un’informazione essenziale: il contenuto d’acqua. Infatti, può capitare che due bottiglie apparentemente uguali contengano una percentuale diversa di alcool: non è un gran problema perché l’alcool denaturato costa poco, ma è comunque un’informazione che viene a mancare – più acqua c’è, meno l’alcool sgrassa e disinfetta.
giovedì 26 novembre 2009
Esploratori
- L'ultima volta che giocai al bigliardo, caro Allais, fu nella Nuova Galles del Sud.
- Ah!
- E sopra un tappeto il cui lato piú corto non misurava meno di un miglio marino e mezzo (2 km. e 786 m.).
- Accipicchia!
Il mio stupore, devo confessarlo, si mescolava a un pochino d'incredulità.
- Perfettamente - fece Cap, con la sua voce piú tranquilla.
E quando quel diavolo d'un uomo mi ebbe esposta la faccenda dovetti confessare che la mostruosità del suo dire era soltanto apparente.
- Nel 1888 (1) Cap, incaricato dall'istituto libero di Bougival di un'esplorazione geologica nella Nuova Galles del Sud, s'avventurò nelle profondità di una larga vallata nella quale la mano dell'uomo non aveva mai messo piede.
Nessuna vegetazione lussureggiava in quei luoghi per l’eccellente ragione che la terra vegetale era sostituita da un formidabile giacimento di malachite. Cap allora, con la consueta genialità, pensò di trarre profitto da quella ricchezza mineralogica. (...)
(1) Com'è lontano tutto ciò!
L’avventura prosegue: chi vuole conoscerne il seguito lo trova qui:
Alphonse Allais, “Il capitano Cap” (capitolo XIX, corrispondente alla pag.116 dell’edizione Dall’Oglio 1963)
- Ah!
- E sopra un tappeto il cui lato piú corto non misurava meno di un miglio marino e mezzo (2 km. e 786 m.).
- Accipicchia!
Il mio stupore, devo confessarlo, si mescolava a un pochino d'incredulità.
- Perfettamente - fece Cap, con la sua voce piú tranquilla.
E quando quel diavolo d'un uomo mi ebbe esposta la faccenda dovetti confessare che la mostruosità del suo dire era soltanto apparente.
- Nel 1888 (1) Cap, incaricato dall'istituto libero di Bougival di un'esplorazione geologica nella Nuova Galles del Sud, s'avventurò nelle profondità di una larga vallata nella quale la mano dell'uomo non aveva mai messo piede.
Nessuna vegetazione lussureggiava in quei luoghi per l’eccellente ragione che la terra vegetale era sostituita da un formidabile giacimento di malachite. Cap allora, con la consueta genialità, pensò di trarre profitto da quella ricchezza mineralogica. (...)
(1) Com'è lontano tutto ciò!
L’avventura prosegue: chi vuole conoscerne il seguito lo trova qui:
Alphonse Allais, “Il capitano Cap” (capitolo XIX, corrispondente alla pag.116 dell’edizione Dall’Oglio 1963)
Incubi e profezie ( n.1 )
Incubi e profezie, n.1 – Io sono la leggenda
Ci sono letture, o film, che ti rimangono dentro. Non sono necessariamente capolavori: anzi, spesso è vero l'opposto. I grandi capolavori ti rimangono dentro come una visione completa, con grandi personaggi e grandi temi, in positivo o in negativo. Per esempio, uno dei grandi interrogativi del Novecento, il terrorismo, è già quasi tutto nei Demoni di Dostoevskij. Ma io sto parlando di libri più piccoli, meno noti, o noti solo a cultori di genere, o che hanno avuto grande notorietà ma sono ormai - come dire? - passati di moda e magari è diventato difficile trovarli.
Il primo di questi miei incubi ricorrenti è un libro che è sempre stato reperibile, per fortuna; lo si trova tra negli scaffali dedicati alla fantascienza, ha avuto molte versione cinematografiche (quasi tutte brutte, meglio evitarle), ed è un piccolo capolavoro che nell'originale si chiama "I am the legend", opera di Richard Matheson.
Vi si immagina un mondo dove un misterioso morbo ha trasformato via via gli uomini in vampiri; il protagonista, rimasto isolato, li deve combattere duramente di notte mentre di giorno va in giro a cercare altri superstiti sani; e ne approfitta per eliminare i mostri che dormono. Ma, alla fine del libro, dovrà arrendersi alla realtà: il mondo si è rovesciato, ed ora è lui, il nostro eroe, ad essere in minoranza. Anzi, ad essere indicato come mostro e a incutere terrore: come prima capitava ai vampiri, che ora sono la normalità. "Adesso, sono io la leggenda…" sono le sue ultime parole; e così Matheson chiude il libro.
Un mondo rovesciato, dove il male e l'orrore sono la normalità; dove tutto quello di buono che ti è stato insegnato è stato messo in discussione. Un mondo che abbiamo cominciato a intravedere, in questi ultimi anni, con il revisionismo fascista per esempio. Potrebbe essere solo una mia suggestione, ma (ahimè) i ministri (ministri!) che si dichiarano orgogliosamente fascisti e razzisti non sono una mia invenzione: "La realtà è quella cosa che non se ne va quando tu smetti di pensarci", diceva Philip K. Dick. Speriamo che passi presto, che l'incubo finisca e che si possa tornare a dormire tranquilli…
Ci sono letture, o film, che ti rimangono dentro. Non sono necessariamente capolavori: anzi, spesso è vero l'opposto. I grandi capolavori ti rimangono dentro come una visione completa, con grandi personaggi e grandi temi, in positivo o in negativo. Per esempio, uno dei grandi interrogativi del Novecento, il terrorismo, è già quasi tutto nei Demoni di Dostoevskij. Ma io sto parlando di libri più piccoli, meno noti, o noti solo a cultori di genere, o che hanno avuto grande notorietà ma sono ormai - come dire? - passati di moda e magari è diventato difficile trovarli.
Il primo di questi miei incubi ricorrenti è un libro che è sempre stato reperibile, per fortuna; lo si trova tra negli scaffali dedicati alla fantascienza, ha avuto molte versione cinematografiche (quasi tutte brutte, meglio evitarle), ed è un piccolo capolavoro che nell'originale si chiama "I am the legend", opera di Richard Matheson.
Vi si immagina un mondo dove un misterioso morbo ha trasformato via via gli uomini in vampiri; il protagonista, rimasto isolato, li deve combattere duramente di notte mentre di giorno va in giro a cercare altri superstiti sani; e ne approfitta per eliminare i mostri che dormono. Ma, alla fine del libro, dovrà arrendersi alla realtà: il mondo si è rovesciato, ed ora è lui, il nostro eroe, ad essere in minoranza. Anzi, ad essere indicato come mostro e a incutere terrore: come prima capitava ai vampiri, che ora sono la normalità. "Adesso, sono io la leggenda…" sono le sue ultime parole; e così Matheson chiude il libro.
Un mondo rovesciato, dove il male e l'orrore sono la normalità; dove tutto quello di buono che ti è stato insegnato è stato messo in discussione. Un mondo che abbiamo cominciato a intravedere, in questi ultimi anni, con il revisionismo fascista per esempio. Potrebbe essere solo una mia suggestione, ma (ahimè) i ministri (ministri!) che si dichiarano orgogliosamente fascisti e razzisti non sono una mia invenzione: "La realtà è quella cosa che non se ne va quando tu smetti di pensarci", diceva Philip K. Dick. Speriamo che passi presto, che l'incubo finisca e che si possa tornare a dormire tranquilli…
Incubi e profezie ( n.2 )
Incubi e profezie, n.2 – La visione del Grande Lama
"Orizzonte perduto" è un gran bel film: risale al 1937 e fu girato da Frank Capra. E' tratto da un romanzo di James Hilton, e vi si racconta del favoloso mondo di Shangri-La, una valle felice nascosta tra le alte cime di un Tibet immaginario. In quel mondo isolato si perdono, o vogliono perdersi, alcuni occidentali; non è esattamente un monastero buddista, ma si tratta di una sintesi tra cristianesimo e buddismo, forse immaginata da Hilton pensando agli avventurosi gesuiti del 1600, come padre Matteo Ricci (che, per inciso, per il suo sincretismo fu quasi scomunicato da Roma: e così si perse un'occasione storica per favorire il cristianesimo in Cina, ma pazienza – ormai è acqua passata).
"Orizzonte perduto" è rimasto famoso anche perché vi si parla dell'eterna giovinezza, della vita che si prolunga quasi all'infinito, come se il tempo rallentasse: un segreto dei monaci, o forse l'aria della valle. Ma il protagonista del libro, Robert Conway, ha dei dubbi e li espone al Grande Lama: perché allungare la vita oltre i suoi limiti?
Conway, militare e addetto diplomatico inglese, è rimasto seriamente colpito dalla sua esperienza nella Grande Guerra. Non che abbia sofferto particolarmente (ci tiene a precisarlo), ma dopo (dopo quello che ha visto e vissuto) è stato come se avesse perso tutte le sue passioni e le sue energie, e da allora il suo desiderio principale è di essere lasciato in pace, e di vivere in pace: un atteggiamento che ha provocato solo danni alla sua carriera militare e diplomatica. Il Grande Lama si aspettava l'obiezione, ed è pronto a rispondere: ma prima di darvi la sua risposta vorrei fare soltanto notare un particolare, e cioè che il libro uscì nel 1933. Non un anno qualsiasi, come ben sappiamo.
- Ma cosa contano contro il ferro e l'acciaio le opinioni degli uomini ragionevoli? Mi creda, quella visione si avvererà. Per questo, mio caro, io sono qui; per questo lei è qui; e per questo preghiamo di sopravvivere alla catastrofe definitiva che da ogni parte ci minaccia. (…) Poi, figliolo, quando i forti si saranno divorati a vicenda, allora forse si compirà finalmente l'etica cristiana, e i deboli avranno in eredità la terra. ( capitolo 8)
- Sarà una tempesta, figlio mio, di cui il mondo non ha mai visto l'eguale. Non ci sarà salvezza con le armi, né aiuto dalle autorità, né risposta nella scienza. Infurierà finché ogni fiore di cultura non verrà calpestato e tutte le cose umane non verranno ridotte a un caos enorme. (capitolo 10)
- (…) Ma l'età oscura che verrà coprirà di un unico drappo funebre il mondo intero; non ci saranno né rifugi né santuari, se non quelli troppo segreti o troppo umili per essere scoperti o notati. E Shangri-La può sperare di essere uno di questi. Il pilota che porterà i suoi carichi di morte verso le grandi città non passerà sopra di noi; e anche se per caso dovesse farlo non sprecherà una bomba per noi. (capitolo 10)
Shangri-La è il mondo dove è preservata la bellezza, e dove la pace è l'unico vero valore. Questo è il suo segreto; e forse esiste davvero, da qualche parte, magari dentro di noi. Fuori di Shangri-La, appena al di fuori della Valle Incantata, anche le cose belle si deteriorano, invecchiano, non vengono più considerate come importanti. E forse questa è la vera importanza di questo libro, al di là della terribile profezia, scritta ben prima che si potesse pensare all'atomica e purtroppo ancora attuale.
"Orizzonte perduto" è un gran bel film: risale al 1937 e fu girato da Frank Capra. E' tratto da un romanzo di James Hilton, e vi si racconta del favoloso mondo di Shangri-La, una valle felice nascosta tra le alte cime di un Tibet immaginario. In quel mondo isolato si perdono, o vogliono perdersi, alcuni occidentali; non è esattamente un monastero buddista, ma si tratta di una sintesi tra cristianesimo e buddismo, forse immaginata da Hilton pensando agli avventurosi gesuiti del 1600, come padre Matteo Ricci (che, per inciso, per il suo sincretismo fu quasi scomunicato da Roma: e così si perse un'occasione storica per favorire il cristianesimo in Cina, ma pazienza – ormai è acqua passata).
"Orizzonte perduto" è rimasto famoso anche perché vi si parla dell'eterna giovinezza, della vita che si prolunga quasi all'infinito, come se il tempo rallentasse: un segreto dei monaci, o forse l'aria della valle. Ma il protagonista del libro, Robert Conway, ha dei dubbi e li espone al Grande Lama: perché allungare la vita oltre i suoi limiti?
Conway, militare e addetto diplomatico inglese, è rimasto seriamente colpito dalla sua esperienza nella Grande Guerra. Non che abbia sofferto particolarmente (ci tiene a precisarlo), ma dopo (dopo quello che ha visto e vissuto) è stato come se avesse perso tutte le sue passioni e le sue energie, e da allora il suo desiderio principale è di essere lasciato in pace, e di vivere in pace: un atteggiamento che ha provocato solo danni alla sua carriera militare e diplomatica. Il Grande Lama si aspettava l'obiezione, ed è pronto a rispondere: ma prima di darvi la sua risposta vorrei fare soltanto notare un particolare, e cioè che il libro uscì nel 1933. Non un anno qualsiasi, come ben sappiamo.
- Ma cosa contano contro il ferro e l'acciaio le opinioni degli uomini ragionevoli? Mi creda, quella visione si avvererà. Per questo, mio caro, io sono qui; per questo lei è qui; e per questo preghiamo di sopravvivere alla catastrofe definitiva che da ogni parte ci minaccia. (…) Poi, figliolo, quando i forti si saranno divorati a vicenda, allora forse si compirà finalmente l'etica cristiana, e i deboli avranno in eredità la terra. ( capitolo 8)
- Sarà una tempesta, figlio mio, di cui il mondo non ha mai visto l'eguale. Non ci sarà salvezza con le armi, né aiuto dalle autorità, né risposta nella scienza. Infurierà finché ogni fiore di cultura non verrà calpestato e tutte le cose umane non verranno ridotte a un caos enorme. (capitolo 10)
- (…) Ma l'età oscura che verrà coprirà di un unico drappo funebre il mondo intero; non ci saranno né rifugi né santuari, se non quelli troppo segreti o troppo umili per essere scoperti o notati. E Shangri-La può sperare di essere uno di questi. Il pilota che porterà i suoi carichi di morte verso le grandi città non passerà sopra di noi; e anche se per caso dovesse farlo non sprecherà una bomba per noi. (capitolo 10)
Shangri-La è il mondo dove è preservata la bellezza, e dove la pace è l'unico vero valore. Questo è il suo segreto; e forse esiste davvero, da qualche parte, magari dentro di noi. Fuori di Shangri-La, appena al di fuori della Valle Incantata, anche le cose belle si deteriorano, invecchiano, non vengono più considerate come importanti. E forse questa è la vera importanza di questo libro, al di là della terribile profezia, scritta ben prima che si potesse pensare all'atomica e purtroppo ancora attuale.
Incubi e profezie ( n.3 )
Incubi e profezie, n.3 – Waterworld
Mi era sempre sembrato più un fumettone che un film vero e proprio, questo "Waterworld" con Kevin Costner: e gli avevo dato un'occhiata distratta. Ma poi, l'anno scorso, è arrivata l'inondazione di New Orleans. Che cosa c'entra, si dirà: era un uragano, e poi c'è stata una grave incuria nella manutenzione delle dighe (per dirottare i fondi sulla guerra in Iraq, si è detto: chissà se è vero, certo dà da pensare). Però già da diversi anni capita di imbattersi in ardite ricostruzioni di quello che potrebbe capitare con l'effetto serra, e sono ricostruzioni impressionanti. Tutte le città sul livello del mare sono a rischio, si dice in quelle inchieste: se ne fanno i nomi (una lista molto facile da scrivere, e molto impressionante: Londra, Venezia, New York, Napoli...) e uno di questi esempi impressionanti era proprio New Orleans. Abbinate alle immagini dello tsunami in Thailandia e Indonesia, che avevano aperto il 2005, è diventato difficile dimenticarsene.
E' così che ho riscoperto questo filmetto di per sé innocuo, in una ennesima replica televisiva; e questa volta mi ha colpito più di quanto non avesse fatto in passato, e sono rimasto a vedermelo fino alla fine. Il mondo è sommerso dalle acque, completamente; si favoleggia di un residuo di terre asciutte, ma i superstiti (che vivono su navi gigantesche, vecchie petroliere e portaerei) quasi non ci credono più, e il buon vecchio Kevin Costner, mezzo uomo e mezzo pesce per via di mutazioni genetiche, li guiderà verso la salvezza, non senza prima aver sconfitto i pirati.
Ah già, i pirati: nelle storie di mare dei pirati non si riesce proprio a fare a meno; e sono pirati che fanno un po' sorridere, come incarnazione del male non sono gran cosa, questi contro cui combatte Kevin Costner. Forse non avevano abbastanza immaginazione, mi viene da dire, questi signori di Waterworld; o forse non guardavano mai il telegiornale, dove di cattivi inquietanti, con i loro degni seguaci, ne vediamo fin troppi.
Mi era sempre sembrato più un fumettone che un film vero e proprio, questo "Waterworld" con Kevin Costner: e gli avevo dato un'occhiata distratta. Ma poi, l'anno scorso, è arrivata l'inondazione di New Orleans. Che cosa c'entra, si dirà: era un uragano, e poi c'è stata una grave incuria nella manutenzione delle dighe (per dirottare i fondi sulla guerra in Iraq, si è detto: chissà se è vero, certo dà da pensare). Però già da diversi anni capita di imbattersi in ardite ricostruzioni di quello che potrebbe capitare con l'effetto serra, e sono ricostruzioni impressionanti. Tutte le città sul livello del mare sono a rischio, si dice in quelle inchieste: se ne fanno i nomi (una lista molto facile da scrivere, e molto impressionante: Londra, Venezia, New York, Napoli...) e uno di questi esempi impressionanti era proprio New Orleans. Abbinate alle immagini dello tsunami in Thailandia e Indonesia, che avevano aperto il 2005, è diventato difficile dimenticarsene.
