Quando andavo a scuola, negli anni ’70, come libro di testo avevamo il Vìllari. Dato che il grande storico Rosario Villari era vicino al PCI, così come suo fratello Lucio Villari (storico altrettanto grande) gli allora rari studenti di destra (di destra estrema) volevano cambiarlo e chiedevano a gran voce l’adozione per tutti del Camera-Fabietti, che era già in uso in alcune sezioni. Adesso, invece, leggo che il Camera-Fabietti è troppo di sinistra, addirittura comunista: chi l’avrebbe mai detto. E’ da tanto tempo che non ho più tra le mani né il Villari né il Camera-Fabietti, ma di una cosa sono certo: entrambi scrivono che il Duce ha perso la guerra. Anzi, che le ha perse tutte: e le ha perse male, molto male.
La verità è quella cosa che non se ne va quando tu smetti di pensarci: lo disse Philip K. Dick, in un altro contesto; ma penso che lo si possa ripetere anche per i libri di storia, e per la Storia tout court. Non me lo sono inventato io, insomma, l’8 settembre del 1943: vent’anni di fascismo e di “Dio, Patria e Famiglia” portarono alla morte della Patria, in quel 1943 anche Dio e la Famiglia erano messi un tantino male.
Il fascismo era la religione della guerra, dei duri, del “credere obbedire combattere”, dei sabati fascisti con i bambini tirati su fin da piccoli ad usare lo schioppo, della “guerra come igiene del mondo” esaltata e propagandata da Marinetti: ma quando la guerra scoppiò, dopo vent’anni di inutile e pesantissima retorica militarista, l’esercito fascista fu subito messo in un angolo. E fu il Duce a perdere Fiume e l’Istria, anche questa è Storia che non si può cambiare; e dovette impegnarsi molto De Gasperi, nel dopoguerra, per non perdere anche Trieste.
I resoconti dei reduci sono impietosi: che sia il fronte russo, quello greco-albanese, quello di El Alamein, qualsiasi cosa, salta sempre fuori l’enorme approssimazione ed impreparazione dell’esercito fascista. Vent’anni di tempo, vent’anni tutti dedicati alla guerra, e non eravamo pronti: che a raccontare cos’è successo sia Rigoni Stern o l’avvocato Prisco, che sia uno storico universitario o il primo cugino di mio padre, non cambia nulla, i racconti sono sempre quelli, mascherati dietro la retorica del grande valore dei soldati italiani: che erano sì valorosi, ma male attrezzati e mandati allo sbaraglio. Si tratta dei racconti dei reduci, si badi bene: quelli che c’erano, i combattenti, e non gli imboscati. Molti di questi racconti li ho ascoltati in prima persona, da parenti e vicini di casa, storie ben presenti in casa mia anche perché uno dei miei zii era sul fronte russo e non è più tornato: è uno di quelli di cui non si sa più niente da settant’anni, mandato dal Duce a sicura morte, con gli stivali dalle suole di cartone e con il mulo invece del camion (“quelli che erano sui camion si sono salvati”, raccontava Mario Rigoni Stern...).
Cos’altro aggiungere? Niente, perché chi non vuol vedere continuerà a non vedere. I fascisti e i neofascisti sono ridicoli, quando si riempiono la bocca con quel “Dio Patria e Famiglia” come se ne avessero loro l'esclusiva, e come se agli altri, a noi, di questi valori non ce ne fregasse niente. Ce ne frega invece molto, ci interessano così tanto, Dio la Patria e la Famiglia, che vorremmo continuare a vivere in pace come abbiamo fatto dal 25 aprile del 1945 in qua. Il fascismo è un’ideologia che ha alla base la guerra, non dimentichiamolo mai: e se la guerra è la sua ragione d’essere, prima o poi, se gli date corda, la guerra arriverà. E i venti di guerra cominciano a sentirsi con una certa forza, in quest’Europa sempre più a destra, Anno Domini 2011.
PS: anche il giudizio storico su Silvio Berlusconi si può cominciare a darlo: l'epoca in cui l'Italia cessò di essere una grande potenza economica. L'epoca del declino dell'Italia, dopo il boom economico che durò dal 1945 al 1995, corrisponde esattamente all'arrivo al potere di Bossi e di Berlusconi. Ovviamente, se i libri di scuola li scriveranno Pier Silvio e i figli di Bossi e di La Russa , ci sarà invece scritto che Mussolini vinse la guerra conquistando il mondo intiero e soggiogando gli USA, eccetera eccetera.
lunedì 25 aprile 2011
domenica 24 aprile 2011
Una storia d'amore
La più bella storia d'amore che io abbia mai letto si trova nel romanzo "Lo schiavo" di Isaac B. Singer. Siamo nella Polonia del XVII secolo, e Singer è un Narratore con la maiuscola, uno di quegli scrittori dei quali sentiamo continuamente la mancanza. Si tratta dell'amore, per forza di cose clandestino, tra l'ebreo osservante Jacob e la contadina cristiana Wanda; Wanda si converte all'ebraismo per amore e Jacob deve spiegarle tante cose. Dovendo spiegare, tradurre, fermarsi a pensare ad ogni parola e ad ogni concetto, è inevitabile che nascano delle domande. E non sono domande qualsiasi: superata la sensazione di straniamento (per noi che non siamo ebrei e che non viviamo nel XVII secolo) non si può non ammirare la bellezza di questa storia d'amore e la lucidità con la quale Singer si interroga, e ci fa riflettere. All'inizio del libro, Jacob è stato venduto come schiavo: i cosacchi hanno assalito la città dove abitava, hanno ucciso e depredato, com'era loro costume con gli ebrei; e Wanda è la figlia del suo padrone, un contadino polacco in un paese sperduto sulle montagne.
Fuori il gelo splendeva dappertutto, ma nel granaio non faceva troppo freddo. Wanda si rannicchiò accanto a Jacob, il corpo premuto contro il suo, la bocca protesa verso la sua. Lui parlava ed ella continuava a fargli domande. A tutta prima, Jacob ebbe l'impressione di essere al contempo uno sciocco e un traditore di Israele; come avrebbe potuto il cervello d'una contadina capire simili profondità? Ma quanto più Wanda interrogava, tanto più ovvio gli appariva che ella afferrava il significato delle sue risposte. Gli poneva persino problemi che lui non sapeva risolvere. Se gli animali non possedevano il libero arbitrio, perché mai era necessario che soffrissero? E se soltanto gli ebrei potevano considerarsi i figli di Dio, perché erano stati creati i gentili?
Lo stringeva tanto, ch'egli ne udiva battere il cuore; le mani di lei gli affondavano nelle costole. Concupiva la conoscenza quasi con la stessa frenesia con la quale concupiva la carne.
" Dov'è l'anima? " gli domandò. " Negli occhi? "
" Sì, negli occhi, ma anche nella mente. L'anima dà vita a tutto il corpo. "
" Dove va l'anima quando un uomo muore? "
" Torna in cielo. "
" Un vitello ha l'anima? "
" No, ha lo spirito. "
" Che cosa accade allo spirito quando il vitello viene macellato? "
" Talora entra nel corpo di colui che lo mangia. "
" Anche i maiali hanno lo spirito? "
" Sì. No. Credo di sì. Qualcosa devono avere. "
" Perché gli ebrei non possono mangiare carne di porco? "
" Lo proibisce la legge di Dio. E' la sua volontà. "
" Quando diventerò ebrea sarò anch'io una figlia di Dio? "
" Sì, se Lo lascerai entrare nel tuo cuore. "
" Lo lascerò entrare, Jacob. "
" Devi divenire una di noi non perché ami me ma perché credi in Dio. "
" Credo in Dio, Jacob. Sinceramente. Ma tu devi insegnarmi. Senza di te sono cieca. "
(...)
" Perché gli ebrei non si trovano più nel loro paese? "
" Perché hanno trasgredito. "
" Che cosa hanno fatto? "
" Si sono prosternati davanti agli idoli e hanno derubato il povero "
" Ora non lo fanno più? "
" Non adorano gli idoli. "
" E il povero? "
Jacob meditò cauto la domanda prima di rispondere.
" I poveri non sono trattati con giustizia. "
" Ma chi mai è giusto con i poveri? I contadini lavorano duramente per tutto l'anno, eppure girano nudi. Zagayek non si sognerebbe mai di sporcarsi le mani, eppure prende tutto, il grano migliore, i capi di bestiame più belli. "
" Ogni uomo dovrà arrivare alla resa dei conti. "
" Quando, Jacob? Dove? "
" Non in questo mondo. "
" Jacob, ora devo andare. E' quasi l'alba. "
Gli si avvinghiò al collo, gli affondò la bocca nella sua, baciandolo per l'ultima volta. Il viso le ridivenne ardente, ma infine si strappò da lui. Spalancando la porta del granaio, mormorò qualcosa e sorrise timidamente. Non v'era luna, ma i riflessi della neve le illuminavano il viso. (...)
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag.63)
A un certo punto del libro, Jacob viene riscattato dai suoi compaesani ebrei e può tornare a casa; ma il suo pensiero è sempre rivolto a Wanda, e dall'incontro fra le due religioni nascono ancora domande. Jacob aveva nostalgia dei suoi ebrei, quand'era schiavo, e tendeva ad idealizzarli e a vederli migliori dei contadini cristiani che gli toccava frequentare; ma ora che è tornato fra i suoi non può fare a meno di notare che le cose non stanno così.
(...) Inoltre, guardandosi intorno, Jacob notava che la comunità rispettava le leggi e le costumanze concernenti l'Onnipotente, ma violava impunemente il codice che si riferiva al trattamento dell'uomo da parte dell'uomo. Il suo ritorno prima di Pasqua lo aveva portato nella cittadina mentre era in corso un litigio: la farina per i mazzoth scarseggiava e il rabbino, non trovando alcun divieto nella legge mosaica, nel Talmud o anche in Maimonide, aveva autorizzato il consumo di piselli e fagioli durante le festività. Questa norma aveva irritato alcuni componenti della comunità, taluni perché volevano dimostrare quanto fossero pii, altri perché ce l'avevano con il rabbino; e costoro avevano rotto i vetri delle finestre di casa sua e conficcato chiodi nella sua panca sulla parete est. Jacob era stato avvicinato da uno dei fanatici, il quale lo aveva sondato per accertare se aspirasse a diventare rabbino.
Sì, uomini e donne che avrebbero preferito morire anziché violare la più insignificante di queste norme rituali, calunniavano e facevano pettegolezzi apertamente, trattando i poveri con disprezzo. Gli eruditi erano altezzosi con gli ignoranti; i maggiorenti dividevano i privilegi e le preferenze tra loro e i loro parenti e sfruttavano il popolo in genere. Gli usurai defraudavano i loro clienti, approfittando delle scappatoie nella legge contro l'usura; le mercanzie erano tenute lontano dal mercato finché non scarseggiavano. Taluni arrivavano al punto di servirsi di falsi pesi e false misure. Ma quando Jacob entrava nella casa di studio li trovava tutti: gli iracondi, i superbi, gli ossequiosi, i disonesti. Pregavano e tramavano, erigendo alte torri di legalità nel momento stesso in cui violavano i comandamenti di Dio La catastrofe aveva impoverito la comunità, ma nella cittadine continuavano ad abbondare l'odio e l'invidia. (...)
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag.86 )
(...) Quando rimase sola con Jacob, quella notte, pianse e gli riferì ciò che dicevano gli ebrei. " Non devi ripetere queste cose ", la rimproverò Jacob. " Sono calunnie, un peccato grave quanto mangiare carne di maiale. "" Sicché loro possono maltrattarci e noi non dobbiamo dir niente? "" No, anche loro non si comportano bene. ""Be', fanno tutti così, anche Breina, ed è moglie di un maggiorente. "" Coloro che fanno queste cose saranno puniti in cielo. I libri sacri lo dicono: tutti coloro che chiacchierano, scherniscono il prossimo o ne dicono male, bruceranno nel fuoco della Geenna. "" Tutti? "" Nella Geenna non manca lo spazio. "" Anche la moglie del rabbino ha riso. "" In cielo non si fanno preferenze. Quando Mosè peccò, venne punito. "Sarah si fece pensierosa." No, parlar male del prossimo deve essere un peccato mille volte meno grave del mangiar carne di maiale, altrimenti nessuno lo farebbe. "" Vieni, ti farò vedere che cosa è detto nella Torà. "Jacob, aperto il Pentateuco, le tradusse il testo e le spiegò come ciascun peccato fosse stato interpretato dalla Gemarà; più volte si avvicinò alla porta per accertarsi che nessuno stesse origliando o spiando dal buco della chiave. " Perché gli ebrei rispettano alcune leggi e ne violano altre? " bisbigliò Sarah.Jacob crollò il capo." E' sempre stato così. I profeti si sono scagliati contro questi costumi. Il tempio è stato distrutto per tale ragione. E' più facile non mangiar carne di maiale che tenere a freno la lingua. Ora ti leggerò un capitolo di Isaia. "Jacob passò ad Isaia e tradusse il primo capitolo; Sarah stette ascoltarlo stupita. Il profeta diceva le stesse cose di Jacob: Dio era stanco del sangue dei vitelli e del grasso degli agnelli, gli uomini non dovevano venire alla sua presenza con le mani insanguinate. I maggiorenti di Israele venivano paragonati dal profeta ai signori di Sodoma che Dio aveva distrutto... Per quanto fosse tardi, lo stoppino continuava ad ardere e le falene ruotavano intorno alla fiammella. L'ombra della testa di Jacob si muoveva sul soffitto. Un grillo cantò dietro il forno. In Sarah l'amore e la paura si frammíschiavano; ella paventava il Dio irato che aveva la sua dimora nei cieli e udiva ogni parola e conosceva ogni pensiero; temeva i contadini, di nuovo desiderosi di trucidare gli ebrei e di seppellire vivi i fanciulli; era in ansia per colpa degli ebrei che stavano provocando l'Onnipotente ubbidendo soltanto a una parte della Torà. Promise di non ripetere più le maldicenze che udiva, benché non gli avesse riferito tutto. Si diceva nel villaggio che uno dei magazzinieri rubava su1 peso. Correva voce che un uomo avesse derubato il suo socio durante i massacri. A Sarah era stato detto che gli ebrei erano il popolo eletto e avrebbe voluto domandare come potessero essere favoriti fino a quel punto, se si macchiavano di simili colpe. Tuttavia le appariva evidente che Jacob era un uomo giusto; se Dio lo amava quanto lo amava lei, sarebbe vissuto in eterno.Nelle sue preghiere diceva a Dio che non aveva nessuno tranne Jacob; non avrebbe mai potuto amare alcun altro uomo. Era entrata a far parte di una comunità, ma vi si sentiva un'estranea. Pur essendo fuggita dai contadini, non era diventata una delle ebree di Pilitz. Ella considerava Jacob un marito, un padre e un fratello. Non appena la candela venne smorzata lo chiamò al suo letto. " Ehi, tu, gentile ", disse Jacob, scherzoso, " Non lo sai che una figlia d'Israele non deve essere impudica, altrimenti il marito può ripudiarla? "" Che cosa può fare una figlia d'Israele? "" Generare figli e servire Dio. "" Io voglio dartene una dozzina. "(...) Giacere con Jacob significava per lei pregustare il paradiso. Spesso desiderava che la notte durasse per sempre, consentendole così di continuare ad ascoltare le sue parole e di ricevere le sue carezze. Quell'ora nell'oscurità era la sua ricompensa per quanto aveva dovuto sopportare durante il giorno. Quando si addormentava i sogni la riconducevano al villaggio natio; entrava nella capanna ove aveva vissuto; si ritrovava sulla montagna. Si determinavano strani eventi che coinvolgevano Antek, Basha e sua madre. Suo padre, di nuovo vivo, le parlava con saggezza, e benché Sarah ne dimenticasse le parole non appena si destava, esse continuavano a risuonarle nelle orecchie come echi. A volte sognava che Jacob l'aveva abbandonata e piangeva nel sonno. Jacob la destava sempre." Oh, Jacob, sei ancora qui. Dio sia ringraziato. " Aveva il volto ardente e bagnato di lacrime.
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag. 116 )
Fuori il gelo splendeva dappertutto, ma nel granaio non faceva troppo freddo. Wanda si rannicchiò accanto a Jacob, il corpo premuto contro il suo, la bocca protesa verso la sua. Lui parlava ed ella continuava a fargli domande. A tutta prima, Jacob ebbe l'impressione di essere al contempo uno sciocco e un traditore di Israele; come avrebbe potuto il cervello d'una contadina capire simili profondità? Ma quanto più Wanda interrogava, tanto più ovvio gli appariva che ella afferrava il significato delle sue risposte. Gli poneva persino problemi che lui non sapeva risolvere. Se gli animali non possedevano il libero arbitrio, perché mai era necessario che soffrissero? E se soltanto gli ebrei potevano considerarsi i figli di Dio, perché erano stati creati i gentili?
Lo stringeva tanto, ch'egli ne udiva battere il cuore; le mani di lei gli affondavano nelle costole. Concupiva la conoscenza quasi con la stessa frenesia con la quale concupiva la carne.
" Dov'è l'anima? " gli domandò. " Negli occhi? "
" Sì, negli occhi, ma anche nella mente. L'anima dà vita a tutto il corpo. "
" Dove va l'anima quando un uomo muore? "
" Torna in cielo. "
" Un vitello ha l'anima? "
" No, ha lo spirito. "
" Che cosa accade allo spirito quando il vitello viene macellato? "
" Talora entra nel corpo di colui che lo mangia. "
" Anche i maiali hanno lo spirito? "
" Sì. No. Credo di sì. Qualcosa devono avere. "
" Perché gli ebrei non possono mangiare carne di porco? "
" Lo proibisce la legge di Dio. E' la sua volontà. "
" Quando diventerò ebrea sarò anch'io una figlia di Dio? "
" Sì, se Lo lascerai entrare nel tuo cuore. "
" Lo lascerò entrare, Jacob. "
" Devi divenire una di noi non perché ami me ma perché credi in Dio. "
" Credo in Dio, Jacob. Sinceramente. Ma tu devi insegnarmi. Senza di te sono cieca. "
(...)
" Perché gli ebrei non si trovano più nel loro paese? "
" Perché hanno trasgredito. "
" Che cosa hanno fatto? "
" Si sono prosternati davanti agli idoli e hanno derubato il povero "
" Ora non lo fanno più? "
" Non adorano gli idoli. "
" E il povero? "
Jacob meditò cauto la domanda prima di rispondere.
" I poveri non sono trattati con giustizia. "
" Ma chi mai è giusto con i poveri? I contadini lavorano duramente per tutto l'anno, eppure girano nudi. Zagayek non si sognerebbe mai di sporcarsi le mani, eppure prende tutto, il grano migliore, i capi di bestiame più belli. "
" Ogni uomo dovrà arrivare alla resa dei conti. "
" Quando, Jacob? Dove? "
" Non in questo mondo. "
" Jacob, ora devo andare. E' quasi l'alba. "
Gli si avvinghiò al collo, gli affondò la bocca nella sua, baciandolo per l'ultima volta. Il viso le ridivenne ardente, ma infine si strappò da lui. Spalancando la porta del granaio, mormorò qualcosa e sorrise timidamente. Non v'era luna, ma i riflessi della neve le illuminavano il viso. (...)
