mercoledì 24 febbraio 2010
A cosa pensa la nostra classe dirigente
...e anche al cemento, certo.
(la vignetta è di Quino, anno 1978) (trent'anni fa questa poteva essere una vignetta divertente, semplice satira sui falegnami: vista oggi dà i brividi)
martedì 23 febbraio 2010
Tipologia dei rompiballe
In un suo bel racconto (o romanzo breve? siamo sulle cento pagine) Aldous Huxley fa un elenco delle tipologie delle persone noiose: insomma, dei rompiballe. Huxley è molto divertente e molto brillante, se volete leggerlo il racconto è “Due o tre Grazie”, e siccome la descrizione si trova sulla primissima pagina di “Tutti i racconti”, Baldini&Castoldi editore, sarà facile anche andarla a sbirciare gratis in libreria. Se volessi apparire anch’io brillante e divertente, a poco prezzo e con pochissima fatica, se volessi insomma fare un blog da un milione di visitatori con tanti commenti, non avrei altro da fare che ricopiare qui questa bella pagina di un grande scrittore come Huxley; ma a me, per dire le cose come stanno, non importa molto di essere brillante.
Piuttosto, siccome io sono fatto così, davanti a questa pagina mi sono chiesto: bello, divertente, ma rientro anch’io in una di queste categorie? Vale a dire: sono un rompiballe anch’io, lo sono stato, lo sono ancora? Insomma, ho peccato?
La risposta è: «Sì, certamente sì; e più volte, ripetutamente, per tutto il corso della mia vita. Inavvertitamente, ogni tanto, ci casco ancora.»
Potrei salvarmi dicendo: capita a tutti, sono cose che succedono. Invece no, perché – al di là della mia nativa ingenuità e stupidità, per le quali faccio ammenda (ho un apposito cilicio per queste cose, è una tortura solamente mentale ma quando riaffiorano certi ricordi si tratta di dolori veri) – io sono sempre stato riservato e taciturno, fin da bambino. E così mi dicevano: perché non vai a giocare con gli altri bambini, perché non parli con loro? Semplice: perché stavo leggendo un libro bellissimo, o magari un giornalino a fumetti; o perchè stavo osservando una cavalletta, o una farfalla, o una lucertola. Interessavano, agli altri bambini, queste cose? Alle bambine no, e i maschi le cavallette e le farfalle le prendevano a calci. Se trovavano un nido di formiche, gli davano fuoco.
Ma poi a me non piace star da solo: anche se da solo non mi sono mai annoiato, alle volte si ha bisogno degli altri bambini. Così ho cercato di interessarmi alle cose che interessavano agli altri bambini, e alle bambine: e qui è iniziata la catastrofe, perché io non sono capace.
Non me ne frega niente dei Pooh, di Baglioni, del Festival di Sanremo, di Michael Jackson, delle auto da corsa e delle moto, dell’Inter, delle sale da ballo e dei dj, della tv su Canale5, dei reality show - io vivo in un altro mondo.
Mi fermo qui per non diventare noioso davvero, più di quel che sono: aggiungo solo che quello che mi fa star male non è il fatto di essere passato per noioso e rompiballe a causa della mia stupidità naturale, ma per il semplice fatto di essermi occupato di cose belle e interessanti. Io ho ascoltato diligentemente i Pooh e Baglioni con le altre bambine della mia età, ma loro trovavano noiosissimo anche il solo nominare un libro che avevo letto, o una musica che avevo ascoltato (“ma davvero ascolti queste cose? ma non ti viene da dormire?”). Conosco ancora a memoria titoli e canzoni, i Pooh e Baglioni e Celentano sono obbligatori, se non li conosci non vai da nessuna parte. Una volta ho perfino passato un pomeriggio intero a cantare le canzoni di Lucio Battisti con una mia amica carissima, ed è stato un grandissimo atto d’amore da parte mia, ma non è stato capito.
Pensavo: è perchè abito in provincia, in città è diverso. Mi sbagliavo, e come diceva Freak Antoni: “Milioni di mosche non possono sbagliare...” (con quel che segue).
Ahinoi, che tirata noiosa. La prossima volta copio e incollo qualcosa anch’io. Con lo scanner, è facilissimo.
Piuttosto, siccome io sono fatto così, davanti a questa pagina mi sono chiesto: bello, divertente, ma rientro anch’io in una di queste categorie? Vale a dire: sono un rompiballe anch’io, lo sono stato, lo sono ancora? Insomma, ho peccato?
La risposta è: «Sì, certamente sì; e più volte, ripetutamente, per tutto il corso della mia vita. Inavvertitamente, ogni tanto, ci casco ancora.»
Potrei salvarmi dicendo: capita a tutti, sono cose che succedono. Invece no, perché – al di là della mia nativa ingenuità e stupidità, per le quali faccio ammenda (ho un apposito cilicio per queste cose, è una tortura solamente mentale ma quando riaffiorano certi ricordi si tratta di dolori veri) – io sono sempre stato riservato e taciturno, fin da bambino. E così mi dicevano: perché non vai a giocare con gli altri bambini, perché non parli con loro? Semplice: perché stavo leggendo un libro bellissimo, o magari un giornalino a fumetti; o perchè stavo osservando una cavalletta, o una farfalla, o una lucertola. Interessavano, agli altri bambini, queste cose? Alle bambine no, e i maschi le cavallette e le farfalle le prendevano a calci. Se trovavano un nido di formiche, gli davano fuoco.
Ma poi a me non piace star da solo: anche se da solo non mi sono mai annoiato, alle volte si ha bisogno degli altri bambini. Così ho cercato di interessarmi alle cose che interessavano agli altri bambini, e alle bambine: e qui è iniziata la catastrofe, perché io non sono capace.
Non me ne frega niente dei Pooh, di Baglioni, del Festival di Sanremo, di Michael Jackson, delle auto da corsa e delle moto, dell’Inter, delle sale da ballo e dei dj, della tv su Canale5, dei reality show - io vivo in un altro mondo.
Mi fermo qui per non diventare noioso davvero, più di quel che sono: aggiungo solo che quello che mi fa star male non è il fatto di essere passato per noioso e rompiballe a causa della mia stupidità naturale, ma per il semplice fatto di essermi occupato di cose belle e interessanti. Io ho ascoltato diligentemente i Pooh e Baglioni con le altre bambine della mia età, ma loro trovavano noiosissimo anche il solo nominare un libro che avevo letto, o una musica che avevo ascoltato (“ma davvero ascolti queste cose? ma non ti viene da dormire?”). Conosco ancora a memoria titoli e canzoni, i Pooh e Baglioni e Celentano sono obbligatori, se non li conosci non vai da nessuna parte. Una volta ho perfino passato un pomeriggio intero a cantare le canzoni di Lucio Battisti con una mia amica carissima, ed è stato un grandissimo atto d’amore da parte mia, ma non è stato capito.
Pensavo: è perchè abito in provincia, in città è diverso. Mi sbagliavo, e come diceva Freak Antoni: “Milioni di mosche non possono sbagliare...” (con quel che segue).
Ahinoi, che tirata noiosa. La prossima volta copio e incollo qualcosa anch’io. Con lo scanner, è facilissimo.
lunedì 22 febbraio 2010
Mah, francamente...
« (...) Mentre i produttori di tecnologia si fregano le mani, i consumatori si stanno abituando a malincuore all’idea che il televisore è un bene poco durevole e che va cambiato ogni quattro o cinque anni, come un telefonino. (...) »
(dal Venerdì di Repubblica del 22 gennaio 2010, frammento da un articolo di Jaime D’Alessandro sul 3D in televisione)
Mah, francamente non so se mi sto abituando. Anzi, non mi ci abituerò mai: il mio telefonino è sempre lo stesso da dieci anni, ed è il primo che ho comperato (funziona benissimo). Anche le scarpe, il giaccone, le camicie, prima di buttarle via ne deve passare di tempo... Dei beni che non sono durevoli ho un certo orrore, a dirla tutta. Con questa classe dirigente ormai mi aspetto di tutto: ma in casa mia le lavatrici durano vent’anni, i televisori quindici, idem il frigorifero. Il futuro però è questo, non mi faccio illusioni: una volta ci si scherzava sopra, dicendo che gli elettrodomestici si rompevano appena finita la garanzia; oggi è una certezza, si sa che andrà così: la tecnologia lo ha reso possibile, e lo si fa. Non vale più, per un produttore, l'essere affidabile: c’è chi dice che sia questo il progresso, mah. L’unico modo per poter dire di essere ecologisti è questo: far durare le cose, non sprecare.
PS: Nello scrivere questo post mi sono censurato molto. Si nota?