E' così che ho riscoperto questo filmetto di per sé innocuo, in una ennesima replica televisiva; e questa volta mi ha colpito più di quanto non avesse fatto in passato, e sono rimasto a vedermelo fino alla fine. Il mondo è sommerso dalle acque, completamente; si favoleggia di un residuo di terre asciutte, ma i superstiti (che vivono su navi gigantesche, vecchie petroliere e portaerei) quasi non ci credono più, e il buon vecchio Kevin Costner, mezzo uomo e mezzo pesce per via di mutazioni genetiche, li guiderà verso la salvezza, non senza prima aver sconfitto i pirati.
Ah già, i pirati: nelle storie di mare dei pirati non si riesce proprio a fare a meno; e sono pirati che fanno un po' sorridere, come incarnazione del male non sono gran cosa, questi contro cui combatte Kevin Costner. Forse non avevano abbastanza immaginazione, mi viene da dire, questi signori di Waterworld; o forse non guardavano mai il telegiornale, dove di cattivi inquietanti, con i loro degni seguaci, ne vediamo fin troppi.
Incubi e profezie ( n.4 )
Incubi e profezie, n.4 – Il blackout finale
Di questo romanzo fino a poco tempo non ricordavo il titolo né il nome dell'autore, perché l'ho letto tanti anni fa in un una vecchia collana di fantascienza, forse un Urania che girava per casa. Cercando su internet ho trovato il nome dell’autore, e anche la copertina di quel vecchio Urania: René Barjavel, “Diluvio di fuoco”, pubblicato nel 1954 e fuori catalogo da decenni.
Inizia così, con toni quasi comici: siamo in un futuro non molto lontano, dove i sarti hanno avuto l'idea di sostituire bottoni e zip con chiusure magnetiche. Ma, appunto, succede qualcosa di strano, comico e inaspettato: tutti gli impiegati dell'ufficio, in un moderno grattacielo, si ritrovano in mutande. Si ride, ma il problema si rivela ben presto grave: manca l'elettricità ovunque, e non solo l'elettricità ma tutto quello che vi è connesso, comprese appunto le polarità magnetiche; anche quelle leggerissime che tenevano chiusi gonne, camicette e pantaloni.
E' l'inizio di una catastrofe spaventosa, narrata per tutto il libro come il pellegrinaggio di pochi superstiti fra incendi e distruzioni, carcasse di automobili inservibili, aerei che precipitano in volo, e via elencando, alla ricerca di un'oasi di salvezza. L'umanità ne esce quasi distrutta, almeno nelle grandi città; il protagonista e pochi altri scampano al disastro rifugiandosi nelle campagne più isolate, e fondano una nuova comunità che, per forza di cose, sarà rurale e quasi primitiva.
Poi passano gli anni e il nostro protagonista, ormai anziano, è il patriarca e il capo di questa comunità pacifica di contadini e allevatori. Ma ecco che, d'improvviso, uno dei suoi discendenti arriva con un trattore: ne ha sentito parlare, è riuscito a rimetterlo in funzione, e ne è entusiasta: ora potremo lavorare con meno fatica, dice. Ma il vecchio patriarca non è di questo parere: lo affronta e lo uccide. Mai più, mai più macchine, mai più ingannevoli aiuti alla fatica umana: questo è l'ammonimento che lancia il vecchio patriarca, che un tempo fu eroe, alle giovani generazioni.
Di questo romanzo fino a poco tempo non ricordavo il titolo né il nome dell'autore, perché l'ho letto tanti anni fa in un una vecchia collana di fantascienza, forse un Urania che girava per casa. Cercando su internet ho trovato il nome dell’autore, e anche la copertina di quel vecchio Urania: René Barjavel, “Diluvio di fuoco”, pubblicato nel 1954 e fuori catalogo da decenni.
Inizia così, con toni quasi comici: siamo in un futuro non molto lontano, dove i sarti hanno avuto l'idea di sostituire bottoni e zip con chiusure magnetiche. Ma, appunto, succede qualcosa di strano, comico e inaspettato: tutti gli impiegati dell'ufficio, in un moderno grattacielo, si ritrovano in mutande. Si ride, ma il problema si rivela ben presto grave: manca l'elettricità ovunque, e non solo l'elettricità ma tutto quello che vi è connesso, comprese appunto le polarità magnetiche; anche quelle leggerissime che tenevano chiusi gonne, camicette e pantaloni.
E' l'inizio di una catastrofe spaventosa, narrata per tutto il libro come il pellegrinaggio di pochi superstiti fra incendi e distruzioni, carcasse di automobili inservibili, aerei che precipitano in volo, e via elencando, alla ricerca di un'oasi di salvezza. L'umanità ne esce quasi distrutta, almeno nelle grandi città; il protagonista e pochi altri scampano al disastro rifugiandosi nelle campagne più isolate, e fondano una nuova comunità che, per forza di cose, sarà rurale e quasi primitiva.
Poi passano gli anni e il nostro protagonista, ormai anziano, è il patriarca e il capo di questa comunità pacifica di contadini e allevatori. Ma ecco che, d'improvviso, uno dei suoi discendenti arriva con un trattore: ne ha sentito parlare, è riuscito a rimetterlo in funzione, e ne è entusiasta: ora potremo lavorare con meno fatica, dice. Ma il vecchio patriarca non è di questo parere: lo affronta e lo uccide. Mai più, mai più macchine, mai più ingannevoli aiuti alla fatica umana: questo è l'ammonimento che lancia il vecchio patriarca, che un tempo fu eroe, alle giovani generazioni.
Incubi e profezie ( n.5 )
Incubi e profezie, n.5 – Il dottor Moreau
Herbert George Wells non ha bisogno di presentazioni, i suoi romanzi sono ancora famosissimi: "La guerra dei mondi", oppure "L'uomo invisibile", si leggono da generazioni. Per "L'isola del dottor Moreau", ricordo particolarmente l'ultimo film che ne è stato tratto, con Marlon Brando nel ruolo del titolo: era davvero impressionante, e anche piuttosto brutto ad essere onesti; ma illustrava in modo perfetto l'assunto del libro. Moreau, da vero scienziato folle, romantico e isolato, aveva creato su un'isola deserta questi ibridi metà uomo e metà animale, uomini cane, uomini cavallo, donne uccello e donne gatto. E anche gli uomini-iena, per l'appunto: la sua prima creazione, esseri a lui devoti e decisamente umani; ma la loro natura più profonda verrà inevitabilmente a galla, per imporsi.
Oggi, nella realtà, non si tratta più di scienziati folli che lavorano misteriosamente in isole deserte: gli eredi di Moreau lavorano in ordinati laboratori e sono ben sovvenzionati da industrie chimiche e farmaceutiche. Con lo sviluppo dell'ingegneria genetica questi risultati cominciano e vedersi, ibridi sono già stati prodotti, anche tra maiali e meduse, o tra lucciole e granoturco. E io comincio a guardarmi in giro, con uomini iena e donne gatto ho già avuto a che fare, e riesco a spiegarmi un bel po' di cose, con questa teoria del dottor Moreau. Mi spiego perché io non sono agile e non so ballare, per esempio; e perché ci sono gli assassini e le persone gentili, perché alcuni sanno nuotare senza problemi e altri no, eccetera. E ripenso anche al buon vecchio Darwin, per dirmi che la selezione naturale forse non è stata l'unica discriminante, e soprattutto, e anche questo è chiaro e basta saper osservare, che non discendiamo tutti dalla stessa scimmia. E' infatti evidente, anche a voler escludere gli altri animali (un'ibridazione un po' troppo spinta, ma chissà, forse in futuro), che alcuni di noi discendono dagli oranghi, altri dagli scimpanzé, altri dai gorilla, e altri ancora (mani e braccia lunghe, fisico snello e sottile) dai macachi e dai gibboni, oppure (bassi, robusti, aggressivi, volto sporgente) magari dai babbuini.
E anche questo incubo, o profezia, è servito: e se vi piace il tema, c'è anche un bel racconto di Primo Levi, che si intitola "Disfilassi" e che apre scenari di ibridazione ancora più inquietanti e scabrosi.
Herbert George Wells non ha bisogno di presentazioni, i suoi romanzi sono ancora famosissimi: "La guerra dei mondi", oppure "L'uomo invisibile", si leggono da generazioni. Per "L'isola del dottor Moreau", ricordo particolarmente l'ultimo film che ne è stato tratto, con Marlon Brando nel ruolo del titolo: era davvero impressionante, e anche piuttosto brutto ad essere onesti; ma illustrava in modo perfetto l'assunto del libro. Moreau, da vero scienziato folle, romantico e isolato, aveva creato su un'isola deserta questi ibridi metà uomo e metà animale, uomini cane, uomini cavallo, donne uccello e donne gatto. E anche gli uomini-iena, per l'appunto: la sua prima creazione, esseri a lui devoti e decisamente umani; ma la loro natura più profonda verrà inevitabilmente a galla, per imporsi.
Oggi, nella realtà, non si tratta più di scienziati folli che lavorano misteriosamente in isole deserte: gli eredi di Moreau lavorano in ordinati laboratori e sono ben sovvenzionati da industrie chimiche e farmaceutiche. Con lo sviluppo dell'ingegneria genetica questi risultati cominciano e vedersi, ibridi sono già stati prodotti, anche tra maiali e meduse, o tra lucciole e granoturco. E io comincio a guardarmi in giro, con uomini iena e donne gatto ho già avuto a che fare, e riesco a spiegarmi un bel po' di cose, con questa teoria del dottor Moreau. Mi spiego perché io non sono agile e non so ballare, per esempio; e perché ci sono gli assassini e le persone gentili, perché alcuni sanno nuotare senza problemi e altri no, eccetera. E ripenso anche al buon vecchio Darwin, per dirmi che la selezione naturale forse non è stata l'unica discriminante, e soprattutto, e anche questo è chiaro e basta saper osservare, che non discendiamo tutti dalla stessa scimmia. E' infatti evidente, anche a voler escludere gli altri animali (un'ibridazione un po' troppo spinta, ma chissà, forse in futuro), che alcuni di noi discendono dagli oranghi, altri dagli scimpanzé, altri dai gorilla, e altri ancora (mani e braccia lunghe, fisico snello e sottile) dai macachi e dai gibboni, oppure (bassi, robusti, aggressivi, volto sporgente) magari dai babbuini.
E anche questo incubo, o profezia, è servito: e se vi piace il tema, c'è anche un bel racconto di Primo Levi, che si intitola "Disfilassi" e che apre scenari di ibridazione ancora più inquietanti e scabrosi.
Incubi e profezie ( n.6 )
Incubi e profezie, n.6 – La macchina del tempo
Ancora Wells, e ancora un libro famoso, "La macchina del tempo". Il protagonista fa un bel giro avanti e indietro, nel passato più remoto e nel futuro più lontano, ma senza mai muoversi dal suo salotto –almeno in apparenza. Un bel paradosso, pensato prima di Einstein e che meriterebbe un bel ragionamento fisico-matematico (spero che qualcuno se ne occupi, perché io non sono in grado di farlo ma mi piacerebbe leggerlo). A un certo punto dei suoi viaggi viene proiettato in futuro molto lontano, e trova un mondo dove l'umanità è divisa in due: in superficie vive una popolazione di giovani molto belli e gentili, ma anche un po' idioti; sottoterra ci sono i terribili Morlock, che fanno un uso poco raccontabile degli umani di superficie. Il protagonista, viaggiatore nel tempo, non ci si raccapezza e chiede ad una ragazza "di sopra" se ci sono dei libri che gli possano raccontare che cosa è successo. "Libri?" chiede la ragazza un po' stupita "Ah, sì, mi pare che ce ne siano, di là". E, infatti, di là i libri ci sono: ma sono così vecchi e abbandonati che, appena ne prende in mano uno, il libro si sbriciola; e la stessa fine tocca a tutti gli altri, ormai inservibili e perduti insieme al sapere che contenevano.
H.G.Wells nasce nel 1866 e muore nel 1946: "La macchina del tempo" esce nel 1895, "L'isola del dottor Moreau" nel 1896. Sono date che fanno pensare. Forse siamo davvero di fronte ad un profeta, mascherato sotto l'aspetto di un autore di avventure, o forse il dottor Wells aveva davvero trovato la macchina del tempo, la sta usando anche adesso, e magari uno di questi giorni lo incontrerete per strada, o forse l'avete già incontrato e non ve ne siete nemmeno accorti.
AGGIORNAMENTO al marzo 2013: oggi sappiamo come è andata, nel caso dei libri ridotti in polvere. E’ andata così, che agli inizi del XXI secolo tutto il nostro sapere fu gioiosamente trasferito in un server, niente più carta, niente più scritti, solo una “nuvola” da cui andare a pescare le informazioni, velocemente, col telefonino o col tablet. Di conseguenza, ai libri nessuno fece più caso, non furono più ristampati, invecchiarono e si ridussero in polvere. Quelli che vediamo nel film sono le ultime copie conservate, ormai inservibili. Anche l’archivio digitale, quando vi arriva il protagonista del film (e del libro) è ormai inservibile, dato che non c’è più elettricità e che i satelliti e le fibre su cui correvano le informazioni sono spariti da tempo. L’unica possibilità di informazione è affidata a un piccolo marchingegno, simile a un dvd ma che si ricarica manualmente, girando su se stesso. Come se fosse a manovella, insomma. E, sottoterra, i Morlock lavorano.
Ancora Wells, e ancora un libro famoso, "La macchina del tempo". Il protagonista fa un bel giro avanti e indietro, nel passato più remoto e nel futuro più lontano, ma senza mai muoversi dal suo salotto –almeno in apparenza. Un bel paradosso, pensato prima di Einstein e che meriterebbe un bel ragionamento fisico-matematico (spero che qualcuno se ne occupi, perché io non sono in grado di farlo ma mi piacerebbe leggerlo). A un certo punto dei suoi viaggi viene proiettato in futuro molto lontano, e trova un mondo dove l'umanità è divisa in due: in superficie vive una popolazione di giovani molto belli e gentili, ma anche un po' idioti; sottoterra ci sono i terribili Morlock, che fanno un uso poco raccontabile degli umani di superficie. Il protagonista, viaggiatore nel tempo, non ci si raccapezza e chiede ad una ragazza "di sopra" se ci sono dei libri che gli possano raccontare che cosa è successo. "Libri?" chiede la ragazza un po' stupita "Ah, sì, mi pare che ce ne siano, di là". E, infatti, di là i libri ci sono: ma sono così vecchi e abbandonati che, appena ne prende in mano uno, il libro si sbriciola; e la stessa fine tocca a tutti gli altri, ormai inservibili e perduti insieme al sapere che contenevano.
H.G.Wells nasce nel 1866 e muore nel 1946: "La macchina del tempo" esce nel 1895, "L'isola del dottor Moreau" nel 1896. Sono date che fanno pensare. Forse siamo davvero di fronte ad un profeta, mascherato sotto l'aspetto di un autore di avventure, o forse il dottor Wells aveva davvero trovato la macchina del tempo, la sta usando anche adesso, e magari uno di questi giorni lo incontrerete per strada, o forse l'avete già incontrato e non ve ne siete nemmeno accorti.
AGGIORNAMENTO al marzo 2013: oggi sappiamo come è andata, nel caso dei libri ridotti in polvere. E’ andata così, che agli inizi del XXI secolo tutto il nostro sapere fu gioiosamente trasferito in un server, niente più carta, niente più scritti, solo una “nuvola” da cui andare a pescare le informazioni, velocemente, col telefonino o col tablet. Di conseguenza, ai libri nessuno fece più caso, non furono più ristampati, invecchiarono e si ridussero in polvere. Quelli che vediamo nel film sono le ultime copie conservate, ormai inservibili. Anche l’archivio digitale, quando vi arriva il protagonista del film (e del libro) è ormai inservibile, dato che non c’è più elettricità e che i satelliti e le fibre su cui correvano le informazioni sono spariti da tempo. L’unica possibilità di informazione è affidata a un piccolo marchingegno, simile a un dvd ma che si ricarica manualmente, girando su se stesso. Come se fosse a manovella, insomma. E, sottoterra, i Morlock lavorano.
Incubi e profezie ( n.8 )
Incubi e profezie, n.8 - L’uomo di plastica
Nel 1860 due scienziati russi, Borodin e Mendeleev, si recano ad un congresso di chimici in Germania, a Karlsruhe. Il primo rimarrà famoso non per la chimica ma per un suo hobby: la musica. Le “danze polovesiane” di Borodin, dall’opera “Il principe Igor”, sono ancora oggi famosissime, usate e abusate anche nei film e dalla pubblicità: sono gli scherzi che riserva il destino. Invece Mendeleev ( si pronuncia, più o meno, Mendeleyeff), proprio a partire da quel convegno dove si tentò di mettere ordine alle prime e un po’ caotiche scoperte, cominciò a lavorare sulle relazioni esistenti tra gli elementi chimici fino ad allora noti, e nel 1869 elaborò (si dice grazie ad un sogno, come capita spesso in questi casi) la famosa tavola degli elementi, il Sistema Periodico dove tutti i “mattoni fondamentali” della materia sono disposti secondo un ordine perfetto, che è poi l’ordine del creato. Nella tabella stesa da Mendeleev c’erano molte caselle vuote: si sarebbero riempite negli anni successivi, con la scoperta degli elementi (gas e minerali) mancanti. Era stato così portato alla luce uno dei grandi segreti della Natura, o del Creato se preferite.