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag.63)
A un certo punto del libro, Jacob viene riscattato dai suoi compaesani ebrei e può tornare a casa; ma il suo pensiero è sempre rivolto a Wanda, e dall'incontro fra le due religioni nascono ancora domande. Jacob aveva nostalgia dei suoi ebrei, quand'era schiavo, e tendeva ad idealizzarli e a vederli migliori dei contadini cristiani che gli toccava frequentare; ma ora che è tornato fra i suoi non può fare a meno di notare che le cose non stanno così.
(...) Inoltre, guardandosi intorno, Jacob notava che la comunità rispettava le leggi e le costumanze concernenti l'Onnipotente, ma violava impunemente il codice che si riferiva al trattamento dell'uomo da parte dell'uomo. Il suo ritorno prima di Pasqua lo aveva portato nella cittadina mentre era in corso un litigio: la farina per i mazzoth scarseggiava e il rabbino, non trovando alcun divieto nella legge mosaica, nel Talmud o anche in Maimonide, aveva autorizzato il consumo di piselli e fagioli durante le festività. Questa norma aveva irritato alcuni componenti della comunità, taluni perché volevano dimostrare quanto fossero pii, altri perché ce l'avevano con il rabbino; e costoro avevano rotto i vetri delle finestre di casa sua e conficcato chiodi nella sua panca sulla parete est. Jacob era stato avvicinato da uno dei fanatici, il quale lo aveva sondato per accertare se aspirasse a diventare rabbino.
Sì, uomini e donne che avrebbero preferito morire anziché violare la più insignificante di queste norme rituali, calunniavano e facevano pettegolezzi apertamente, trattando i poveri con disprezzo. Gli eruditi erano altezzosi con gli ignoranti; i maggiorenti dividevano i privilegi e le preferenze tra loro e i loro parenti e sfruttavano il popolo in genere. Gli usurai defraudavano i loro clienti, approfittando delle scappatoie nella legge contro l'usura; le mercanzie erano tenute lontano dal mercato finché non scarseggiavano. Taluni arrivavano al punto di servirsi di falsi pesi e false misure. Ma quando Jacob entrava nella casa di studio li trovava tutti: gli iracondi, i superbi, gli ossequiosi, i disonesti. Pregavano e tramavano, erigendo alte torri di legalità nel momento stesso in cui violavano i comandamenti di Dio La catastrofe aveva impoverito la comunità, ma nella cittadine continuavano ad abbondare l'odio e l'invidia. (...)
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag.86 )
(...) Quando rimase sola con Jacob, quella notte, pianse e gli riferì ciò che dicevano gli ebrei. " Non devi ripetere queste cose ", la rimproverò Jacob. " Sono calunnie, un peccato grave quanto mangiare carne di maiale. "" Sicché loro possono maltrattarci e noi non dobbiamo dir niente? "" No, anche loro non si comportano bene. ""Be', fanno tutti così, anche Breina, ed è moglie di un maggiorente. "" Coloro che fanno queste cose saranno puniti in cielo. I libri sacri lo dicono: tutti coloro che chiacchierano, scherniscono il prossimo o ne dicono male, bruceranno nel fuoco della Geenna. "" Tutti? "" Nella Geenna non manca lo spazio. "" Anche la moglie del rabbino ha riso. "" In cielo non si fanno preferenze. Quando Mosè peccò, venne punito. "Sarah si fece pensierosa." No, parlar male del prossimo deve essere un peccato mille volte meno grave del mangiar carne di maiale, altrimenti nessuno lo farebbe. "" Vieni, ti farò vedere che cosa è detto nella Torà. "Jacob, aperto il Pentateuco, le tradusse il testo e le spiegò come ciascun peccato fosse stato interpretato dalla Gemarà; più volte si avvicinò alla porta per accertarsi che nessuno stesse origliando o spiando dal buco della chiave. " Perché gli ebrei rispettano alcune leggi e ne violano altre? " bisbigliò Sarah.Jacob crollò il capo." E' sempre stato così. I profeti si sono scagliati contro questi costumi. Il tempio è stato distrutto per tale ragione. E' più facile non mangiar carne di maiale che tenere a freno la lingua. Ora ti leggerò un capitolo di Isaia. "Jacob passò ad Isaia e tradusse il primo capitolo; Sarah stette ascoltarlo stupita. Il profeta diceva le stesse cose di Jacob: Dio era stanco del sangue dei vitelli e del grasso degli agnelli, gli uomini non dovevano venire alla sua presenza con le mani insanguinate. I maggiorenti di Israele venivano paragonati dal profeta ai signori di Sodoma che Dio aveva distrutto... Per quanto fosse tardi, lo stoppino continuava ad ardere e le falene ruotavano intorno alla fiammella. L'ombra della testa di Jacob si muoveva sul soffitto. Un grillo cantò dietro il forno. In Sarah l'amore e la paura si frammíschiavano; ella paventava il Dio irato che aveva la sua dimora nei cieli e udiva ogni parola e conosceva ogni pensiero; temeva i contadini, di nuovo desiderosi di trucidare gli ebrei e di seppellire vivi i fanciulli; era in ansia per colpa degli ebrei che stavano provocando l'Onnipotente ubbidendo soltanto a una parte della Torà. Promise di non ripetere più le maldicenze che udiva, benché non gli avesse riferito tutto. Si diceva nel villaggio che uno dei magazzinieri rubava su1 peso. Correva voce che un uomo avesse derubato il suo socio durante i massacri. A Sarah era stato detto che gli ebrei erano il popolo eletto e avrebbe voluto domandare come potessero essere favoriti fino a quel punto, se si macchiavano di simili colpe. Tuttavia le appariva evidente che Jacob era un uomo giusto; se Dio lo amava quanto lo amava lei, sarebbe vissuto in eterno.Nelle sue preghiere diceva a Dio che non aveva nessuno tranne Jacob; non avrebbe mai potuto amare alcun altro uomo. Era entrata a far parte di una comunità, ma vi si sentiva un'estranea. Pur essendo fuggita dai contadini, non era diventata una delle ebree di Pilitz. Ella considerava Jacob un marito, un padre e un fratello. Non appena la candela venne smorzata lo chiamò al suo letto. " Ehi, tu, gentile ", disse Jacob, scherzoso, " Non lo sai che una figlia d'Israele non deve essere impudica, altrimenti il marito può ripudiarla? "" Che cosa può fare una figlia d'Israele? "" Generare figli e servire Dio. "" Io voglio dartene una dozzina. "(...) Giacere con Jacob significava per lei pregustare il paradiso. Spesso desiderava che la notte durasse per sempre, consentendole così di continuare ad ascoltare le sue parole e di ricevere le sue carezze. Quell'ora nell'oscurità era la sua ricompensa per quanto aveva dovuto sopportare durante il giorno. Quando si addormentava i sogni la riconducevano al villaggio natio; entrava nella capanna ove aveva vissuto; si ritrovava sulla montagna. Si determinavano strani eventi che coinvolgevano Antek, Basha e sua madre. Suo padre, di nuovo vivo, le parlava con saggezza, e benché Sarah ne dimenticasse le parole non appena si destava, esse continuavano a risuonarle nelle orecchie come echi. A volte sognava che Jacob l'aveva abbandonata e piangeva nel sonno. Jacob la destava sempre." Oh, Jacob, sei ancora qui. Dio sia ringraziato. " Aveva il volto ardente e bagnato di lacrime.
(Isaac B. Singer, "Lo schiavo", ed. TEA, pag. 116 )
sabato 23 aprile 2011
Oroscopo
(contemplando le stelle)
Geroglifici eterni,
che in zifre luminose ogn’or splendete,
ah! che alla mente umana
altro che belle oscurità non siete...
Pure il mio spirto audace
crede veder scritto là su in le stelle
che Orlando, eroe sagace,
alla gloria non fia sempre ribelle.
Ecco, sen vien. Su, miei consigli, all’opra!
(aria del mago Zoroastro, inizio dell'opera di Georg Friedrich Handel "Orlando", libretto di anonimo tratto da Ludovico Ariosto e da C. S. Capece)
“Le religioni sono diverse per ogni popolo, ma l’oroscopo è sempre lo stesso per tutti”: me lo aveva detto un amico tanto tempo fa, e me l’ero segnato perché è una bella frase. Chissà se è anche una frase vera: dubito che i Maya e gli Aztechi, o i Cinesi, abbiano un oroscopo simile al nostro. Comunque sia, adesso che l’ho ritrovata ci mediterò sopra.
Un’altra frase famosa sugli oroscopi è quella secondo la quale “anche Galileo compilava oroscopi”. E quindi, di conseguenza, “se anche uno scienziato come Galileo...” – eccetera eccetera. Ci si dimentica allegramente, in questi casi, la data di nascita di Galileo Galilei: 1564. Da uno che visse tra il 1564 e il 1642, e che è considerato l’inventore della moderna astronomia, ci si può ben aspettare qualche approssimazione e qualche legamino con il passato, dove astrologia e astronomia erano strettamente legate. Di quegli anni lì è anche Copernico, 1473-1543: si tratta del secolo in cui fu inventato e perfezionato il cannocchiale, che prima non c’era. Prima, le stelle si potevano osservare solo a occhio nudo; dopo, dopo Copernico e dopo Galileo, quello che fu scoperto fece scalpore.
Per quanto riguarda me, non sono del tutto scettico ma sono piuttosto su posizioni junghiane, dalle parti dell’I-Ching: temo cioè che l’oroscopo abbia poco a vedere con le posizioni degli astri, ma piuttosto con altre cose, matematica o simboli arcani dei quali non so che cosa dire, perché si rischia di fare la fine di quel tizio (non mi ricordo in che racconto era e chi l’ha scritto) che aveva scoperto un sistema matematico per prevedere il futuro leggendo le stelle e altri vari segni di geomanzia, e dintorni. Il problema era questo: si trattava di calcoli molto complessi, lui ci si metteva alla mattina appena alzato e terminava alla sera tardi, ma poi era così stanco e aveva un mal di testa talmente forte che si metteva subito a letto e non si alzava che alla mattina dopo, quando riprendeva a fare i suoi calcoli. E riprendeva da zero, perché i calcoli appena fatti servivano soltanto per il giorno precedente, del quale sapeva tutto di tutto ma ormai era passato, amen. (Chissà, forse oggi, con il computer...).
Una volta leggevo un oroscopo su un quotidiano importante, non so più se Repubblica o il Corriere: siccome io sono della Vergine e si sa che la Vergine è fatta così e così (ma non è vero: io sono Vergine con ascendente Vergine e da quel punto di vista funziono benissimo), c’era scritta una di quelle frasi che ricorrono spesso negli oroscopi, che per necessità d’impaginazione hanno sempre poche righe : “intestino in primo piano”. E’ stata la prima e unica volta che ho spedito una mail ad un’astrologa: proprio in quella settimana avevo fatto un esame clinico di quelli fastidiosi e impegnativi ma ormai di routine. L’oroscopo aveva previsto tutto: «“Intestino in primo piano?” Cara signora, stavolta ci ha preso in pieno, e non so se riesce a immaginare quanto sia stato per davvero in primo piano, il mio intestino, questa mattina alle dieci e trenta...»
Per quanto girino le ruote dell'oroscopo
il rospo non si cura e nel suo orto
lui seguita a inseguire rose e rane.
Il rospo non lo sa né vuol dar conto
di quanto girino le ruote dell'oroscopo:
per lui è ostrogoto tutto quanto lo zodiaco,
da buon batrace cerca l'ombra e il sole
ama quel tanto che lui vede, e vuole
solo le mosche che qui vede ronzare;
e tutto il resto è un volgere del sole,
e della mosca un sol battito d'ali.
(12.02.2005)
(nelle immagini: un fumetto di Alfredo Chiappori e una mia personale raccolta di oroscopi & donnine da giornali vari degli anni '90) (se qualcuno è interessato al mio oroscopo del 1994, può fare clic sull'immagine e leggerlo meglio)
Geroglifici eterni,
che in zifre luminose ogn’or splendete,
ah! che alla mente umana
altro che belle oscurità non siete...
Pure il mio spirto audace
crede veder scritto là su in le stelle
che Orlando, eroe sagace,
alla gloria non fia sempre ribelle.
Ecco, sen vien. Su, miei consigli, all’opra!
(aria del mago Zoroastro, inizio dell'opera di Georg Friedrich Handel "Orlando", libretto di anonimo tratto da Ludovico Ariosto e da C. S. Capece)
“Le religioni sono diverse per ogni popolo, ma l’oroscopo è sempre lo stesso per tutti”: me lo aveva detto un amico tanto tempo fa, e me l’ero segnato perché è una bella frase. Chissà se è anche una frase vera: dubito che i Maya e gli Aztechi, o i Cinesi, abbiano un oroscopo simile al nostro. Comunque sia, adesso che l’ho ritrovata ci mediterò sopra.
Un’altra frase famosa sugli oroscopi è quella secondo la quale “anche Galileo compilava oroscopi”. E quindi, di conseguenza, “se anche uno scienziato come Galileo...” – eccetera eccetera. Ci si dimentica allegramente, in questi casi, la data di nascita di Galileo Galilei: 1564. Da uno che visse tra il 1564 e il 1642, e che è considerato l’inventore della moderna astronomia, ci si può ben aspettare qualche approssimazione e qualche legamino con il passato, dove astrologia e astronomia erano strettamente legate. Di quegli anni lì è anche Copernico, 1473-1543: si tratta del secolo in cui fu inventato e perfezionato il cannocchiale, che prima non c’era. Prima, le stelle si potevano osservare solo a occhio nudo; dopo, dopo Copernico e dopo Galileo, quello che fu scoperto fece scalpore.
Per quanto riguarda me, non sono del tutto scettico ma sono piuttosto su posizioni junghiane, dalle parti dell’I-Ching: temo cioè che l’oroscopo abbia poco a vedere con le posizioni degli astri, ma piuttosto con altre cose, matematica o simboli arcani dei quali non so che cosa dire, perché si rischia di fare la fine di quel tizio (non mi ricordo in che racconto era e chi l’ha scritto) che aveva scoperto un sistema matematico per prevedere il futuro leggendo le stelle e altri vari segni di geomanzia, e dintorni. Il problema era questo: si trattava di calcoli molto complessi, lui ci si metteva alla mattina appena alzato e terminava alla sera tardi, ma poi era così stanco e aveva un mal di testa talmente forte che si metteva subito a letto e non si alzava che alla mattina dopo, quando riprendeva a fare i suoi calcoli. E riprendeva da zero, perché i calcoli appena fatti servivano soltanto per il giorno precedente, del quale sapeva tutto di tutto ma ormai era passato, amen. (Chissà, forse oggi, con il computer...).
Una volta leggevo un oroscopo su un quotidiano importante, non so più se Repubblica o il Corriere: siccome io sono della Vergine e si sa che la Vergine è fatta così e così (ma non è vero: io sono Vergine con ascendente Vergine e da quel punto di vista funziono benissimo), c’era scritta una di quelle frasi che ricorrono spesso negli oroscopi, che per necessità d’impaginazione hanno sempre poche righe : “intestino in primo piano”. E’ stata la prima e unica volta che ho spedito una mail ad un’astrologa: proprio in quella settimana avevo fatto un esame clinico di quelli fastidiosi e impegnativi ma ormai di routine. L’oroscopo aveva previsto tutto: «“Intestino in primo piano?” Cara signora, stavolta ci ha preso in pieno, e non so se riesce a immaginare quanto sia stato per davvero in primo piano, il mio intestino, questa mattina alle dieci e trenta...»
Per quanto girino le ruote dell'oroscopo
il rospo non si cura e nel suo orto
lui seguita a inseguire rose e rane.
Il rospo non lo sa né vuol dar conto
di quanto girino le ruote dell'oroscopo:
per lui è ostrogoto tutto quanto lo zodiaco,
da buon batrace cerca l'ombra e il sole
ama quel tanto che lui vede, e vuole
solo le mosche che qui vede ronzare;
e tutto il resto è un volgere del sole,
e della mosca un sol battito d'ali.
(12.02.2005)
(nelle immagini: un fumetto di Alfredo Chiappori e una mia personale raccolta di oroscopi & donnine da giornali vari degli anni '90) (se qualcuno è interessato al mio oroscopo del 1994, può fare clic sull'immagine e leggerlo meglio)
venerdì 22 aprile 2011
Miopia
C’è un film famoso (un “cult”, come è di moda dire oggi) dove Humphrey Bogart entra in una libreria, trova una ragazza carina, le sorride e le chiede di togliersi gli occhiali. La ragazza sorride anche lei, se li toglie come niente fosse e lo segue camminando svelta. Ecco, a questo punto – tanti anni fa – ho smesso di prendere sul serio Humphrey Bogart e tutti i suoi personaggi, a meno che non sia come nel “Tesoro della Sierra Madre”, per intenderci.
Il motivo è questo: che una persona miope non può togliersi gli occhiali come gli pare e dove gli pare. Se lo fa, rischia di inciampare o di andare a sbattere: io lo so perché ho portato gli occhiali da vista per quasi 34 anni, e per tutto il giorno. Non mi è mai pesato, a dir la verità; mi pesano invece, nel ricordo, i commenti di tutti quelli che non lo capivano. Anche a me è successo come a quella ragazza, cioè che qualche volta le mie amiche mi dicevano “ma almeno qui, adesso, potresti toglierti gli occhiali...”. E io li toglievo, ma così facendo, con dieci diottrie per parte, mi sono perso tanti bei dettagli.
Che fare? Ormai è acqua passata, l’operazione “col laser” è diventata routine e l’hanno fatta tutti, io compreso. E devo dire che mi disturba molto che sia considerata routine, perchè vi posso garantire che non è una cosa qualsiasi, e che dopo 34 anni (dai sette ai quarantuno) imparare a vedere senza occhiali è stato un trauma: un trauma in positivo, ma non è mica stato facile. L’operazione è andata magnificamente e ne sono molto contento, ma io ci ho messo un mese, per abituarmi. Invece, quando ne parlo, a tutti sembra una cosa banale: ma vi assicuro che non è per niente banale.
Ne parlo oggi per due motivi che ritengo validi: il primo è che questo della miopia è stato un mio piccolo handicap personale, che mi ha reso sempre un po’ lento e goffo nei movimenti, nonostante il fisico apparentemente da atleta. Un handicap molto piccolo, sia ben chiaro: ma che mi ha permesso di capire gli handicappati veri, di non riderne e di non disprezzarli. Troppe volte ho visto i miei compagni di classe, i colleghi di lavoro, i vicini di casa, i passanti, prendere in giro e disprezzare gli handicappati; di recente è successo perfino in Parlamento, ad opera di un deputato leghista. Perciò, sono ben contento di avere questo difetto – almeno questo.
Il secondo motivo per cui parlo oggi della mia miopia è questa piccola storia di Claire Bretecher, che recupero da un numero di Linus dell'annata 1978: anche a me è capitato tante volte...
Il motivo è questo: che una persona miope non può togliersi gli occhiali come gli pare e dove gli pare. Se lo fa, rischia di inciampare o di andare a sbattere: io lo so perché ho portato gli occhiali da vista per quasi 34 anni, e per tutto il giorno. Non mi è mai pesato, a dir la verità; mi pesano invece, nel ricordo, i commenti di tutti quelli che non lo capivano. Anche a me è successo come a quella ragazza, cioè che qualche volta le mie amiche mi dicevano “ma almeno qui, adesso, potresti toglierti gli occhiali...”. E io li toglievo, ma così facendo, con dieci diottrie per parte, mi sono perso tanti bei dettagli.