(dal Venerdì di Repubblica del 22 gennaio 2010, frammento da un articolo di Jaime D’Alessandro sul 3D in televisione)
Mah, francamente non so se mi sto abituando. Anzi, non mi ci abituerò mai: il mio telefonino è sempre lo stesso da dieci anni, ed è il primo che ho comperato (funziona benissimo). Anche le scarpe, il giaccone, le camicie, prima di buttarle via ne deve passare di tempo... Dei beni che non sono durevoli ho un certo orrore, a dirla tutta. Con questa classe dirigente ormai mi aspetto di tutto: ma in casa mia le lavatrici durano vent’anni, i televisori quindici, idem il frigorifero. Il futuro però è questo, non mi faccio illusioni: una volta ci si scherzava sopra, dicendo che gli elettrodomestici si rompevano appena finita la garanzia; oggi è una certezza, si sa che andrà così: la tecnologia lo ha reso possibile, e lo si fa. Non vale più, per un produttore, l'essere affidabile: c’è chi dice che sia questo il progresso, mah. L’unico modo per poter dire di essere ecologisti è questo: far durare le cose, non sprecare.
PS: Nello scrivere questo post mi sono censurato molto. Si nota?
sabato 20 febbraio 2010
Rime ( II )
(...) Ivàn concentrò la propria attenzione sul gatto e vide che quello strano animale si avvicinava al predellino del tram della linea « A »; poi, accanto al salvagente, scostava sfacciatamente una donna facendola strillare, si aggrappava alla sbarra e tentava perfino di affibbiare una moneta da dieci copechi alla conducente, attraverso il finestrino aperto a causa dell'afa.
Ivàn rimase talmente sbalordito dal comportamento del gatto che si fermò inebetito accanto alla drogheria d'angolo. Ma a questo punto fu ancor piú sbalordito dal comportamento della conducente, che, non appena vide il gatto arrampicarsi sul tram, si mise a gridare, tremando addirittura per la rabbia:
- Ai gatti è proibito! I gatti non possono! Passa via! Scendi o chiamo la polizia.
La conducente e i passeggeri non si stupivano tanto per la cosa in sé, ossia che il gatto salisse sul tram, quanto per il fatto che cercasse di pagare.
Il gatto era un animale non solo solvente ma anche disciplinato. Al primo richiamo interruppe l'attacco, scese dal predellino e si sedette alla fermata soffregandosi sui baffi i dieci copechi. Tuttavia, appena la conducente diede il segnale di partenza e il tram si mosse, il furfante fece quello che avrebbe fatto chiunque, avendo urgenza di partire, fosse stato cacciato dal tram. Lasciati passare tutti e tre i vagoni, saltò sul respingente posteriore, si aggrappò con la zampa ad un tubo di gomma e partì, economizzando in tal modo i dieci copechi.
(Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, libro primo, il capitolo “Inseguimento”) (ed. Garzanti, traduzione di Maria Olsoufieva)
He thought he saw a banker's clerk
descending from the bus :
he looked again and found it was
a hippopotamus.
« If this should stay to dine - he said -
there won't be much for us ! »
(Lewis Carroll, “The gardener’s song”, da “Sylvie & Bruno” )
Carroll non si può tradurre senza perdere il ritmo e il divertimento: è un “nonsense” che fa parte di una piccola serie di nove strofe (la mia grande passione, nonsenses & limericks). Provo a farne qualcosa: gli è sembrato di vedere un impiegato di banca che scendeva dal bus; ma poi ha guardato meglio e si è accorto che era un ippopotamo. «Se questo resta a cena – disse – non ne resterà molto per noi.» (in inglese, “bus” e “hippopotamus” fanno rima).
Ivàn rimase talmente sbalordito dal comportamento del gatto che si fermò inebetito accanto alla drogheria d'angolo. Ma a questo punto fu ancor piú sbalordito dal comportamento della conducente, che, non appena vide il gatto arrampicarsi sul tram, si mise a gridare, tremando addirittura per la rabbia:
- Ai gatti è proibito! I gatti non possono! Passa via! Scendi o chiamo la polizia.
La conducente e i passeggeri non si stupivano tanto per la cosa in sé, ossia che il gatto salisse sul tram, quanto per il fatto che cercasse di pagare.
Il gatto era un animale non solo solvente ma anche disciplinato. Al primo richiamo interruppe l'attacco, scese dal predellino e si sedette alla fermata soffregandosi sui baffi i dieci copechi. Tuttavia, appena la conducente diede il segnale di partenza e il tram si mosse, il furfante fece quello che avrebbe fatto chiunque, avendo urgenza di partire, fosse stato cacciato dal tram. Lasciati passare tutti e tre i vagoni, saltò sul respingente posteriore, si aggrappò con la zampa ad un tubo di gomma e partì, economizzando in tal modo i dieci copechi.
(Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, libro primo, il capitolo “Inseguimento”) (ed. Garzanti, traduzione di Maria Olsoufieva)
He thought he saw a banker's clerk
descending from the bus :
he looked again and found it was
a hippopotamus.
« If this should stay to dine - he said -
there won't be much for us ! »
(Lewis Carroll, “The gardener’s song”, da “Sylvie & Bruno” )
Carroll non si può tradurre senza perdere il ritmo e il divertimento: è un “nonsense” che fa parte di una piccola serie di nove strofe (la mia grande passione, nonsenses & limericks). Provo a farne qualcosa: gli è sembrato di vedere un impiegato di banca che scendeva dal bus; ma poi ha guardato meglio e si è accorto che era un ippopotamo. «Se questo resta a cena – disse – non ne resterà molto per noi.» (in inglese, “bus” e “hippopotamus” fanno rima).
giovedì 18 febbraio 2010
Condivisione
«Trovo meraviglioso comunicare una bella storia a qualcuno che mi sta a cuore. Quello che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara, ed è a una persona cara che ne parleremo subito. Forse perché la peculiarità del sentimento, così come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare significa proprio questo: regalare le nostre preferenze a coloro che ci piacciono di più. E sono queste preferenze condivise a costruire la nostra libertà».
(Daniel Pennac, da un'intervista a La Repubblica, 31 gennaio 2010)
(Daniel Pennac, da un'intervista a La Repubblica, 31 gennaio 2010)
mercoledì 17 febbraio 2010
Dostoevskij
- Siete scrittori? - ribatté la cittadina.
- Indubbiamente - asserì Korov'ev con dignità.
- Le vostre tessere?
- Bellezza mia...- attaccò teneramente Korov'ev.
- Non sono una bellezza.
- Che peccato! - fece Korov'ev deluso. - Be', se non vuol essere una bellezza, cosa che sarebbe quanto mai piacevole, padronissima di non esserlo. Dunque, per convincersi che Dostoevskij è realmente uno scrittore, lei gli chiederebbe la tessera? Ma prenda cinque pagine qualsiasi di un qualsiasi suo romanzo, e si convincerà senza nessuna tessera di aver a che fare con uno scrittore! Anzi, suppongo che Dostoevskij non l'abbia mai avuta la tessera! Tu che cosa ne dici Ippopotamo?
- Scommetterei che non l'aveva, - rispose il gatto posando il fornello sulla tavola accanto al registro e asciugandosi il sudore sulla fronte nera di fuliggine.
- Lei non è Dostoevskij, - ribatté la cittadina, confusa dal discorso di Korov'ev.
- Non si può mai sapere, non si può mai sapere.
- Dostoevskij è morto, - prosegui la donna senza troppa convinzione.
- Protesto! - esclamò Ippopotamo con fervore. - Dostoevskij è immortale!
(...) (Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, libro secondo, “Le ultime gesta di Korov’ev e Ippopotamo”, ed. Garzanti, traduzione di Maria Olsoufieva)
- Indubbiamente - asserì Korov'ev con dignità.
- Le vostre tessere?
- Bellezza mia...- attaccò teneramente Korov'ev.
- Non sono una bellezza.
- Che peccato! - fece Korov'ev deluso. - Be', se non vuol essere una bellezza, cosa che sarebbe quanto mai piacevole, padronissima di non esserlo. Dunque, per convincersi che Dostoevskij è realmente uno scrittore, lei gli chiederebbe la tessera? Ma prenda cinque pagine qualsiasi di un qualsiasi suo romanzo, e si convincerà senza nessuna tessera di aver a che fare con uno scrittore! Anzi, suppongo che Dostoevskij non l'abbia mai avuta la tessera! Tu che cosa ne dici Ippopotamo?
- Scommetterei che non l'aveva, - rispose il gatto posando il fornello sulla tavola accanto al registro e asciugandosi il sudore sulla fronte nera di fuliggine.
- Lei non è Dostoevskij, - ribatté la cittadina, confusa dal discorso di Korov'ev.