L’intuizione di Mendeleev permise le sensazionali scoperte fatte nei 50 anni seguenti, e permise la vera nascita dell’industria chimica e farmaceutica: adesso era possibile produrre, nella quantità e nella purezza volute, ogni tipo di composto.
Così come la scoperta dell’alfabeto permette di leggere e scrivere, grazie al Sistema Periodico siamo arrivati, per citare solo due delle cose più clamorose, alla plastica e alla bomba atomica. Due cose che in natura non c’erano, e che non ci sarebbero mai state senza l’intervento umano.
Oggi leggiamo di un’altra sensazionale scoperta, la decifrazione del genoma umano. La scoperta della struttura della molecola del DNA risale agli anni 50, con relativo Premio Nobel 1962 agli scienziati Crick, Watson e Wilkins.
Oggi abbiamo tutte le sillabe e le parole del nostro corpo, così come grazie alla Tavola Periodica degli Elementi abbiamo avuto tutte le lettere dell’alfabeto della Natura: possiamo smontare e rimontare l’uomo come ci piace, e abbiamo già cominciato a farlo. Quale può essere il futuro? Qualcosa di simile all’invenzione della plastica, negli ultimi cinquant’anni, può accadere nel mondo vivente? Avremo accanto a noi, quotidiano e tranquillamente domestico, l’equivalente dell’uomo di plastica, nei prossimi anni?
Staremo a vedere; per intanto non posso non stupirmi nel constatare che il nome di Mendeleev, il Prometeo moderno, è spesso ignoto perfino a chi lavora nell’industria chimica.
Nel 1860 due scienziati russi, Borodin e Mendeleev, si recano ad un congresso di chimici in Germania, a Karlsruhe. Il primo rimarrà famoso non per la chimica ma per un suo hobby: la musica. Le “danze polovesiane” di Borodin, dall’opera “Il principe Igor”, sono ancora oggi famosissime, usate e abusate anche nei film e dalla pubblicità: sono gli scherzi che riserva il destino. Invece Mendeleev ( si pronuncia, più o meno, Mendeleyeff), proprio a partire da quel convegno dove si tentò di mettere ordine alle prime e un po’ caotiche scoperte, cominciò a lavorare sulle relazioni esistenti tra gli elementi chimici fino ad allora noti, e nel 1869 elaborò (si dice grazie ad un sogno, come capita spesso in questi casi) la famosa tavola degli elementi, il Sistema Periodico dove tutti i “mattoni fondamentali” della materia sono disposti secondo un ordine perfetto, che è poi l’ordine del creato. Nella tabella stesa da Mendeleev c’erano molte caselle vuote: si sarebbero riempite negli anni successivi, con la scoperta degli elementi (gas e minerali) mancanti. Era stato così portato alla luce uno dei grandi segreti della Natura, o del Creato se preferite.
L’intuizione di Mendeleev permise le sensazionali scoperte fatte nei 50 anni seguenti, e permise la vera nascita dell’industria chimica e farmaceutica: adesso era possibile produrre, nella quantità e nella purezza volute, ogni tipo di composto.
Così come la scoperta dell’alfabeto permette di leggere e scrivere, grazie al Sistema Periodico siamo arrivati, per citare solo due delle cose più clamorose, alla plastica e alla bomba atomica. Due cose che in natura non c’erano, e che non ci sarebbero mai state senza l’intervento umano.
Oggi leggiamo di un’altra sensazionale scoperta, la decifrazione del genoma umano. La scoperta della struttura della molecola del DNA risale agli anni 50, con relativo Premio Nobel 1962 agli scienziati Crick, Watson e Wilkins.
Oggi abbiamo tutte le sillabe e le parole del nostro corpo, così come grazie alla Tavola Periodica degli Elementi abbiamo avuto tutte le lettere dell’alfabeto della Natura: possiamo smontare e rimontare l’uomo come ci piace, e abbiamo già cominciato a farlo. Quale può essere il futuro? Qualcosa di simile all’invenzione della plastica, negli ultimi cinquant’anni, può accadere nel mondo vivente? Avremo accanto a noi, quotidiano e tranquillamente domestico, l’equivalente dell’uomo di plastica, nei prossimi anni?
Staremo a vedere; per intanto non posso non stupirmi nel constatare che il nome di Mendeleev, il Prometeo moderno, è spesso ignoto perfino a chi lavora nell’industria chimica.
Incubi e profezie ( n.9 )
Incubi e profezie, n.9 – Cuore di vetro
Un villaggio dove tutti sono sotto ipnosi, dormienti, e dove l’unico uomo ancora in sè è un veggente che abita sulla montagna, giovane e forte; ma le sue profezie sono quasi incomprensibili, e nel finale lo vediamo combattere con un orso che in realtà non esiste, anche l’orso è solo una visione.
In “Cuore di vetro”, gli attori recitano sotto ipnosi. Quale è il senso di questa scelta, che a prima vista appare come qualcosa di inquietante, di mostruoso, e anche di insensato? “Cuore di vetro” , oltre ad essere un film fascinoso come pochi, è anche un caso unico nella storia del cinema; ma il senso dell’operazione voluta da Werner Herzog esiste e non è difficile da trovare. Il punto di partenza sono antiche leggende bavaresi, riprese dallo scrittore Herbert Achternbusch in un suo romanzo di poco precedente al film. Al centro di queste leggende c’è il montanaro Mühlhias, cioè “Matthias del Mulino”, o più semplicemente Hias. Vissuto nel ‘700, ha lasciato queste profezie oscure, nello stile di Nostradamus, che un tempo erano molto popolari; oggi sono quasi dimenticate ma Achternbusch le riprende, prese dai manoscritti del tempo e dalle biblioteche locali, e nel film ne ascoltiamo parecchie.
Siamo in Baviera a fine ‘700. Il padrone della vetreria è anziano, forse invalido forse no (è fermo su una sedia, ma probabilmente per sua volontà). Suo figlio, che ne ha preso il posto, impazzisce cercando il segreto del vetro rubino, il vetro rosso; e trascina con sè nella follia il villaggio, finendo per incendiarlo. In mezzo a questo scenario si muove Hias.
Herzog decide di portare sullo schermo il libro di Achternbusch, e sceglie di far recitare gli attori sotto ipnosi. Dopo aver messo un bando sui giornali, scrittura tra i volontari che si sono presentati quelli che possono essere sottoposti all’esperimento senza problemi. Quelli che vediamo sono dunque quasi tutti attori non professionisti, con qualche eccezione.
“Cuore di vetro” sta ad indicare qualcosa di molto duro ma anche molto fragile. E’ una frase che il padrone della vetreria rivolge al veggente Hias, verso la fine del film: “Anche tu hai dunque un cuore di vetro”. Si tratta di due uomini giovani: il padrone della vetreria è anziano e invalido, suo figlio è ossessionato dalla produzione del vetro rubino, del quale si è perso il segreto; e Hias è un montanaro giovane e molto forte. Si sono ritrovati in carcere l’uno per aver appiccato un disastroso incendio e aver ucciso una ragazza, l’altro per aver previsto tutto questo. (Il rubino rosso, il vetro color rubino, esiste veramente: non è un vetro colorato ma è prodotto con materiali che gli danno quel colore caratteristico. E’ molto pregiato e difficile da lavorare, ma non si tratta di un segreto.)
Il senso dell’ipnosi è questo: nel villaggio nessuno si rende conto di cosa succede, tranne il chiaroveggente che avverte gli altri con le sue visioni. E’ per questo, di conseguenza, che il veggente Hias, interpretato da Josef Bierbichler, è l’unico degli attori che non è mai sotto ipnosi. Hias vive lontano dal villaggio, in un punto alto; solo così tiene lontana la malvagità e le influenze nefaste. E’ un punto più alto anche dal punto di vista della metafora, ad indicare un livello superiore; però Hias ha delle visioni strane, poco lucide, come quella dell’orso per il quale chiede che venga organizzata la caccia, e contro il quale alla fine combatte, ma che in realtà non esiste (vediamo Hias stanare un orso inesistente e lottare con il pugnale contro di lui, corpo a corpo: ma noi lo vediamo combattere da solo).
Il film finisce con Hias che torna alle sue montagne, e che racconta una nuova visione: un’isola in mezzo al mare, e quattro dei suoi abitanti che vanno a cercarne i confini remando su una piccola barca. E’ una delle sequenze più belle mai filmate da Herzog (ed è tutto dire), qualcosa che non si può raccontare ma soltanto vedere; e questa metafora del villaggio sotto ipnosi dove succedono violenze e omicidi, e dove l’unica persona cosciente dice cose incomprensibili, è decisamente inquietante anche oggi. Questo è un soggetto che non perderà mai di attualità, purtroppo.
CUORE DI VETRO, DI WERNER HERZOG Herz aus Glas, di Werner Herzog (1976) Sceneggiatura di Herbert Achternbusch, Werner Herzog. Con Josef Bierbichler, Stepan Guttler, Clemens Scheitz, Sonja Skiba Musica: Popol Vuh Fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein (93 minuti)
(il racconto completo, con molte immagini, è su http://giulianocinema.blogspot.com/ )
Un villaggio dove tutti sono sotto ipnosi, dormienti, e dove l’unico uomo ancora in sè è un veggente che abita sulla montagna, giovane e forte; ma le sue profezie sono quasi incomprensibili, e nel finale lo vediamo combattere con un orso che in realtà non esiste, anche l’orso è solo una visione.
In “Cuore di vetro”, gli attori recitano sotto ipnosi. Quale è il senso di questa scelta, che a prima vista appare come qualcosa di inquietante, di mostruoso, e anche di insensato? “Cuore di vetro” , oltre ad essere un film fascinoso come pochi, è anche un caso unico nella storia del cinema; ma il senso dell’operazione voluta da Werner Herzog esiste e non è difficile da trovare. Il punto di partenza sono antiche leggende bavaresi, riprese dallo scrittore Herbert Achternbusch in un suo romanzo di poco precedente al film. Al centro di queste leggende c’è il montanaro Mühlhias, cioè “Matthias del Mulino”, o più semplicemente Hias. Vissuto nel ‘700, ha lasciato queste profezie oscure, nello stile di Nostradamus, che un tempo erano molto popolari; oggi sono quasi dimenticate ma Achternbusch le riprende, prese dai manoscritti del tempo e dalle biblioteche locali, e nel film ne ascoltiamo parecchie.
Siamo in Baviera a fine ‘700. Il padrone della vetreria è anziano, forse invalido forse no (è fermo su una sedia, ma probabilmente per sua volontà). Suo figlio, che ne ha preso il posto, impazzisce cercando il segreto del vetro rubino, il vetro rosso; e trascina con sè nella follia il villaggio, finendo per incendiarlo. In mezzo a questo scenario si muove Hias.
Herzog decide di portare sullo schermo il libro di Achternbusch, e sceglie di far recitare gli attori sotto ipnosi. Dopo aver messo un bando sui giornali, scrittura tra i volontari che si sono presentati quelli che possono essere sottoposti all’esperimento senza problemi. Quelli che vediamo sono dunque quasi tutti attori non professionisti, con qualche eccezione.
“Cuore di vetro” sta ad indicare qualcosa di molto duro ma anche molto fragile. E’ una frase che il padrone della vetreria rivolge al veggente Hias, verso la fine del film: “Anche tu hai dunque un cuore di vetro”. Si tratta di due uomini giovani: il padrone della vetreria è anziano e invalido, suo figlio è ossessionato dalla produzione del vetro rubino, del quale si è perso il segreto; e Hias è un montanaro giovane e molto forte. Si sono ritrovati in carcere l’uno per aver appiccato un disastroso incendio e aver ucciso una ragazza, l’altro per aver previsto tutto questo. (Il rubino rosso, il vetro color rubino, esiste veramente: non è un vetro colorato ma è prodotto con materiali che gli danno quel colore caratteristico. E’ molto pregiato e difficile da lavorare, ma non si tratta di un segreto.)
Il senso dell’ipnosi è questo: nel villaggio nessuno si rende conto di cosa succede, tranne il chiaroveggente che avverte gli altri con le sue visioni. E’ per questo, di conseguenza, che il veggente Hias, interpretato da Josef Bierbichler, è l’unico degli attori che non è mai sotto ipnosi. Hias vive lontano dal villaggio, in un punto alto; solo così tiene lontana la malvagità e le influenze nefaste. E’ un punto più alto anche dal punto di vista della metafora, ad indicare un livello superiore; però Hias ha delle visioni strane, poco lucide, come quella dell’orso per il quale chiede che venga organizzata la caccia, e contro il quale alla fine combatte, ma che in realtà non esiste (vediamo Hias stanare un orso inesistente e lottare con il pugnale contro di lui, corpo a corpo: ma noi lo vediamo combattere da solo).
Il film finisce con Hias che torna alle sue montagne, e che racconta una nuova visione: un’isola in mezzo al mare, e quattro dei suoi abitanti che vanno a cercarne i confini remando su una piccola barca. E’ una delle sequenze più belle mai filmate da Herzog (ed è tutto dire), qualcosa che non si può raccontare ma soltanto vedere; e questa metafora del villaggio sotto ipnosi dove succedono violenze e omicidi, e dove l’unica persona cosciente dice cose incomprensibili, è decisamente inquietante anche oggi. Questo è un soggetto che non perderà mai di attualità, purtroppo.
CUORE DI VETRO, DI WERNER HERZOG Herz aus Glas, di Werner Herzog (1976) Sceneggiatura di Herbert Achternbusch, Werner Herzog. Con Josef Bierbichler, Stepan Guttler, Clemens Scheitz, Sonja Skiba Musica: Popol Vuh Fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein (93 minuti)
(il racconto completo, con molte immagini, è su http://giulianocinema.blogspot.com/ )
Incubi e profezie ( n.10 )
Incubi e profezie, n.10 – Gli sfollati
Tra i racconti dei vecchi, cioè le persone nate prima di me e che quand’ero bambino mi sembravano vecchi, era ben presente la storia degli sfollati. Anzi, molti di loro erano sfollati.
In tempo di guerra, soprattutto dal 1943 al 1945, vivere nelle grandi città era pericoloso: per via dei bombardamenti. Il vecchio duce non voleva ammettere la sconfitta e si asserragliò qui al nord, inventandosi una repubblichina che significava soltanto la svendita dell’Italia ai nazisti, cioè il tradimento della Patria per la quale diceva di combattere. Ma questa è un’altra storia, un altro incubo.
Quella che racconto oggi è la storia degli sfollati, che venivano qui in campagna per sfuggire alle bombe e anche perché qui c’era ancora da mangiare. Qui, a 30-40 Km da Milano, a quei tempi c’erano ancora molti contadini. La terra era fertile e dava molto; qualcosa da mangiare si trovava sempre, anche per gli sfollati, anche in condizioni di emergenza.
Tutto questo nel 1943. Oggi, ormai nel 2009, mi guardo intorno. Cos’è rimasto di quella campagna? Qui è come Milano, case e capannoni, terze e quarte corsie dell’autostrada, parcheggi, palazzoni, villette a schiera. Nelle case vecchie c’era sempre un orto, un giardino; oggi al posto dell’orto le nuove generazioni hanno costruito un garage, molto grande perché le automobili di oggi chiedono spazio e ogni famiglia ha due, tre, quattro automobili.
Non lo sa quasi nessuno, ma la farina che usiamo viene quasi tutta dal Canada. Ci riempiamo la bocca con paroloni sulla tradizione italiana, ma da soli, senza il grano del Canada, non riusciremmo nemmeno a fare un piatto di spaghetti. Idem per la polenta: una volta qui si andava tutti a polenta, da qualsiasi parte si guardava era facile trovare un campo di granturco. Da bambini rubavamo le pannocchie e le cuocevamo, così per divertimento; oggi al posto delle “mie” pannocchie c’è un parcheggio, o una villetta a schiera. Dio non voglia, ma se dovesse capitare un’altra emergenza cosa succederà? Non dico qui, magari un’emergenza a Gibilterra che impedisca il transito alle navi cargo che arrivano dal florido Canada. O in Israele, col Mediterraneo, Suez...
Questo è forse l’incubo più spaventoso. Lo metto in fondo alla mia serie, sperando che non si avveri mai: né per me né per i miei discendenti.
Tra i racconti dei vecchi, cioè le persone nate prima di me e che quand’ero bambino mi sembravano vecchi, era ben presente la storia degli sfollati. Anzi, molti di loro erano sfollati.
In tempo di guerra, soprattutto dal 1943 al 1945, vivere nelle grandi città era pericoloso: per via dei bombardamenti. Il vecchio duce non voleva ammettere la sconfitta e si asserragliò qui al nord, inventandosi una repubblichina che significava soltanto la svendita dell’Italia ai nazisti, cioè il tradimento della Patria per la quale diceva di combattere. Ma questa è un’altra storia, un altro incubo.