Che fare? Ormai è acqua passata, l’operazione “col laser” è diventata routine e l’hanno fatta tutti, io compreso. E devo dire che mi disturba molto che sia considerata routine, perchè vi posso garantire che non è una cosa qualsiasi, e che dopo 34 anni (dai sette ai quarantuno) imparare a vedere senza occhiali è stato un trauma: un trauma in positivo, ma non è mica stato facile. L’operazione è andata magnificamente e ne sono molto contento, ma io ci ho messo un mese, per abituarmi. Invece, quando ne parlo, a tutti sembra una cosa banale: ma vi assicuro che non è per niente banale.
Ne parlo oggi per due motivi che ritengo validi: il primo è che questo della miopia è stato un mio piccolo handicap personale, che mi ha reso sempre un po’ lento e goffo nei movimenti, nonostante il fisico apparentemente da atleta. Un handicap molto piccolo, sia ben chiaro: ma che mi ha permesso di capire gli handicappati veri, di non riderne e di non disprezzarli. Troppe volte ho visto i miei compagni di classe, i colleghi di lavoro, i vicini di casa, i passanti, prendere in giro e disprezzare gli handicappati; di recente è successo perfino in Parlamento, ad opera di un deputato leghista. Perciò, sono ben contento di avere questo difetto – almeno questo.
Il secondo motivo per cui parlo oggi della mia miopia è questa piccola storia di Claire Bretecher, che recupero da un numero di Linus dell'annata 1978: anche a me è capitato tante volte...
giovedì 21 aprile 2011
Top gun
La squadriglia della morte
« Mi viene in mente » disse il capitano Zadaras, dominando con la voce il clamore confuso della fumosa bettola « quella volta che organizzai e comandai in tempo di guerra la squadriglia della morte. »
« La squadriglia della morte? » esclamai, sentendo crescere in me l'ammirazione per quel tipo di rude soldato che io avevo visto soltanto in quel locale, alle prese con bottiglie (pagate da me) ma che, stando ai suoi racconti, aveva compiuto nella propria vita imprese strabilianti.
« La squadriglia della morte. » ripeté lui.
Si riempì il bicchiere, mentre io seguivo con inquietudine il progressivo abbassarsi del livello nella bottiglia e spiegò, dopo aver tracannato d'un fiato :
« Una squadriglia d'uomini decisi a tutto pur di raggiungere l'obbiettivo; d'uomini, insomma, votati alla morte. E’ evidente che di tali uomini non se ne trovano molti. Molti sono pronti ad affrontare il pericolo di morire, ma pochi la certezza. Cosicché la mia squadriglia era composta d'un limitato numero di eroi, ed io ne fui il capo.»
Non potei reprimere un gesto d'ammirazione.
«Quale il capo, tali i gregari » mormorai.
Zadaras ebbe un piccolo gesto di modestia, riempì di nuovo il bicchiere, tracannò.
« Ora, » aggiunse « si presentava un problema: se fossero morti i componenti la squadriglia della morte, come si sarebbe fatto? Ragion per cui: "State attenti," raccomandavo ai miei uomini "evitate di esporvi ai pericoli, altrimenti qui si resta senza squadriglia della morte". La cosa era evidente: una volta sacrificati tutti i componenti della squadriglia, dove trovare altri uomini decisi a tutto? »
Il ragionamento non faceva una grinza.
« Penai un poco » proseguì il turbolento capitano alzando la voce per dominare il tumulto delle risse che scoppiavano qua e là nel locale « a far penetrare questo concetto nelle menti dell'alto comando, ma alla fine ci riuscii. Quei generali, aderendo alle mie vedute, non tardarono a convincersi che, una volta perduti i componenti la squadriglia della morte, sarebbe stato assai difficile trovarne altri, poiché tipi decisi a tutto non s'incontrano a ogni passo. E che pertanto conveniva risparmiare i miei uomini. Penetrato questo concetto nelle menti dei generalissimi, i miei uomini furono, come suol dirsi, tenuti nella bambagia; tutte le cure furono per essi, tutte le precauzioni, per salvaguardare le loro preziose esistenze. Quando si trattava di compiere un'impresa disperata per la quale fosse necessario un gruppo di valorosi votati al sacrificio supremo, l'alto comando m'interpellava: "Mandiamo la squadriglia della morte?". "Siete pazzi?" dicevo. "Così restiamo senza". "È vero" dicevano i generali. "Restare senza squadriglia della. morte sarebbe una grave perdita per l'esercito."»
« Lo credo bene. »
« Così, dopo ponderati conciliaboli, quei generali concludevano: "Mandiamoci altri". »
« Era più che giusto » osservai.
« Certe volte, » proseguì Zadaras « il comando ci telefonava la mattina, mentre eravamo ancora a letto: "C'è da compiere un'impresa in cui si lascia la pelle. Andate!". E noi: "Bravi. E quando ci avremo lasciato la pelle, ci sapete dire chi compierà le imprese in cui si lascia la pelle?". "Già, è vero," ci dicevano i generali "allora non movetevi. Riguardatevi." In conclusione, fummo tenuti lontano da ogni pericolo, al riparo dai raffreddori, in riposo, al coperto. Precauzione necessaria, vista la difficoltà, ripeto, di sostituirci. E soltanto finita la guerra, alla squadriglia della morte fu permesso di uscire dai ricoveri ed esporsi alle intemperie. »
Il capitano Zadaras vuotò ancora una volta il proprio bicchiere e concluse, con lo sguardo inseguendo lontani fantasmi : « Ah, sì, sì. Il più calmo, piacevole e riposato periodo della mia vita lo trascorsi in qualità di comandante della squadriglia della morte. E lo ricordo con profonda nostalgia ».
(Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”)
« Mi viene in mente » disse il capitano Zadaras, dominando con la voce il clamore confuso della fumosa bettola « quella volta che organizzai e comandai in tempo di guerra la squadriglia della morte. »
« La squadriglia della morte? » esclamai, sentendo crescere in me l'ammirazione per quel tipo di rude soldato che io avevo visto soltanto in quel locale, alle prese con bottiglie (pagate da me) ma che, stando ai suoi racconti, aveva compiuto nella propria vita imprese strabilianti.
« La squadriglia della morte. » ripeté lui.
Si riempì il bicchiere, mentre io seguivo con inquietudine il progressivo abbassarsi del livello nella bottiglia e spiegò, dopo aver tracannato d'un fiato :
« Una squadriglia d'uomini decisi a tutto pur di raggiungere l'obbiettivo; d'uomini, insomma, votati alla morte. E’ evidente che di tali uomini non se ne trovano molti. Molti sono pronti ad affrontare il pericolo di morire, ma pochi la certezza. Cosicché la mia squadriglia era composta d'un limitato numero di eroi, ed io ne fui il capo.»
Non potei reprimere un gesto d'ammirazione.
«Quale il capo, tali i gregari » mormorai.
Zadaras ebbe un piccolo gesto di modestia, riempì di nuovo il bicchiere, tracannò.
« Ora, » aggiunse « si presentava un problema: se fossero morti i componenti la squadriglia della morte, come si sarebbe fatto? Ragion per cui: "State attenti," raccomandavo ai miei uomini "evitate di esporvi ai pericoli, altrimenti qui si resta senza squadriglia della morte". La cosa era evidente: una volta sacrificati tutti i componenti della squadriglia, dove trovare altri uomini decisi a tutto? »
Il ragionamento non faceva una grinza.
« Penai un poco » proseguì il turbolento capitano alzando la voce per dominare il tumulto delle risse che scoppiavano qua e là nel locale « a far penetrare questo concetto nelle menti dell'alto comando, ma alla fine ci riuscii. Quei generali, aderendo alle mie vedute, non tardarono a convincersi che, una volta perduti i componenti la squadriglia della morte, sarebbe stato assai difficile trovarne altri, poiché tipi decisi a tutto non s'incontrano a ogni passo. E che pertanto conveniva risparmiare i miei uomini. Penetrato questo concetto nelle menti dei generalissimi, i miei uomini furono, come suol dirsi, tenuti nella bambagia; tutte le cure furono per essi, tutte le precauzioni, per salvaguardare le loro preziose esistenze. Quando si trattava di compiere un'impresa disperata per la quale fosse necessario un gruppo di valorosi votati al sacrificio supremo, l'alto comando m'interpellava: "Mandiamo la squadriglia della morte?". "Siete pazzi?" dicevo. "Così restiamo senza". "È vero" dicevano i generali. "Restare senza squadriglia della. morte sarebbe una grave perdita per l'esercito."»
« Lo credo bene. »
« Così, dopo ponderati conciliaboli, quei generali concludevano: "Mandiamoci altri". »
« Era più che giusto » osservai.
« Certe volte, » proseguì Zadaras « il comando ci telefonava la mattina, mentre eravamo ancora a letto: "C'è da compiere un'impresa in cui si lascia la pelle. Andate!". E noi: "Bravi. E quando ci avremo lasciato la pelle, ci sapete dire chi compierà le imprese in cui si lascia la pelle?". "Già, è vero," ci dicevano i generali "allora non movetevi. Riguardatevi." In conclusione, fummo tenuti lontano da ogni pericolo, al riparo dai raffreddori, in riposo, al coperto. Precauzione necessaria, vista la difficoltà, ripeto, di sostituirci. E soltanto finita la guerra, alla squadriglia della morte fu permesso di uscire dai ricoveri ed esporsi alle intemperie. »
Il capitano Zadaras vuotò ancora una volta il proprio bicchiere e concluse, con lo sguardo inseguendo lontani fantasmi : « Ah, sì, sì. Il più calmo, piacevole e riposato periodo della mia vita lo trascorsi in qualità di comandante della squadriglia della morte. E lo ricordo con profonda nostalgia ».
(Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”)
mercoledì 20 aprile 2011
Persiche lombarde
Sto guardando una trasmissione televisiva sul calcio, di quelle che si guardano giusto per ammazzare il tempo (come faceva il Cappellaio Matto, più o meno: a mio rischio e pericolo, perché poi so cosa capita, quando il Tempo si vendica) quando il giornalista romano se ne esce con un’espressione idiomatica, qualcosa del tipo “quello lì ormai è buono solo per mangiarsi le pérsiche”, per indicare un calciatore che non rende più. L’interista di Milano, un giovinotto sui 35-40 anni, salta su, si stupisce, si inalbera, e gli dice: “Ma fatti capire anche in Lombardia!”.
E poi chiede in giro “Ma cosa sono ‘ste persiche??”. Nessuno dei presenti in studio (eppure non sono tutti romani, e l’emittente ha sede a Milano) spiega al lombardo interista che “andà a catàa i pèrsigh” è lombardissimo, e il fatto che nessuno glielo spieghi un po’ mi dispiace. I “pèrsigh” delle mie parti e le “pérsiche” romanesche (che immagino saporitissime: vengono buone anche qui, ma più c’è sole e più vengono dolci e profumate) hanno infatti un’identica etimologia, dato che le piante di pesco sono arrivate fino a noi dall’antica Persia, provenendo dalla Cina di dove erano originarie. Le piante di pesco sono con noi da così tanto tempo che viene da pensare che siano sempre state nostre, e invece vengono dall’Estremo Oriente. Probabilmente, anche la parola “pesco” è una contrazione di “persiano, persico”: persico come il Golfo Persico, insomma.
“Andà a catàa i pèrsigh”, sia in senso metaforico che in senso letterale, l’ho sentito dire tante di quelle volte che per me è un’espressione molto più che familiare: parole simili si usano anche in Veneto, in Emilia...Eppure io non sono molto più vecchio di questo giornalista , la differenza vera forse sta qui: che io sono cresciuto in provincia, e lui a Milano città.
Il fatto delle pèrsiche mi torna in mente l’altro giorno, pochi giorni fa, quando sulla stessa emittente il leghista Gibelli, capataz della Lega Nord, se la prende a muso duro con il siciliano Leoluca Orlando, che nega l’esistenza del lombardo inteso come lingua. “Tu stai offendendo il popolo lombardo!!” grida e scandisce ad alta voce Gibelli, e forse era meglio se qualcuno gli abbassava il volume nel microfono, invece di tenerlo più alto (capita), perché tutti sanno che un lombardo di Bergamo e uno di Varese, uno di Mantova e uno di Tremezzo, mica si capiscono se parlano insieme. Mio padre (che in casa non parlava mai in dialetto) si divertiva molto a fare l’imitazione dei dialetti altrui: e non era mica il siciliano, era la parlata dei paesi di fianco al nostro, magari confinanti. Ma il dialetto era diversissimo, e chi studia i dialetti (e chi li parla veramente, e chi sa ascoltare) sa bene che basta fare due o tre chilometri per vedere il dialetto cambiare, e di molto. I milanesi di cent’anni fa addirittura riconoscevano le parlate dei diversi quartieri di Milano: tu sei della Comasina, tu sei del Corvetto, quello là è un “milanese arioso” (cioè della Bovisa, che l’è semper Milàn). E chiedete a uno della Franciacorta se per caso sia bergamasco, vedete come si offende: eppure a me sembrano più bergamaschi che bresciani, ma io sono uno di fuori e non ho orecchio per giudicare. Secondo me, a dirla tutta, Bergamo è nel Veneto (parte della Serenissima), Novara è in Lombardia; e Cremona e Mantova, e forse anche Lodi e Pavia, sono in Emilia. Datemi torto, se avete un minimo di orecchio per i dialetti.
La sintesi di quanto ho esposto potrebbe essere questa: che oggi, anno 2011, sotto i cinquant’anni nessuno sa più cosa sia il dialetto, qui in Lombardia. E anche i cinquantenni li vedo messi male, quanto a dialetto parlato. Forse ci conviene di più imparare un po’ di cinese, per il futuro, invece de stà kì a fa i bauscia e a cercar voti rincoglionendo la gente...
(fatti successi in tv tra fine marzo 2007 e aprile 2011)
E poi chiede in giro “Ma cosa sono ‘ste persiche??”. Nessuno dei presenti in studio (eppure non sono tutti romani, e l’emittente ha sede a Milano) spiega al lombardo interista che “andà a catàa i pèrsigh” è lombardissimo, e il fatto che nessuno glielo spieghi un po’ mi dispiace. I “pèrsigh” delle mie parti e le “pérsiche” romanesche (che immagino saporitissime: vengono buone anche qui, ma più c’è sole e più vengono dolci e profumate) hanno infatti un’identica etimologia, dato che le piante di pesco sono arrivate fino a noi dall’antica Persia, provenendo dalla Cina di dove erano originarie. Le piante di pesco sono con noi da così tanto tempo che viene da pensare che siano sempre state nostre, e invece vengono dall’Estremo Oriente. Probabilmente, anche la parola “pesco” è una contrazione di “persiano, persico”: persico come il Golfo Persico, insomma.
“Andà a catàa i pèrsigh”, sia in senso metaforico che in senso letterale, l’ho sentito dire tante di quelle volte che per me è un’espressione molto più che familiare: parole simili si usano anche in Veneto, in Emilia...Eppure io non sono molto più vecchio di questo giornalista , la differenza vera forse sta qui: che io sono cresciuto in provincia, e lui a Milano città.
Il fatto delle pèrsiche mi torna in mente l’altro giorno, pochi giorni fa, quando sulla stessa emittente il leghista Gibelli, capataz della Lega Nord, se la prende a muso duro con il siciliano Leoluca Orlando, che nega l’esistenza del lombardo inteso come lingua. “Tu stai offendendo il popolo lombardo!!” grida e scandisce ad alta voce Gibelli, e forse era meglio se qualcuno gli abbassava il volume nel microfono, invece di tenerlo più alto (capita), perché tutti sanno che un lombardo di Bergamo e uno di Varese, uno di Mantova e uno di Tremezzo, mica si capiscono se parlano insieme. Mio padre (che in casa non parlava mai in dialetto) si divertiva molto a fare l’imitazione dei dialetti altrui: e non era mica il siciliano, era la parlata dei paesi di fianco al nostro, magari confinanti. Ma il dialetto era diversissimo, e chi studia i dialetti (e chi li parla veramente, e chi sa ascoltare) sa bene che basta fare due o tre chilometri per vedere il dialetto cambiare, e di molto. I milanesi di cent’anni fa addirittura riconoscevano le parlate dei diversi quartieri di Milano: tu sei della Comasina, tu sei del Corvetto, quello là è un “milanese arioso” (cioè della Bovisa, che l’è semper Milàn). E chiedete a uno della Franciacorta se per caso sia bergamasco, vedete come si offende: eppure a me sembrano più bergamaschi che bresciani, ma io sono uno di fuori e non ho orecchio per giudicare. Secondo me, a dirla tutta, Bergamo è nel Veneto (parte della Serenissima), Novara è in Lombardia; e Cremona e Mantova, e forse anche Lodi e Pavia, sono in Emilia. Datemi torto, se avete un minimo di orecchio per i dialetti.
La sintesi di quanto ho esposto potrebbe essere questa: che oggi, anno 2011, sotto i cinquant’anni nessuno sa più cosa sia il dialetto, qui in Lombardia. E anche i cinquantenni li vedo messi male, quanto a dialetto parlato. Forse ci conviene di più imparare un po’ di cinese, per il futuro, invece de stà kì a fa i bauscia e a cercar voti rincoglionendo la gente...
(fatti successi in tv tra fine marzo 2007 e aprile 2011)
martedì 19 aprile 2011
Rinascite
Non so voi, ma io, se nasco un'altra volta, vorrei rinascere come gatto: ma un gatto vero, di quelli di una volta, senza costrizioni, libero di andare e di venire quando ne ho voglia.
Pensa ed opra, varda e scolta,
tant se viv e tant se impara;
mi, quand nassi on'altra volta,
nassi on gatt de portinara!
Per esempi, in Rugabella,
nassi el gatt del sur Pinin... ...
scartoseij de coradella,
polpa e fidegh, barettin
del patron per dormigh sora...
pisorgnitt del post disnaa,
tiraa adree finchè ven l'ora
de sarà el porton de straa...
Pensa e opera, guarda e ascolta, tanto si vive e tanto si impara: io, se nasco un'altra volta, nasco un gatto di portinaia! Per esempio, in Rugabella, rinasco come gatto del signor Pino: cartoccetti di coratella, polpa e fegato, il berrettino del padrone per dormirci sopra... i pisolini del pomeriggio, seguitati fino a che vien l'ora di chiudere portone di strada...
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.83) (scritta nel 1921)
Ma... segùra...
... sent i gatt! ...
chì, la nott, dove me fogni
coi me cart e pensi e sogni...
chì l'è el sit clàssech di gatt!
« miao... » parlen de sott via...
(che stremizzi che te ciàppet
a sentij, Roston, te scàppet...)
«miao» là, come in ombria,
che sconzert, che sinfonia!
io « mao... mao... » dal per ari...
- s'ciónfeta! - a quell'orinari...
«mao» ... che ghe riva via
filen come di saett! ... (...)
Ma... sicuro.. senti i gatti!.., qui la notte, dove mi rintano con le mie carte e penso e sogno.. qui è il luogo classico dei gatti! «miao» parlottano sommessi... (che spavento che ti prende; a sentirli, Rostone, scappi...) « miao» là come in un sogno inquieto, che concerto, che sinfonia! «mao... mao...» dall'alto - pàffete - a qull’orinale... « mao» che gli arriva tra capo e collo guizzan via come saette!... (...)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.127) (scritta nel 1930)
Il nome di questo blog l’ho preso da Delio Tessa, avvocato e poeta milanese, ciclista e grande appassionato di cinema e di musica, che visse fra il 1866 e il 1939: cioè in tempo per rendersi conto delle disgrazie del fascismo, che non riuscì mai a sopportare. “De là del mur”, oltre il muro, è la sua seconda raccolta di poesie, che uscì postuma nel 1947.