- Non si può mai sapere, non si può mai sapere.
- Dostoevskij è morto, - prosegui la donna senza troppa convinzione.
- Protesto! - esclamò Ippopotamo con fervore. - Dostoevskij è immortale!
(...) (Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, libro secondo, “Le ultime gesta di Korov’ev e Ippopotamo”, ed. Garzanti, traduzione di Maria Olsoufieva)
martedì 16 febbraio 2010
Salomè quotidiana
In questi giorni ho riascoltato la Salomé di Richard Strauss, e ho guardato il film "Viaggio a Kandahar" del grande regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. L'opera di Strauss è un capolavoro, ma si tratta di musica malata, non felice, su un argomento che mi ha sempre lasciato perplesso. Perché il suo soggetto, nelle Scritture, occupa poche righe e potrebbe passare del tutto inosservato, come capita ad altri personaggi biblici; e invece la storia dell'Arte è piena di Salomé e di Giovanni Battista decapitati, come elencava ieri Solimano. Noi viviamo in un'epoca fortunata. Una volta, questi orrori (decapitazioni, torture, malattie, guerra...) erano sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni o quasi. Lo si vede con estrema chiarezza nel film di Makhmalbaf, dove una donna in burkha percorre l'Afghanistan di oggi, che invece ci appare come un viaggio nel nostro passato remoto. Esemplare la lunga sequenza girata nel campo della Croce Rossa, dove due dottoresse occidentali si prendono cura di un'infinità di mutilati: mutilati non dalla guerra, ma dalle mine. Ovvio che uno spettacolo del genere non sia piacevole, e altrettanto ovvio che un film del genere - sia pure un capolavoro - non vada in onda in prima serata e non raggiunga uno "share" decente in televisione; altrettanto ovvio che non sia adatto a raccogliere spot pubblicitari. Forse questo film sarebbe stato censurato, se fosse andato in onda in prima serata; si sarebbe discusso sull'opportunità di mandare in onda immagini così crude (ma il film è di un'umanità toccante e rara), eccetera. Speriamo che il nostro passato remoto rimanga confinato là, in Afghanistan o in Iraq, e che non ci raggiunga. Per intanto, prendiamo nota di chi ha rotto il muro della censura, qui da noi: i primi a pubblicare la foto del povero disgraziato decapitato in Iraq sono stati due quotidiani, "Libero" e "Il foglio". Prendiamo nota e aspettiamo di vedere quale sarà la prossima frontiera.
(Antenore 21 maggio 2004)
(Antenore 21 maggio 2004)
lunedì 15 febbraio 2010
Miracolo a Milano
“Miracolo a Milano” non è soltanto un capolavoro: è un film divertente, pieno di trovate, girato con grande simpatia, con grandi attori, e anche con effetti speciali: si sa, per ammissione esplicita di Spielberg, che la scena delle biciclette in volo di “E.T.” è proprio un omaggio a questo piccolo grande film.
In più, “Miracolo a Milano” ha molte sequenze parlate in dialetto: dialetto milanese, di quello ormai difficilissimo da ascoltare, quasi estinto. Ed è un vero piacere ascoltare questi dialoghi perché – a molti oggi può sembrare strano, ma così era – l’espressione “Milano con il cuore in mano” aveva davvero un senso, non nasce per caso o per puro amore della rima.
Ed è davanti a questa osservazione, del dialetto milanese ritrovato, che mi sono trovato a chiedermi, come già mi era successo con Dario Fo (“Il Nobel alla Padania”), come mai, pur essendo in presenza di un forte movimento politico su base lombarda, addirittura un Partito, non si parli mai di “Miracolo a Milano”. E quando dico mai intendo mai, propi mai, nihil, nagott, silenzio assoluto e magari imbarazzato quando si nomina il film davanti a qualcuno “che sa”.
Ecco dunque quali sono i difetti di “Miracolo a Milano”:
1) si parla di barboni e di senza tetto, di irregolari. 2) di questi barboni, senza tetto, irregolari, si fanno degli eroi positivi. 3) i ricchi, e soprattutto le immobiliari, sono dipinti come avari e senza pietà, veri strozzini. 4) quarto, ma non ultimo, gli autori di questo film sono un romano (Vittorio De Sica) e un mantovano comunista (Cesare Zavattini).
Guardando il film, viene da pensare una cosa: quando il ragazzo protagonista esce dall’orfanotrofio, nelle sequenze iniziali, saluta tutti con un bel “Buongiorno!”, come gli ha insegnato la vecchina sorridente che lo aveva raccolto, appena nato. E un signore ben vestito gli fa notare: “Buongiorno a chi? A me? Ma se non mi conosce neanche!” E se ne va via indispettito.
Ecco, forse è questa la parte di Milano che ha vinto. Milano non è tutta “con il cuore in mano”, non lo è mai stata: ce ne erano molti, di milanesi aperti e sorridenti, e tanti li ho conosciuti anch’io, ho fatto in tempo e ne sono contento (io purtroppo non sono così, ma questa è un’altra storia). Però nella vita vera, e non nella favola che qui si racconta, hanno vinto loro, i cattivi, gli immobiliaristi, gli avari. Sono loro che dettano legge e fanno da modello, e per chi gli ricorda la loro vera natura c’è solo disprezzo e silenzio.
In più, “Miracolo a Milano” ha molte sequenze parlate in dialetto: dialetto milanese, di quello ormai difficilissimo da ascoltare, quasi estinto. Ed è un vero piacere ascoltare questi dialoghi perché – a molti oggi può sembrare strano, ma così era – l’espressione “Milano con il cuore in mano” aveva davvero un senso, non nasce per caso o per puro amore della rima.
Ed è davanti a questa osservazione, del dialetto milanese ritrovato, che mi sono trovato a chiedermi, come già mi era successo con Dario Fo (“Il Nobel alla Padania”), come mai, pur essendo in presenza di un forte movimento politico su base lombarda, addirittura un Partito, non si parli mai di “Miracolo a Milano”. E quando dico mai intendo mai, propi mai, nihil, nagott, silenzio assoluto e magari imbarazzato quando si nomina il film davanti a qualcuno “che sa”.
Ecco dunque quali sono i difetti di “Miracolo a Milano”:
1) si parla di barboni e di senza tetto, di irregolari. 2) di questi barboni, senza tetto, irregolari, si fanno degli eroi positivi. 3) i ricchi, e soprattutto le immobiliari, sono dipinti come avari e senza pietà, veri strozzini. 4) quarto, ma non ultimo, gli autori di questo film sono un romano (Vittorio De Sica) e un mantovano comunista (Cesare Zavattini).
Guardando il film, viene da pensare una cosa: quando il ragazzo protagonista esce dall’orfanotrofio, nelle sequenze iniziali, saluta tutti con un bel “Buongiorno!”, come gli ha insegnato la vecchina sorridente che lo aveva raccolto, appena nato. E un signore ben vestito gli fa notare: “Buongiorno a chi? A me? Ma se non mi conosce neanche!” E se ne va via indispettito.
Ecco, forse è questa la parte di Milano che ha vinto. Milano non è tutta “con il cuore in mano”, non lo è mai stata: ce ne erano molti, di milanesi aperti e sorridenti, e tanti li ho conosciuti anch’io, ho fatto in tempo e ne sono contento (io purtroppo non sono così, ma questa è un’altra storia). Però nella vita vera, e non nella favola che qui si racconta, hanno vinto loro, i cattivi, gli immobiliaristi, gli avari. Sono loro che dettano legge e fanno da modello, e per chi gli ricorda la loro vera natura c’è solo disprezzo e silenzio.
sabato 13 febbraio 2010
Il giro del Giappone in dieci minuti
Le mie foto più belle, con ogni probabilità, sono in Giappone: disperse fra Tokyo e Yokohama, o magari Nagasaki. E non solo foto, ma filmati, video, registrazioni varie...
Mi spiego: tra i venti e trent’anni, l’età in cui si è più belli e fotogenici, ero solito trascorrere molte delle mie giornate libere in pieno centro, a Milano: tra la Scala (code interminabili per avere i biglietti, quelli del loggione a poco prezzo) e la Galleria, e corso Vittorio Emanuele. Zone piene di turisti, soprattutto giapponesi a quei tempi, che filmavano e fotografavano tutto: me compreso.
Ripenso con nostalgia alle foto che non ho fatto, ai volti che posso solo tentare di ricordare: come quello di Claudia, alta e bionda, con la quale ho passato un pomeriggio intero a chiacchierare prima di una Turandot, nell’estate del 1988. Eravamo lì seduti, sotto i portici, in mezzo a mille persone, e i turisti facevano foto e filmati: i loggionisti della Scala, ecco un bel soggetto da portare a casa e far vedere! Ricordo che gliel’avevo anche detto: che mi filmino pure, io sono qui con una bella bionda...