Quella che racconto oggi è la storia degli sfollati, che venivano qui in campagna per sfuggire alle bombe e anche perché qui c’era ancora da mangiare. Qui, a 30-40 Km da Milano, a quei tempi c’erano ancora molti contadini. La terra era fertile e dava molto; qualcosa da mangiare si trovava sempre, anche per gli sfollati, anche in condizioni di emergenza.
Tutto questo nel 1943. Oggi, ormai nel 2009, mi guardo intorno. Cos’è rimasto di quella campagna? Qui è come Milano, case e capannoni, terze e quarte corsie dell’autostrada, parcheggi, palazzoni, villette a schiera. Nelle case vecchie c’era sempre un orto, un giardino; oggi al posto dell’orto le nuove generazioni hanno costruito un garage, molto grande perché le automobili di oggi chiedono spazio e ogni famiglia ha due, tre, quattro automobili.
Non lo sa quasi nessuno, ma la farina che usiamo viene quasi tutta dal Canada. Ci riempiamo la bocca con paroloni sulla tradizione italiana, ma da soli, senza il grano del Canada, non riusciremmo nemmeno a fare un piatto di spaghetti. Idem per la polenta: una volta qui si andava tutti a polenta, da qualsiasi parte si guardava era facile trovare un campo di granturco. Da bambini rubavamo le pannocchie e le cuocevamo, così per divertimento; oggi al posto delle “mie” pannocchie c’è un parcheggio, o una villetta a schiera. Dio non voglia, ma se dovesse capitare un’altra emergenza cosa succederà? Non dico qui, magari un’emergenza a Gibilterra che impedisca il transito alle navi cargo che arrivano dal florido Canada. O in Israele, col Mediterraneo, Suez...
Questo è forse l’incubo più spaventoso. Lo metto in fondo alla mia serie, sperando che non si avveri mai: né per me né per i miei discendenti.
Cambiar canale
- Se non ti piace, puoi sempre cambiare canale.
Sono trent’anni che cambio canale, ma vedo sempre quelle facce lì.
E non solo in tv, dappertutto.
Sono trent’anni che cambio canale, ma vedo sempre quelle facce lì.
E non solo in tv, dappertutto.
Non è più tempo per la poesia
...o forse vuoi che dica
che ho i capelli più corti
o che per le mie navi
son quasi chiusi i porti...
(Francesco Guccini, da “Canzone quasi d’amore”,1976)
Una volta, qualche anno fa, ho avuto una mia piccola fama scrivendo rime abbastanza divertenti su internet. Ogni tanto qualcuno se ne ricorda e mi chiede: ma perché non scrivi più quelle cose divertenti e carine?
Perché non è più quel tempo. Non è più tempo di sorridere, sono tempi preoccupanti e il cielo è sempre più scuro: non per me, ma per l’Europa e per il mio sciagurato Paese.
che ho i capelli più corti
o che per le mie navi
son quasi chiusi i porti...
(Francesco Guccini, da “Canzone quasi d’amore”,1976)
Una volta, qualche anno fa, ho avuto una mia piccola fama scrivendo rime abbastanza divertenti su internet. Ogni tanto qualcuno se ne ricorda e mi chiede: ma perché non scrivi più quelle cose divertenti e carine?
Perché non è più quel tempo. Non è più tempo di sorridere, sono tempi preoccupanti e il cielo è sempre più scuro: non per me, ma per l’Europa e per il mio sciagurato Paese.
martedì 24 novembre 2009
Obsoleto
Spesso per capire che cosa succede è utile rovesciare le domande: un piccolo trucco di tutte le scuole filosofiche, dai gesuiti ai buddisti tibetani.
Per esempio, più che domandarsi “perché oggi c’è la crisi” è utile domandarsi: “Come mai prima non c’era la crisi?”
Storicamente, l’Italia è sempre stato un Paese povero, con milioni di emigranti che andavano a cercar fortuna altrove. Ma di questo abbiamo perso completamente la memoria: ci ricordiamo (anche per motivi anagrafici) ormai solo del periodo felice, dell’Italia ricca e prospera. Un periodo che va grosso modo dalla fine degli anni ’40 fino agli inizi degli anni ’90: questo periodo corrisponde in pieno al tempo intercorso tra gli accordi di Yalta e la caduta del Muro di Berlino.
Il Muro ci ha protetti, e molto; e gli USA avevano tutto l’interesse a finanziare la nostra crescita, perché in quel contesto l’Italia era un Paese geograficamente importante. Ma poi le cose sono cambiate: e va ricordato che la Germania Est comprendeva gran parte di quello che fu l’Impero Prussiano, e che in Cecoslovacchia fino agli inizi del Novecento c’erano industrie importantissime, di ottica e di ingegneria. Queste industrie, dal 1945 al 1989, per noi “di qua dal Muro” è come se non fossero esistite; ma oggi sono tornate (la Fiat costruisce automobili in Polonia, ogni tanto va ricordato, e non più a Mirafiori o ad Arese; e quasi tutte le industrie del Veneto hanno spostato la produzione in Romania).
Mi sembrano considerazioni banali, e a dire il vero mi vergogno un po’ a scriverne. Però non passa giorno senza che non senta ripetere il vecchio ritornello: “i disoccupati devono rimboccarsi le maniche, fare come ho fatto io, come hanno fatto i miei figli che sono andati a lavorare d’estate”, e via con tutti i luoghi comuni sull’operosità brianzola (benedetta gente, sia ben chiaro: ma lavorare 14 ore al giorno non è prerogativa solo dei brianzoli, lo fanno anche i cinesi - che sono molti di più dei brianzoli, tra l’altro).
In questo contesto, i politici insistono con le rottamazioni, gli incentivi, le detassazioni: tutte cose utili, ma che si limitano a spostare il problema un po’ più in là di qualche mese o di qualche anno. Cosa se ne fa di una detassazione uno che non lavora o che non riesce a ottenere crediti dalle banche? Come si fa a dire a un disoccupato di “rimboccarsi le maniche, darsi da fare, io non starei con le mani in mano” (lo ha fatto Berlusconi di recente, lo hanno ripetuto altri, e in buona fede), se gli industriali trasferiscono i posti di lavoro in Romania, in Cecoslovacchia, in Cina?
Qui si continua a credere che per trovare lavoro basti volerlo, che chi ha voglia di lavorare un lavoro lo trova sempre, e che chi non trova lavoro è un lazzarone: una mentalità che rivela uno sguardo volto inesorabilmente al passato. Così come inesorabilmente rivolto ai gloriosi anni ’50 e ’60 è lo sguardo di chi pensa che l’edilizia possa risolvere il problema (costruire ancora? a Milano? ormai per trovare aree libere si sono ridotti a sfrattare i rom e i centri sociali, altri spazi non ce ne sono più e tra un po’ le immobiliari prenderanno in considerazione anche il sagrato del Duomo...), o che per risolvere il problema del traffico si debbano fare le terze, quarte, quinte, seste corsie. Il rischio è di non sapere affrontare il cambiamento in corso, e di venire travolti dal cambiamento, ma sembra che siano in pochi ad averlo capito: gli altri, operai compresi, pensano ancora alle vacanze a Sharm e alle Maldive, come faceva Fantozzi. E magari ci andremo ancora, in viaggio: ma con la valigia di cartone dei nostri nonni e bisnonni.
Per esempio, più che domandarsi “perché oggi c’è la crisi” è utile domandarsi: “Come mai prima non c’era la crisi?”
Storicamente, l’Italia è sempre stato un Paese povero, con milioni di emigranti che andavano a cercar fortuna altrove. Ma di questo abbiamo perso completamente la memoria: ci ricordiamo (anche per motivi anagrafici) ormai solo del periodo felice, dell’Italia ricca e prospera. Un periodo che va grosso modo dalla fine degli anni ’40 fino agli inizi degli anni ’90: questo periodo corrisponde in pieno al tempo intercorso tra gli accordi di Yalta e la caduta del Muro di Berlino.
Il Muro ci ha protetti, e molto; e gli USA avevano tutto l’interesse a finanziare la nostra crescita, perché in quel contesto l’Italia era un Paese geograficamente importante. Ma poi le cose sono cambiate: e va ricordato che la Germania Est comprendeva gran parte di quello che fu l’Impero Prussiano, e che in Cecoslovacchia fino agli inizi del Novecento c’erano industrie importantissime, di ottica e di ingegneria. Queste industrie, dal 1945 al 1989, per noi “di qua dal Muro” è come se non fossero esistite; ma oggi sono tornate (la Fiat costruisce automobili in Polonia, ogni tanto va ricordato, e non più a Mirafiori o ad Arese; e quasi tutte le industrie del Veneto hanno spostato la produzione in Romania).
Mi sembrano considerazioni banali, e a dire il vero mi vergogno un po’ a scriverne. Però non passa giorno senza che non senta ripetere il vecchio ritornello: “i disoccupati devono rimboccarsi le maniche, fare come ho fatto io, come hanno fatto i miei figli che sono andati a lavorare d’estate”, e via con tutti i luoghi comuni sull’operosità brianzola (benedetta gente, sia ben chiaro: ma lavorare 14 ore al giorno non è prerogativa solo dei brianzoli, lo fanno anche i cinesi - che sono molti di più dei brianzoli, tra l’altro).
In questo contesto, i politici insistono con le rottamazioni, gli incentivi, le detassazioni: tutte cose utili, ma che si limitano a spostare il problema un po’ più in là di qualche mese o di qualche anno. Cosa se ne fa di una detassazione uno che non lavora o che non riesce a ottenere crediti dalle banche? Come si fa a dire a un disoccupato di “rimboccarsi le maniche, darsi da fare, io non starei con le mani in mano” (lo ha fatto Berlusconi di recente, lo hanno ripetuto altri, e in buona fede), se gli industriali trasferiscono i posti di lavoro in Romania, in Cecoslovacchia, in Cina?
Qui si continua a credere che per trovare lavoro basti volerlo, che chi ha voglia di lavorare un lavoro lo trova sempre, e che chi non trova lavoro è un lazzarone: una mentalità che rivela uno sguardo volto inesorabilmente al passato. Così come inesorabilmente rivolto ai gloriosi anni ’50 e ’60 è lo sguardo di chi pensa che l’edilizia possa risolvere il problema (costruire ancora? a Milano? ormai per trovare aree libere si sono ridotti a sfrattare i rom e i centri sociali, altri spazi non ce ne sono più e tra un po’ le immobiliari prenderanno in considerazione anche il sagrato del Duomo...), o che per risolvere il problema del traffico si debbano fare le terze, quarte, quinte, seste corsie. Il rischio è di non sapere affrontare il cambiamento in corso, e di venire travolti dal cambiamento, ma sembra che siano in pochi ad averlo capito: gli altri, operai compresi, pensano ancora alle vacanze a Sharm e alle Maldive, come faceva Fantozzi. E magari ci andremo ancora, in viaggio: ma con la valigia di cartone dei nostri nonni e bisnonni.
lunedì 23 novembre 2009
Chi vota a destra è un imbecille? ( II )
L’Italia è ormai un paese razzista. Inutile prenderci in giro, il danno è stato fatto e non è riparabile.
Però, siccome le tragedie hanno sempre anche un lato comico – ce lo insegnano prima di tutti gli antichi Greci – non si vorrebbe ridere ma alle volte è difficile farlo. E non so nemmeno bene da che parte incominciare, i pensieri sono tanti e si accavallano e hanno tutti uguale importanza.
Comincio dal Papa, e dal cardinal Bertone a lui vicino: che l’altro giorno hanno detto che è ora che la politica si dia una regolata. Specificando: destra e sinistra, tutti uguali a litigare e ad alzare la voce. Che sia ben chiaro che la Chiesa non si sta schierando!
Sul problema del razzismo, e dell’accoglienza agli immigrati, il cardinale Tettamanzi vescovo di Milano è da molti anni ripetutamente insultato (e non poco) da assessori comunali e regionale: della Lega Nord e della destra. Prima di lui, ad essere insultato (ripetutamente) su questi temi fu il cardinal Martini.
Qualche piccolo episodio simile si è verificato anche al centro e a sinistra, ma: 1) centro e sinistra non sono al governo; 2) questi episodi sono stati condannati, e al vertice di quei partiti ci sono persone che magari non sono dei fenomeni, ma sono quiete e rispettose del loro prossimo.
Al Governo, a Roma e nelle principali Regioni, e in moltissimi Comuni, ci sono gli esponenti di partiti che invitano quotidianamente, e apertamente, al razzismo; e sotterraneamente (ma neanche poi tanto) al pestaggio “di quelli che non sono dei nostri”. Le cronache di tutte le città del Nord riportano ormai quotidianamente le conseguenze di questa predicazione.
Umberto Bossi (ministro e Grande Capo della Lega Nord) non perde occasione per insultare gli immigrati, Roberto Maroni ministro degli Interni (ministro degli Interni!) si inventa il reato di clandestinità e ogni giorno aizza la gente contro gli immigrati; e di un partito di governo fa parte l’on. Borghezio, che si dichiara apertamente nazista. Difficile immaginare simili posizioni espresse da un Fassino, un Casini, un Di Pietro, una Rosi Bindi. Quando l’on. Fini (di destra) prende posizione contro i razzisti e i fascisti viene regolarmente sbeffeggiato e vituperato dai suoi (cioè dalla destra).
E poi c’è il problema degli stadi calcistici: che non è un problema da poco, e basti pensare al numero dei carabinieri e dei poliziotti che sono negli stadi ogni domenica e ogni mercoledì (e ogni lunedì e martedì e giovedì e venerdì e sabato, perché ormai si gioca tutti i giorni) invece di sorvegliare le nostre case e le nostre strade, per rendersi conto dell’entità del problema. Il governo Prodi, di fronte ad un caso di grave violenza, prese una misura estrema, mai presa prima: fermare il campionato di calcio. Non un provvedimento a casaccio contro una sola società (in quel caso e in quel momento, il Catania) ma la presa di coscienza che il problema del razzismo e della violenza riguarda tutti. (Ovviamente, sappiamo anche come andò a finire alle elezioni del 2008, ma questo lo dico solo “en passant”).
L’altro giorno dagli stadi di calcio è ripreso il fenomeno dei cori razzisti, contro i calciatori africani o di origine africana che giocano in Italia: fenomeno che a dire il vero non si è mai fermato, ma pazienza. E un personaggio del calcio ha chiesto “la squalifica del campo” del principale avversario. Confesso subito il mio conflitto d’interessi: per quella squadra (bianconera) io simpatizzo da sempre, ma se dovesse servire che ci diano pure la sconfitta 4-0 a tavolino, fermino pure il campionato e non lo riprendano più, se è per difendere un ragazzo di vent’anni che ha la pelle nera sono d’accordo su tutto.
Quello che mi domando, e che per me vale la comica finale, è come mai nessuno chieda all’allenatore dell’Inter (che non è italiano, vive qui da poco e magari non se ne rende conto) se sa chi sia il sindaco di Milano e quali sono le forze politiche che compongono la sua giunta. (Domanda che nessun giornalista farà mai, che diamine: non siamo mica qui per far politica!).
Inoltre, negli stadi di calcio, tra i “tifosi” organizzati, fanno proseliti da decenni organizzazioni dichiaratamente fasciste e violente, spesso organizzate in maniera militare o paramilitare; ed anche questo è un fenomeno ben noto e già descritto più volte fin nei minimi dettagli,
In conclusione, parafrasando Brancaleone da Norcia, l’impressione (forte) è che ci si stia prendendo per le natiche; ma anche dirlo non servirà a niente, domani salterà fuori un Brunetta o un Rotondi o un Tremonti a dire qualche scemenza e si parlerà solo di quello. Così va l’Italia, in questo inizio di millennio.
Però, siccome le tragedie hanno sempre anche un lato comico – ce lo insegnano prima di tutti gli antichi Greci – non si vorrebbe ridere ma alle volte è difficile farlo. E non so nemmeno bene da che parte incominciare, i pensieri sono tanti e si accavallano e hanno tutti uguale importanza.
Comincio dal Papa, e dal cardinal Bertone a lui vicino: che l’altro giorno hanno detto che è ora che la politica si dia una regolata. Specificando: destra e sinistra, tutti uguali a litigare e ad alzare la voce. Che sia ben chiaro che la Chiesa non si sta schierando!
Sul problema del razzismo, e dell’accoglienza agli immigrati, il cardinale Tettamanzi vescovo di Milano è da molti anni ripetutamente insultato (e non poco) da assessori comunali e regionale: della Lega Nord e della destra. Prima di lui, ad essere insultato (ripetutamente) su questi temi fu il cardinal Martini.
Qualche piccolo episodio simile si è verificato anche al centro e a sinistra, ma: 1) centro e sinistra non sono al governo; 2) questi episodi sono stati condannati, e al vertice di quei partiti ci sono persone che magari non sono dei fenomeni, ma sono quiete e rispettose del loro prossimo.
Al Governo, a Roma e nelle principali Regioni, e in moltissimi Comuni, ci sono gli esponenti di partiti che invitano quotidianamente, e apertamente, al razzismo; e sotterraneamente (ma neanche poi tanto) al pestaggio “di quelli che non sono dei nostri”. Le cronache di tutte le città del Nord riportano ormai quotidianamente le conseguenze di questa predicazione.