“Rostòn” è un amico di Tessa, e Rugabella è una via di Milano, che Dante Isella nelle sue note descrive così: “della «via bella» di un tempo (all'inizio del corso di Porta Romana, sulla destra verso il Corso Italia) poco o nulla è rimasto dopo i bombardamenti aerei del centro di Milano nell'agosto del '43. “
di “De là del mur” ho già parlato a suo tempo, in apertura del blog: se fate clic sul nome di Delio Tessa, qui in fondo o nella colonnina qui a fianco, si può leggere di cosa si tratta. Nel nome di Delio Tessa, ho iniziato il blog in questo modo:
Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.205) (scritta nel 1915)
(le illustrazioni: alcune strisce da uno dei più bei fumetti che mi sia mai capitato di leggere, "Mutts" di Patrick McDonnell, pubblicato dal mensile Linus negli anni '90)
Pensa ed opra, varda e scolta,
tant se viv e tant se impara;
mi, quand nassi on'altra volta,
nassi on gatt de portinara!
Per esempi, in Rugabella,
nassi el gatt del sur Pinin... ...
scartoseij de coradella,
polpa e fidegh, barettin
del patron per dormigh sora...
pisorgnitt del post disnaa,
tiraa adree finchè ven l'ora
de sarà el porton de straa...
Pensa e opera, guarda e ascolta, tanto si vive e tanto si impara: io, se nasco un'altra volta, nasco un gatto di portinaia! Per esempio, in Rugabella, rinasco come gatto del signor Pino: cartoccetti di coratella, polpa e fegato, il berrettino del padrone per dormirci sopra... i pisolini del pomeriggio, seguitati fino a che vien l'ora di chiudere portone di strada...
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.83) (scritta nel 1921)
Ma... segùra...
... sent i gatt! ...
chì, la nott, dove me fogni
coi me cart e pensi e sogni...
chì l'è el sit clàssech di gatt!
« miao... » parlen de sott via...
(che stremizzi che te ciàppet
a sentij, Roston, te scàppet...)
«miao» là, come in ombria,
che sconzert, che sinfonia!
io « mao... mao... » dal per ari...
- s'ciónfeta! - a quell'orinari...
«mao» ... che ghe riva via
filen come di saett! ... (...)
Ma... sicuro.. senti i gatti!.., qui la notte, dove mi rintano con le mie carte e penso e sogno.. qui è il luogo classico dei gatti! «miao» parlottano sommessi... (che spavento che ti prende; a sentirli, Rostone, scappi...) « miao» là come in un sogno inquieto, che concerto, che sinfonia! «mao... mao...» dall'alto - pàffete - a qull’orinale... « mao» che gli arriva tra capo e collo guizzan via come saette!... (...)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.127) (scritta nel 1930)
Il nome di questo blog l’ho preso da Delio Tessa, avvocato e poeta milanese, ciclista e grande appassionato di cinema e di musica, che visse fra il 1866 e il 1939: cioè in tempo per rendersi conto delle disgrazie del fascismo, che non riuscì mai a sopportare. “De là del mur”, oltre il muro, è la sua seconda raccolta di poesie, che uscì postuma nel 1947.
“Rostòn” è un amico di Tessa, e Rugabella è una via di Milano, che Dante Isella nelle sue note descrive così: “della «via bella» di un tempo (all'inizio del corso di Porta Romana, sulla destra verso il Corso Italia) poco o nulla è rimasto dopo i bombardamenti aerei del centro di Milano nell'agosto del '43. “
di “De là del mur” ho già parlato a suo tempo, in apertura del blog: se fate clic sul nome di Delio Tessa, qui in fondo o nella colonnina qui a fianco, si può leggere di cosa si tratta. Nel nome di Delio Tessa, ho iniziato il blog in questo modo:
Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.205) (scritta nel 1915)
(le illustrazioni: alcune strisce da uno dei più bei fumetti che mi sia mai capitato di leggere, "Mutts" di Patrick McDonnell, pubblicato dal mensile Linus negli anni '90)
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L'entomologo-Storie naturali
lunedì 18 aprile 2011
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Ma poi cosa sono, i batteri? I batteri sono una forma di vita, una delle più semplici e più diffuse; non sono animaletti, ma piuttosto vegetali. Dire “i batteri” è come dire “l’erba”: è pericolosa l’erba? Sono pericolosi i vegetali? Dipende: qualcosa sì, qualcosa no, bisogna vedere. L’ortica è meglio non toccarla, ma se cogliete le foglie appena nate ci si può fare un ottimo risotto. Le albicocche sono buone, ma se pestate la testa contro un ramo dell’albicocco vi fate male lo stesso.
Eccetera: che dire della cicuta, dei peperoni (alcuni di noi reagiscono male ai peperoni, ai pomodori, perfino alle patate), dei gerani, delle querce, del basilico, delle rose, di tutto quello di vegetale che vi capita d’incontrare? Che dipende: dipende dalla circostanza, dipende dalla natura di quel vegetale, dipende se volete mangiarlo o usarlo come decorazione o per prendere ombra, dipende.
La stessa cosa si può dire dei batteri. Sono pericolosi i batteri? Dipende: dipende dal tipo di batteri, dipende da dove si collocano, dipende.
Ma poi cosa sono i batteri? La Garzantina li descrive così:
«Batteri: organismi microscopici per lo più unicellulari, a struttura semplicissima: parete cellulare che racchiude il citoplasma, ravvolto dalla membrana cellulare, all'interno del quale è contenuto un unico cromosoma privo di membrana nucleare: talora hanno cilia o flagelli (questi per il movimento). Secondo la loro forma, i batteri vengono chiamati cocchi (sferici), bacilli (a bastoncino), vibrioni (a virgola), spirilli (a spirale). Autotrofi o eterotrofi, possono respirare in presenza di ossigeno oppure anaerobicamente ricavando l'energia necessaria dalla scissione di composti organici (fermentazione). Si riproducono agamicamente per scissione con grande rapidità. Diffusi ovunque, di grande importanza nella decomposizione di materiale organico, sono essenziali nei cicli naturali dei principali elementi biogenici (azoto, carbonio, fosforo ecc.): alcuni fissano l'azoto atmosferico dell'aria contribuendo alla concimazione naturale del terreno; altri intervengono nei processi digestivi o nella produzione di particolari sostanze (per esempio le vitamine del gruppo B, e la vitamina K). Molti vengono utilizzati nell'industria (casearia, depurazione delle acque, preparazione di antibiotici) e nelle biotecnologie. Alcuni, parassiti di piante e animali, producono tossine (b. patogeni) e causano malattie (tubercolosi, tifo, colera ecc.). La lotta contro i batteri patogeni esogeni (esterni) viene compiuta mediante sterilizzazione, disinfezione, pastorizzazione; contro i batteri patogeni endogeni (interni) mediante antibiotici o chemioterapici o somministrazione di vaccini e sieri.»
Insomma, senza batteri non avremmo il vino, i formaggi, i concimi, i depuratori; non potremmo digerire quello che mangiamo; non avremmo gli antibiotici. E’ vero, alcuni batteri sono pericolosi e causano malattie; ma contro la maggior parte di questi siamo in grado di difenderci da soli, senza nemmeno bisogno di medicine: le semplici regole igieniche, cioè il tenere pulito, senza bisogno di disinfettanti e sterilizzanti, bastano e avanzano. Di conseguenza, una pubblicità come quella che ho trovato ieri sul giornale è una vera scemenza: che significa avere una cucina sterile? Che non mangerete più lo yogurt e che il pane non lieviterà più? E se il bambino fa la pipì, perde un po’ di saliva, o peggio, cosa succede? E’ un bel bambino, mi dispiacerebbe molto se la cucina antibatterica reagisse in modo violento...
Anche sulla sterilità e sulla sterilizzazione ho trovato quasi sempre idee confuse: anche tra persone insospettabili. Per esempio, io ho lavorato molti anni in una ditta dove si produceva la materia prima per uno degli sterilizzanti più diffusi, un quaternario d’ammonio (se sul collirio trovate scritto “benzalconio cloruro”, è quello); e un giorno un mio collega, oltretutto diplomato in chimica come me, se ne è uscito a dirmi tutto contento che ne aveva versato un litro (concentrato!) nel wc, perché “così va nella fossa biologica e non esce più la puzza”: il contrario di quello che bisogna fare, perché sono proprio dei batteri che degradano la materia che si riversa dal wc. Se versate l’antibatterico nel wc, la puzza aumenterà.
Se prendete il dizionario o l’enciclopedia, scoprirete che “sterile” significa senza vita, impossibilitato a riprodursi. Sterilità è sinonimo di morte, di assenza di vita: la sterilità è necessaria nelle operazioni chirurgiche, in sala operatoria, e in pochissime altre circostanze. In casa nostra, in bagno e in cucina, basta tener pulito: al massimo, e da usare con cautela, un po’ di alcool oppure la candeggina, come fa da sempre mia mamma. Costano pochissimo e funzionano bene; per il resto, acqua e sapone e strofinare bene anche nei posti meno raggiungibili; svuotare ogni tanto il frigorifero, sbrinare, passare un panno con l’aceto. Funziona, funziona benissimo: a meno che non ci sia in corso un’epidemia di colera o di tbc, ma qui ammetterete che si tratta di tutt’altra cosa.
Eccetera: che dire della cicuta, dei peperoni (alcuni di noi reagiscono male ai peperoni, ai pomodori, perfino alle patate), dei gerani, delle querce, del basilico, delle rose, di tutto quello di vegetale che vi capita d’incontrare? Che dipende: dipende dalla circostanza, dipende dalla natura di quel vegetale, dipende se volete mangiarlo o usarlo come decorazione o per prendere ombra, dipende.
La stessa cosa si può dire dei batteri. Sono pericolosi i batteri? Dipende: dipende dal tipo di batteri, dipende da dove si collocano, dipende.
Ma poi cosa sono i batteri? La Garzantina li descrive così:
«Batteri: organismi microscopici per lo più unicellulari, a struttura semplicissima: parete cellulare che racchiude il citoplasma, ravvolto dalla membrana cellulare, all'interno del quale è contenuto un unico cromosoma privo di membrana nucleare: talora hanno cilia o flagelli (questi per il movimento). Secondo la loro forma, i batteri vengono chiamati cocchi (sferici), bacilli (a bastoncino), vibrioni (a virgola), spirilli (a spirale). Autotrofi o eterotrofi, possono respirare in presenza di ossigeno oppure anaerobicamente ricavando l'energia necessaria dalla scissione di composti organici (fermentazione). Si riproducono agamicamente per scissione con grande rapidità. Diffusi ovunque, di grande importanza nella decomposizione di materiale organico, sono essenziali nei cicli naturali dei principali elementi biogenici (azoto, carbonio, fosforo ecc.): alcuni fissano l'azoto atmosferico dell'aria contribuendo alla concimazione naturale del terreno; altri intervengono nei processi digestivi o nella produzione di particolari sostanze (per esempio le vitamine del gruppo B, e la vitamina K). Molti vengono utilizzati nell'industria (casearia, depurazione delle acque, preparazione di antibiotici) e nelle biotecnologie. Alcuni, parassiti di piante e animali, producono tossine (b. patogeni) e causano malattie (tubercolosi, tifo, colera ecc.). La lotta contro i batteri patogeni esogeni (esterni) viene compiuta mediante sterilizzazione, disinfezione, pastorizzazione; contro i batteri patogeni endogeni (interni) mediante antibiotici o chemioterapici o somministrazione di vaccini e sieri.»
Insomma, senza batteri non avremmo il vino, i formaggi, i concimi, i depuratori; non potremmo digerire quello che mangiamo; non avremmo gli antibiotici. E’ vero, alcuni batteri sono pericolosi e causano malattie; ma contro la maggior parte di questi siamo in grado di difenderci da soli, senza nemmeno bisogno di medicine: le semplici regole igieniche, cioè il tenere pulito, senza bisogno di disinfettanti e sterilizzanti, bastano e avanzano. Di conseguenza, una pubblicità come quella che ho trovato ieri sul giornale è una vera scemenza: che significa avere una cucina sterile? Che non mangerete più lo yogurt e che il pane non lieviterà più? E se il bambino fa la pipì, perde un po’ di saliva, o peggio, cosa succede? E’ un bel bambino, mi dispiacerebbe molto se la cucina antibatterica reagisse in modo violento...
Anche sulla sterilità e sulla sterilizzazione ho trovato quasi sempre idee confuse: anche tra persone insospettabili. Per esempio, io ho lavorato molti anni in una ditta dove si produceva la materia prima per uno degli sterilizzanti più diffusi, un quaternario d’ammonio (se sul collirio trovate scritto “benzalconio cloruro”, è quello); e un giorno un mio collega, oltretutto diplomato in chimica come me, se ne è uscito a dirmi tutto contento che ne aveva versato un litro (concentrato!) nel wc, perché “così va nella fossa biologica e non esce più la puzza”: il contrario di quello che bisogna fare, perché sono proprio dei batteri che degradano la materia che si riversa dal wc. Se versate l’antibatterico nel wc, la puzza aumenterà.
Se prendete il dizionario o l’enciclopedia, scoprirete che “sterile” significa senza vita, impossibilitato a riprodursi. Sterilità è sinonimo di morte, di assenza di vita: la sterilità è necessaria nelle operazioni chirurgiche, in sala operatoria, e in pochissime altre circostanze. In casa nostra, in bagno e in cucina, basta tener pulito: al massimo, e da usare con cautela, un po’ di alcool oppure la candeggina, come fa da sempre mia mamma. Costano pochissimo e funzionano bene; per il resto, acqua e sapone e strofinare bene anche nei posti meno raggiungibili; svuotare ogni tanto il frigorifero, sbrinare, passare un panno con l’aceto. Funziona, funziona benissimo: a meno che non ci sia in corso un’epidemia di colera o di tbc, ma qui ammetterete che si tratta di tutt’altra cosa.
domenica 17 aprile 2011
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Apro una confezione di mozzarella, ma - sia ben chiaro - solo perché me l’hanno chiesto. Mi spiego: da quando mi hanno fatto conoscere le mozzarelle, quelle vere, quelle di Caserta fatte con il latte di bufala, non riesco nemmeno più a dire che queste sono mozzarelle. Non che siano immangiabili, anzi: ma nel parlarne ci vorrebbero le virgolette, “mozzarelle”. La mozzarella vera, sia ben chiaro, è tutta un’altra cosa. E quindi ricomincio da capo, scrivendo come si dovrebbe fare (e mica solo per le mozzarelle...):
Apro una confezione di “mozzarella”, presa da una confezione da tre, la faccio sgocciolare, e poi siccome sono curioso non posso non leggere cosa c’è scritto sulla busta. Ecco qua:
QUATTRO QUALITÀ NUTRIZIONALI IN UNA MOZZARELLA
1) E’ una fonte di proteine del latte indispensabili per la crescita e per la salute generale dell’organismo.
2) E’ naturalmente ricca in Calcio e Fosforo, fondamentali per mantenere ossa e denti forti, e in Zinco ad azione antiossidante.
3) Contiene vitamine, come la A e la B2, essenziali nel metabolismo e durante la crescita.
4) Interviene nella produzione di energia per il suo contenuto in Lipidi.
Impressionante, vero? Sembra un trattato di scienza dell’alimentazione; ma, in sostanza, ridotto ai minimi termini, ci sta solo dicendo che le mozzarelle sono fatte con il latte. Infatti, il latte è una fonte di proteine del latte indispensabili per la crescita e per la salute generale dell’organismo, è naturalmente ricco in calcio e fosforo, è fondamentale per mantenere ossa e denti forti; e magari contiene anche zinco ad azione antiossidante, ma in fin dei conti non è che la cosa mi interessi più di tanto, questa mozzarella me la mangerò con contorno di broccoli e pomodori e cipolle e cime di rapa, di sali minerali ne ho quanti ne voglio. E poi, vediamo: il latte contiene vitamine, come la A e la B2, essenziali nel metabolismo e durante la crescita, e anche questo è risaputo: non contiene la vitamina C, che è nelle arance e nei limoni, ma si può rimediare a parte. Esilarante il punto 4: “interviene nella produzione di energia per il suo contenuto in Lipidi”. I Lipidi sono i grassi: ma guai a dirlo, che sono grassi. Lipidi, invece, può andare: chi sa cos’è un lipide? Tutti i formaggi sono grassi, anche le mozzarelle: e i grassi (l’olio, il burro, lo strutto, il lardo, i nervìtt, la pelle del pollo arrosto...) sono il carburante del corpo umano. Bisogna starci attenti, soprattutto se si fa una vita sedentaria; ma i grassi – pardon, “lipìdi” – nell’alimentazione servono.
E dunque mi stanno dicendo, anche se in maniera un po’ ampollosa, che queste mozzarelle qui le fanno con il latte: direi che è un’ottima notizia, ne sono molto contento.
C’è un’altra considerazione da fare, ed è che queste buste sono quelle interne, quelle che sono dentro ad un’altra confezione, si tagliano e si buttano subito via perché sono bagnate e sgocciolano, chi vuoi che le legga. A questo punto, quando si hanno in mano queste buste, il prodotto è già comperato, siamo arrivati a casa e siamo pronti a mangiare: non c’è più da fare imbonimento, cosa vuoi che importi che ci siano scritte queste cose qui. Qui, sulle buste interne, ci dovrebbero essere scritte bene in chiaro e in caratteri grandi e ben leggibili le due o tre cose che contano, innanzitutto la data di scadenza (che non c’è: c’è solo sulla busta grande). Per il resto, sulle buste interne potrebbero metterci anche Minnie e Topolino, o i Pokemon, o le figurine dei calciatori...
Va beh, pazienza: la “mozzarella” infine l’ho mangiata, e non mi è successo niente. Anzi, era anche piuttosto buona: niente a che vedere con le mozzarelle di Caserta, quelle vere, ma comunque per stasera, con tutto quello che ho messo nel piatto quanto a verdure, pomodori, cipolle, olio d’oliva, mi ritengo più che soddisfatto.
Apro una confezione di “mozzarella”, presa da una confezione da tre, la faccio sgocciolare, e poi siccome sono curioso non posso non leggere cosa c’è scritto sulla busta. Ecco qua:
QUATTRO QUALITÀ NUTRIZIONALI IN UNA MOZZARELLA
1) E’ una fonte di proteine del latte indispensabili per la crescita e per la salute generale dell’organismo.
2) E’ naturalmente ricca in Calcio e Fosforo, fondamentali per mantenere ossa e denti forti, e in Zinco ad azione antiossidante.
3) Contiene vitamine, come la A e la B2, essenziali nel metabolismo e durante la crescita.
4) Interviene nella produzione di energia per il suo contenuto in Lipidi.