Ma intanto quelle immagini io non le ho, lei era molto bella e mi piaceva molto; ma poi l’ho persa di vista. Dirò di più: non ho nemmeno ascoltato quella Turandot, c’ero già stato e passavo di lì solo per salutare un amico (che poi non c’era), era troppo tardi per trovare i biglietti, e così non abbiamo nemmeno passato la serata insieme.
Chissà se c’è qualcuno a Yokohama, a Tokyo, a Nagoya, a Sendai, a Sakai, ad Hamamatsu, o magari a Sapporo, a Gifu, a Kamamura, a Nikko o a Nara o ad Hamagasaki, che ha le mie foto con Claudia, quelle dell’88, e me le può fare avere?
Mi spiego: tra i venti e trent’anni, l’età in cui si è più belli e fotogenici, ero solito trascorrere molte delle mie giornate libere in pieno centro, a Milano: tra la Scala (code interminabili per avere i biglietti, quelli del loggione a poco prezzo) e la Galleria, e corso Vittorio Emanuele. Zone piene di turisti, soprattutto giapponesi a quei tempi, che filmavano e fotografavano tutto: me compreso.
Ripenso con nostalgia alle foto che non ho fatto, ai volti che posso solo tentare di ricordare: come quello di Claudia, alta e bionda, con la quale ho passato un pomeriggio intero a chiacchierare prima di una Turandot, nell’estate del 1988. Eravamo lì seduti, sotto i portici, in mezzo a mille persone, e i turisti facevano foto e filmati: i loggionisti della Scala, ecco un bel soggetto da portare a casa e far vedere! Ricordo che gliel’avevo anche detto: che mi filmino pure, io sono qui con una bella bionda...
Ma intanto quelle immagini io non le ho, lei era molto bella e mi piaceva molto; ma poi l’ho persa di vista. Dirò di più: non ho nemmeno ascoltato quella Turandot, c’ero già stato e passavo di lì solo per salutare un amico (che poi non c’era), era troppo tardi per trovare i biglietti, e così non abbiamo nemmeno passato la serata insieme.
Chissà se c’è qualcuno a Yokohama, a Tokyo, a Nagoya, a Sendai, a Sakai, ad Hamamatsu, o magari a Sapporo, a Gifu, a Kamamura, a Nikko o a Nara o ad Hamagasaki, che ha le mie foto con Claudia, quelle dell’88, e me le può fare avere?
venerdì 12 febbraio 2010
...se nevica ancora
Va piano piano alla finestra
a vedere se nevica ancora, se continua
nel buio luminoso, là fuori,
l'infantile disastro del mondo.
(Giovanni Raboni, dal "Corriere della sera" 7.9.91)
a vedere se nevica ancora, se continua
nel buio luminoso, là fuori,
l'infantile disastro del mondo.
(Giovanni Raboni, dal "Corriere della sera" 7.9.91)
mercoledì 10 febbraio 2010
Biagio Marin sulle foibe
PERDEREMO TRIESTE, MA LA COLPA È NOSTRAPubblichiamo alcuni brani dal diario di Biagio Marin, ora raccolto nel volume “La pace lontana” (Libreria editrice goriziana)( da "La Repubblica", 23 settembre 2005)6 Maggio 1941
Passata la tensione delle rapide campagne tedesche contro la Serbia e la Grecia, ora c'è in noi come un senso di vuoto. Ma la guerra continua. Quale sarà la prossima mossa nessuno lo sa. Bisogna buttare gli Inglesi fuori del Mediterraneo; ma Alessandria è lontana, c'è di mezzo il mare, c'è di mezzo la Turchia e forse anche la Russia. Ed è prossimo l'intervento degli Stati Uniti. Il nostro compito non è lieve. Penso che la pace ci troverà poi stanchi, senza quadri, impreparati materialmente e spiritualmente ad affrontare i problemi della ricostruzione. C'è già ora tanta rilassatezza! Noi non amiamo il lavoro, e il lavoro è la base di ogni grandezza e anche di ogni salute.
Avverto ogni giorno di più la grande solitudine in cui vivo. Passano mesi senza che io scambi parola con qualcuno.. Della vasta cerchia che dicevo di amici, non m'è rimasto che Giotti. Nessuno si cura di me. Nessuno ha bisogno di vedermi, di sentirmi. Sarà certo anche mia miseria.
5 Gennaio '45
A volgere lo sguardo in giro, c'è da tremare. Non il più piccolo segno di ripresa in Italia. Ancora si va in giù, chi sa fino a dove, in quale abisso. E da tutte le parti, giustamente, ci sprezzano, e tutti calcano con astio su noi. Non ci perdoneranno per molto tempo l'arroganza di ieri, le arie di padreterni che ci siamo dati, recentemente, a buon prezzo. Intanto noi, invece di riconoscerci tutti fratelli e tutti corresponsabili della situazione in cui ci siamo messi con azioni, passioni e omissioni, ci scanniamo vicendevolmente per la maggior gloria altrui, per servire altrui. Quale spettacolo! Come è poco “ natura" l'umanità, a quanto prezzo bisogna acquistarla! Ora il cuore, nella sua irrazionalità, vorrebbe il miracolo. Ma Dio non è ingiusto e non può concedere, nell'ordine umano, miracoli di questa specie. Aiutati, che il ciel ti aiuterà, dice il proverbio.
8 Maggio '45
Ieri dunque la Germania s'è arresa a discrezione, secondo la volontà degli alleati. La tragedia è finita, almeno nella
sua manifestazione di guerra guerreggiata. Spariti ormai quasi tutti i protagonisti tedeschi, spariti quelli italiani. Ma la pace dei popoli, è assai lontana. Stiamo cogliendo ora il frutto di troppi errori, dì troppa insufficienza sic. L'Italia, che nel 1918 occupava Trieste, non aveva la minima idea del compito che si assumeva. La sua classe dirigente era politicamente provinciale, incapace quindi di comprendere il problema squisitamente europeo che le si presentava. La boria della vittoria concorse a farci perdere di fronte agli slavi della Giulia, il senso della misura. Abbiamo fatto loro torto e non poco. Ma ciò che è stato più grave si è che abbiamo offeso il sentimento degli stessi italiani della regione. Il fascismo poi, non ha fatto che potenziare torti ed errori. Perciò oggi gli slavi sono esasperati e non intendono lasciar passare la buona occasione per regolare con noi i loro conti. E altrettanto o quasi, sono esasperate le masse operaie che, con gli slavi hanno fatto causa comune. Infine, la nostra borghesia, che ha subito il fascismo e la tirannide mussoliniana pur di non combattere, è disposta a subire gli slavi, il comunismo, la morte, pur di non dover battersi. Se la salvezza non ci verrà da gioco di forze internazionali siamo condannati a perdere Giulia, e, forse, Trieste. E’ doloroso assai, ma direi quasi che sarebbe giusto. Un quarto di secolo è passato dal 1918 al 1943 senza che l'Italia s'avvedesse del problema giuliano. E neanche oggi lo capisce.
Esce il diario del raffinato poeta di Grado
BIAGIO MARIN, UNA VOCE SOLITARIA NEL CUORE DELL’EUROPA DILANIATA
Raccontò in versi il tragico esodo degli italiani dall’Istria. Ma nei suoi appunti indicò le responsabilità del fascismo nelle drammatiche vicende al confine italo-jugoslavo.Francesco Erbani, La Repubblica 23 settembre 2005
Abituati al dialetto gradese delle sue poesie, una lingua antica, che lui paragona a un rudere medievale rimasto troncato, nello sviluppo, fa una grande impressione leggere le pagine del diario di Biagio Marin composte in un italiano fluido, arricchito di cultura centroeuropea, di memorie letterarie e filosofiche, di sofferente passione politica e civile. Il diario del poeta di “Elegie istriane” esce ora presso la Libreria Editrice Goriziana, con la cura e la postfazione di Ilenia Marin e con un saggio di Elvio Guadagnini (“La pace lontana. Diari 1941-1950”, pagg. 382, euro 24) che ne ricostruiscono l'origine e che ripropongono una figura solitaria, vissuta ai margini del Novecento italiano (Marin è nato nel 1891 ed è morto nel 1985), almeno per la poca consuetudine a spingere lo sguardo verso i confini orientali del paese, luogo di incontro e di lacerazione fra popoli, dall’impero austriaco alla tragedia della guerra e del dopoguerra, ma anche bacino di innovazioni culturali e letterarie (del diario riproduciamo in questa pagina alcuni brani) .