Umberto Bossi (ministro e Grande Capo della Lega Nord) non perde occasione per insultare gli immigrati, Roberto Maroni ministro degli Interni (ministro degli Interni!) si inventa il reato di clandestinità e ogni giorno aizza la gente contro gli immigrati; e di un partito di governo fa parte l’on. Borghezio, che si dichiara apertamente nazista. Difficile immaginare simili posizioni espresse da un Fassino, un Casini, un Di Pietro, una Rosi Bindi. Quando l’on. Fini (di destra) prende posizione contro i razzisti e i fascisti viene regolarmente sbeffeggiato e vituperato dai suoi (cioè dalla destra).
E poi c’è il problema degli stadi calcistici: che non è un problema da poco, e basti pensare al numero dei carabinieri e dei poliziotti che sono negli stadi ogni domenica e ogni mercoledì (e ogni lunedì e martedì e giovedì e venerdì e sabato, perché ormai si gioca tutti i giorni) invece di sorvegliare le nostre case e le nostre strade, per rendersi conto dell’entità del problema. Il governo Prodi, di fronte ad un caso di grave violenza, prese una misura estrema, mai presa prima: fermare il campionato di calcio. Non un provvedimento a casaccio contro una sola società (in quel caso e in quel momento, il Catania) ma la presa di coscienza che il problema del razzismo e della violenza riguarda tutti. (Ovviamente, sappiamo anche come andò a finire alle elezioni del 2008, ma questo lo dico solo “en passant”).
L’altro giorno dagli stadi di calcio è ripreso il fenomeno dei cori razzisti, contro i calciatori africani o di origine africana che giocano in Italia: fenomeno che a dire il vero non si è mai fermato, ma pazienza. E un personaggio del calcio ha chiesto “la squalifica del campo” del principale avversario. Confesso subito il mio conflitto d’interessi: per quella squadra (bianconera) io simpatizzo da sempre, ma se dovesse servire che ci diano pure la sconfitta 4-0 a tavolino, fermino pure il campionato e non lo riprendano più, se è per difendere un ragazzo di vent’anni che ha la pelle nera sono d’accordo su tutto.
Quello che mi domando, e che per me vale la comica finale, è come mai nessuno chieda all’allenatore dell’Inter (che non è italiano, vive qui da poco e magari non se ne rende conto) se sa chi sia il sindaco di Milano e quali sono le forze politiche che compongono la sua giunta. (Domanda che nessun giornalista farà mai, che diamine: non siamo mica qui per far politica!).
Inoltre, negli stadi di calcio, tra i “tifosi” organizzati, fanno proseliti da decenni organizzazioni dichiaratamente fasciste e violente, spesso organizzate in maniera militare o paramilitare; ed anche questo è un fenomeno ben noto e già descritto più volte fin nei minimi dettagli,
In conclusione, parafrasando Brancaleone da Norcia, l’impressione (forte) è che ci si stia prendendo per le natiche; ma anche dirlo non servirà a niente, domani salterà fuori un Brunetta o un Rotondi o un Tremonti a dire qualche scemenza e si parlerà solo di quello. Così va l’Italia, in questo inizio di millennio.
Tornasole
Provate a preparare un bel tè, molto carico; e poi metteteci il limone: il colore diventa subito più chiaro. E’ un’esperienza molto comune, che però – come capitò con la mela di Newton – se finisce sotto l’occhio della persona giusta può ispirare qualcosa di utile.
Il mio professore di Chimica usò questo esempio per introdurre l’argomento degli Indicatori, che in chimica sono fondamentali. Il più famoso degli Indicatori è il tornasole, ormai proverbiale anche al di fuori del gergo dei chimici (la famosa “cartina di tornasole”), che la Garzantina descrive così: «Tornasole: sostanza colorante ricavata da alcuni licheni, costituita da diversi composti coloranti di cui il principale è l'azolitmina; se ne prepara una tintura che ha la proprietà di colorarsi in azzurro in ambiente alcalino e in rosso in ambiente acido, donde il suo impiego quale indicatore, in forma di cartine al tornasole (strisce di carta imbevute di soluzioni di tornasole).»
A questo punto bisognerebbe introdurre la nozione di pH, che però richiederebbe una spiegazione lunga e quasi filosofica (non è solo una questione di acidità e di alcalinità, è un concetto che sta fra la matematica e lo yin-yang delle filosofie orientali) e quindi proverò a parlarne più avanti.
Comunque sia, gli Indicatori, in chimica, servivano, e servono ancora, per indicare il punto preciso in cui c’è una variazione di pH. Oggi in laboratorio si usano quasi soltanto macchine, elettrodi e potenziometri, e l’uso degli indicatori nelle analisi è andato via via calando d’importanza, ma avere un colorante che mostri – visivamente - il passaggio dall’acido al basico al neutro è stata una gran bella scoperta. Dapprima fu una osservazione casuale, come nel caso del tornasole; poi si cercarono scientificamente coloranti e composti chimici adatti allo scopo.
Per essere un buon indicatore, occorre che il viraggio (cioè il cambiamento del colore) sia molto netto, il più netto possibile; non è quindi il caso del tè, che cambia colore in modo poco spettacolare. Ma con altri infusi ha funzionato, e funziona ancora: i primi ad accorgersene furono probabilmente i tintori di tessuti, poi gli alchimisti, e infine dal ‘700 in poi, con l’Illuminismo e la nascita della scienza moderna, la scoperta non fu più lasciata al caso ma divenne sempre più raffinata.
Il più comune degli Indicatori è la fenolftaleina, che passa di botto dall’incolore al rosa intenso (quasi fucsia, ma se compare il fucsia significa che siamo andati troppo in là), e che segnala il passaggio dal neutro-acido all’alcalino. La fenolftaleina ha anche un altro impiego, molto più casalingo: è un famoso lassativo. Non so se si usi ancora (anni fa dicevano che era troppo irritante), ma se provate a pensare a un lassativo molto pubblicizzato che vi è passato per casa (il nome fatelo voi) è molto probabile che ci sia ancora dentro la fenolftaleina.
Un altro indicatore famosissimo è il metilarancio, o arancio di metile, che è giallo in ambiente alcalino e rosso in ambiente acido; ma la lista completa sarebbe lunghissima (ricordo solo il bel verde brillante del ditizone, che serve per l’analisi dei solfati, e che poi vira al rosso) .
Gli indicatori sono ancora oggi utili perché con molti di loro si fabbricano le famose “cartine” (oggi listelli di plastica) che danno indicazioni veloci e molto chiare anche se non sempre precisissime. Con le cartine oggi si analizza un po’ di tutto, non solo il pH: ci sono cartine per i perossidi (l’acqua ossigenata: da bianche ad azzurrine), per i solfiti (diventano rosse), e perfino per sapere se è in arrivo un bimbo nuovo.
La “cartina di tornasole” è diventata proverbiale, come dicevo. Serve anche per noi, idealmente, per riconoscere i nostri comportamenti: perché la cartina di tornasole è impietosa, dice soltanto la verità, e non è colpa sua se quell’acqua in apparenza neutra è invece diventata acida o alcalina. La cartina di tornasole, cambiando vistosamente di colore, non ha colpe sul contenuto dell’acqua: si limita a segnalare che cosa c’è dentro a quell’acqua.
Ne parlavo pochi giorni fa con un’amica, a proposito dei dibattiti recenti sulle “radici cristiane” e sul “pericolo islamico”. Le ho detto che, in fin dei conti, il problema siamo noi: quanti di noi vanno ancora in chiesa? Quanti futuri preti ci sono nei seminari delle nostre città, e quante future suore? Quanti di noi hanno due o tre famiglie e predicano l’indissolubilità del matrimonio? Quanti di noi usano il Crocifisso come un’arma o come una scusa per fare violenze e pestaggi?
Forse la funzione degli islamici, qui e oggi, è di fare da cartina da tornasole: il problema non sono loro, siamo noi. Così concludevo: e chissà se sono stato chiaro. E chissà se sono stato chiaro oggi, con questo scritto: essere in laboratorio e avere davanti la fenolftaleina che cambia colore è un conto, doverne parlare qui è molto più difficile.
Il mio professore di Chimica usò questo esempio per introdurre l’argomento degli Indicatori, che in chimica sono fondamentali. Il più famoso degli Indicatori è il tornasole, ormai proverbiale anche al di fuori del gergo dei chimici (la famosa “cartina di tornasole”), che la Garzantina descrive così: «Tornasole: sostanza colorante ricavata da alcuni licheni, costituita da diversi composti coloranti di cui il principale è l'azolitmina; se ne prepara una tintura che ha la proprietà di colorarsi in azzurro in ambiente alcalino e in rosso in ambiente acido, donde il suo impiego quale indicatore, in forma di cartine al tornasole (strisce di carta imbevute di soluzioni di tornasole).»
A questo punto bisognerebbe introdurre la nozione di pH, che però richiederebbe una spiegazione lunga e quasi filosofica (non è solo una questione di acidità e di alcalinità, è un concetto che sta fra la matematica e lo yin-yang delle filosofie orientali) e quindi proverò a parlarne più avanti.
Comunque sia, gli Indicatori, in chimica, servivano, e servono ancora, per indicare il punto preciso in cui c’è una variazione di pH. Oggi in laboratorio si usano quasi soltanto macchine, elettrodi e potenziometri, e l’uso degli indicatori nelle analisi è andato via via calando d’importanza, ma avere un colorante che mostri – visivamente - il passaggio dall’acido al basico al neutro è stata una gran bella scoperta. Dapprima fu una osservazione casuale, come nel caso del tornasole; poi si cercarono scientificamente coloranti e composti chimici adatti allo scopo.
Per essere un buon indicatore, occorre che il viraggio (cioè il cambiamento del colore) sia molto netto, il più netto possibile; non è quindi il caso del tè, che cambia colore in modo poco spettacolare. Ma con altri infusi ha funzionato, e funziona ancora: i primi ad accorgersene furono probabilmente i tintori di tessuti, poi gli alchimisti, e infine dal ‘700 in poi, con l’Illuminismo e la nascita della scienza moderna, la scoperta non fu più lasciata al caso ma divenne sempre più raffinata.
Il più comune degli Indicatori è la fenolftaleina, che passa di botto dall’incolore al rosa intenso (quasi fucsia, ma se compare il fucsia significa che siamo andati troppo in là), e che segnala il passaggio dal neutro-acido all’alcalino. La fenolftaleina ha anche un altro impiego, molto più casalingo: è un famoso lassativo. Non so se si usi ancora (anni fa dicevano che era troppo irritante), ma se provate a pensare a un lassativo molto pubblicizzato che vi è passato per casa (il nome fatelo voi) è molto probabile che ci sia ancora dentro la fenolftaleina.
Un altro indicatore famosissimo è il metilarancio, o arancio di metile, che è giallo in ambiente alcalino e rosso in ambiente acido; ma la lista completa sarebbe lunghissima (ricordo solo il bel verde brillante del ditizone, che serve per l’analisi dei solfati, e che poi vira al rosso) .
Gli indicatori sono ancora oggi utili perché con molti di loro si fabbricano le famose “cartine” (oggi listelli di plastica) che danno indicazioni veloci e molto chiare anche se non sempre precisissime. Con le cartine oggi si analizza un po’ di tutto, non solo il pH: ci sono cartine per i perossidi (l’acqua ossigenata: da bianche ad azzurrine), per i solfiti (diventano rosse), e perfino per sapere se è in arrivo un bimbo nuovo.
La “cartina di tornasole” è diventata proverbiale, come dicevo. Serve anche per noi, idealmente, per riconoscere i nostri comportamenti: perché la cartina di tornasole è impietosa, dice soltanto la verità, e non è colpa sua se quell’acqua in apparenza neutra è invece diventata acida o alcalina. La cartina di tornasole, cambiando vistosamente di colore, non ha colpe sul contenuto dell’acqua: si limita a segnalare che cosa c’è dentro a quell’acqua.
Ne parlavo pochi giorni fa con un’amica, a proposito dei dibattiti recenti sulle “radici cristiane” e sul “pericolo islamico”. Le ho detto che, in fin dei conti, il problema siamo noi: quanti di noi vanno ancora in chiesa? Quanti futuri preti ci sono nei seminari delle nostre città, e quante future suore? Quanti di noi hanno due o tre famiglie e predicano l’indissolubilità del matrimonio? Quanti di noi usano il Crocifisso come un’arma o come una scusa per fare violenze e pestaggi?
Forse la funzione degli islamici, qui e oggi, è di fare da cartina da tornasole: il problema non sono loro, siamo noi. Così concludevo: e chissà se sono stato chiaro. E chissà se sono stato chiaro oggi, con questo scritto: essere in laboratorio e avere davanti la fenolftaleina che cambia colore è un conto, doverne parlare qui è molto più difficile.
sabato 21 novembre 2009
Acquario
Per terra i tappeti persiani originari, solo la guida rossa è un'innovazione. Nel primo dei tre salotti, tappezzato di ritratti della severa moglie-manager Isabella (...) c'è la poltrona preferita da de Chirico, isolata, rivestita da una sobria copertina di cotone grigio. È qui che de Chirico dopo cena guardava la televisione. Il suo programma preferito era Carosello, il suo vezzo era mettersi davanti al televisore azzerando l'audio, anche quando c'era il Festival di Sanremo, come fosse un acquario.
( da “De Chirico: una visita alla casa-museo”, articolo di Laura Laurenzi, La Repubblica 18 novembre 2007 )
Confesso: lo faccio spesso anch’io...
( da “De Chirico: una visita alla casa-museo”, articolo di Laura Laurenzi, La Repubblica 18 novembre 2007 )
Confesso: lo faccio spesso anch’io...
Gaffe ( II )
- Di che colore sono i miei occhi?
- Come i miei?
- No, sono verdi.
Ma eravamo al buio, che ne sapevo io. Al buio, o in penombra, gli occhi verdi possono ben sembrare castani. O no? (Lo so che non è una scusa, ma io al colore degli occhi ho sempre badato poco).
- Come i miei?
- No, sono verdi.
Ma eravamo al buio, che ne sapevo io. Al buio, o in penombra, gli occhi verdi possono ben sembrare castani. O no? (Lo so che non è una scusa, ma io al colore degli occhi ho sempre badato poco).
venerdì 20 novembre 2009
Gaffe ( I )
La mia amica thai ha un suo bellissimo ritratto, in costume tradizionale, incorniciato e appeso sul muro alle sue spalle.
Io (pensando di farle un complimento, sembra fatto ieri): Quando hai fatto quel ritratto?
Lei (senza alzare la testa da quello che sta scrivendo, molto seccata): Ieri.
Con le donne, bisogna sempre starci attenti.
Io (pensando di farle un complimento, sembra fatto ieri): Quando hai fatto quel ritratto?
Lei (senza alzare la testa da quello che sta scrivendo, molto seccata): Ieri.
Con le donne, bisogna sempre starci attenti.
mercoledì 18 novembre 2009
To be back to
Era quasi verso sera,
ero dietro, stavo andando,
mi si è aperta la portiera
è cascato giù l’Armando...
(Dario Fo & Enzo Jannacci, L’Armando, 1964 circa)
Quand’ero bambino questa canzone era molto famosa: è una storia di cronaca nera ma nell’interpretazione di Enzo Jannacci diventa tragicomica e ci si dimentica subito del suo significato – per poi magari tornarci sopra alla fine del divertimento (su youtube c’è, per chi volesse vedere e ascoltare).
Il motivo per cui porto qui l’Armando è in quella piccola frase nel secondo verso: “ero dietro”.
I non milanesi, fiorentini e siciliani, marchigiani e calabresi, penseranno che significhi che il protagonista della storia era seduto sul sedile posteriore; oppure che si tratti di un discorso interrotto, una frase smozzicata.
Che sia una frase interrotta è certo, ma “ero dietro”, “essere dietro a”, è una frase molto tipica del milanese, e anche del comasco e del varesotto. L’essere fisicamente dietro a qualcosa non c’entra: “ero dietro a lavorare”, o meglio ancora “ero a dietro a lavorare” significa semplicemente “stavo lavorando”.
Viene direttamente dal dialetto: “vess adré de fa”, dove “vess” è il verbo essere all’infinito. In prima persona si dirà “seri adré de fa”, o magari “seri adré de dì” (stavo per dire), eccetera. In terza persona, “l’era adré de fa”, “stava facendo”, con “lü” (cioè lui, esso, egli) sottinteso.
Non sono uno studioso e non so che origine abbia, ma è veramente un modo di parlare molto comune, naturale, che individua subito chi ancora parla in dialetto milanese. So che molte parole milanesi hanno origine dalla dominazione spagnola dei tempi dei Promessi Sposi (come “cadréga”, che è la sedia: quasi identica alla parola catalana), o alla più recente dominazione napoleonica, cioè francese; mentre gli austroungarici non hanno lasciato moltissimo e chissà cosa accadrà oggi con arabi e slavi (i sudamericani e gli africani francofoni si inserirebbero, almeno in teoria, in un substrato già esistente). “Vèss adré” sembra francese, chissà se qualcuno può spiegarmene l’origine.
E’ una costruzione di frase a cui sono molto affezionato, e che mi riporta irresistibilmente ai tempi della scuola elementare, quando le maestre beccavano immancabilmente qualche mio compagno di classe che trascriveva pari pari nei compiti quello che ascoltava in casa. Gli “ero dietro”, magari scritti in bella calligrafia, erano immancabilmente rimarcati da maestri e maestre, spesso con sarcasmi del tipo “eri lì dietro? ma cos’eri andato a fare lì dietro, non potevi stare davanti?”.