Impressionante, vero? Sembra un trattato di scienza dell’alimentazione; ma, in sostanza, ridotto ai minimi termini, ci sta solo dicendo che le mozzarelle sono fatte con il latte. Infatti, il latte è una fonte di proteine del latte indispensabili per la crescita e per la salute generale dell’organismo, è naturalmente ricco in calcio e fosforo, è fondamentale per mantenere ossa e denti forti; e magari contiene anche zinco ad azione antiossidante, ma in fin dei conti non è che la cosa mi interessi più di tanto, questa mozzarella me la mangerò con contorno di broccoli e pomodori e cipolle e cime di rapa, di sali minerali ne ho quanti ne voglio. E poi, vediamo: il latte contiene vitamine, come la A e la B2, essenziali nel metabolismo e durante la crescita, e anche questo è risaputo: non contiene la vitamina C, che è nelle arance e nei limoni, ma si può rimediare a parte. Esilarante il punto 4: “interviene nella produzione di energia per il suo contenuto in Lipidi”. I Lipidi sono i grassi: ma guai a dirlo, che sono grassi. Lipidi, invece, può andare: chi sa cos’è un lipide? Tutti i formaggi sono grassi, anche le mozzarelle: e i grassi (l’olio, il burro, lo strutto, il lardo, i nervìtt, la pelle del pollo arrosto...) sono il carburante del corpo umano. Bisogna starci attenti, soprattutto se si fa una vita sedentaria; ma i grassi – pardon, “lipìdi” – nell’alimentazione servono.
E dunque mi stanno dicendo, anche se in maniera un po’ ampollosa, che queste mozzarelle qui le fanno con il latte: direi che è un’ottima notizia, ne sono molto contento.
C’è un’altra considerazione da fare, ed è che queste buste sono quelle interne, quelle che sono dentro ad un’altra confezione, si tagliano e si buttano subito via perché sono bagnate e sgocciolano, chi vuoi che le legga. A questo punto, quando si hanno in mano queste buste, il prodotto è già comperato, siamo arrivati a casa e siamo pronti a mangiare: non c’è più da fare imbonimento, cosa vuoi che importi che ci siano scritte queste cose qui. Qui, sulle buste interne, ci dovrebbero essere scritte bene in chiaro e in caratteri grandi e ben leggibili le due o tre cose che contano, innanzitutto la data di scadenza (che non c’è: c’è solo sulla busta grande). Per il resto, sulle buste interne potrebbero metterci anche Minnie e Topolino, o i Pokemon, o le figurine dei calciatori...
Va beh, pazienza: la “mozzarella” infine l’ho mangiata, e non mi è successo niente. Anzi, era anche piuttosto buona: niente a che vedere con le mozzarelle di Caserta, quelle vere, ma comunque per stasera, con tutto quello che ho messo nel piatto quanto a verdure, pomodori, cipolle, olio d’oliva, mi ritengo più che soddisfatto.
sabato 16 aprile 2011
Camomilla
Cocco Bill entra nel saloon (anzi, "salooon") e ordina una camomilla come suo solito; il che però provoca qualche ilarità. I Kuknass Brothers fingono amicizia, ma stanno covando qualcosa di losco.
(l'editore "Stampa Alternativa", http://www.stampalternativa.it/ , sta ripubblicando tutto Jacovitti, in volumi molto belli; questi frammenti vengono dal Corriere dei Piccoli, annate 1969-1970). (ricordo che facendo clic sulle immagini si vede tutto molto meglio).
(l'editore "Stampa Alternativa", http://www.stampalternativa.it/ , sta ripubblicando tutto Jacovitti, in volumi molto belli; questi frammenti vengono dal Corriere dei Piccoli, annate 1969-1970). (ricordo che facendo clic sulle immagini si vede tutto molto meglio).
venerdì 15 aprile 2011
Apparenze
- Chi l'avrebbe detto! - esclamò sbalordito Mr. Winkle.
- Nessuno, spero - rispose Bob Sawyer - altrimenti a cosa servono le apparenze?
(Charles Dickens, Il circolo Pickwick,
pag.587 ed. tascabili Garzanti)
- Nessuno, spero - rispose Bob Sawyer - altrimenti a cosa servono le apparenze?
(Charles Dickens, Il circolo Pickwick,
pag.587 ed. tascabili Garzanti)
giovedì 14 aprile 2011
Moggi e Marchionne: insieme in galera?
Ci tengo a dirlo subito: non sto parlando di calcio. Però l’essere appassionato di calcio mi ha permesso di notare una cosa che rischia di passare inosservata, perché la notizia è stata data male e troppo di fretta. Se fosse confermata, però, sarebbe qualcosa di clamoroso.
La notizia è questa: nel 2006 il dirigente calcistico Luciano Moggi, uno dei più famosi, con una carriera quarantennale nel calcio e sempre ad alti livelli (Roma, Napoli con Maradona, Torino, Juventus) viene portato in tribunale con l’accusa di truccare le partite. Viene però assolto dall’accusa di associazione a delinquere, assolto due volte in due diversi gradi di giudizio: dunque non truccava le partite, almeno stando a questa sentenza (un altro processo è in corso a Napoli in questi giorni). Il tribunale ha però condannato Moggi a un anno di galera (mese più o mese meno, pena sospesa), per aver esercitato pressioni ritenute illecite su due calciatori della Juventus. Un mobbing, insomma, con minacce del tipo: “devi accettare di cambiare squadra, perché se rimani qui non giochi”.
Non credevo ai miei occhi, e ancora adesso non riesco a crederci, perché ogni giorno migliaia di lavoratori dipendenti subiscono dai loro capi minacce (più o meno velate) molto più gravi di questa.
Tra l’altro, Moggi ha subito spiegato che quei due giocatori guadagnavano più o meno un milione di euro all’anno, e che il contratto gliel’aveva firmato lui. La decisione di non far giocare quei calciatori, oltretutto, era dell’allenatore e non sua; Moggi si era limitato a comunicare quella decisione, forse con mezzi non delicatissimi viste le due sentenze.
Resta il fatto che, forse per la prima volta, il “se ti va bene è così altrimenti lì c’è la porta” è stato ritenuto punibile: e con un anno di galera, oltretutto, mica poco. Se la sentenza verrà confermata in Cassazione, tutti i capi del personale e i capi in generale, e anche tutti gli imprenditori, dovranno stare ben attenti a come si comportano e a quello che dicono. In primo luogo, mi è venuto da pensare a tutto quello che è stato detto per la Fiat di Pomigliano e per Mirafiori, e dunque a quanti anni di carcere spetterebbero a Sergio Marchionne; ma poi Marchionne non è certo l’unico ad aver “minacciato” i suoi dipendenti dicendogli “devi accettare di cambiare squadra (cioè: devi fare come dico io), perché se rimani qui non giochi”.
E’ anche divertente (si fa per dire) notare che i calciatori hanno guadagni nemmeno lontanamente paragonabili a quelli degli operai di Pomigliano e Mirafiori: si passa da un milione o 800mila euro l’anno ad ottocento euro al mese...
Probabilmente andrà a finire così: che Luciano Moggi verrà assolto in Cassazione anche dall’accusa di “supermobbing” (a meno che non abbia puntato la pistola alla tempia dei calciatori, cosa della quale mi permetto di dubitare), e dunque svanirà nel nulla il mio sogno di vedere in carcere certi bei tipi di Capi del Personale che mi è capitato purtroppo di conoscere e di frequentare.
So già che arriverà qualcuno a spiegarmi che non è così, che ci sono delle differenze; e le differenze le vedo anch’io, ma non è che siano differenze così grandi, e soprattutto l’idea di farsi mobbizzare prendendo un milione di euro all’anno per cinque anni un pochino mi stuzzica: chiederò a Moggi dov’è che si fa domanda, che mi iscrivo subito.
La notizia è questa: nel 2006 il dirigente calcistico Luciano Moggi, uno dei più famosi, con una carriera quarantennale nel calcio e sempre ad alti livelli (Roma, Napoli con Maradona, Torino, Juventus) viene portato in tribunale con l’accusa di truccare le partite. Viene però assolto dall’accusa di associazione a delinquere, assolto due volte in due diversi gradi di giudizio: dunque non truccava le partite, almeno stando a questa sentenza (un altro processo è in corso a Napoli in questi giorni). Il tribunale ha però condannato Moggi a un anno di galera (mese più o mese meno, pena sospesa), per aver esercitato pressioni ritenute illecite su due calciatori della Juventus. Un mobbing, insomma, con minacce del tipo: “devi accettare di cambiare squadra, perché se rimani qui non giochi”.
Non credevo ai miei occhi, e ancora adesso non riesco a crederci, perché ogni giorno migliaia di lavoratori dipendenti subiscono dai loro capi minacce (più o meno velate) molto più gravi di questa.
Tra l’altro, Moggi ha subito spiegato che quei due giocatori guadagnavano più o meno un milione di euro all’anno, e che il contratto gliel’aveva firmato lui. La decisione di non far giocare quei calciatori, oltretutto, era dell’allenatore e non sua; Moggi si era limitato a comunicare quella decisione, forse con mezzi non delicatissimi viste le due sentenze.
Resta il fatto che, forse per la prima volta, il “se ti va bene è così altrimenti lì c’è la porta” è stato ritenuto punibile: e con un anno di galera, oltretutto, mica poco. Se la sentenza verrà confermata in Cassazione, tutti i capi del personale e i capi in generale, e anche tutti gli imprenditori, dovranno stare ben attenti a come si comportano e a quello che dicono. In primo luogo, mi è venuto da pensare a tutto quello che è stato detto per la Fiat di Pomigliano e per Mirafiori, e dunque a quanti anni di carcere spetterebbero a Sergio Marchionne; ma poi Marchionne non è certo l’unico ad aver “minacciato” i suoi dipendenti dicendogli “devi accettare di cambiare squadra (cioè: devi fare come dico io), perché se rimani qui non giochi”.
E’ anche divertente (si fa per dire) notare che i calciatori hanno guadagni nemmeno lontanamente paragonabili a quelli degli operai di Pomigliano e Mirafiori: si passa da un milione o 800mila euro l’anno ad ottocento euro al mese...
Probabilmente andrà a finire così: che Luciano Moggi verrà assolto in Cassazione anche dall’accusa di “supermobbing” (a meno che non abbia puntato la pistola alla tempia dei calciatori, cosa della quale mi permetto di dubitare), e dunque svanirà nel nulla il mio sogno di vedere in carcere certi bei tipi di Capi del Personale che mi è capitato purtroppo di conoscere e di frequentare.
So già che arriverà qualcuno a spiegarmi che non è così, che ci sono delle differenze; e le differenze le vedo anch’io, ma non è che siano differenze così grandi, e soprattutto l’idea di farsi mobbizzare prendendo un milione di euro all’anno per cinque anni un pochino mi stuzzica: chiederò a Moggi dov’è che si fa domanda, che mi iscrivo subito.
mercoledì 13 aprile 2011
Facebook e Milena
Mi ha un po’ colpito vedere la gran quantità di reazioni dopo la trasmissione di “Report” di domenica sera. Sono rimasto colpito perché, di solito, le inchieste di Milena Gabanelli e dei suoi collaboratori non vengono mai commentate né riprese da nessuno il giorno dopo. Eppure, a “Report” si vanno a toccare temi delicatissimi e molto importanti, temi che purtroppo passano spesso sotto silenzio: ricordo ancora come un incubo la descrizione di quello che accade ogni giorno sui nostri treni, qualche anno fa. Ricordo che i ferrovieri che si prestarono per l’inchiesta furono licenziati, che dovettero subire un lungo percorso in tribunale al termine del quale – se non ricordo male – furono riassunti; ma come stanno oggi le gallerie ferroviarie, quante linee di mezzi pubblici sono state soppresse, e cosa dire degli aumenti dei prezzi dei biglietti? Nessun dibattito, nessuno a riprendere la notizia, silenzio assoluto.
Pochi giorni fa, l’inchiesta di Report sul biogas: ettari ed ettari coltivati a mais (che è roba buona da mangiare) al solo scopo di bruciarle per prendere sovvenzioni; e tutto questo nelle zone di produzione del Grana Padano. Ma a chi vuoi che interessi? Il giorno dopo, silenzio assoluto sia da parte dei social network che di tutti (ma proprio tutti) i quotidiani nazionali. La corruzione e l’evasione fiscale nel Veneto leghista? Silenzio. La speculazione e la devastazione ambientale sulle cave di ghiaia e di cemento e altri materiali? Silenzio. Pare proprio che di questi temi non si interessi nessuno.
Invece, se si parla di Facebook, allegria: grandi dibattiti, discussioni infervorate, adesso sì che si è toccato un tema che davvero sta a cuore. Ricordo un dibattito simile, parlando di Report, solo per la villa ad Antigua di Berlusconi, sei chilometri di colate di cemento in un paradiso (fiscale e naturale) che non doveva essere toccato. Ma, anche qui, è durata poco.
Questa storia di Facebook e di Milena Gabanelli durerà a lungo, me lo sento. Eppure, era un’inchiesta doverosa: il tema delle intercettazioni di ciò che scriviamo a me sembra importante, ricordo che già una decina d’anni fa, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, alcuni ragazzi americani si videro piombare in casa l’antiterrorismo: avevano citato in un sms (o in una mail) un verso di una canzone di non so più quale rapper o gruppo heavy metal che a loro piaceva molto, che però conteneva parole “pericolose”. Lo stesso esempio che è stato fatto domenica sera a Report: attenti a quello che scrivete, ogni parola viene pesata.
L’inchiesta poi era ben bilanciata: ad ogni accusa rispondeva con precisione un addetto di Facebook, ognuno era libero di farsi la sua opinione. Se qualcuno ha avuto un’impressione contraria, è probabilmente perché il volto rassicurante e i toni pacati dell’addetto di Facebook (un signore sui quarant’anni di cui non ricordo il nome, con una bella barba appena brizzolata) fanno meno rumore rispetto a un’altra persona che denuncia un torto. Ma anche questo, si suppone, dovrebbe essere un fenomeno ben noto; siccome stiamo parlando del pubblico di Facebook si suppone di essere davanti a persone istruite: a me li avevano spiegati, i meccanismi della percezione di ciò che ci viene detto (fin dagli anni ’60, quando ne parlavano alla tv dei ragazzi); e non è che sia necessario essere iscritti a psicologia o a sociologia per sapere che se uno grida ha più possibilità di essere sentito rispetto a uno che parla con un tono normale – però a questo punto bisognerebbe saper ascoltare...Che sia questa la facoltà che si è persa?
Infine, e qui chiudo perché con questo argomento mi sto già annoiando anch’io, due mie personalissime riflessioni: 1) la reazione degli appassionati di Facebook è quella tipica dei bambini a cui si è appena toccato un giocattolo. Che so, l’orsetto di peluche, la bambolina, il telefonino...2) le dichiarazioni di Mark Zuckerberg, quelle del tipo che non esiste più la privacy ma che non bisogna allarmarsi e che al contrario c’è da esserne contenti, mi hanno spaventato e non poco. Se andate su internet, che sia Google o Facebook o qualcos’altro ancora, state ben attenti a quello che scrivete: anche le preferenze sulle squadre di calcio andrebbero evitate, ogni cosa che scrivete on line ed ogni vostro sms può essere letto e intercettato. Se io mi prendo qualche libertà, è perché alla mia età nel mondo del lavoro non ci rientro più: ma se avete diciotto o vent’anni, state ben attenti a tutto quello che dite, che filmate, che scrivete.
Pochi giorni fa, l’inchiesta di Report sul biogas: ettari ed ettari coltivati a mais (che è roba buona da mangiare) al solo scopo di bruciarle per prendere sovvenzioni; e tutto questo nelle zone di produzione del Grana Padano. Ma a chi vuoi che interessi? Il giorno dopo, silenzio assoluto sia da parte dei social network che di tutti (ma proprio tutti) i quotidiani nazionali. La corruzione e l’evasione fiscale nel Veneto leghista? Silenzio. La speculazione e la devastazione ambientale sulle cave di ghiaia e di cemento e altri materiali? Silenzio. Pare proprio che di questi temi non si interessi nessuno.
Invece, se si parla di Facebook, allegria: grandi dibattiti, discussioni infervorate, adesso sì che si è toccato un tema che davvero sta a cuore. Ricordo un dibattito simile, parlando di Report, solo per la villa ad Antigua di Berlusconi, sei chilometri di colate di cemento in un paradiso (fiscale e naturale) che non doveva essere toccato. Ma, anche qui, è durata poco.
Questa storia di Facebook e di Milena Gabanelli durerà a lungo, me lo sento. Eppure, era un’inchiesta doverosa: il tema delle intercettazioni di ciò che scriviamo a me sembra importante, ricordo che già una decina d’anni fa, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, alcuni ragazzi americani si videro piombare in casa l’antiterrorismo: avevano citato in un sms (o in una mail) un verso di una canzone di non so più quale rapper o gruppo heavy metal che a loro piaceva molto, che però conteneva parole “pericolose”. Lo stesso esempio che è stato fatto domenica sera a Report: attenti a quello che scrivete, ogni parola viene pesata.
L’inchiesta poi era ben bilanciata: ad ogni accusa rispondeva con precisione un addetto di Facebook, ognuno era libero di farsi la sua opinione. Se qualcuno ha avuto un’impressione contraria, è probabilmente perché il volto rassicurante e i toni pacati dell’addetto di Facebook (un signore sui quarant’anni di cui non ricordo il nome, con una bella barba appena brizzolata) fanno meno rumore rispetto a un’altra persona che denuncia un torto. Ma anche questo, si suppone, dovrebbe essere un fenomeno ben noto; siccome stiamo parlando del pubblico di Facebook si suppone di essere davanti a persone istruite: a me li avevano spiegati, i meccanismi della percezione di ciò che ci viene detto (fin dagli anni ’60, quando ne parlavano alla tv dei ragazzi); e non è che sia necessario essere iscritti a psicologia o a sociologia per sapere che se uno grida ha più possibilità di essere sentito rispetto a uno che parla con un tono normale – però a questo punto bisognerebbe saper ascoltare...Che sia questa la facoltà che si è persa?
Infine, e qui chiudo perché con questo argomento mi sto già annoiando anch’io, due mie personalissime riflessioni: 1) la reazione degli appassionati di Facebook è quella tipica dei bambini a cui si è appena toccato un giocattolo. Che so, l’orsetto di peluche, la bambolina, il telefonino...2) le dichiarazioni di Mark Zuckerberg, quelle del tipo che non esiste più la privacy ma che non bisogna allarmarsi e che al contrario c’è da esserne contenti, mi hanno spaventato e non poco. Se andate su internet, che sia Google o Facebook o qualcos’altro ancora, state ben attenti a quello che scrivete: anche le preferenze sulle squadre di calcio andrebbero evitate, ogni cosa che scrivete on line ed ogni vostro sms può essere letto e intercettato. Se io mi prendo qualche libertà, è perché alla mia età nel mondo del lavoro non ci rientro più: ma se avete diciotto o vent’anni, state ben attenti a tutto quello che dite, che filmate, che scrivete.
martedì 12 aprile 2011
Nativi digitali / 3
Nell’anno di grazia 1972, io avevo 14 anni e dovevo fare l’abbonamento del treno. Sono andato in stazione con due fotografie e in meno di cinque minuti avevo in mano la tessera: due righe scritte con la biro, due pennellate con la coccoina sul retro della foto, un bel timbro, pagare, e via. Oggi, la tesserina non me la danno più seduta stante, ma me la mandano “comodamente a casa”: o bella, e se io fossi più comodo a passare di qui, dallo sportello? No, non si può, figuriamoci: mi arriverà comodamente a casa, magari domani o dopodomani, chissà; magari il postino suonerà mentre mi sto facendo la barba, dovrò scendere, firmare qualcosa, magari dovrò anche esserne contento.
Nella stazione dei paesi vicini, infatti, non c’è nemmeno più la biglietteria: l’hanno chiusa “perché non rendeva”, come se fosse una gelateria. Se di là vogliono fare l’abbonamento al treno, devono muoversi e andare fino a Como, a Varese, a Saronno, a Milano: bei tempi, quando bastava un timbro su un pezzo di cartoncino...