Marin nasce a Grado e si divide fra Firenze - dove frequenta il gruppo della Voce, in cui figura anche Scipio Slataper, - Vienna, nella cui università studia, e quindi Roma, dove si laurea in filosofia con Giovanni Gentile. I suoi primi autori sono Meister Eckhart, Heine e Goethe. L'esordio in versi è del 1912 con Fiuri de tapo, in cui mette a punto il dialetto di Grado, un'isola legata alla terraferma che ha conservato un idioma ancor più periferico rispetto alle parlate venete e giuliane. Pier Paolo Pasolini, che molto lo apprezza, assimila il suo tono a quello di Giovanni Pascoli, per la cura delle parole povere e riferite a oggetti minuti, il che non toglie che Marin voglia “fare di Grado il cosmo".
Per lungo tempo, fino agli anni Cinquanta, Marin non pubblica più versi (verranno poi Elegie istriane, I canti de l'Isola, La vita xe fiama e altre raccolte ancora). Vive facendo il direttore dell'Azienda di turismo di Grado, poi, trasferitosi a Trieste, l'insegnante, l'ispettore scolastico, quindi il bibliotecario delle Assicurazioni Generali. I diari colmano questo vuoto . "Lo so", scrive in un appunto dell'aprile 1946, "i diari sono lo sfogatoio occulto degli impotenti. Chi ha la forza agisce alla luce del sole, coram populo; vuole affermarsi, vuol avere consenso, vuol insegnare a dominare. Chi non ha forza, come me, sfoga la propria tristezza, la propria mortificazione, nel diario. Che è un'ultima, vana illusione di pur affermarsi, di pur essere".
I diari di Marin sono il referto dell'accavallarsi di emozioni e di riflessioni, non lasciano al poeta il tempo di ricucire, di amalgamare. Il pensiero scorre, e chi legge assiste al suo disordinato evolvere, a un modificarsi che trascina contraddizioni e impurità. Marin ha aderito al fascismo e, almeno fino ai primi mesi del 41, non nasconde l'ammirazione per i tedeschi, popolo di cui ama la spiritualità e che ritiene in grado di realizzare una unità europea spingendosi a Est, dove attingere cultura orientale da contrapporre al materialismo occidentale. Ma l'incedere della guerra scuote la sua sensibilità solitaria, ed ecco, già nel maggio del '41, l'incubo di "un'Europa in regime uniforme di lavoro germanizzato", un continente senz'anima, i cui popoli sono "scancellati nella loro individualità; non più arte, non poesia, non pensiero: tecnica tecnica tecnica". Volgendo gli occhi all'Italia, Marin è colto da empiti veementi: "Ahi Mussolini di quanto mal fu matre la tua insofferenza della critica in un paese dove la critica era reazione a l’anarchia, correttivo della libidine. (…) L’Italia è ora una fungaia velenosa zioni fra italiani e jugoslavi.(refuso del giornale)
Ancora nel '41, subito dopo l’annessione da parte italiana della provincia slovena di Lubiana, Marin annota: "Non ho molta fiducia della capacità dei nostri di rispettarla (l’autonomia degli sloveni, n.d.r.). Certo sarebbe un gran bene che lo facessimo". Ma è nel '45 che il suo pensiero si esplicita diffusamente, sottolineando quanta parte di responsabilità hanno gli italiani, e il fascismo in particolare con il suo programma di eliminazione dell’identità croata e slovena durante la brutale occupazione di quelle regioni, nell’aver alimentato le tensioni etniche: “Non ci perdoneranno per molto tempo l'arroganza di ieri, le ansie da padreterno che ci siamo dati recentemente, a buon prezzo".
Gli avvenimenti incalzano e gli appunti registrano la sofferenza di Marin di fronte alle ritorsioni, alle discriminazioni, al "dolore e l'esilio" (per usare il titolo del bel libro dì Guido Crainz, che intreccia molti versi del poeta di Grado con le altre memorie letterarie della regione, di lingua italiana e di lingua slava: da Slataper a Fulvio Tomizza, da Boris Pahor a Nadja Veluscek).
Marin è il poeta dell'esodo degli italiani dall'Istria ("Mai più verzeremo le porte / de casa che nasse n'ha visto / mai più quela crose del Cristo / sul campo de morte", mai più vedremo le porte di casa che nascere ci hanno visto ... ), è il poeta che rinfaccia all'Italia di aver voltato gli occhi dall'altra parte, di aver ignorato ciò che accadeva ai suoi confini orientali, lasciando che lo sradicamento avesse esiti drammatici ("E adesso semo como pagia al vento, / e no potemo mete più radìse / co'1 cuor che duol in continuo lamento / co' boca che no sa quel che la dise", e adesso siamo come paglia al vento ... ).
Ma è anche il poeta che conserva lucidità e profondità storica: "Abbiamo fatto per primi la stessa cosa agli altri", scrive il 15 maggio del'45, "abbiamo annessa la Slovenia brutalmente, abbiamo fatto la guerra alla Francia per Nizza, ciò che era più stupido, per la Savoia. E ora la situazione si è rovesciata, con l'aggravante che si va incontro a sistemazioni a lunga durata e forse definitive. Ché se la Giulia dovesse cadere nelle mani degli Slavi, in breve tempo ogni traccia di italianità vi sarà scancellata. Abbiamo seminato odio e ingiustizia a piene mani: ora ecco qui l’amaro frutto della nostra semina. “
Passata la tensione delle rapide campagne tedesche contro la Serbia e la Grecia, ora c'è in noi come un senso di vuoto. Ma la guerra continua. Quale sarà la prossima mossa nessuno lo sa. Bisogna buttare gli Inglesi fuori del Mediterraneo; ma Alessandria è lontana, c'è di mezzo il mare, c'è di mezzo la Turchia e forse anche la Russia. Ed è prossimo l'intervento degli Stati Uniti. Il nostro compito non è lieve. Penso che la pace ci troverà poi stanchi, senza quadri, impreparati materialmente e spiritualmente ad affrontare i problemi della ricostruzione. C'è già ora tanta rilassatezza! Noi non amiamo il lavoro, e il lavoro è la base di ogni grandezza e anche di ogni salute.
Avverto ogni giorno di più la grande solitudine in cui vivo. Passano mesi senza che io scambi parola con qualcuno.. Della vasta cerchia che dicevo di amici, non m'è rimasto che Giotti. Nessuno si cura di me. Nessuno ha bisogno di vedermi, di sentirmi. Sarà certo anche mia miseria.
5 Gennaio '45
A volgere lo sguardo in giro, c'è da tremare. Non il più piccolo segno di ripresa in Italia. Ancora si va in giù, chi sa fino a dove, in quale abisso. E da tutte le parti, giustamente, ci sprezzano, e tutti calcano con astio su noi. Non ci perdoneranno per molto tempo l'arroganza di ieri, le arie di padreterni che ci siamo dati, recentemente, a buon prezzo. Intanto noi, invece di riconoscerci tutti fratelli e tutti corresponsabili della situazione in cui ci siamo messi con azioni, passioni e omissioni, ci scanniamo vicendevolmente per la maggior gloria altrui, per servire altrui. Quale spettacolo! Come è poco “ natura" l'umanità, a quanto prezzo bisogna acquistarla! Ora il cuore, nella sua irrazionalità, vorrebbe il miracolo. Ma Dio non è ingiusto e non può concedere, nell'ordine umano, miracoli di questa specie. Aiutati, che il ciel ti aiuterà, dice il proverbio.
8 Maggio '45
Ieri dunque la Germania s'è arresa a discrezione, secondo la volontà degli alleati. La tragedia è finita, almeno nella
sua manifestazione di guerra guerreggiata. Spariti ormai quasi tutti i protagonisti tedeschi, spariti quelli italiani. Ma la pace dei popoli, è assai lontana. Stiamo cogliendo ora il frutto di troppi errori, dì troppa insufficienza sic. L'Italia, che nel 1918 occupava Trieste, non aveva la minima idea del compito che si assumeva. La sua classe dirigente era politicamente provinciale, incapace quindi di comprendere il problema squisitamente europeo che le si presentava. La boria della vittoria concorse a farci perdere di fronte agli slavi della Giulia, il senso della misura. Abbiamo fatto loro torto e non poco. Ma ciò che è stato più grave si è che abbiamo offeso il sentimento degli stessi italiani della regione. Il fascismo poi, non ha fatto che potenziare torti ed errori. Perciò oggi gli slavi sono esasperati e non intendono lasciar passare la buona occasione per regolare con noi i loro conti. E altrettanto o quasi, sono esasperate le masse operaie che, con gli slavi hanno fatto causa comune. Infine, la nostra borghesia, che ha subito il fascismo e la tirannide mussoliniana pur di non combattere, è disposta a subire gli slavi, il comunismo, la morte, pur di non dover battersi. Se la salvezza non ci verrà da gioco di forze internazionali siamo condannati a perdere Giulia, e, forse, Trieste. E’ doloroso assai, ma direi quasi che sarebbe giusto. Un quarto di secolo è passato dal 1918 al 1943 senza che l'Italia s'avvedesse del problema giuliano. E neanche oggi lo capisce.