Dico “i miei compagni di classe” perché a me non capitava: i miei genitori parlavano un italiano perfetto, anche se la loro origine non era molto diversa da quella dei genitori degli altri bambini. E di questo sono molto contento, però porta come conseguenza che io non ho mai imparato a parlare il dialetto, lo ascolto volentieri e lo conosco abbastanza bene, ma quanto a parlarlo è un altro paio di maniche.
E, per inciso, gli anni in cui io facevo le elementari erano proprio quelli in cui diventava famoso Enzo Jannacci, con quel suo “ho buttato giù l’Armando” (pardon: “è cascato giù l’Armando”). Chissà se le maestre di qui correggono ancora gli “ero dietro”...
PS: ovviamente, la "traduzione in inglese" che fa da titolo è del tutto immaginaria...
ero dietro, stavo andando,
mi si è aperta la portiera
è cascato giù l’Armando...
(Dario Fo & Enzo Jannacci, L’Armando, 1964 circa)
Quand’ero bambino questa canzone era molto famosa: è una storia di cronaca nera ma nell’interpretazione di Enzo Jannacci diventa tragicomica e ci si dimentica subito del suo significato – per poi magari tornarci sopra alla fine del divertimento (su youtube c’è, per chi volesse vedere e ascoltare).
Il motivo per cui porto qui l’Armando è in quella piccola frase nel secondo verso: “ero dietro”.
I non milanesi, fiorentini e siciliani, marchigiani e calabresi, penseranno che significhi che il protagonista della storia era seduto sul sedile posteriore; oppure che si tratti di un discorso interrotto, una frase smozzicata.
Che sia una frase interrotta è certo, ma “ero dietro”, “essere dietro a”, è una frase molto tipica del milanese, e anche del comasco e del varesotto. L’essere fisicamente dietro a qualcosa non c’entra: “ero dietro a lavorare”, o meglio ancora “ero a dietro a lavorare” significa semplicemente “stavo lavorando”.
Viene direttamente dal dialetto: “vess adré de fa”, dove “vess” è il verbo essere all’infinito. In prima persona si dirà “seri adré de fa”, o magari “seri adré de dì” (stavo per dire), eccetera. In terza persona, “l’era adré de fa”, “stava facendo”, con “lü” (cioè lui, esso, egli) sottinteso.
Non sono uno studioso e non so che origine abbia, ma è veramente un modo di parlare molto comune, naturale, che individua subito chi ancora parla in dialetto milanese. So che molte parole milanesi hanno origine dalla dominazione spagnola dei tempi dei Promessi Sposi (come “cadréga”, che è la sedia: quasi identica alla parola catalana), o alla più recente dominazione napoleonica, cioè francese; mentre gli austroungarici non hanno lasciato moltissimo e chissà cosa accadrà oggi con arabi e slavi (i sudamericani e gli africani francofoni si inserirebbero, almeno in teoria, in un substrato già esistente). “Vèss adré” sembra francese, chissà se qualcuno può spiegarmene l’origine.
E’ una costruzione di frase a cui sono molto affezionato, e che mi riporta irresistibilmente ai tempi della scuola elementare, quando le maestre beccavano immancabilmente qualche mio compagno di classe che trascriveva pari pari nei compiti quello che ascoltava in casa. Gli “ero dietro”, magari scritti in bella calligrafia, erano immancabilmente rimarcati da maestri e maestre, spesso con sarcasmi del tipo “eri lì dietro? ma cos’eri andato a fare lì dietro, non potevi stare davanti?”.
Dico “i miei compagni di classe” perché a me non capitava: i miei genitori parlavano un italiano perfetto, anche se la loro origine non era molto diversa da quella dei genitori degli altri bambini. E di questo sono molto contento, però porta come conseguenza che io non ho mai imparato a parlare il dialetto, lo ascolto volentieri e lo conosco abbastanza bene, ma quanto a parlarlo è un altro paio di maniche.
E, per inciso, gli anni in cui io facevo le elementari erano proprio quelli in cui diventava famoso Enzo Jannacci, con quel suo “ho buttato giù l’Armando” (pardon: “è cascato giù l’Armando”). Chissà se le maestre di qui correggono ancora gli “ero dietro”...
PS: ovviamente, la "traduzione in inglese" che fa da titolo è del tutto immaginaria...
lunedì 16 novembre 2009
Controcorrente
Over an ocean away -
Like salmon...
(Robert Wyatt, To Maryan, da "Shleep", 1997)
Ad andare controcorrente si fa fatica, e si rischia seriamente la vita. Bisognerà dunque diffidare di chi dice di essere andato sempre controcorrente e si presenta elegante, azzimato, ricco e famoso. In qualche suo momento sarà magari anche forse andato controcorrente, ma sarà stato sicuramente un tratto molto corto.
Like salmon...
(Robert Wyatt, To Maryan, da "Shleep", 1997)
Ad andare controcorrente si fa fatica, e si rischia seriamente la vita. Bisognerà dunque diffidare di chi dice di essere andato sempre controcorrente e si presenta elegante, azzimato, ricco e famoso. In qualche suo momento sarà magari anche forse andato controcorrente, ma sarà stato sicuramente un tratto molto corto.
domenica 15 novembre 2009
Nuovi criminali (2)
Quanto inquina un’automobile chiusa in garage con il motore spento? Quanto consuma una lampadina Edison da 100 watt se non viene accesa?
Queste e altre domande mi tormentano, e non poco. Infatti, avendo l’età giusta per ricordarmene, ricordo ogni passaggio nella vita del movimento ecologista: a partire dagli anni ’60 quando accompagnavo mio papà dal meccanico e non riuscivo a respirare nell’officina, ma il meccanico rideva e diceva che non avevo il fisico per respirare quei fumi; e ancora a partire da quegli anni ’60 in cui passando accanto a un tombino vedevo sorgere spettacolari parallelepipedi di schiuma da detersivo alti due metri. O a partire dagli anni ’70, quando andavo a scuola a Como e ogni giorno nel passare sul ponte si scommetteva: “di che colore sarà oggi il torrente?”. Eccetera.
Poi pian piano si sono cominciati a costruire i depuratori, sono arrivate le prime analisi sulla qualità dell’aria, si sono introdotte le marmitte catalitiche, qualcosa si è fatto. Un passo avanti e tre indietro, a dire il vero: ma quando sono andato in vacanza a Malta, o in Marocco, e ho respirato i gas di scarico delle vecchie automobili che ancora vi circolano mi sono reso conto che l’introduzione qui da noi delle marmitte catalitiche ha portato a buoni risultati, almeno da quel punto di vista.
Quello che non mi aspettavo, a partire da quegli anni ’60 e arrivando fin qui, è di scoprire che il colpevole ero io. Il colpevole dell’inquinamento, signore signori, sono io: infatti sono possessore di un’automobile Euro2 e – udite udite – ho ben quattro fra lampadari e plafoniere con le obsolete lampadine Edison.
Che poi le lampadine in quelle stanze siano quasi sempre spente, cosa vuoi che importi? L’importante è che quando vado al supermercato e metto la mano nell’apposito scomparto per prendere la crescenza o lo yogurt la mia mano senta il caratteristico tepore da lampadina (che fa tanto bene alla mia crescenza, suppongo), o che il frigo dove prendo il cartone del latte sia ben aperto e spazioso (sono già tre volte che devo buttar via il latte prima che sia scaduto: penso di sapere perché). E non importa neanche sapere che le lampadine a fluorescenza sono un ricettacolo di veleni, sali di mercurio in primo luogo (non il mercurio dei termometri, che in teoria potrebbe anche sgusciare via dal nostro intestino: ma i sali di mercurio, che vengono subito assorbiti da tutto l’organismo), e che se si rompono bisogna stare attenti a come le si maneggia, e che se le si vuol buttare via sono un rifiuto speciale.
Insomma, non importa nemmeno che io abbia un’automobile Euro2: una Euro2, dico, non una balilla o una 127 del 1972, e che ormai la usi pochissimo (due o tre pieni di benzina all’anno). Il colpevole sono io: me lo ripetono ogni giorno tv e giornali, sono io che inquino, sono io che consumo, sono io il responsabile della rovina del mondo, e adesso c’è anche un’ordinanza della Regione Lombardia che mi limita fortemente nell’uso dell’automobile. Insomma, la morale è che a breve dovrò spendere diecimila euro per un’auto nuova che non mi serve (puro consumismo) e anche un qualche centinaio di euro per rifare lampadari, plafoniere e lampade da tavolo (le lampadine a incandescenza sono pesantissime: avete già provato? le lampade da tavolo si piegano sotto l’immane peso, i lampadari rischiano di cadere, nelle plafoniere non c’è abbastanza spazio): chissà perché, con questi governi finisce sempre così.
Intanto, sopra di me nel cielo azzurro di Lombardia, quel cielo che è così bello quando è bello (cioè quasi mai, in questo inquinatissimo XXI secolo), sento il rombo di un elicottero che passa lontano. Vuoi vedere che è proprio lui, il formigone Governatori, che passa sopra le mia testa per evitare il traffico che lo impegola e gli impedisce di correre in nostro soccorso quando c’è bisogno? O magari è l’elicottero, o il jet privato, di Un Altro Importante Uomo Politico o D’Affari? (A proposito: quanto inquina un elicottero, o un jet privato? Si sono mai fatte stime in proposito? Vuoi vedere che aeroplani ed elicotteri sono ad emissioni zero, e io – io, l’inquinatore - non lo sapevo?)
Queste e altre domande mi tormentano, e non poco. Infatti, avendo l’età giusta per ricordarmene, ricordo ogni passaggio nella vita del movimento ecologista: a partire dagli anni ’60 quando accompagnavo mio papà dal meccanico e non riuscivo a respirare nell’officina, ma il meccanico rideva e diceva che non avevo il fisico per respirare quei fumi; e ancora a partire da quegli anni ’60 in cui passando accanto a un tombino vedevo sorgere spettacolari parallelepipedi di schiuma da detersivo alti due metri. O a partire dagli anni ’70, quando andavo a scuola a Como e ogni giorno nel passare sul ponte si scommetteva: “di che colore sarà oggi il torrente?”. Eccetera.
Poi pian piano si sono cominciati a costruire i depuratori, sono arrivate le prime analisi sulla qualità dell’aria, si sono introdotte le marmitte catalitiche, qualcosa si è fatto. Un passo avanti e tre indietro, a dire il vero: ma quando sono andato in vacanza a Malta, o in Marocco, e ho respirato i gas di scarico delle vecchie automobili che ancora vi circolano mi sono reso conto che l’introduzione qui da noi delle marmitte catalitiche ha portato a buoni risultati, almeno da quel punto di vista.
Quello che non mi aspettavo, a partire da quegli anni ’60 e arrivando fin qui, è di scoprire che il colpevole ero io. Il colpevole dell’inquinamento, signore signori, sono io: infatti sono possessore di un’automobile Euro2 e – udite udite – ho ben quattro fra lampadari e plafoniere con le obsolete lampadine Edison.
Che poi le lampadine in quelle stanze siano quasi sempre spente, cosa vuoi che importi? L’importante è che quando vado al supermercato e metto la mano nell’apposito scomparto per prendere la crescenza o lo yogurt la mia mano senta il caratteristico tepore da lampadina (che fa tanto bene alla mia crescenza, suppongo), o che il frigo dove prendo il cartone del latte sia ben aperto e spazioso (sono già tre volte che devo buttar via il latte prima che sia scaduto: penso di sapere perché). E non importa neanche sapere che le lampadine a fluorescenza sono un ricettacolo di veleni, sali di mercurio in primo luogo (non il mercurio dei termometri, che in teoria potrebbe anche sgusciare via dal nostro intestino: ma i sali di mercurio, che vengono subito assorbiti da tutto l’organismo), e che se si rompono bisogna stare attenti a come le si maneggia, e che se le si vuol buttare via sono un rifiuto speciale.
Insomma, non importa nemmeno che io abbia un’automobile Euro2: una Euro2, dico, non una balilla o una 127 del 1972, e che ormai la usi pochissimo (due o tre pieni di benzina all’anno). Il colpevole sono io: me lo ripetono ogni giorno tv e giornali, sono io che inquino, sono io che consumo, sono io il responsabile della rovina del mondo, e adesso c’è anche un’ordinanza della Regione Lombardia che mi limita fortemente nell’uso dell’automobile. Insomma, la morale è che a breve dovrò spendere diecimila euro per un’auto nuova che non mi serve (puro consumismo) e anche un qualche centinaio di euro per rifare lampadari, plafoniere e lampade da tavolo (le lampadine a incandescenza sono pesantissime: avete già provato? le lampade da tavolo si piegano sotto l’immane peso, i lampadari rischiano di cadere, nelle plafoniere non c’è abbastanza spazio): chissà perché, con questi governi finisce sempre così.
Intanto, sopra di me nel cielo azzurro di Lombardia, quel cielo che è così bello quando è bello (cioè quasi mai, in questo inquinatissimo XXI secolo), sento il rombo di un elicottero che passa lontano. Vuoi vedere che è proprio lui, il formigone Governatori, che passa sopra le mia testa per evitare il traffico che lo impegola e gli impedisce di correre in nostro soccorso quando c’è bisogno? O magari è l’elicottero, o il jet privato, di Un Altro Importante Uomo Politico o D’Affari? (A proposito: quanto inquina un elicottero, o un jet privato? Si sono mai fatte stime in proposito? Vuoi vedere che aeroplani ed elicotteri sono ad emissioni zero, e io – io, l’inquinatore - non lo sapevo?)
giovedì 12 novembre 2009
The antique people ( II )
Tornando a “Goodbye and Hello”, a Larry Beckett & Tim Buckley, prima di andare avanti con la traduzione devo affrontare un’altra frase che mi risuona spesso nella memoria. Dopo “afraid of the tax”, di cui ho parlato nel post precedente (la “gente antica”, che “ha paura delle tasse”), si tratta di “petrified by tradition, in a nightmare they stagger”: che è nella seconda strofa.
In attesa di prendere il dizionario e capire cosa significa “stagger”, il resto è chiarissimo ed è un’immagine ancora una volta molto forte e inaspettata: la tradizione, che provoca incubi e che pietrifica.
La tradizione vista come Medusa nel mito di Perseo: Medusa pietrifica con lo sguardo, Perseo la sconfigge usando uno specchio che le riflette addosso i suoi poteri. Quindi Perseo porta con sè la testa di Medusa, e la userà per pietrificare il mostro marino (un drago?) e salvare Andromeda incatenata ad uno scoglio.
Le tradizioni non sono eterne: hanno anch’esse una data di nascita e una data di morte; il che significa che qualcuno le ha inventate, e che al loro primo apparire erano delle novità, spesso viste come pericolose e antipatiche, innaturali. Sarà poi il corso del tempo a dar loro un’aura di sacralità e di eternità.
Per esempio la messa cattolica in latino, quella che si definisce Tradizione, nasce alla fine del ‘500, con il Concilio di Trento: prima la Messa si diceva in un altro modo. E’ vero che la Messa tridentina riprende le tradizioni precedenti, ma agli inizi del XVII secolo tutti i preti e i fedeli furono costretti a studiare la novità e ad abbandonare il rito “così come lo avevano sempre fatto”.
Ho imparato questo concetto, della Tradizione che non c’è sempre stata ma ha un punto d’inizio, da un libro al quale sono molto affezionato, e che è stato scritto da un chimico: un chimico che sarebbe diventato molto famoso in seguito, ma che all’epoca del racconto era un ragazzo di venticinque anni all’inizio della sua carriera lavorativa – e che molti a questo punto avranno già riconosciuto. Ne riporto qui un passo, ricordando – un piccolo consiglio pratico - che le vernici sono quasi tutte a base di oli e dei loro derivati; e che quindi se vi sporcate le mani e non volete usare l’acquaragia, che puzza, per pulirvi basterà andare in cucina e lavarsi le mani con un qualsiasi olio di semi (o d’oliva, che però costa di più).
C'era pesce come secondo piatto, ma il vino era rosso. Versino, capetto della manutenzione, disse che erano tutte storie, purché il vino e il pesce fossero buoni: lui era sicuro che la maggior parte dei sostenitori dell'ortodossia non avrebbero distinto ad occhi chiusi un bicchiere di bianco da uno di rosso. Bruni, del reparto Nitro, chiese se qualcuno sapeva perché il pesce vada col bianco: si udirono vari commenti scherzosi, ma nessuno seppe rispondere in modo esauriente. Il vecchio Cometto aggiunse che la vita è piena di usanze la cui radice non è piú rintracciabile: il colore della carta da zucchero, l'abbottonatura diversa per uomini e donne, la forma della prua delle gondole, e le innumerevoli compatibilità ed incompatibilità alimentari, di cui appunto quella in questione era un caso particolare: ma del resto, perché obbligatoriamente lo zampone con le lenticchie, e il cacio sui maccheroni?