L’accesso precoce ai cellulari provoca molti cambiamenti
NATIVI DIGITALI, PRIMA GENERAZIONE DI UNA NUOVA SPECIE
di A. Saragosa, Venerdì di Repubblica in data 25 febbraio 2011:
(...) Paolo Ferri, docente di Teoria e tecniche dei nuovi media all'Università Milano Bicocca, ha dedicato al tema il libro Nativi digitali (Bruno Mondadori, pp. 224, euro 18). «Nativi digitali sono quelli che, avendo vissuto fin dalla nascita immersi nelle tecnologie informatiche, le padroneggiano come una lingua madre, a differenza di noi "immigrati digitali" che, cresciuti per lo più nel mondo gutenberghiano dei libri, balbettiamo appena l'idioma di questa nuova terra». (...)
- Perché i nativi digitali soffrono così tanto a scuola?
«In tutte le epoche ci si è annoiati a scuola. (...)Ma oggi c'è un abisso fra il modo in cui i ragazzi ricevono informazioni dagli insegnanti e la loro esperienza extrascolastica. I ragazzi sono cresciuti con YouTube, Google e Wikipedia, in un mondo di informazione immediata, multimediale e aggiornata.».
- Ma è solo un problema di gap tecnologico, o c'è una forma mentale diversa?
«Vivere tutta la vita immersi in un ambiente altamente digitalizzato crea menti diverse da quelle di chi si è formato su libri e immagini statiche. I nativi digitali interagiscono con le tecnologie informatiche con grande naturalezza, sono più bravi a lavorare in gruppo, a compiere più operazioni contemporaneamente, a usare i codici iconografici, e sono molto autonomi e indipendenti, spesso allergici all'autorità. D'altro canto tendono a essere più superficiali, meno riflessivi e perdono facilmente interesse nei compiti che non trovano stimolanti. Si direbbe che si aspettino che le cose si svolgano sempre alla velocità con cui sono abituati a fruirle in rete. Forse erano meno distanti fra loro i padri e i figli che si scontravano nel '68, almeno loro usavano gli stessi media. Oggi fra nativi e immigrati digitali c'è un gap crescente di comunicazione, come dimostrano anche le rivoluzioni dei Paesi arabi, organizzate dalle masse giovanili via Facebook e Twitter, senza che né i vecchi díttatori, né i vecchi oppositori si accorgessero di che cosa stava accadendo».
- E come si interessano questi giovani allo studio?
«Attrezzando lo spazio scolastico con le tecnologie che usano a casa e trasformando i libri cartacei in spazi online, organizzati con materiale multimediale, esercitazioni, test di autovalutazione e link ad altri siti. Paradossalmente occorrerà anche recuperare le idee di pedagoghi di un secolo fa, come Maria Montessori, cioè 1`insegnare a imparare", indicando agli studenti metodi per valutare criticamente, confrontare e ordinare le informazioni che possono trovare ormai con tanta facilità in rete. Questi metodi saranno poi utili anche nel mondo del lavoro, che sarà molto più vario e flessibile del nostro. Inoltre, perché l'apprendimento dia frutti, dovrebbe avvenire non più sulla base di esercizi astratti, come il memorizzare, ma con lo stesso metodo con cui i ragazzi imparano a utilizzare smartphone e tablet, cioè “facendo". Ricerche, elaborazioni, scambi di informazioni fra pari e sperimentazioni... E, tasto dolente, bisognerà ridurre all'osso le materie di studio obbligatorie, lasciando agli studenti la scelta fra molte opzionali».
- Non ne faremo dei rete-dipendenti?
«Non credo, tutte le ricerche dicono che il tempo online non è sottratto al gioco o allo sport, ma alla televisione.»
- In tempi di crisi, è realistico parlare di digitalizzazione dell'insegnamento?
«L'Inghilterra ha speso tredici miliardi di euro per attrezzare le sue scuole con computer e altri dispositivi digitali. Noi ce la caveremmo con meno della metà. Entro l'anno saranno introdotte nelle classi italiane 32 mila lavagne interattive, dispositivi multimediali in grado di connettersi a internet e dialogare con i computer dell'insegnante e degli studenti. Purtroppo non si è pensato alle connessioni internet delle scuole, che spesso mancano o sono insufficienti per un uso di massa. Oppure i dirigenti scolastici si arrangiano seguendo ognuno una strada diversa e, spesso, compiendo errori, come acquistare dispositivi che non comunicano fra loro».
- Il vero nodo sono allora gli insegnanti?
«Gli insegnanti italiani hanno un'età media di oltre 50 anni, molti di loro non conoscono queste tecnologie. Ma nei prossimi anni ci sarà un grande ricambio generazionale, e sono sicuro che l'arrivo di molti giovani in cattedra renderà tutto più facile. Le tecnologie non escludono gli insegnanti, anzi, al contrario, potranno far loro recuperare molta autorevolezza e prestigio. Nelle classi sarà più che mai necessaria una figura di adulto esperto, che aiuti i giovani a scoprire le proprie attitudini e svolga il ruolo di critica dei contenuti, spesso pessimi, che si trovano in rete. E che spieghi ai nativi digitali che parte dell'apprendimento, tecnologie o meno, resta comunque una faticosa acquisizione di nozioni».
“Quest to learn”, una scuola pubblica d’avanguardia
A NEW YORK, ADDIO AI LIBRI: SI STUDIA SUI VIDEOGAME
di Caterina Visco, Venerdì di Repubblica 25 feb 2011
La campanella suona, gli studenti si siedono e, joypad della PS3 alla mano, iniziano una sfida a Little Big Planet. Siamo alla Quest to Learn di New York, una scuola superiore (per ora di primo, in futuro anche di secondo grado) dove al posto dei libri di testo si usano i videogame, Alcuni sono disegnati ad hoc, talvolta dagli studenti stessi, altri sono normali videogiochi sfruttati in maniera particolare. Le materie di studio, invece, sono combinazioni dì quelle tradizionali: The Way Things Work (matematica e scienze), Being, Space and Place (studi sociali e Lea-inglese, letteratura e arte), Codeworlds (matematica e Lea), Wellness (educazione fisica e alla salute) e Sports for the Mind (Game Design).
L'idea di fondo è che i videogiochi immergono gli studenti in problemi complessi, risolvendo i quali non solo si acquisiscono le conoscenze base, ma anche abilità trasversali. Per esempio quella di pensare in maniera innovativa, cooperare, prevedere i possibili sviluppi di una situazione.
In Being, Space and Place, per dirne una, gli studenti devono impersonare un soldato spartano che deve valutare le forze ateniesi e stabilire una strategia d'azione. Nel farlo, secondo le aspettative dell'insegnante, dovrebbero imparare storia, geografia e politica pubblica. In The Way of Things Work, invece, diventando ingegneri incaricati di costruire una piramide, dovrebbero acquisire competenze di matematica, geografia e storia delle religioni.
I videogiochi avrebbero anche un altro pregio: coinvolgono e mantengono gli studenti concentrati sulle lezioni per ore. Ai videogame si aggiungono anche altri strumenti di apprendimento, per esempio Being Me, un social network chiuso, o lo SmalLab, uno spazio fisico dove, grazie a videocamere motion capture e proiettori digitali, si creano scenari con cui interagire.
Gli studenti alla fine dell'anno devono superare gli stessi test dei loro coetanei delle altre scuole. Con una sola differenza: al posto del voto, in pagella, c'è il livello raggiunto.
Sono stato uno dei primi, in famiglia e nella mia cerchia di conoscenti, ad avere un indirizzo mail e ad usare internet: fino da metà degli anni ’90, quando ancora bisognava pagare un provider (e costava caro) per avere l’allacciamento.
E avevo già usato i primi pc, quelli degli anni ’80: non sono mai stato un patito dell’informatica e non amo particolarmente le nuove tecnologie, ma mi piaceva scrivere, raccogliere dati, essere informato. Mi sarei comperato una fotocopiatrice, ma costavano troppo e non c’era spazio in casa; poi con lo scanner e un buon software ho potuto fare cose che non mi sarei mai sognato di fare.
E’ stato per questo che quando, sul lavoro, mi dissero “guarda che non c’è bisogno di cancellare tutta la parola, se usi quel tasto qui e ti sposti fino a qui e poi cancelli con questo qui e riscrivi solo la lettera che hai sbagliato” e intanto io avevo già cancellato e riscritto la parola, cosa ci vuole a riscrivere una parola, se sei al computer? Non era mica una linotype...
Io so scrivere, sono capace di scrivere fin dal 1962 (avevo quattro anni), scrivevo con la penna e il pennino e il calamaio senza fare macchie, cosa vuoi che sia battere tre o dieci tasti... Mi è rimasto il dubbio che quel mio collega fosse un tantino analfabeta, che facesse fatica a scrivere, ed è un dubbio che mi perseguita ancora oggi davanti a tutti quei software che aiutano a scrivere. Posso dirlo, almeno qui? Non ho mai usato il dizionario a scuola, ho letto tanti libri, almeno leggere e scrivere, quello sono capace di farlo: con il gesso, con la matita, con la penna e il pennino e il calamaio, con la macchina da scrivere (non ci riuscirò mai, a dire macchina per scrivere), con il computer, e perfino passando il ditino sullo smartphone (a proposito, è un software che è stato studiato per gli handicappati: colgo l’occasione per ringraziare tutte le persone meravigliose che hanno collaborato a quei brevetti). Una cosa non so fare, e non ci riuscirò mai: non so disegnare come Michelangelo e come Raffaello. Un mio compagno di classe ci andava vicino, a scuola: era molto simpatico ma l’ho invidiato moltissimo e continuo a invidiarlo, perché non sono cose che si imparano, bisogna nascerci (poi è diventato davvero famoso: però come cantante, per un’estate).
Non sono capace neanche di suonare come Yehudi Menuhin o come Maurizio Pollini, e nemmeno come Eric Clapton; e non so nemmeno cantare, sono stonato. Mi sarei accontentato di molto poco, ma anche queste non sono cose che si imparano, non più di quel tanto.
Mi sarebbe piaciuto giocare al pallone, ma ero negato; mi piacerebbe ballare il valzer e il tango, ma sono una statua di marmo; mi piacerebbe ricordarmi i nomi scientifici di tutte le piante e gli animali e i minerali e i composti chimici, ma anche questo non mi riesce mica tanto bene. Ci ho provato, ma non ci sono arrivato. Invece, a scrivere con il pc ci sono riuscito: però non ho ancora provato a passare il mio ditino sulla tastiera di uno smartphone, sono tentato ma chissà mai se riuscirò a farlo, il mio cuore trema nel tentare l’avventura, riuscirò mai a compiere quest’impresa? Ne dubito, ne dubito fortemente, ho visto dei virtuosi che passavano in meno di un secondo da una finestra all’altra dell’ipad, l’ho visto fare anche da dei bambini di due anni, ma io non oso provare. Ahimè, me disgraziato, me meschino.
Come finirà questa storia? Finirà che anch’io smetterò di scrivere, anche su un piccolo blog come questo (avere un blog è ormai obsoleto, si sa), e allora dunque starò zitto e mi metterò in un angolo e smetterò di disturbare. Oppure, magari verrà un blackout generale (senza andare fino a Fukushima, vi ricordate il giugno del duemilatrè?), e allora torneremo al baratto, a scrivere con il la scheggia di mattone sul cemento, e a contare sulle dita delle mani e dei piedi, come si faceva nel tempo dei tempi. Del resto, si sa, il sistema decimale è nato così: c’è chi dice che l’usanza di contare a dozzine, i sessagesimi, eccetera, siano nati dal contarsi le dita delle mani, il naso, il mento: totale dodici, moltiplicato per cinque fa sessanta. Pare che i francesi dicano ancora “quattro-venti” per indicare il numero ottanta proprio per questo motivo, quattro volte le dita dei piedi e delle mani. (Stampate queste ultime righe e tenetele in un cassetto, potranno venirvi comode).
Nella stazione dei paesi vicini, infatti, non c’è nemmeno più la biglietteria: l’hanno chiusa “perché non rendeva”, come se fosse una gelateria. Se di là vogliono fare l’abbonamento al treno, devono muoversi e andare fino a Como, a Varese, a Saronno, a Milano: bei tempi, quando bastava un timbro su un pezzo di cartoncino...
L’accesso precoce ai cellulari provoca molti cambiamenti
NATIVI DIGITALI, PRIMA GENERAZIONE DI UNA NUOVA SPECIE
di A. Saragosa, Venerdì di Repubblica in data 25 febbraio 2011:
(...) Paolo Ferri, docente di Teoria e tecniche dei nuovi media all'Università Milano Bicocca, ha dedicato al tema il libro Nativi digitali (Bruno Mondadori, pp. 224, euro 18). «Nativi digitali sono quelli che, avendo vissuto fin dalla nascita immersi nelle tecnologie informatiche, le padroneggiano come una lingua madre, a differenza di noi "immigrati digitali" che, cresciuti per lo più nel mondo gutenberghiano dei libri, balbettiamo appena l'idioma di questa nuova terra». (...)
- Perché i nativi digitali soffrono così tanto a scuola?
«In tutte le epoche ci si è annoiati a scuola. (...)Ma oggi c'è un abisso fra il modo in cui i ragazzi ricevono informazioni dagli insegnanti e la loro esperienza extrascolastica. I ragazzi sono cresciuti con YouTube, Google e Wikipedia, in un mondo di informazione immediata, multimediale e aggiornata.».
- Ma è solo un problema di gap tecnologico, o c'è una forma mentale diversa?
«Vivere tutta la vita immersi in un ambiente altamente digitalizzato crea menti diverse da quelle di chi si è formato su libri e immagini statiche. I nativi digitali interagiscono con le tecnologie informatiche con grande naturalezza, sono più bravi a lavorare in gruppo, a compiere più operazioni contemporaneamente, a usare i codici iconografici, e sono molto autonomi e indipendenti, spesso allergici all'autorità. D'altro canto tendono a essere più superficiali, meno riflessivi e perdono facilmente interesse nei compiti che non trovano stimolanti. Si direbbe che si aspettino che le cose si svolgano sempre alla velocità con cui sono abituati a fruirle in rete. Forse erano meno distanti fra loro i padri e i figli che si scontravano nel '68, almeno loro usavano gli stessi media. Oggi fra nativi e immigrati digitali c'è un gap crescente di comunicazione, come dimostrano anche le rivoluzioni dei Paesi arabi, organizzate dalle masse giovanili via Facebook e Twitter, senza che né i vecchi díttatori, né i vecchi oppositori si accorgessero di che cosa stava accadendo».
- E come si interessano questi giovani allo studio?
«Attrezzando lo spazio scolastico con le tecnologie che usano a casa e trasformando i libri cartacei in spazi online, organizzati con materiale multimediale, esercitazioni, test di autovalutazione e link ad altri siti. Paradossalmente occorrerà anche recuperare le idee di pedagoghi di un secolo fa, come Maria Montessori, cioè 1`insegnare a imparare", indicando agli studenti metodi per valutare criticamente, confrontare e ordinare le informazioni che possono trovare ormai con tanta facilità in rete. Questi metodi saranno poi utili anche nel mondo del lavoro, che sarà molto più vario e flessibile del nostro. Inoltre, perché l'apprendimento dia frutti, dovrebbe avvenire non più sulla base di esercizi astratti, come il memorizzare, ma con lo stesso metodo con cui i ragazzi imparano a utilizzare smartphone e tablet, cioè “facendo". Ricerche, elaborazioni, scambi di informazioni fra pari e sperimentazioni... E, tasto dolente, bisognerà ridurre all'osso le materie di studio obbligatorie, lasciando agli studenti la scelta fra molte opzionali».
- Non ne faremo dei rete-dipendenti?
«Non credo, tutte le ricerche dicono che il tempo online non è sottratto al gioco o allo sport, ma alla televisione.»
- In tempi di crisi, è realistico parlare di digitalizzazione dell'insegnamento?
«L'Inghilterra ha speso tredici miliardi di euro per attrezzare le sue scuole con computer e altri dispositivi digitali. Noi ce la caveremmo con meno della metà. Entro l'anno saranno introdotte nelle classi italiane 32 mila lavagne interattive, dispositivi multimediali in grado di connettersi a internet e dialogare con i computer dell'insegnante e degli studenti. Purtroppo non si è pensato alle connessioni internet delle scuole, che spesso mancano o sono insufficienti per un uso di massa. Oppure i dirigenti scolastici si arrangiano seguendo ognuno una strada diversa e, spesso, compiendo errori, come acquistare dispositivi che non comunicano fra loro».
- Il vero nodo sono allora gli insegnanti?
«Gli insegnanti italiani hanno un'età media di oltre 50 anni, molti di loro non conoscono queste tecnologie. Ma nei prossimi anni ci sarà un grande ricambio generazionale, e sono sicuro che l'arrivo di molti giovani in cattedra renderà tutto più facile. Le tecnologie non escludono gli insegnanti, anzi, al contrario, potranno far loro recuperare molta autorevolezza e prestigio. Nelle classi sarà più che mai necessaria una figura di adulto esperto, che aiuti i giovani a scoprire le proprie attitudini e svolga il ruolo di critica dei contenuti, spesso pessimi, che si trovano in rete. E che spieghi ai nativi digitali che parte dell'apprendimento, tecnologie o meno, resta comunque una faticosa acquisizione di nozioni».
“Quest to learn”, una scuola pubblica d’avanguardia
A NEW YORK, ADDIO AI LIBRI: SI STUDIA SUI VIDEOGAME
di Caterina Visco, Venerdì di Repubblica 25 feb 2011
La campanella suona, gli studenti si siedono e, joypad della PS3 alla mano, iniziano una sfida a Little Big Planet. Siamo alla Quest to Learn di New York, una scuola superiore (per ora di primo, in futuro anche di secondo grado) dove al posto dei libri di testo si usano i videogame, Alcuni sono disegnati ad hoc, talvolta dagli studenti stessi, altri sono normali videogiochi sfruttati in maniera particolare. Le materie di studio, invece, sono combinazioni dì quelle tradizionali: The Way Things Work (matematica e scienze), Being, Space and Place (studi sociali e Lea-inglese, letteratura e arte), Codeworlds (matematica e Lea), Wellness (educazione fisica e alla salute) e Sports for the Mind (Game Design).
L'idea di fondo è che i videogiochi immergono gli studenti in problemi complessi, risolvendo i quali non solo si acquisiscono le conoscenze base, ma anche abilità trasversali. Per esempio quella di pensare in maniera innovativa, cooperare, prevedere i possibili sviluppi di una situazione.
In Being, Space and Place, per dirne una, gli studenti devono impersonare un soldato spartano che deve valutare le forze ateniesi e stabilire una strategia d'azione. Nel farlo, secondo le aspettative dell'insegnante, dovrebbero imparare storia, geografia e politica pubblica. In The Way of Things Work, invece, diventando ingegneri incaricati di costruire una piramide, dovrebbero acquisire competenze di matematica, geografia e storia delle religioni.
I videogiochi avrebbero anche un altro pregio: coinvolgono e mantengono gli studenti concentrati sulle lezioni per ore. Ai videogame si aggiungono anche altri strumenti di apprendimento, per esempio Being Me, un social network chiuso, o lo SmalLab, uno spazio fisico dove, grazie a videocamere motion capture e proiettori digitali, si creano scenari con cui interagire.