Esce il diario del raffinato poeta di Grado
BIAGIO MARIN, UNA VOCE SOLITARIA NEL CUORE DELL’EUROPA DILANIATA
Raccontò in versi il tragico esodo degli italiani dall’Istria. Ma nei suoi appunti indicò le responsabilità del fascismo nelle drammatiche vicende al confine italo-jugoslavo.Francesco Erbani, La Repubblica 23 settembre 2005
Abituati al dialetto gradese delle sue poesie, una lingua antica, che lui paragona a un rudere medievale rimasto troncato, nello sviluppo, fa una grande impressione leggere le pagine del diario di Biagio Marin composte in un italiano fluido, arricchito di cultura centroeuropea, di memorie letterarie e filosofiche, di sofferente passione politica e civile. Il diario del poeta di “Elegie istriane” esce ora presso la Libreria Editrice Goriziana, con la cura e la postfazione di Ilenia Marin e con un saggio di Elvio Guadagnini (“La pace lontana. Diari 1941-1950”, pagg. 382, euro 24) che ne ricostruiscono l'origine e che ripropongono una figura solitaria, vissuta ai margini del Novecento italiano (Marin è nato nel 1891 ed è morto nel 1985), almeno per la poca consuetudine a spingere lo sguardo verso i confini orientali del paese, luogo di incontro e di lacerazione fra popoli, dall’impero austriaco alla tragedia della guerra e del dopoguerra, ma anche bacino di innovazioni culturali e letterarie (del diario riproduciamo in questa pagina alcuni brani) .
Marin nasce a Grado e si divide fra Firenze - dove frequenta il gruppo della Voce, in cui figura anche Scipio Slataper, - Vienna, nella cui università studia, e quindi Roma, dove si laurea in filosofia con Giovanni Gentile. I suoi primi autori sono Meister Eckhart, Heine e Goethe. L'esordio in versi è del 1912 con Fiuri de tapo, in cui mette a punto il dialetto di Grado, un'isola legata alla terraferma che ha conservato un idioma ancor più periferico rispetto alle parlate venete e giuliane. Pier Paolo Pasolini, che molto lo apprezza, assimila il suo tono a quello di Giovanni Pascoli, per la cura delle parole povere e riferite a oggetti minuti, il che non toglie che Marin voglia “fare di Grado il cosmo".
Per lungo tempo, fino agli anni Cinquanta, Marin non pubblica più versi (verranno poi Elegie istriane, I canti de l'Isola, La vita xe fiama e altre raccolte ancora). Vive facendo il direttore dell'Azienda di turismo di Grado, poi, trasferitosi a Trieste, l'insegnante, l'ispettore scolastico, quindi il bibliotecario delle Assicurazioni Generali. I diari colmano questo vuoto . "Lo so", scrive in un appunto dell'aprile 1946, "i diari sono lo sfogatoio occulto degli impotenti. Chi ha la forza agisce alla luce del sole, coram populo; vuole affermarsi, vuol avere consenso, vuol insegnare a dominare. Chi non ha forza, come me, sfoga la propria tristezza, la propria mortificazione, nel diario. Che è un'ultima, vana illusione di pur affermarsi, di pur essere".
I diari di Marin sono il referto dell'accavallarsi di emozioni e di riflessioni, non lasciano al poeta il tempo di ricucire, di amalgamare. Il pensiero scorre, e chi legge assiste al suo disordinato evolvere, a un modificarsi che trascina contraddizioni e impurità. Marin ha aderito al fascismo e, almeno fino ai primi mesi del 41, non nasconde l'ammirazione per i tedeschi, popolo di cui ama la spiritualità e che ritiene in grado di realizzare una unità europea spingendosi a Est, dove attingere cultura orientale da contrapporre al materialismo occidentale. Ma l'incedere della guerra scuote la sua sensibilità solitaria, ed ecco, già nel maggio del '41, l'incubo di "un'Europa in regime uniforme di lavoro germanizzato", un continente senz'anima, i cui popoli sono "scancellati nella loro individualità; non più arte, non poesia, non pensiero: tecnica tecnica tecnica". Volgendo gli occhi all'Italia, Marin è colto da empiti veementi: "Ahi Mussolini di quanto mal fu matre la tua insofferenza della critica in un paese dove la critica era reazione a l’anarchia, correttivo della libidine. (…) L’Italia è ora una fungaia velenosa zioni fra italiani e jugoslavi.
Ancora nel '41, subito dopo l’annessione da parte italiana della provincia slovena di Lubiana, Marin annota: "Non ho molta fiducia della capacità dei nostri di rispettarla (l’autonomia degli sloveni, n.d.r.). Certo sarebbe un gran bene che lo facessimo". Ma è nel '45 che il suo pensiero si esplicita diffusamente, sottolineando quanta parte di responsabilità hanno gli italiani, e il fascismo in particolare con il suo programma di eliminazione dell’identità croata e slovena durante la brutale occupazione di quelle regioni, nell’aver alimentato le tensioni etniche: “Non ci perdoneranno per molto tempo l'arroganza di ieri, le ansie da padreterno che ci siamo dati recentemente, a buon prezzo".
Gli avvenimenti incalzano e gli appunti registrano la sofferenza di Marin di fronte alle ritorsioni, alle discriminazioni, al "dolore e l'esilio" (per usare il titolo del bel libro dì Guido Crainz, che intreccia molti versi del poeta di Grado con le altre memorie letterarie della regione, di lingua italiana e di lingua slava: da Slataper a Fulvio Tomizza, da Boris Pahor a Nadja Veluscek).
Marin è il poeta dell'esodo degli italiani dall'Istria ("Mai più verzeremo le porte / de casa che nasse n'ha visto / mai più quela crose del Cristo / sul campo de morte", mai più vedremo le porte di casa che nascere ci hanno visto ... ), è il poeta che rinfaccia all'Italia di aver voltato gli occhi dall'altra parte, di aver ignorato ciò che accadeva ai suoi confini orientali, lasciando che lo sradicamento avesse esiti drammatici ("E adesso semo como pagia al vento, / e no potemo mete più radìse / co'1 cuor che duol in continuo lamento / co' boca che no sa quel che la dise", e adesso siamo come paglia al vento ... ).
Ma è anche il poeta che conserva lucidità e profondità storica: "Abbiamo fatto per primi la stessa cosa agli altri", scrive il 15 maggio del'45, "abbiamo annessa la Slovenia brutalmente, abbiamo fatto la guerra alla Francia per Nizza, ciò che era più stupido, per la Savoia. E ora la situazione si è rovesciata, con l'aggravante che si va incontro a sistemazioni a lunga durata e forse definitive. Ché se la Giulia dovesse cadere nelle mani degli Slavi, in breve tempo ogni traccia di italianità vi sarà scancellata. Abbiamo seminato odio e ingiustizia a piene mani: ora ecco qui l’amaro frutto della nostra semina. “
martedì 9 febbraio 2010
Follie igieniste
Lavare un quaderno con acqua e sapone. L’avete mai fatto? Io sì, me l’hanno fatto fare o almeno ci ho provato: ma con cautela, per non dover buttare via il quaderno con tutti i conticini e i pensierini.
In prima e seconda elementare ho avuto un maestro, “maestro unico”, che ci faceva buttar via le penne e le gomme se cadevano per terra: erano ormai sporche, contaminate, irrecuperabilmente cariche di microbi e di batteri. Con i quaderni ci andava più cauto: bastava lavarli.
Sembrerà assurdo, ma questo signore ha continuato a insegnare per parecchi anni, nonostante le proteste dei genitori (inclusi i miei) – per fortuna nostra si metteva spesso in malattia, così venivano le supplenti (o i supplenti, maschi e femmine) e qualcosa di buono si riusciva a combinare.
Detto così sembrerebbe la storia di una macchietta, un innocuo ricordo, invece l’anno scorso questo esemplare di follia igienista è tornato di grande attualità, addirittura un esempio da seguire. Adesso che il periodo buio dell’influenza sta per passare, e che giornali e tv hanno fatto tante inchieste sui vaccini inutilizzati, mi sento finalmente di parlarne: questa storia del disinfettarsi per una stretta di mano è veramente folle.