Io feci un rapido ripasso mentale per accertarmi che nessuno dei presenti l'avesse ancora udita, poi mi accinsi a raccontare la storia della cipolla nell'olio di lino cotto. Quella, infatti, era una mensa di verniciai, ed è noto che l'olio di lino cotto (ölidlinköit, in piemontese) ha costituito per molti secoli la materia prima fondamentale della nostra arte. (...) Per ritornare dunque all'olio di lino cotto, raccontai ai commensali che in un ricettario stampato verso il 1942 avevo trovato il consiglio di introdurre nell'olio, verso la fine della cottura, due fette di cipolla, senza alcun commento sullo scopo di questo curioso additivo. Ne avevo parlato nel 1949 col Signor Giacomasso Olindo, mio predecessore e maestro, che aveva allora superato la settantina e faceva vernici da cinquant'anni, e lui, sorridendo benevolmente sotto i folti baffi bianchi, mi aveva spiegato che in effetti, quando lui era giovane e cuoceva l'olio personalmente, i termometri non erano ancora entrati nell'uso: si giudicava della temperatura della cottura osservando i fumi, o sputandoci dentro, oppure, piú razionalmente, immergendo nell'olio una fetta di cipolla infilata sulla punta di uno spiedo; quando la cipolla cominciava a rosolare, la cottura era buona. Evidentemente, col passare degli anni, quella che era stata una grossolana operazione di misura aveva perso il suo significato, e si era trasformata in una pratica misteriosa e magica. (...) A questo punto io feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l'arte da cui sono state attinte: decaduta l'equitazione al rango di sport costoso, sono ormai inintelligibili, e suonano strambe, le espressioni «ventre a terra» e «mordere il freno»; scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, in cui per secoli si era macinato il grano (e le vernici), ha perso ogni riferimento la frase «macinare» o «mangiare a quattro palmenti», che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta. Allo stesso modo, poiché anche la Natura è conservatrice, portiamo nel coccige quanto resta di una coda scomparsa. Bruni ci raccontò un fatto in cui era stato lui stesso implicato, ed a misura che raccontava, io mi sentivo invadere da sensazioni dolci e tenui che cercherò poi di chiarire (...)
(Primo Levi, da “Il Sistema Periodico”, il racconto intitolato “Cromo”)
Che cosa ci fa una cipolla nella ricetta industriale per fare le vernici? Niente, a questo punto: i termometri erano disponibili e costavano meno che in passato, non c’era più bisogno di misurare la temperatura dell’olio come si fa a casa con il soffritto; ma gli operai e i tecnici continuavano a usarla, perché “guai, non si sa mai”. Il racconto prosegue ed è uno dei miei preferiti in assoluto, e prevede un colpo di scena: a iniziare una Tradizione fu proprio Primo Levi in persona, che la racconta sorridendo. Una Tradizione ormai insensata, ma si continuava a fare: perchè “guai, non si sa mai, se non fai così magari poi non viene”.
Insomma, le Tradizioni sono una bella cosa ma è sempre utile ogni tanto interrogarsi su di esse, rinfrescarle, ripensarci. Di solito sono i giovani che contestano le Tradizioni, per poi diventarne gelosi conservatori quando hanno capito a cosa servono; in questi ultimi decenni è però capitato il contrario e non mi sembra buon segno.
PS: dimenticavo: “nightmare” è l’incubo, e “to stagger” significa “avanzare barcollando”. “Pietrificati dalla Tradizione, avanzano barcollando in un incubo...”
(continua) (forse)
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martedì 10 novembre 2009
Dichiarazione d'intenti
Delio Tessa, grandissimo poeta milanese, scrisse questa sua "dichiarazione d'intenti" nel 1932: allora bastava scendere in strada, o aprire una finestra, per sentire parlare il dialetto milanese. Alle volte anche lo scendere in strada era superfluo: anche nelle famiglie benestanti, come quella dell'avvocato Tessa, il milanese era la lingua parlata comunemente. Io ho fatto in tempo a conoscere molte di quelle antiche e care persone, ed è per questo che amo moltissimo i miei dialetti - anche se in casa mia si è sempre parlato italiano.
Dico, e sottolineo, "i miei dialetti": plurale, perché di dialetto mica ce n'è uno solo. Purtroppo, l'uso del dialetto è stato oggi sporcato da persone poco attente (per non dir di peggio) e mi tocca vergognarmi di essere lombardo-veneto, cosa che non avrei mai pensato potesse succedere. Se va avanti così, tra un po' mi toccherà prendere le distanze anche da Parma e dall'altra metà della mia famiglia...Oggi capisco cos'hanno sempre provato i siciliani: a loro basta aprire bocca per sentirsi dare del mafioso, oggi tocca a me di sentirmi dare del razzista. Eppure Milano, la Milano di Delio Tessa, di Gino Bramieri, di Giovanni Trapattoni, era tutta un'altra cosa: come è potuto succedere? A che punto abbiamo sbagliato strada?
Delio Tessa individua una delle caratteristiche fondamentali dei dialetti: che non stanno mai fermi, ogni giorno cambiano, mal sopportano di essere scritti e organizzati in dizionari, men che meno si insegnano a scuola. I dialetti devono essere nell'aria, si ascolta e si ripete: come il canto degli uccelli.
Ma già, dove sono finiti gli uccelli di Milano? Sono rimasti solo i piccioni, e qualche passero mendicante; più qualche imboscato clandestino, che però sta ben attento a non farsi notare troppo.
Tempi duri, per i dialetti.
Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo. Non è morta la lingua milanese come nessun dialetto morrà. Creda pur taluno, sordo e cieco, che decadenza vi sia perché le vecchie forme, le usate espressioni più non trova, ma decadenza non v'è.
In perfetta aderenza con la necessità contingente, la parlata del popolo è simile all'architettura; a nuova vita, nuovo stile; chi non comprende, chi si lamenta, è un sorpassato.
Ho fatto - senza visibili frutti - del dialetto che parla il sobborgo uno studio paziente ed ora qui del mio lavoro vorrei almeno alcuni punti fugacemente notare.
Fonetica.
Suprema legge ! Tutto è musica nella sincera espressione popolaresca. All'esigenza, vorrei dire all'intransigenza della fonetica di volta in volta tutto è sacrificato: grammatica, ortografia, metrica e vocabolario. Mi occorse di chiedere il significato e l'origine di alcune di quelle oscure parole a chi le usa e forse le inventa. Incertezza o silenzio. Mi son convinto così che alle fonti spesso basta un suono a rendere un'idea, tanto basta che i più efficaci fra essi sono intuiti, se non compresi, dai più.
Vocabolario.
Ho pochissima simpatia per questo libro. A chi scrive in lingua non pure, ma ai cultori di lettere dialettali sembrami il vocabolario un inciampo al cammino. Direi quasi che il vocabolario sta alla lingua come la codificazione al diritto, e l'uno e l'altra tendono a fermare ciò che è in perpetuo movimento. Crea la gente parlando i suoi vocaboli di tempo in tempo.
Le più belle, le più efficaci parole rimangono, se ne vanno le altre. Il popolo non teme i neologismi; li ama, li cerca, li forma. Una lingua senza nuovi apporti è un organismo che vive di cellule morte.
Osservo pure che il dialetto desidera alcune volte parole non sue. Ricordo il Porta, il grandissimo Porta. Nel Marchionn che è la poesia ove la lengua del verzée più genuinamente riluce, non si perita l'autore di usare il vocabolo "alba" , parola italiana e non milanese. Si è perché il poeta, contro ogni remora puristica, voleva in quel punto una tinta chiara che solo la parola "alba" gli diede.
Ortografia.
Non è fissa, ma mobile. Arriva persino all'apparente assurdo di presentare la medesima parola scritta in maniera diversa secondo la necessità del contesto. Esempio: "gh'hin" : ci sono, la vedo scritta per solito con una sola n , ma nella frase "gh'hinn minga" la vedrei con due a dar forza alla negazione.
Lo stesso dicasi per gli accenti. Essi in alcuni casi hanno soltanto valore di notazione musicale. Esempio: la particella «sù » è accentata in questa frase: « cascell sù. » Non lo è in quest'altra: « che intrattanta in su on lett ».
Nel primo caso c'è un'accentazione fonica che batte sul monosillabo « sù » ed è accentato ; nel secondo per contro la voce cade sulla parola « lett » e l'accento scompare.
Grammatica.
Scrittor dialettale alle fonti rimango. Penso ai fanciulli che parlano. Che è mai la grammatica per essi? E pur, come parlano! Verranno le regole, poi, standardizzando gli eloqui, normali e piatti.
Bella la costruzione milanese latineggiante col verbo in fine! L'oggetto, ciò che subito interessa, apre la frase e il verbo è posto qua o là negli angoli morti o in fondo. Tutto sembra essere disposto in scala di valori, dal più al meno importante.
Metrica.
Trovo un verso del «Purgatorio» : « Gloria in excelsis tutti Deo ». Perché questo endecasillabo sia veramente un endecasillabo le tre vocali i-a-i del « Gloria in » devono prendere una sillaba per ciascuna, il che, in vero, potrebbe sembrare un po' troppo. Eppure la grandiosità del canto è tutta lì, è in quello scoppio del « Gloria » , è nella declamazione larga di quelle tre parole. Non mi spaventa dunque un ottonario che zoppica su sette piedi...
...e le tira... ...e le tira... la Morte trascina la sua vittima così, e il verso pure va strascicato come l'immagine.
Assonanze e rime.
Il popolo nelle sue cantilene e le une e le altre musicalmente dispone. Ecco l'annuncio della primavera:
O sô o sô ve' fora
con la campana d'ora
col campanin d'argent...
...sô ...sô... fà bell temp!
Nei primi due versi, nell'immagine calda, nella rima esatta vedo la luce! negli altri due, nell'assonanza vaga, alita la brezza primaverile. ...comme un vent frais dans un ciel clair... ...Baudelaire!...
Parole ripetute.
Come la gente parlando ripete e insiste nella parola che assomma il concetto! M'è sembrata questa una delle più spiccate caratteristiche del discorrer popolare. C'è un leit-motiv nel periodo che sempre ritorna, c'è un chiodo che si vuol mandar sempre più addentro!
Confesso, ma non pentito, mi preparo all'anatema della comunione sacrilega...
Delio Tessa, febbraio 1932. (Dichiarazione, per L'è el dì di mort, alégher!)
Dico, e sottolineo, "i miei dialetti": plurale, perché di dialetto mica ce n'è uno solo. Purtroppo, l'uso del dialetto è stato oggi sporcato da persone poco attente (per non dir di peggio) e mi tocca vergognarmi di essere lombardo-veneto, cosa che non avrei mai pensato potesse succedere. Se va avanti così, tra un po' mi toccherà prendere le distanze anche da Parma e dall'altra metà della mia famiglia...Oggi capisco cos'hanno sempre provato i siciliani: a loro basta aprire bocca per sentirsi dare del mafioso, oggi tocca a me di sentirmi dare del razzista. Eppure Milano, la Milano di Delio Tessa, di Gino Bramieri, di Giovanni Trapattoni, era tutta un'altra cosa: come è potuto succedere? A che punto abbiamo sbagliato strada?
Delio Tessa individua una delle caratteristiche fondamentali dei dialetti: che non stanno mai fermi, ogni giorno cambiano, mal sopportano di essere scritti e organizzati in dizionari, men che meno si insegnano a scuola. I dialetti devono essere nell'aria, si ascolta e si ripete: come il canto degli uccelli.
Ma già, dove sono finiti gli uccelli di Milano? Sono rimasti solo i piccioni, e qualche passero mendicante; più qualche imboscato clandestino, che però sta ben attento a non farsi notare troppo.
Tempi duri, per i dialetti.
Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo. Non è morta la lingua milanese come nessun dialetto morrà. Creda pur taluno, sordo e cieco, che decadenza vi sia perché le vecchie forme, le usate espressioni più non trova, ma decadenza non v'è.
In perfetta aderenza con la necessità contingente, la parlata del popolo è simile all'architettura; a nuova vita, nuovo stile; chi non comprende, chi si lamenta, è un sorpassato.
Ho fatto - senza visibili frutti - del dialetto che parla il sobborgo uno studio paziente ed ora qui del mio lavoro vorrei almeno alcuni punti fugacemente notare.
Fonetica.
Suprema legge ! Tutto è musica nella sincera espressione popolaresca. All'esigenza, vorrei dire all'intransigenza della fonetica di volta in volta tutto è sacrificato: grammatica, ortografia, metrica e vocabolario. Mi occorse di chiedere il significato e l'origine di alcune di quelle oscure parole a chi le usa e forse le inventa. Incertezza o silenzio. Mi son convinto così che alle fonti spesso basta un suono a rendere un'idea, tanto basta che i più efficaci fra essi sono intuiti, se non compresi, dai più.
Vocabolario.
Ho pochissima simpatia per questo libro. A chi scrive in lingua non pure, ma ai cultori di lettere dialettali sembrami il vocabolario un inciampo al cammino. Direi quasi che il vocabolario sta alla lingua come la codificazione al diritto, e l'uno e l'altra tendono a fermare ciò che è in perpetuo movimento. Crea la gente parlando i suoi vocaboli di tempo in tempo.
Le più belle, le più efficaci parole rimangono, se ne vanno le altre. Il popolo non teme i neologismi; li ama, li cerca, li forma. Una lingua senza nuovi apporti è un organismo che vive di cellule morte.
Osservo pure che il dialetto desidera alcune volte parole non sue. Ricordo il Porta, il grandissimo Porta. Nel Marchionn che è la poesia ove la lengua del verzée più genuinamente riluce, non si perita l'autore di usare il vocabolo "alba" , parola italiana e non milanese. Si è perché il poeta, contro ogni remora puristica, voleva in quel punto una tinta chiara che solo la parola "alba" gli diede.
Ortografia.
Non è fissa, ma mobile. Arriva persino all'apparente assurdo di presentare la medesima parola scritta in maniera diversa secondo la necessità del contesto. Esempio: "gh'hin" : ci sono, la vedo scritta per solito con una sola n , ma nella frase "gh'hinn minga" la vedrei con due a dar forza alla negazione.
Lo stesso dicasi per gli accenti. Essi in alcuni casi hanno soltanto valore di notazione musicale. Esempio: la particella «sù » è accentata in questa frase: « cascell sù. » Non lo è in quest'altra: « che intrattanta in su on lett ».
Nel primo caso c'è un'accentazione fonica che batte sul monosillabo « sù » ed è accentato ; nel secondo per contro la voce cade sulla parola « lett » e l'accento scompare.
Grammatica.
Scrittor dialettale alle fonti rimango. Penso ai fanciulli che parlano. Che è mai la grammatica per essi? E pur, come parlano! Verranno le regole, poi, standardizzando gli eloqui, normali e piatti.
Bella la costruzione milanese latineggiante col verbo in fine! L'oggetto, ciò che subito interessa, apre la frase e il verbo è posto qua o là negli angoli morti o in fondo. Tutto sembra essere disposto in scala di valori, dal più al meno importante.
Metrica.
Trovo un verso del «Purgatorio» : « Gloria in excelsis tutti Deo ». Perché questo endecasillabo sia veramente un endecasillabo le tre vocali i-a-i del « Gloria in » devono prendere una sillaba per ciascuna, il che, in vero, potrebbe sembrare un po' troppo. Eppure la grandiosità del canto è tutta lì, è in quello scoppio del « Gloria » , è nella declamazione larga di quelle tre parole. Non mi spaventa dunque un ottonario che zoppica su sette piedi...
...e le tira... ...e le tira... la Morte trascina la sua vittima così, e il verso pure va strascicato come l'immagine.
Assonanze e rime.
Il popolo nelle sue cantilene e le une e le altre musicalmente dispone. Ecco l'annuncio della primavera:
O sô o sô ve' fora
con la campana d'ora
col campanin d'argent...
...sô ...sô... fà bell temp!
Nei primi due versi, nell'immagine calda, nella rima esatta vedo la luce! negli altri due, nell'assonanza vaga, alita la brezza primaverile. ...comme un vent frais dans un ciel clair... ...Baudelaire!...
Parole ripetute.
Come la gente parlando ripete e insiste nella parola che assomma il concetto! M'è sembrata questa una delle più spiccate caratteristiche del discorrer popolare. C'è un leit-motiv nel periodo che sempre ritorna, c'è un chiodo che si vuol mandar sempre più addentro!
Confesso, ma non pentito, mi preparo all'anatema della comunione sacrilega...
Delio Tessa, febbraio 1932. (Dichiarazione, per L'è el dì di mort, alégher!)
lunedì 9 novembre 2009
Il destino, probabilmente
IFIGENIA: Io domandai un segno,
se dovevo restare.
TOANTE: Il segno è che tu
sei ancora qui.
(Goethe, Ifigenia in Tauride, atto 1 scena 3 )
Ma i fatti (o gli dèi?) daranno torto al barbaro re scita Toante. Del resto, chi di noi sa interpretare veramente i segni che il destino (o Qualcun Altro) ci mette davanti ad ogni nostro passo?
se dovevo restare.
TOANTE: Il segno è che tu
sei ancora qui.
(Goethe, Ifigenia in Tauride, atto 1 scena 3 )
Ma i fatti (o gli dèi?) daranno torto al barbaro re scita Toante. Del resto, chi di noi sa interpretare veramente i segni che il destino (o Qualcun Altro) ci mette davanti ad ogni nostro passo?
domenica 8 novembre 2009
Che sia ben chiaro
- De mon coeur soyez soveraine!
- Va ! Je préfère ma chaine !
- Qu'un doux hymène a vous m'enchaine !
- Va !
- Vous verrez un plus beau jour.
- Va ! je préfère cette tour.
Luigi Cherubini, dall'opera "Lodoïska" (Parigi 1791)
(libretto di Claude F. Fillette-Loraux)
Lodoiska spiega chiaramente al perfido Durlinski, che le offre di essere sovrana del suo cuore, di preferirgli le catene che ha addosso. Allora Durlinski si fa poetico: "Che un dolce imene a voi m'incateni..." La risposta è un tantino secca. Durlinski non si scompone: arriverà un giorno migliore... (in francese, giorno e torre fanno rima: al salotto di Durlinski, Lodoiska preferisce la torre in cui è prigioniera).