Gli studenti alla fine dell'anno devono superare gli stessi test dei loro coetanei delle altre scuole. Con una sola differenza: al posto del voto, in pagella, c'è il livello raggiunto.
Sono stato uno dei primi, in famiglia e nella mia cerchia di conoscenti, ad avere un indirizzo mail e ad usare internet: fino da metà degli anni ’90, quando ancora bisognava pagare un provider (e costava caro) per avere l’allacciamento.
E avevo già usato i primi pc, quelli degli anni ’80: non sono mai stato un patito dell’informatica e non amo particolarmente le nuove tecnologie, ma mi piaceva scrivere, raccogliere dati, essere informato. Mi sarei comperato una fotocopiatrice, ma costavano troppo e non c’era spazio in casa; poi con lo scanner e un buon software ho potuto fare cose che non mi sarei mai sognato di fare.
E’ stato per questo che quando, sul lavoro, mi dissero “guarda che non c’è bisogno di cancellare tutta la parola, se usi quel tasto qui e ti sposti fino a qui e poi cancelli con questo qui e riscrivi solo la lettera che hai sbagliato” e intanto io avevo già cancellato e riscritto la parola, cosa ci vuole a riscrivere una parola, se sei al computer? Non era mica una linotype...
Io so scrivere, sono capace di scrivere fin dal 1962 (avevo quattro anni), scrivevo con la penna e il pennino e il calamaio senza fare macchie, cosa vuoi che sia battere tre o dieci tasti... Mi è rimasto il dubbio che quel mio collega fosse un tantino analfabeta, che facesse fatica a scrivere, ed è un dubbio che mi perseguita ancora oggi davanti a tutti quei software che aiutano a scrivere. Posso dirlo, almeno qui? Non ho mai usato il dizionario a scuola, ho letto tanti libri, almeno leggere e scrivere, quello sono capace di farlo: con il gesso, con la matita, con la penna e il pennino e il calamaio, con la macchina da scrivere (non ci riuscirò mai, a dire macchina per scrivere), con il computer, e perfino passando il ditino sullo smartphone (a proposito, è un software che è stato studiato per gli handicappati: colgo l’occasione per ringraziare tutte le persone meravigliose che hanno collaborato a quei brevetti). Una cosa non so fare, e non ci riuscirò mai: non so disegnare come Michelangelo e come Raffaello. Un mio compagno di classe ci andava vicino, a scuola: era molto simpatico ma l’ho invidiato moltissimo e continuo a invidiarlo, perché non sono cose che si imparano, bisogna nascerci (poi è diventato davvero famoso: però come cantante, per un’estate).
Non sono capace neanche di suonare come Yehudi Menuhin o come Maurizio Pollini, e nemmeno come Eric Clapton; e non so nemmeno cantare, sono stonato. Mi sarei accontentato di molto poco, ma anche queste non sono cose che si imparano, non più di quel tanto.
Mi sarebbe piaciuto giocare al pallone, ma ero negato; mi piacerebbe ballare il valzer e il tango, ma sono una statua di marmo; mi piacerebbe ricordarmi i nomi scientifici di tutte le piante e gli animali e i minerali e i composti chimici, ma anche questo non mi riesce mica tanto bene. Ci ho provato, ma non ci sono arrivato. Invece, a scrivere con il pc ci sono riuscito: però non ho ancora provato a passare il mio ditino sulla tastiera di uno smartphone, sono tentato ma chissà mai se riuscirò a farlo, il mio cuore trema nel tentare l’avventura, riuscirò mai a compiere quest’impresa? Ne dubito, ne dubito fortemente, ho visto dei virtuosi che passavano in meno di un secondo da una finestra all’altra dell’ipad, l’ho visto fare anche da dei bambini di due anni, ma io non oso provare. Ahimè, me disgraziato, me meschino.
Come finirà questa storia? Finirà che anch’io smetterò di scrivere, anche su un piccolo blog come questo (avere un blog è ormai obsoleto, si sa), e allora dunque starò zitto e mi metterò in un angolo e smetterò di disturbare. Oppure, magari verrà un blackout generale (senza andare fino a Fukushima, vi ricordate il giugno del duemilatrè?), e allora torneremo al baratto, a scrivere con il la scheggia di mattone sul cemento, e a contare sulle dita delle mani e dei piedi, come si faceva nel tempo dei tempi. Del resto, si sa, il sistema decimale è nato così: c’è chi dice che l’usanza di contare a dozzine, i sessagesimi, eccetera, siano nati dal contarsi le dita delle mani, il naso, il mento: totale dodici, moltiplicato per cinque fa sessanta. Pare che i francesi dicano ancora “quattro-venti” per indicare il numero ottanta proprio per questo motivo, quattro volte le dita dei piedi e delle mani. (Stampate queste ultime righe e tenetele in un cassetto, potranno venirvi comode).
lunedì 11 aprile 2011
Nativi digitali / 2
Riprendo per comodità il frammento che ho pubblicato ieri:
da Repubblica, 1 aprile 2011 (e non è un pesce d’aprile...)
(....) Il dg di Unicredit, Roberto Nicastro, si arrabbia: «Gestire un conto in Italia comporta problemi oggettivi rispetto a Germania, Bulgaria, Polonia. Il principale è l’enorme quantità di transazioni cash (...) «Dopo la Spagna, abbiamo la più alta frequenza geografica di filiali. Chi deposita ogni giorno contanti o assegni vuole la banca entro trecento metri. Se i clienti andassero in banca più che altro per discutere i grandi servizi, risparmio, finanziamenti, mutui, sarebbero disponibili ad avere sportelli più distanti. Così le banche avrebbero meno filiali e costi operativi molto inferiori.» (...)
Tutto questo appare molto sensato e anche molto comodo: comodo e sensato per le banche, è ovvio, mica per i clienti. Da oggi in avanti, dunque, l’impiegato di banca sarò io: io, che non ho mai studiato da ragioniere né da commercialista, dovrò mettermi a compilare moduli e campi, digitare codici IBAN, fare tutte quelle operazioni che prima faceva l’impiegata allo sportello, però io lo devo fare gratis. Adesso la banca potrà allegramente licenziare l’impiegata allo sportello e risparmiare uno stipendio con tanto di contributi Inps, tanto poi il lavoro lo faccio io. E se sbaglio? E se io sbaglio, intendo dire: io, che non sono esperto di banca e magari non ho mai usato un computer in vita mia?
Meglio non pensarci, e andare avanti.
L’articolo su Repubblica titolava così:
BANCOMAT E COMMISSIONI, I MILLE BALZELLI DELLE BANCHE SULLE SPALLE DEI CORRENTISTI
Le trappole: Fino a 6 euro per un bonifico e 3 per saldare una bolletta; si pagano anche gli estratti conto, assegni, fidi, e persino gli sms.
La giungla delle tariffe: Più cari l’uso delle carte e le operazioni allo sportello, autentiche stangate su scoperti e servizi finanziari
La polemica: per la commissione UE il costo annuale è di 292 euro, ma l’ABI controbatte che in realtà non si superano i 150.
L’articolo continua per due pagine ed è molto dettagliato (l’autore è Andrea Greco, che ha fatto un ottimo lavoro): vi si parla del crimine organizzato e dell’evasione fiscale, che si basano sul contante, e di tante altre cose interessanti. Quindi l’obiettivo è eliminare il contante: da ora in poi, pochissimi sportelli bancari, tanti bancari licenziati, pagamenti con carte di credito e bancomat, eccetera. Quindi, il conto corrente diventa obbligatorio: e se non guadagnate abbastanza, se vi danno trecento o cinquecento euro al mese e li spendete tutti in affitto, luce e gas, che fare? Di tutto questo le banche non si preoccupano perché non è di loro competenza; il governo invece tace, o approva tout court perché questa è la modernità.
Qualcuno però, a questo punto, dovrebbe cominciare a dire almeno questo: che se il conto corrente diventa obbligatorio, il conto corrente deve essere gratuito. Non dico che il conto corrente dovrebbe rendere degli utili al correntista, come accadeva normalmente negli anni ’80 e ’90, ma quanto meno dovrebbe essere a zero spese, e dovrebbe esserlo per legge; e bisognerebbe cominciare anche a ragionare sul costo delle connessioni internet, se avere il conto on line diventa obbligatorio. Altrimenti la scelta, mi si passi la battuta, diventa tra farsi rapinare dalla banca o farsi rapinare dai banditi per strada.
A questo punto, facendo il paragone tra ieri (quando c’era bisogno di molto personale ma si pagavano gli interessi sul conto corrente) e oggi (quando i dipendenti delle banche sono già stati più che dimezzati, ma si punta sempre a ridurre i costi), una domanda sorge spontanea: come mai succedono queste cose? Rispondo con un esempio: una mia amica è andata in banca (o in Posta, non ricordo più dove ma ormai fa lo stesso) a ritirare una parte dei suoi soldi, lì depositati; pensava che fosse una pratica semplice, di sbrigarsela in fretta, e invece le hanno proposto un finanziamento. E la mia amica si è chiesta: “Ma come, a cosa mi serve un finanziamento se io soldi ce li ho?”. Anche qui la risposta è semplice, scontata: i soldi depositati sono soldi veri, i soldi che prelevate dal bancomat sono soldi veri, quelli che circolano dentro il circuito bancario sono invece soldi virtuali. I soldi virtuali sono fuffa; i soldi veri, cioè i nostri, servono per finanziare la fuffa e tutte quelle operazioni che vediamo al tg, il salvataggio Alitalia, i Tanzi e i Maddox e i Fiorani che scappano con la cassa, l’ingaggio che i Moratti e i Berlusconi pagano a Benitez, a Mourinho, a Eto’o e a Ibrahimovic, eccetera. Se i soldi veri glieli portate via, poi loro come fanno?
In definitiva, questa è ideologia, non bariamo: ideologia paleocapitalista, roba vecchia, antica come l'uomo. Non c’è nessun motivo di togliere dagli sportelli del personale che è al servizio delle vecchiette e dei “minus habens” come me, se non il desiderio di pochi privilegiati di comperarsi il jet privato o di fare operazioni finanziarie discutibili o spregiudicate (e magari peggio). L’arricchimento di poche persone, mentre gli altri, la grande maggioranza, il popolo bue (ci chiamano “parco buoi”, nel linguaggio della Borsa) deve solo farsi mungere – e chiedo scusa per la metafora un po’ pesante, ma tanto io non conto niente, scrivo su un piccolo blog, e il blog (si sa) è ormai un mezzo obsoleto e fuori moda, cosa vuoi che importi quello che scrivo qui.
“Dobbiamo fermare il progresso perché ci sono le vecchiette?” chiese qualcuno, ridacchiando, poco tempo fa; e io rispondo: sì, anche se ci fosse una sola vecchietta al mondo bisogna fermarsi e aiutarla. Altrimenti, che mondo è?
Siamo finiti in mano a persone cattive, nel caso non ve ne foste ancora accorti.
(continua)
da Repubblica, 1 aprile 2011 (e non è un pesce d’aprile...)
(....) Il dg di Unicredit, Roberto Nicastro, si arrabbia: «Gestire un conto in Italia comporta problemi oggettivi rispetto a Germania, Bulgaria, Polonia. Il principale è l’enorme quantità di transazioni cash (...) «Dopo la Spagna, abbiamo la più alta frequenza geografica di filiali. Chi deposita ogni giorno contanti o assegni vuole la banca entro trecento metri. Se i clienti andassero in banca più che altro per discutere i grandi servizi, risparmio, finanziamenti, mutui, sarebbero disponibili ad avere sportelli più distanti. Così le banche avrebbero meno filiali e costi operativi molto inferiori.» (...)
Tutto questo appare molto sensato e anche molto comodo: comodo e sensato per le banche, è ovvio, mica per i clienti. Da oggi in avanti, dunque, l’impiegato di banca sarò io: io, che non ho mai studiato da ragioniere né da commercialista, dovrò mettermi a compilare moduli e campi, digitare codici IBAN, fare tutte quelle operazioni che prima faceva l’impiegata allo sportello, però io lo devo fare gratis. Adesso la banca potrà allegramente licenziare l’impiegata allo sportello e risparmiare uno stipendio con tanto di contributi Inps, tanto poi il lavoro lo faccio io. E se sbaglio? E se io sbaglio, intendo dire: io, che non sono esperto di banca e magari non ho mai usato un computer in vita mia?
Meglio non pensarci, e andare avanti.
L’articolo su Repubblica titolava così:
BANCOMAT E COMMISSIONI, I MILLE BALZELLI DELLE BANCHE SULLE SPALLE DEI CORRENTISTI
Le trappole: Fino a 6 euro per un bonifico e 3 per saldare una bolletta; si pagano anche gli estratti conto, assegni, fidi, e persino gli sms.
La giungla delle tariffe: Più cari l’uso delle carte e le operazioni allo sportello, autentiche stangate su scoperti e servizi finanziari
La polemica: per la commissione UE il costo annuale è di 292 euro, ma l’ABI controbatte che in realtà non si superano i 150.
L’articolo continua per due pagine ed è molto dettagliato (l’autore è Andrea Greco, che ha fatto un ottimo lavoro): vi si parla del crimine organizzato e dell’evasione fiscale, che si basano sul contante, e di tante altre cose interessanti. Quindi l’obiettivo è eliminare il contante: da ora in poi, pochissimi sportelli bancari, tanti bancari licenziati, pagamenti con carte di credito e bancomat, eccetera. Quindi, il conto corrente diventa obbligatorio: e se non guadagnate abbastanza, se vi danno trecento o cinquecento euro al mese e li spendete tutti in affitto, luce e gas, che fare? Di tutto questo le banche non si preoccupano perché non è di loro competenza; il governo invece tace, o approva tout court perché questa è la modernità.
Qualcuno però, a questo punto, dovrebbe cominciare a dire almeno questo: che se il conto corrente diventa obbligatorio, il conto corrente deve essere gratuito. Non dico che il conto corrente dovrebbe rendere degli utili al correntista, come accadeva normalmente negli anni ’80 e ’90, ma quanto meno dovrebbe essere a zero spese, e dovrebbe esserlo per legge; e bisognerebbe cominciare anche a ragionare sul costo delle connessioni internet, se avere il conto on line diventa obbligatorio. Altrimenti la scelta, mi si passi la battuta, diventa tra farsi rapinare dalla banca o farsi rapinare dai banditi per strada.
A questo punto, facendo il paragone tra ieri (quando c’era bisogno di molto personale ma si pagavano gli interessi sul conto corrente) e oggi (quando i dipendenti delle banche sono già stati più che dimezzati, ma si punta sempre a ridurre i costi), una domanda sorge spontanea: come mai succedono queste cose? Rispondo con un esempio: una mia amica è andata in banca (o in Posta, non ricordo più dove ma ormai fa lo stesso) a ritirare una parte dei suoi soldi, lì depositati; pensava che fosse una pratica semplice, di sbrigarsela in fretta, e invece le hanno proposto un finanziamento. E la mia amica si è chiesta: “Ma come, a cosa mi serve un finanziamento se io soldi ce li ho?”. Anche qui la risposta è semplice, scontata: i soldi depositati sono soldi veri, i soldi che prelevate dal bancomat sono soldi veri, quelli che circolano dentro il circuito bancario sono invece soldi virtuali. I soldi virtuali sono fuffa; i soldi veri, cioè i nostri, servono per finanziare la fuffa e tutte quelle operazioni che vediamo al tg, il salvataggio Alitalia, i Tanzi e i Maddox e i Fiorani che scappano con la cassa, l’ingaggio che i Moratti e i Berlusconi pagano a Benitez, a Mourinho, a Eto’o e a Ibrahimovic, eccetera. Se i soldi veri glieli portate via, poi loro come fanno?
In definitiva, questa è ideologia, non bariamo: ideologia paleocapitalista, roba vecchia, antica come l'uomo. Non c’è nessun motivo di togliere dagli sportelli del personale che è al servizio delle vecchiette e dei “minus habens” come me, se non il desiderio di pochi privilegiati di comperarsi il jet privato o di fare operazioni finanziarie discutibili o spregiudicate (e magari peggio). L’arricchimento di poche persone, mentre gli altri, la grande maggioranza, il popolo bue (ci chiamano “parco buoi”, nel linguaggio della Borsa) deve solo farsi mungere – e chiedo scusa per la metafora un po’ pesante, ma tanto io non conto niente, scrivo su un piccolo blog, e il blog (si sa) è ormai un mezzo obsoleto e fuori moda, cosa vuoi che importi quello che scrivo qui.
“Dobbiamo fermare il progresso perché ci sono le vecchiette?” chiese qualcuno, ridacchiando, poco tempo fa; e io rispondo: sì, anche se ci fosse una sola vecchietta al mondo bisogna fermarsi e aiutarla. Altrimenti, che mondo è?
Siamo finiti in mano a persone cattive, nel caso non ve ne foste ancora accorti.
(continua)
domenica 10 aprile 2011
Nativi digitali / 1: una tassa sul contante
Sono stato uno dei primi, in famiglia e nella mia cerchia di conoscenti, ad avere un indirizzo mail e ad usare internet: fino da metà degli anni ’90, quando ancora bisognava pagare un provider (e costava caro) per avere l’allacciamento. Ma internet era già una realtà diffusa, e così ogni tanto mi capitava di chiedere se potevo lasciare l’indirizzo mail; e la risposta era quasi sempre questa: «Ah, no, io di computer non ne capisco niente...».
Quante volte l’ho avuta, questa risposta, negli ultimi dieci o quindici anni? Un’infinità di volte: capitava di dire “ti lascio la mail”, per comodità, ma poi il computer non ce l’aveva nessuno, la connessione a internet men che meno. Troppo complicato, troppo costoso (un pc costa ancora oggi sui 400-500 euro).
Col telefonino era un po’ più semplice, ce l’avevano quasi tutti; e così anch’io mi sono dovuto adattare e ne ho preso uno. Ma il telefonino consentiva solo messaggi brevi, niente allegati, insomma cose buone per tenere un contatto, o poco più; oggi le cose sono un po’ cambiate, ma gli smart phone e gli ipad sono ancora molto costosi, e poi in questo momento a me non servirebbero e quindi per il momento non ho intenzione di comperarli. Ma il discorso rimane sempre aperto: moltissime persone non sanno usare le nuove tecnologie, che ormai stanno diventando obbligatorie.
Fino a poco tempo fa, di queste cose, di questa difficoltà ad usare il computer e internet, se ne parlava: anche sui giornali. Oggi queste notizie sono sparite, completamente. Se ne è persa perfino la memoria. Cosa è successo nel frattempo? Forse di colpo tutte le persone di questa terra si sono alfabetizzate e informatizzate, come per un colpo di bacchetta magica? No, è successa invece un’altra cosa: che tutti i giornalisti e gli addetti alle pubbliche relazioni sopra una certa età (cioè sopra i 30 anni, e non sto scherzando) sono stati licenziati o pensionati, e adesso tutti quelli e quelle che scrivono sui giornali o fanno pubbliche relazioni sono super informatizzati, maneggiano con disinvoltura ogni genere di nuovo oggetto o applicazione, pensano che tutto il mondo funzioni così (gatti, cani, criceti e canarini compresi) e degli altri non se ne parla più. Gli altri, cioè per esempio mia mamma, mia zia, molti dei mio vicini di casa, tante persone ormai indegne di essere prese in considerazione. E’ infatti passato, e alla grande, il principio che “chi non è capace, non è degno di considerazione”: è il trionfo degli smanettoni, e che ci sia tutto un mondo oltre a twitter e facebook all’ipad e allo smart phone non passa nemmeno per il cervello di queste persone.