Gli spot governativi (del ministero!) passavano su tutte le tv con grande frequenza e spiegavano che per combattere l’influenza bisognava lavarsi le mani, e stare a casa se si aveva la febbre: dopo il primo mese sono stati un po’ corretti, ma non credevo alle mie orecchie.
Detto en passant che non sempre si può stare a casa se si ha la febbre (magari si potesse! è da sempre la soluzione migliore, ma adesso con le nuove leggi sul lavoro si rischia di essere licenziati per assenteismo...), questo è il modo migliore per creare un esercito di spostati e di pazzi pericolosi. Ricordo ancora con orrore notizie ricorrenti negli anni passati: bambini ricoverati perché le mamme li lavavano con l’alcool. Qualsiasi dermatologo vi dirà che anche lavarsi troppo fa male, perché la pelle è delicata, il sapone e i bagni schiuma usati a ripetizione tolgono anche lo strato di grasso naturale che rende la pelle morbida ed elastica; figuriamoci se si usano disinfettanti e alcool, che per loro stessa natura vanno classificati tra i veleni (se sterilizza, è un veleno: e il miglior disinfettante è il fuoco...).
Mi fermo qui perché poi so già che passa di qui qualcuno e comincia a muovermi obiezioni del tipo “ma allora tu chi credi di essere per dare pareri e giudizi”, eccetera. Dalle pagine dei giornali colgo solo una notizia interessante: il clamoroso boom nelle vendite dei disinfettanti, soprattutto di quelli da tenere in tasca e da sfregarsi con cura dopo che vi hanno stretto la mano: proprio a voi, perché siete voi – voi! - che siete sporchi. Io, io mi disinfetto sempre con alcool puro e candeggina, e a volte perfino con il fuoco e con l’acido muriatico – soprattutto nelle parti intime che, si sa, sono sempre sporchissime e covo di microbi e di batteri.
In prima e seconda elementare ho avuto un maestro, “maestro unico”, che ci faceva buttar via le penne e le gomme se cadevano per terra: erano ormai sporche, contaminate, irrecuperabilmente cariche di microbi e di batteri. Con i quaderni ci andava più cauto: bastava lavarli.
Sembrerà assurdo, ma questo signore ha continuato a insegnare per parecchi anni, nonostante le proteste dei genitori (inclusi i miei) – per fortuna nostra si metteva spesso in malattia, così venivano le supplenti (o i supplenti, maschi e femmine) e qualcosa di buono si riusciva a combinare.
Detto così sembrerebbe la storia di una macchietta, un innocuo ricordo, invece l’anno scorso questo esemplare di follia igienista è tornato di grande attualità, addirittura un esempio da seguire. Adesso che il periodo buio dell’influenza sta per passare, e che giornali e tv hanno fatto tante inchieste sui vaccini inutilizzati, mi sento finalmente di parlarne: questa storia del disinfettarsi per una stretta di mano è veramente folle.
Gli spot governativi (del ministero!) passavano su tutte le tv con grande frequenza e spiegavano che per combattere l’influenza bisognava lavarsi le mani, e stare a casa se si aveva la febbre: dopo il primo mese sono stati un po’ corretti, ma non credevo alle mie orecchie.
Detto en passant che non sempre si può stare a casa se si ha la febbre (magari si potesse! è da sempre la soluzione migliore, ma adesso con le nuove leggi sul lavoro si rischia di essere licenziati per assenteismo...), questo è il modo migliore per creare un esercito di spostati e di pazzi pericolosi. Ricordo ancora con orrore notizie ricorrenti negli anni passati: bambini ricoverati perché le mamme li lavavano con l’alcool. Qualsiasi dermatologo vi dirà che anche lavarsi troppo fa male, perché la pelle è delicata, il sapone e i bagni schiuma usati a ripetizione tolgono anche lo strato di grasso naturale che rende la pelle morbida ed elastica; figuriamoci se si usano disinfettanti e alcool, che per loro stessa natura vanno classificati tra i veleni (se sterilizza, è un veleno: e il miglior disinfettante è il fuoco...).
Mi fermo qui perché poi so già che passa di qui qualcuno e comincia a muovermi obiezioni del tipo “ma allora tu chi credi di essere per dare pareri e giudizi”, eccetera. Dalle pagine dei giornali colgo solo una notizia interessante: il clamoroso boom nelle vendite dei disinfettanti, soprattutto di quelli da tenere in tasca e da sfregarsi con cura dopo che vi hanno stretto la mano: proprio a voi, perché siete voi – voi! - che siete sporchi. Io, io mi disinfetto sempre con alcool puro e candeggina, e a volte perfino con il fuoco e con l’acido muriatico – soprattutto nelle parti intime che, si sa, sono sempre sporchissime e covo di microbi e di batteri.
venerdì 5 febbraio 2010
Come passa il tempo
giovedì 4 febbraio 2010
Chi vota a destra è un imbecille? (n.5)
Le targhe alterne. Ancora le targhe alterne, come negli anni 70. Un’altra volta le targhe alterne? Non ci volevo credere, dopo quasi quarant’anni la soluzione allo smog, ancora oggi nel 2010, sarebbe rappresentata dal fatto che io domani non posso viaggiare e tu sì, così si dimezza il traffico con la bacchetta magica. «Encroyable», come direbbe Snoopy. Eppure eccolo lì, l’assessore leghista, nel dibattito tv sulla tv locale (seguitissimo): «Bisogna mettere subito le targhe alterne». Ieri, non nel 1973.
Si sa da sempre che la conformazione geografica della Pianura Padana non aiuta a risolvere i problemi di smog. Le Alpi sono un magnifico baluardo contro le perturbazioni e il maltempo che affligge da sempre l’Europa del Nord, ma ciò comporta ristagno d’aria, nebbie, umidità permanente. Ma non sto facendo un trattato di orografia e meteorologia, sono cose che si imparavano a scuola già dalla quarta elementare (il mio ’68: la quarta e quinta elementare). Dico solo che combattere lo smog in Lombardia non è facile, questo va detto e io lo dico.
Per i non lombardi, devo però spiegare che da 15 anni la giunta regionale è la stessa, sempre guidata da Formigoni, giunta berlusconiana-bossiana-missina-ciellina. In 15 anni, dal 1995, se ne potevano fare di cose: altro che targhe alterne. Per esempio – ovviamente non è un’idea mia, sono cose che si leggevano sui giornali e di cui si parlava in tv, nei libri, eccetera – si poteva fare una rete di servizio pubblico che andasse a toccare tutti i paesi della Lombardia, e rendere efficiente il trasporto pubblico dove già c’era, investendo su treni locali e sui tram. L’esempio che si portava era quello dei linfonodi nel corpo umano: individuare zone e paesi dove fosse possibile costruire ampi parcheggi, e da lì far partire corse frequenti verso i capoluoghi e le principali città. In questo modo, le auto dei privati avrebbero percorso tratti brevi, 4-5 Km, solo per giungere a quei parcheggi. Facendo funzionare questo sistema, ovviamente con corsie apposite per i mezzi pubblici (a metano, of course) e tenendo bassissimi i costi dei parcheggi, solo un pazzo si sarebbe messo in automobile per fare 35-50 Km di coda a passo d’uomo, come succede oggi. Esperimenti del genere furono tentati in Emilia Romagna negli anni ’70: a Bologna i mezzi pubblici erano gratis, a Reggio Emilia forse funzionano ancora i minibus che portavano in centro chi arrivava in uno di quei parcheggi. Le risposte negative furono: “è troppo costoso” e “non li prende nessuno”. Certo, il biglietto del tram gratis è un’utopia – ahinoi, il biglietto va pagato; diverso è il discorso sui minibus e sui mezzi pubblici in genere, perché bisognerebbe investire soldi e fare campagne stampa per convincere gli italiani che viaggiare sui mezzi pubblici conviene. In altre parole, bisognerebbe crederci: ma se poi i cittadini convinti si trovano davanti a mezzi pubblici sporchi, lenti, affollati, sempre in ritardo, con corse rare e avventurose, stipati come sardine, affiancati da costosissimi parcheggi a pagamento, cosa vuoi che facciano? Prendono la macchina personale e vanno a intasare le strade, è ovvio.
La risposta regionale e nazionale (anche Roma ormai è milanesizzata) è stata la privatizzazione: le Ferrovie, privatizzate, stanno chiudendo stazioni e biglietterie, cioè chiudono quelle “che non rendono”. Cioè, quelle che non vendono il numero di biglietti sufficienti a garantire profitti: come se fossero gelaterie. Non solo non si fanno investimenti, si chiude quello che già c’era – ma qui ci vorrebbe un discorso a parte, e mi piacerebbe che lo facesse Marco Paolini (Milena Gabanelli lo ha già fatto più volte).