- Va ! Je préfère ma chaine !
- Qu'un doux hymène a vous m'enchaine !
- Va !
- Vous verrez un plus beau jour.
- Va ! je préfère cette tour.
Luigi Cherubini, dall'opera "Lodoïska" (Parigi 1791)
(libretto di Claude F. Fillette-Loraux)
Lodoiska spiega chiaramente al perfido Durlinski, che le offre di essere sovrana del suo cuore, di preferirgli le catene che ha addosso. Allora Durlinski si fa poetico: "Che un dolce imene a voi m'incateni..." La risposta è un tantino secca. Durlinski non si scompone: arriverà un giorno migliore... (in francese, giorno e torre fanno rima: al salotto di Durlinski, Lodoiska preferisce la torre in cui è prigioniera).
sabato 7 novembre 2009
Fascio
Una spiga da sola non fa forza; tante spighe legate insieme fanno un bastone, qualcosa con cui far leva, il manico di un’ascia. Il simbolo del fascio si spiega con facilità, anche se il disegno in sè è sempre poco chiaro; ed è l’ennesimo simbolo positivo che poi si trova ad essere frainteso e traviato.
Conosco questa spiegazione perché me l’hanno detta i miei vecchi: per chi è nato negli anni ’20 e ’30, in Italia, l’educazione fascista era obbligatoria e non si poteva scappare né svicolare: a scuola, tutti in divisa da balilla o da giovane italiana, e via con l’indottrinamento a martello. Molti conservano un buon ricordo di quei tempi, e li capisco perché i princìpi di base erano buoni, così come buono era il simbolo di partenza; ma mi chiedo come mai ci sia ancora chi non si sappia distinguere tra il principio in sè e la sua applicazione pratica.
Prendiamo il motto numero uno: Dio, Patria e Famiglia. Santo Cielo! La disastrosa campagna di Russia, la perdita dell’Istria e di Fiume, le truppe mandate alla sconfitta in Albania e in Grecia, i racconti stupefatti dei nostri fanti ad El Alamein davanti all’organizzazione militare vera dei tedeschi e degli inglesi, le leggi razziali, le stragi di civili in Libia e in Etiopia, la disfatta dell’8 settembre 1943, la fuga del re, la svendita dell’Italia del Nord ai nazisti con la RSI, morti e feriti, macerie e distruzione... No, meglio dimenticarselo, il fascismo: se solo lo si potesse fare. Almeno c’era la scusa che una volta la gente era ignorante, ma non per sua colpa; oggi essere ignoranti significa proprio non voler sapere né vedere. Il Fascio Littorio viene dall’antica Roma, e all’antica Roma, una romanità d’accatto, fanno capo tutti i simboli fascisti, dall’aquila imperiale in giù: a significare una grandezza militare che era solo cialtroneria e slogan, parole al vento, alpini con le suole di cartone mandati a sicura morte in Ucraina. Ma sull’antica Roma penso che sia facile reperire informazioni, e bene o male a scuola tutti ne abbiamo studiato la storia. In ogni caso, l’antica Roma fu davvero una potenza militare e culturale: una cosa ben diversa dall’Italietta fascista.
Il simbolo del fascio, l’unione fa la forza, tutti insieme per lavorare meglio, sembrerebbe una cosa di sinistra: e infatti Mussolini lo prese dal suo passato di socialista, il movimento dei Fasci Siciliani.
Ecco cosa ne dice wikipedia:
« I Fasci siciliani (anche Fasci Siciliani dei Lavoratori) furono un movimento di massa di ispirazione democratica e socialista, nato in Sicilia fra il proletariato contadino, minatori ed operai dal 1891 al 1893. Fu sopito solo dopo un intervento militare. Sull'esempio dei fasci operai nati nell'Italia centro-settentrionale, il movimento fu un tentativo di riscatto delle classi meno abbienti, inizialmente formato dal proletariato urbano ed a cui si aggiunsero braccianti agricoli, "zolfatai" (minatori), lavoratori della marineria ed operai. Essi protestavano sia contro la proprietà terriera siciliana, sia contro lo Stato che appoggiava apertamente la classe benestante. La società siciliana era allora parecchio arretrata, il feudalesimo pur se abolito (dagli stessi aristocratici illuminati) agli inizi del XIX secolo aveva condizionato la distribuzione delle terre e quindi delle ricchezze. L'unità d'Italia dall'altro lato, non aveva portato i benefici sociali sperati ed il malcontento covava fra i ceti più umili. Il movimento chiedeva fondamentalmente delle riforme, soprattutto fiscali ed una più radicale nell'ambito agrario, che permettesse una revisione dei patti agrari (abolizione delle gabelle) e la redistribuzione delle terre.
I Fasci furono ufficialmente fondati il 1 maggio del 1891, a Catania e guidati da Giuseppe de Felice Giuffrida. Il movimento era però nato in maniera spontanea già alcuni anni prima a Messina. A questo fece seguito il Fascio di Palermo (29 giugno 1892) guidato da Rosario Garibaldi Bosco e la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani (agosto 1892). A questi due fasci se ne aggiunsero altri e già a fine 1892 il movimento si era diffuso in tutto il resto dell'isola con sedi in tutti i capoluoghi tranne Caltanissetta. Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo (PA) 500 contadini di ritorno dall'occupazione simbolica di terre di demanio vengono dispersi da soldati e carabinieri con i fucili e tredici manifestanti cadono vittime. Al massacro di Caltavuturo seguono numerose manifestazioni di solidarietà da parte dei Fasci e sul piano nazionale e tendono ad aumentare l'esasperazione dello scontro sociale.
Il 21 e 22 maggio 1893 si tiene il congresso di Palermo vi parteciparono 500 delegati di quasi 90 Fasci e circoli socialisti. Venne eletto il Comitato Centrale, composto da nove membri: Giacomo Montalto per la provincia di Trapani, Nicola Petrina per la provincia di Messina, Giuseppe De Felice Giuffrida per la provincia di Catania, Luigi Leone per la provincia di Siracusa, Antonio Licata per la provincia di Girgenti, Agostino Lo Piano Pomar per la provincia di Caltanissetta, Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro per la provincia di Palermo. L'apice del movimento fu raggiunto nell'autunno del 1893, quando il movimento organizzò scioperi in tutta l'isola e tentò un'effimera insurrezione. La società siciliana fu sconvolta, ovunque si ebbero violenti scontri sociali, ed il movimento dettò le proprie condizioni alla proprietà terriera per il rinnovo dei contratti.
In questo contesto il presidente del consiglio Francesco Crispi, siciliano, nel tentativo di ristabilire l'ordine ascoltò le sole istanze dei possidenti, ed adottò la linea dura con un intervento militare. Il movimento fu sciolto e i capi vennero arrestati dal Commissario Regio Roberto Morra di Lavriano. Il 30 maggio il tribunale militare di Palermo condannò Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni di carcere, Rosario Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro a 12 anni di carcere quali capi e responsabili dei Fasci siciliani. L'on. de Felice fu difeso in sede giudiziaria dall' avvocato siciliano G.B. Impallomeni. Nel 1895 con un atto di amnistia venne concessa la clemenza a tutti i condannati in seguito ai fatti dei Fasci siciliani.
Si concludeva così in modo violento il primo vero movimento organizzato contro i proprietari fondiari, e di emancipazione delle classi più umili. »
PS: il dipinto è "Le spigolatrici" di Millet; il fascio di di spighe e di fiori l'ho trovato in un catalogo di fiorista su internet ma ho perso l'indirizzo (e me ne dispiace molto, è davvero bello).
PPS: Non c’entra con il discorso sui simboli, ma ho notato che su internet ogni volta che si fa il nome di Giorgio Bocca, anche su un blog minuscolo, prima o poi arriva il commento di disturbo: “Bocca fu fascista!” : viene da pensare che ci sia dietro un’organizzazione capillare, sistematica e anche molto paziente. Anche Bocca è nato negli anni ’20, come Enzo Biagi, come Dario Fo, come tanti altri antifascisti di destra, di sinistra e di centro; l’essere fascista a quei tempi era obbligatorio e quasi inevitabile, va a grande merito di Bocca e di tutti gli altri l’aver abbandonato il fascismo prima di aver raggiunto la maggiore età.
venerdì 6 novembre 2009
La triplice cinta druidica
Ho giocato spesso con la trea, o tria: è la tavola da gioco che si trova sul retro della scacchiera tradizionale, e in casa l’abbiamo tutti. Non avrei mai pensato che ci fosse dietro tutta questa storia; quando mi capitò fra le mani il libro di René Guénon, uno dei più grandi studiosi di Storia delle Religioni, non credevo ai miei occhi e – lo ammetto – davanti a un’illustrazione che riproduceva un oggetto così familiare era impossibile non ridere, e la risata mi sorse spontanea. Eppure...
René Guénon Simboli della Scienza sacra ed. Adelphi
cap. 10, La triplice cinta druidica
Paul Le Cour ha segnalato, in « Atlantis » (luglio-agosto 1928), un curioso simbolo tracciato su una pietra druidica scoperta verso il 1800 a Suèvres (Loir-et-Cher), che era stata precedentemente studiata da E.C. Florance, presidente della Società di Storia naturale e di Antropologia del Loir-et-Cher. Questi pensa addirittura che la località ove fu trovata la pietra potrebbe essere stato il luogo della riunione annuale dei druidi, che secondo Cesare era situato ai confini del paese dei Carnuti. La sua attenzione fu attirata dal fatto che si trova lo stesso segno su un sigillo d'un oculista gallo-romano, rinvenuto verso il 1870 a Villefranche-sur-Cher (Loir-et-Cher); ed espresse il parere che esso potesse rappresentare una triplice cinta sacra.
Questo simbolo è effettivamente costituito da tre quadrati concentrici, legati fra di loro da quattro linee ad angolo retto (fig. 7).Nel momento stesso in cui usciva l'articolo di « Atlantis », veniva segnalata a Florance l'esistenza del medesimo simbolo inciso su una grossa pietra di basamento di un contrafforte della chiesa di Sainte-Gemme (Loir-et-Cher), pietra che sembra d'altronde di provenienza anteriore alla costruzione della chiesa, e che potrebbe risalire anch'essa al druidismo.
È sicuro del resto che, come molti altri simboli celtici, e in particolare quello della ruota, questa figura è rimasta in uso fino al Medioevo, giacché Charbonneau-Lassay l'ha rilevata tra i 'graffiti ' del torrione di Chinon, assieme a un'altra non meno antica, formata da otto raggi e circoscritta da un quadrato (fig. 8), che si trova sul 'betilo' di Kermaria studiato da J. Loth e al quale abbiamo già avuto occasione di alludere altrove. Le Cour informa che il simbolo del triplice quadrato si trova anche a Roma, nel chiostro di San Paolo, del secolo XIII, e che, d'altra parte, non era conosciuto nell'antichità soltanto dai Celti, poiché egli stesso l'ha notato parecchie volte sull'Acropoli di Atene, sulle lastre del Partenone e su quelle dell'Eretteo.
L'interpretazione del simbolo in questione come figura di una triplice cinta ci pare assai giusta; e Le Cour stabilisce a questo proposito un collegamento con ciò che dice Platone, il quale, parlando della metropoli degli Atlantidi, descrive il palazzo di Poseidone come un edificio al centro di tre cinte concentriche collegate fra di loro da canali, il che costituisce effettivamente una figura analoga a quella in questione, però circolare anziché quadrata.
Ora, quale può essere il significato di queste tre cinte? Abbiamo subito pensato che dovesse trattarsi di tre gradi di iniziazione, sicché il loro insieme avrebbe rappresentato, in certo modo, la figura della gerarchia druidica; e il fatto che la medesima figura si trovi anche altrove indicherebbe che esistevano, in altre forme tradizionali, delle gerarchie costituite sullo stesso modello, cosa questa perfettamente normale.
La divisione dell'iniziazione in tre gradi è d'altronde la più frequente e, potremmo dire, quella fondamentale; tutte le altre rappresentano in definitiva, rispetto a essa, soltanto delle suddivisioni o degli sviluppi più o meno complicati. Ci ha fornito quest'idea l'essere venuti una volta a conoscenza di documenti i quali, in certi sistemi massonici di alti gradi, descrivono questi gradi precisamente come altrettante cinte successive tracciate intorno a un punto centrale; sicuramente, tali documenti sono incomparabilmente meno antichi dei monumenti di cui si parla qui, ma si può ugualmente trovarvi un'eco di tradizioni a essi molto anteriori, e in ogni caso ci fornivano nella circostanza un punto di partenza per interessanti accostamenti.
È opportuno notar bene che la spiegazione che ne proponiamo non è per nulla incompatibile con certe altre, come quella accolta da Le Cour, secondo la quale le tre cinte si riferirebbero ai tre cerchi dell'esistenza riconosciuti dalla tradizione celtica; questi tre cerchi, che si ritrovano sotto altra forma nel cristianesimo, sono d'altronde la stessa cosa dei ' tre mondi ' della tradizione indù.
In quest'ultima, d'altra parte, i cerchi celesti sono talvolta rappresentati come altrettante cinte concentriche circondanti il Méru, cioè la Montagna sacra che simboleggia il 'Polo' o l"Asse del Mondo', ed è anche questa una notevolissima concordanza.
Lungi dall'escludersi, le due spiegazioni si accordano perfettamente, e si potrebbe anche dire che in un certo senso coincidono, giacché, se si tratta d'iniziazione reale, i suoi gradi corrispondono ad altrettanti stati dell'essere, e sono questi stati che tutte le tradizioni descrivono come altrettanti mondi diversi, perché si deve tenere ben presente che la ' localizzazione ' ha soltanto carattere simbolico.
Abbiamo già spiegato, a proposito di Dante, come i cieli siano propriamente delle `gerarchie spirituali ', cioè dei gradi d'iniziazione, e va da sé che essi si riferiscono al tempo stesso ai gradi dell'esistenza universale, poiché, come dicevamo allora,' in virtù dell'analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo, il processo iniziatico riproduce rigorosamente il processo cosmogonico.
Aggiungeremo che, in linea di massima, è proprio di ogni interpretazione veramente iniziatica di non essere mai esclusiva, ma, al contrario, di abbracciare sinteticamente tutte le altre interpretazioni possibili; è per questa ragione inoltre che il simbolismo, con i suoi significati molteplici e sovrapposti, è il mezzo di espressione normale di ogni vero insegnamento iniziatico.
Grazie a questa stessa spiegazione, il senso delle quattro linee disposte a forma di croce che collegano le tre cinte diventa immediatamente chiaro: sono dei canali, attraverso i quali l'insegnamento della dottrina tradizionale si comunica dall'alto in basso, a partire dal grado supremo che ne è il depositario, distribuendosi gerarchicamente negli altri gradi.
La parte centrale della figura corrisponde dunque alla « fonte d'insegnamento » di cui parlano Dante e i` Fedeli d'Amore', e la disposizione cruciforme dei quattro canali che ne dipartono li identifica ai quattro fiumi del Pardes.
A tale proposito, conviene osservare che tra le due forme circolare e quadrata della figura delle tre cinte c'è un'importante sfumatura da notare: esse si riferiscono rispettivamente al simbolismo del Paradiso terrestre e a quello della Gerusalemme celeste, secondo quanto abbiamo spiegato in una nostra opera. Infatti, vi è sempre analogia e corrispondenza tra l'inizio e la fine di qualunque ciclo, ma, alla fine, il cerchio è sostituito dal quadrato, e ciò indica la realizzazione di quella che gli ermetisti designavano simbolicamente come « quadratura del cerchio »:'o la sfera, che rappresenta lo sviluppo delle possibilità mediante espansione del punto primordiale e centrale, si trasforma in un cubo quando questo sviluppo è completo ed è raggiunto l'equilibrio finale per il ciclo considerato."
Applicando specificamente queste considerazioni alla questione che ora ci occupa, diremo che la forma circolare deve rappresentare il punto di partenza di una tradizione, ed è proprio questo il caso dell'Atlantide, e la forma quadrata il suo termine, che corrisponde alla costituzione di una forma tradizionale derivata. Nel primo caso, il centro della figura sarebbe allora la fonte della dottrina, mentre, nel secondo, ne sarebbe più propriamente il serbatoio, avendo qui l'autorità spirituale soprattutto una funzione di conservazione; ma, naturalmente, il simbolismo della « fonte d'insegnamento » si applica a entrambi i casi." Dal punto di vista del simbolismo numerico, bisogna ancora notare che l'insieme dei tre quadrati costituisce il duodenario. Disposti altrimenti (fig. 9), questi tre quadrati, ai quali s'aggiungono pure quattro linee in croce, costituiscono la figura nella quale gli antichi astrologi inscrivevano lo zodiaco; tale figura era considerata d'altronde quella della Gerusalemme celeste con le sue dodici porte, tre per ogni lato, e vi è in ciò un rapporto evidente con il significato che abbiamo appena indicato per la forma quadrata. Ci sarebbero senza dubbio ancora molti altri accostamenti da esaminare, ma pensiamo che queste poche note, per quanto incomplete, contribuiranno già a portar qualche lume sulla misteriosa questione della triplice cinta druidica.
(da René Guénon "Simboli della Scienza sacra" ed. Adelphi)
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