Insomma, quale è stata la risposta all’inquinamento atmosferico della Regione Lombardia, in questi 15 anni di governo incontrastato, con elezioni vinte grazie a maggioranze del 65-70 percento? Oltre all’ecopass e alle targhe alterne, e alle multe salatissime per i singoli che hanno bisogno di viaggiare nei giorni “vietati” perché sono costretti a farlo dal loro lavoro, ecco la partenza della nuova Pedemontana. La Pedemontana, “strada che risolverà tutti i problemi del traffico”, sta facendo strage dei pochi boschi residui in Lombardia.
Ecco, la risposta, gira e rigira, da qualsiasi parte si cominci, alla fine è sempre quella: buttare giù le piante, distruggere ambienti intatti da millenni, scavare, asfaltare, fare nuove strade sempre più intasate. E’ così che si combatte lo smog, nell’evoluta Lombardia leghista finalmente libera dal giogo romano.
Si sa da sempre che la conformazione geografica della Pianura Padana non aiuta a risolvere i problemi di smog. Le Alpi sono un magnifico baluardo contro le perturbazioni e il maltempo che affligge da sempre l’Europa del Nord, ma ciò comporta ristagno d’aria, nebbie, umidità permanente. Ma non sto facendo un trattato di orografia e meteorologia, sono cose che si imparavano a scuola già dalla quarta elementare (il mio ’68: la quarta e quinta elementare). Dico solo che combattere lo smog in Lombardia non è facile, questo va detto e io lo dico.
Per i non lombardi, devo però spiegare che da 15 anni la giunta regionale è la stessa, sempre guidata da Formigoni, giunta berlusconiana-bossiana-missina-ciellina. In 15 anni, dal 1995, se ne potevano fare di cose: altro che targhe alterne. Per esempio – ovviamente non è un’idea mia, sono cose che si leggevano sui giornali e di cui si parlava in tv, nei libri, eccetera – si poteva fare una rete di servizio pubblico che andasse a toccare tutti i paesi della Lombardia, e rendere efficiente il trasporto pubblico dove già c’era, investendo su treni locali e sui tram. L’esempio che si portava era quello dei linfonodi nel corpo umano: individuare zone e paesi dove fosse possibile costruire ampi parcheggi, e da lì far partire corse frequenti verso i capoluoghi e le principali città. In questo modo, le auto dei privati avrebbero percorso tratti brevi, 4-5 Km, solo per giungere a quei parcheggi. Facendo funzionare questo sistema, ovviamente con corsie apposite per i mezzi pubblici (a metano, of course) e tenendo bassissimi i costi dei parcheggi, solo un pazzo si sarebbe messo in automobile per fare 35-50 Km di coda a passo d’uomo, come succede oggi. Esperimenti del genere furono tentati in Emilia Romagna negli anni ’70: a Bologna i mezzi pubblici erano gratis, a Reggio Emilia forse funzionano ancora i minibus che portavano in centro chi arrivava in uno di quei parcheggi. Le risposte negative furono: “è troppo costoso” e “non li prende nessuno”. Certo, il biglietto del tram gratis è un’utopia – ahinoi, il biglietto va pagato; diverso è il discorso sui minibus e sui mezzi pubblici in genere, perché bisognerebbe investire soldi e fare campagne stampa per convincere gli italiani che viaggiare sui mezzi pubblici conviene. In altre parole, bisognerebbe crederci: ma se poi i cittadini convinti si trovano davanti a mezzi pubblici sporchi, lenti, affollati, sempre in ritardo, con corse rare e avventurose, stipati come sardine, affiancati da costosissimi parcheggi a pagamento, cosa vuoi che facciano? Prendono la macchina personale e vanno a intasare le strade, è ovvio.
La risposta regionale e nazionale (anche Roma ormai è milanesizzata) è stata la privatizzazione: le Ferrovie, privatizzate, stanno chiudendo stazioni e biglietterie, cioè chiudono quelle “che non rendono”. Cioè, quelle che non vendono il numero di biglietti sufficienti a garantire profitti: come se fossero gelaterie. Non solo non si fanno investimenti, si chiude quello che già c’era – ma qui ci vorrebbe un discorso a parte, e mi piacerebbe che lo facesse Marco Paolini (Milena Gabanelli lo ha già fatto più volte).
Insomma, quale è stata la risposta all’inquinamento atmosferico della Regione Lombardia, in questi 15 anni di governo incontrastato, con elezioni vinte grazie a maggioranze del 65-70 percento? Oltre all’ecopass e alle targhe alterne, e alle multe salatissime per i singoli che hanno bisogno di viaggiare nei giorni “vietati” perché sono costretti a farlo dal loro lavoro, ecco la partenza della nuova Pedemontana. La Pedemontana, “strada che risolverà tutti i problemi del traffico”, sta facendo strage dei pochi boschi residui in Lombardia.
Ecco, la risposta, gira e rigira, da qualsiasi parte si cominci, alla fine è sempre quella: buttare giù le piante, distruggere ambienti intatti da millenni, scavare, asfaltare, fare nuove strade sempre più intasate. E’ così che si combatte lo smog, nell’evoluta Lombardia leghista finalmente libera dal giogo romano.
martedì 2 febbraio 2010
Mondo gatto
Questo è il primo momento in cui incontriamo Mr.Bloom. Leopold Bloom è a casa sua, è mattino presto e sta preparando la colazione per la moglie: che si chiama Molly, è a letto e dorme ancora.
(...)Un'altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta impettita girò attorno a una gamba dei tavolo con la coda ritta.- Mkgnao!- Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.Mr. Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.- Latte per la miciolina, disse.- Mrkgnao! piagnucolò la gatta.Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo.- Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura dei pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchína.Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.- Mrkrgnao! disse forte la gatta.Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l'avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s'avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.- Grr! esclamò lei e corse a lambire.Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.Tese l'orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedi: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzìno di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l'acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto.Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:- Vado qui all'angolo, torno tra un minuto.Udita la sua voce dir questo soggiunse:- Vuoi niente per colazione?Un debole grugnito assonnato rispose:- Mn.No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d'ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano, Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po' di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l'ha pagato suo padre. (...)
( James Joyce, "Ulisse"; nella traduzione di Giulio de Angelis, ed. Mondadori, a cura di Giorgio Melchiori. )
(...)Un'altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta impettita girò attorno a una gamba dei tavolo con la coda ritta.- Mkgnao!- Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.Mr. Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.- Latte per la miciolina, disse.- Mrkgnao! piagnucolò la gatta.Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo.- Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura dei pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchína.Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.- Mrkrgnao! disse forte la gatta.Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l'avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s'avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.- Grr! esclamò lei e corse a lambire.Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.Tese l'orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedi: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzìno di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l'acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto.Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:- Vado qui all'angolo, torno tra un minuto.Udita la sua voce dir questo soggiunse:- Vuoi niente per colazione?Un debole grugnito assonnato rispose:- Mn.No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d'ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano, Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po' di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l'ha pagato suo padre. (...)
( James Joyce, "Ulisse"; nella traduzione di Giulio de Angelis, ed. Mondadori, a cura di Giorgio Melchiori. )
Il 2 febbraio è il compleanno di James Joyce: è dell'82, auguri!
lunedì 1 febbraio 2010
Saggezza
- Come ha fatto a perdere diciannove chili?
- Mangiando poco. (...)
(Moni Ovadia, intervista al Venerdì di Repubblica del 29 gennaio 2010)
Lo dicono tutti i dietologi seri. Questo metodo (molto efficace) ha un solo difetto: non fa arricchire nessuno, e con “nessuno” si intendono farmacisti, maghi e case farmaceutiche. Volendo guardar bene, ne ha anche un altro: fa diventare molto antipatico il medico o il dietologo che lo suggerisce.
Nell’intervista si parla di alimentazione, è molto bella e molto interessante, ci sono anche delle ricette facili da eseguire; e se l’avete persa forse fate ancora in tempo a trovare il giornale in casa di qualche amico.
- Mangiando poco. (...)
(Moni Ovadia, intervista al Venerdì di Repubblica del 29 gennaio 2010)
Lo dicono tutti i dietologi seri. Questo metodo (molto efficace) ha un solo difetto: non fa arricchire nessuno, e con “nessuno” si intendono farmacisti, maghi e case farmaceutiche. Volendo guardar bene, ne ha anche un altro: fa diventare molto antipatico il medico o il dietologo che lo suggerisce.
Nell’intervista si parla di alimentazione, è molto bella e molto interessante, ci sono anche delle ricette facili da eseguire; e se l’avete persa forse fate ancora in tempo a trovare il giornale in casa di qualche amico.
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