Il risultato è che sempre più persone sono in difficoltà con cose che fino a ieri erano facilissime: per esempio a gennaio e febbraio, e ancora oggi, in Lombardia migliaia di persone hanno fatto code infernali per ritirare la tessera sanitaria. “Bastava andare su internet per avere accesso al servizio senza fare code, è comodissimo”. La stessa cosa capita sui treni e sui bus: “basta andare su internet, paghi con la carta di credito, è comodissimo”. Prenotazioni di alberghi? Tutto su internet, tutto on line, lo smartphone, le apps, vedi anche le camere, facilissimo.
Ok, io potrei anche arrivarci, ma siamo sicuri che sia così per tutti? E chi non ci riesce, cosa fa? Gli capita come sui videogames (riferimento obbligato, il videogame è la vera zona di formazione, altro che la scuola o la vita), cioè riceve una cassaforte in testa o una mazzata, oppure viene ucciso e deve ricominciare da capo.
Verrebbe da dire: siamo sempre più governati da persone che non vivono in mezzo alla gente. Non solo i politici, ma la scuola, le banche, le assicurazioni, qualsiasi cosa. E più si osserva più si nota che è proprio così, quelli che comandano e che progettano il mondo sono persone che non vivono in mezzo alla gente, e abitano in un mondo del tutto irreale e artificiale, a volte perfino virtuale. Il loro contatto con la natura avviene a Sharm, alle Seychelles, sulle piste da sci. E se a Sharm trovano un geco sulla parete, chiamano la direzione dell’albergo e ne parlano come di uno scandalo.
L’ultima trovata di questa gente è la tassa sul contante; cioè l’eliminazione fisica dello sportello bancario. Da oggi in avanti il costo di ogni operazione sarà elevatissimo. E le persone anziane? E chi ha bisogno di essere aiutato? Peggio per lui, peggio per loro.
da http://www.repubblica.it/ , 1 aprile 2011 (e non è un pesce d’aprile...)
(....) Il dg di Unicredit, Roberto Nicastro, si arrabbia: «Gestire un conto in Italia comporta problemi oggettivi rispetto a Germania, Bulgaria, Polonia. Il principale è l’enorme quantità di transazioni cash (...) «Dopo la Spagna, abbiamo la più alta frequenza geografica di filiali. Chi deposita ogni giorno contanti o assegni vuole la banca entro trecento metri. Se i clienti andassero in banca più che altro per discutere i grandi servizi, risparmio, finanziamenti, mutui, sarebbero disponibili ad avere sportelli più distanti. Così le banche avrebbero meno filiali e costi operativi molto inferiori.» (...)
L’articolo continua per due pagine ed è molto dettagliato (l’autore è Andrea Greco, che ha fatto un ottimo lavoro): vi si parla del crimine organizzato e dell’evasione fiscale, che si basano sul contante, e di tante altre cose interessanti. Ma io mi chiedo: prima, come si faceva?
La risposta la so perchè c’ero: fino a non molti anni fa, un conto corrente dava degli utili al correntista. Adesso invece sono tutte spese. E questa è già una differenza che pesa: come mai, come è possibile? Le banche funzionavano benissimo, era più facile avere finanziamenti, eppure non erano periodi facili: cosa è cambiato nel frattempo, come mai d’improvviso avere dei dipendenti e tenere aperta una filiale è diventato così astruso e proibitivo? La risposta ce l’ho, o credo di averla – mi riservo di ampliare il discorso in qualche prossimo post, per oggi me la cavo con una battuta: attenzione, queste sono le stesse persone che vi dicevano che la benzina è troppo cara perché ci sono troppi distributori. Quei distributori, quasi tutti gestiti da piccole persone che vivevano del proprio lavoro, sono stati chiusi quasi tutti: quanto costa oggi la benzina? E’ mai diminuita di prezzo? Mah...
(continua)
Quante volte l’ho avuta, questa risposta, negli ultimi dieci o quindici anni? Un’infinità di volte: capitava di dire “ti lascio la mail”, per comodità, ma poi il computer non ce l’aveva nessuno, la connessione a internet men che meno. Troppo complicato, troppo costoso (un pc costa ancora oggi sui 400-500 euro).
Col telefonino era un po’ più semplice, ce l’avevano quasi tutti; e così anch’io mi sono dovuto adattare e ne ho preso uno. Ma il telefonino consentiva solo messaggi brevi, niente allegati, insomma cose buone per tenere un contatto, o poco più; oggi le cose sono un po’ cambiate, ma gli smart phone e gli ipad sono ancora molto costosi, e poi in questo momento a me non servirebbero e quindi per il momento non ho intenzione di comperarli. Ma il discorso rimane sempre aperto: moltissime persone non sanno usare le nuove tecnologie, che ormai stanno diventando obbligatorie.
Fino a poco tempo fa, di queste cose, di questa difficoltà ad usare il computer e internet, se ne parlava: anche sui giornali. Oggi queste notizie sono sparite, completamente. Se ne è persa perfino la memoria. Cosa è successo nel frattempo? Forse di colpo tutte le persone di questa terra si sono alfabetizzate e informatizzate, come per un colpo di bacchetta magica? No, è successa invece un’altra cosa: che tutti i giornalisti e gli addetti alle pubbliche relazioni sopra una certa età (cioè sopra i 30 anni, e non sto scherzando) sono stati licenziati o pensionati, e adesso tutti quelli e quelle che scrivono sui giornali o fanno pubbliche relazioni sono super informatizzati, maneggiano con disinvoltura ogni genere di nuovo oggetto o applicazione, pensano che tutto il mondo funzioni così (gatti, cani, criceti e canarini compresi) e degli altri non se ne parla più. Gli altri, cioè per esempio mia mamma, mia zia, molti dei mio vicini di casa, tante persone ormai indegne di essere prese in considerazione. E’ infatti passato, e alla grande, il principio che “chi non è capace, non è degno di considerazione”: è il trionfo degli smanettoni, e che ci sia tutto un mondo oltre a twitter e facebook all’ipad e allo smart phone non passa nemmeno per il cervello di queste persone.
Il risultato è che sempre più persone sono in difficoltà con cose che fino a ieri erano facilissime: per esempio a gennaio e febbraio, e ancora oggi, in Lombardia migliaia di persone hanno fatto code infernali per ritirare la tessera sanitaria. “Bastava andare su internet per avere accesso al servizio senza fare code, è comodissimo”. La stessa cosa capita sui treni e sui bus: “basta andare su internet, paghi con la carta di credito, è comodissimo”. Prenotazioni di alberghi? Tutto su internet, tutto on line, lo smartphone, le apps, vedi anche le camere, facilissimo.
Ok, io potrei anche arrivarci, ma siamo sicuri che sia così per tutti? E chi non ci riesce, cosa fa? Gli capita come sui videogames (riferimento obbligato, il videogame è la vera zona di formazione, altro che la scuola o la vita), cioè riceve una cassaforte in testa o una mazzata, oppure viene ucciso e deve ricominciare da capo.
Verrebbe da dire: siamo sempre più governati da persone che non vivono in mezzo alla gente. Non solo i politici, ma la scuola, le banche, le assicurazioni, qualsiasi cosa. E più si osserva più si nota che è proprio così, quelli che comandano e che progettano il mondo sono persone che non vivono in mezzo alla gente, e abitano in un mondo del tutto irreale e artificiale, a volte perfino virtuale. Il loro contatto con la natura avviene a Sharm, alle Seychelles, sulle piste da sci. E se a Sharm trovano un geco sulla parete, chiamano la direzione dell’albergo e ne parlano come di uno scandalo.
L’ultima trovata di questa gente è la tassa sul contante; cioè l’eliminazione fisica dello sportello bancario. Da oggi in avanti il costo di ogni operazione sarà elevatissimo. E le persone anziane? E chi ha bisogno di essere aiutato? Peggio per lui, peggio per loro.
da http://www.repubblica.it/ , 1 aprile 2011 (e non è un pesce d’aprile...)
(....) Il dg di Unicredit, Roberto Nicastro, si arrabbia: «Gestire un conto in Italia comporta problemi oggettivi rispetto a Germania, Bulgaria, Polonia. Il principale è l’enorme quantità di transazioni cash (...) «Dopo la Spagna, abbiamo la più alta frequenza geografica di filiali. Chi deposita ogni giorno contanti o assegni vuole la banca entro trecento metri. Se i clienti andassero in banca più che altro per discutere i grandi servizi, risparmio, finanziamenti, mutui, sarebbero disponibili ad avere sportelli più distanti. Così le banche avrebbero meno filiali e costi operativi molto inferiori.» (...)
L’articolo continua per due pagine ed è molto dettagliato (l’autore è Andrea Greco, che ha fatto un ottimo lavoro): vi si parla del crimine organizzato e dell’evasione fiscale, che si basano sul contante, e di tante altre cose interessanti. Ma io mi chiedo: prima, come si faceva?
La risposta la so perchè c’ero: fino a non molti anni fa, un conto corrente dava degli utili al correntista. Adesso invece sono tutte spese. E questa è già una differenza che pesa: come mai, come è possibile? Le banche funzionavano benissimo, era più facile avere finanziamenti, eppure non erano periodi facili: cosa è cambiato nel frattempo, come mai d’improvviso avere dei dipendenti e tenere aperta una filiale è diventato così astruso e proibitivo? La risposta ce l’ho, o credo di averla – mi riservo di ampliare il discorso in qualche prossimo post, per oggi me la cavo con una battuta: attenzione, queste sono le stesse persone che vi dicevano che la benzina è troppo cara perché ci sono troppi distributori. Quei distributori, quasi tutti gestiti da piccole persone che vivevano del proprio lavoro, sono stati chiusi quasi tutti: quanto costa oggi la benzina? E’ mai diminuita di prezzo? Mah...
(continua)
sabato 9 aprile 2011
Lumache buongustaie
Le lumache, e le chiocciole, non mangiano la prima cosa che trovano. Le lumache, e anche le chiocciole, portano pazienza: non sono come i bruchi delle farfalle che mangiano una cosa sola, loro mangiano un po’ di tutto, potrebbero mangiare un’erba qualsiasi, ma invece mangiano solo quello che dicono loro. Le lumache, e anche le chiocciole, sono buongustaie: capaci di attraversare prati e campi, pur di giungere alla lattughina più tenera e più dolce. La lattughina più tenera e più dolce, una varietà selezionata con cura negli orti botanici da generazioni e generazioni di giardinieri capaci ed esperti, adesso è qui, nel mio giardino: ed è piena di lumache, e anche di chiocciole.
Non so se esserne ammirato, di questi gusti raffinati in un animale così piccolo, oppure se prendere rabbia perché se la mangiano tutta: se arrivano le lumache quando la piantina è appena nata, vuol dire che è finita e che dovrò andare a comperare l'insalata.
Oggi sono qui che osservo e concludo che quest’anno è andata bene: la pioggia è arrivata al momento giusto, né troppa né troppo poca, e la lattuga è cresciuta rigogliosa.
E per adesso le lumache, e anche le chiocciole, sono ancora poche: di insalata (mica solo la lattughina, le maledette) ce ne è per tutti. Per oggi va così, con la prossima generazione vedremo: se guerra ha da essere, non l’avrò dichiarata io. Per intanto, sposto le chiocciole e le rispedisco nel prato, un po’ più in là: se vogliono mangiarsi la mia lattuga, che almeno facciano un po’ di fatica a ritrovare la strada. E che chiocciole: una, due, tre, quattro, sode e grasse, magnifica conchiglia; i miei complimenti ai selezionatori della lattughe, decine di chiocciole non possono essersi sbagliate, hanno fatto davvero un bel lavoro (le lumache rosse, quelle si sono nascoste bene: ma prima o poi le stano anche loro, non si illudano).
(l’immagine viene dal Venerdì di Repubblica, non so più che numero dell’anno scorso: è la chiocciola più grossa del mondo, se si fa clic sull'immagine si legge anche come si chiama e da dove viene)
Non so se esserne ammirato, di questi gusti raffinati in un animale così piccolo, oppure se prendere rabbia perché se la mangiano tutta: se arrivano le lumache quando la piantina è appena nata, vuol dire che è finita e che dovrò andare a comperare l'insalata.
Oggi sono qui che osservo e concludo che quest’anno è andata bene: la pioggia è arrivata al momento giusto, né troppa né troppo poca, e la lattuga è cresciuta rigogliosa.
E per adesso le lumache, e anche le chiocciole, sono ancora poche: di insalata (mica solo la lattughina, le maledette) ce ne è per tutti. Per oggi va così, con la prossima generazione vedremo: se guerra ha da essere, non l’avrò dichiarata io. Per intanto, sposto le chiocciole e le rispedisco nel prato, un po’ più in là: se vogliono mangiarsi la mia lattuga, che almeno facciano un po’ di fatica a ritrovare la strada. E che chiocciole: una, due, tre, quattro, sode e grasse, magnifica conchiglia; i miei complimenti ai selezionatori della lattughe, decine di chiocciole non possono essersi sbagliate, hanno fatto davvero un bel lavoro (le lumache rosse, quelle si sono nascoste bene: ma prima o poi le stano anche loro, non si illudano).
(l’immagine viene dal Venerdì di Repubblica, non so più che numero dell’anno scorso: è la chiocciola più grossa del mondo, se si fa clic sull'immagine si legge anche come si chiama e da dove viene)
venerdì 8 aprile 2011
I ragni saltatori
...poi di spettacoli lì per terra minimi, mentre il prefetto era su in cima in vedetta, ne ho visti quanti si vuole.
Un ragno minuscolo, me lo ricordo ancora, che saltava come una cavalletta, e aveva quattro occhi; più altri due, se non erano le orecchie; e assaggiava con pinze piumose tutte le cose, anche le unghie delle mie dita, e poi mi sembrava di vedere che si spulciasse. E di me di sicuro si era fatto un'opinione; però non so quale. Forse ero un erbivoro accovacciato, per lui; o un monte umidiccio.
Un altro ragno invece era di quelli con una pazienza anche esagerata, che stanno fermissimi e guardano solo la ragnatela, perché non gli importa di altro. Forse canticchiava tra sé qualche canzonetta vecchia e banale, per ammazzare il tempo. Io avrei fatto così. O si ripeteva degli elenchi, per tener occupato quel po' di memoria che aveva.
Comunque in due ore non si è mai mosso, e non dormiva; anzi era tesissimo, di modo che alla fine di un giorno io dico che è più stanco che se avesse trascinato un sasso in salita per un chilometro. Stanco di stanchezza nervosa; e canticchiare allora a voce bassa qualcosa come ad esempio un blues, aiuta.
Sotto i miei occhi se ne sono sviluppate di vicende minute, all'infinito; vicende anche ridicole, oppure cruente e deprecabili, in cui risolvevo ad esempio con una spintarellina i brutti pasticci tra un'ape e un moscerino; o avvisavo una specie di elefantino minuscolo che era in pericolo, e via dicendo. Dunque così. Il pomeriggio è passato così, che ognuno osservava i suoi formicolamenti.
(Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, ed. Guanda pag.184)
Su internet è difficile trovare siti seri dedicati ai ragni: se vi trovate un ragno in casa o in giardino, e volete sapere cos’è e se dovete magari preoccuparvi, quasi sempre i motori di ricerca vi manderanno immancabilmente ad immagini di gente stupida che gioca con le migali e con le tarantole, a film più o meno horror, e cose del genere. Il motivo di questa mancanza di siti utili è probabilmente dovuta al fatto che i ragni di casa nostra sono quasi tutti innocui, e non hanno interesse nemmeno in agraria. Però sarebbe una buona cosa potersi informare a dovere, tanto più che i tempi sono cambiati, e oggi ci sono in giro molti idioti che importano specie esotiche e pericolose. Il cambiamento climatico non è ancora arrivato al punto da far ambientare anche da noi le tarantole amazzoniche e le vedove nere americane, ma se qualcuno le porta qui più o meno di nascosto, e poi fuggono da un terrario domestico, basta anche una sopravvivenza di mezza giornata per causare pericolo.
Però un sito molto bello con tante immagini di insetti e di ragni e di altre piccole creature l’ho infine trovato, http://www.lucianabartolini.net/ . Le tre immagini qui sotto vengono da questo sito: i ragni saltatori di cui parla Cavazzoni (pardon, Savini...) sono ragni molto piccoli, e molto comuni; è più che probabile che si tratti di uno di questi, un Phileus crisops o magari un Menemeus semilimbatus, o un Salticidae qualsivoglia.
Un ragno minuscolo, me lo ricordo ancora, che saltava come una cavalletta, e aveva quattro occhi; più altri due, se non erano le orecchie; e assaggiava con pinze piumose tutte le cose, anche le unghie delle mie dita, e poi mi sembrava di vedere che si spulciasse. E di me di sicuro si era fatto un'opinione; però non so quale. Forse ero un erbivoro accovacciato, per lui; o un monte umidiccio.
Un altro ragno invece era di quelli con una pazienza anche esagerata, che stanno fermissimi e guardano solo la ragnatela, perché non gli importa di altro. Forse canticchiava tra sé qualche canzonetta vecchia e banale, per ammazzare il tempo. Io avrei fatto così. O si ripeteva degli elenchi, per tener occupato quel po' di memoria che aveva.
Comunque in due ore non si è mai mosso, e non dormiva; anzi era tesissimo, di modo che alla fine di un giorno io dico che è più stanco che se avesse trascinato un sasso in salita per un chilometro. Stanco di stanchezza nervosa; e canticchiare allora a voce bassa qualcosa come ad esempio un blues, aiuta.
Sotto i miei occhi se ne sono sviluppate di vicende minute, all'infinito; vicende anche ridicole, oppure cruente e deprecabili, in cui risolvevo ad esempio con una spintarellina i brutti pasticci tra un'ape e un moscerino; o avvisavo una specie di elefantino minuscolo che era in pericolo, e via dicendo. Dunque così. Il pomeriggio è passato così, che ognuno osservava i suoi formicolamenti.
(Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, ed. Guanda pag.184)
Su internet è difficile trovare siti seri dedicati ai ragni: se vi trovate un ragno in casa o in giardino, e volete sapere cos’è e se dovete magari preoccuparvi, quasi sempre i motori di ricerca vi manderanno immancabilmente ad immagini di gente stupida che gioca con le migali e con le tarantole, a film più o meno horror, e cose del genere. Il motivo di questa mancanza di siti utili è probabilmente dovuta al fatto che i ragni di casa nostra sono quasi tutti innocui, e non hanno interesse nemmeno in agraria. Però sarebbe una buona cosa potersi informare a dovere, tanto più che i tempi sono cambiati, e oggi ci sono in giro molti idioti che importano specie esotiche e pericolose. Il cambiamento climatico non è ancora arrivato al punto da far ambientare anche da noi le tarantole amazzoniche e le vedove nere americane, ma se qualcuno le porta qui più o meno di nascosto, e poi fuggono da un terrario domestico, basta anche una sopravvivenza di mezza giornata per causare pericolo.
Però un sito molto bello con tante immagini di insetti e di ragni e di altre piccole creature l’ho infine trovato, http://www.lucianabartolini.net/ . Le tre immagini qui sotto vengono da questo sito: i ragni saltatori di cui parla Cavazzoni (pardon, Savini...) sono ragni molto piccoli, e molto comuni; è più che probabile che si tratti di uno di questi, un Phileus crisops o magari un Menemeus semilimbatus, o un Salticidae qualsivoglia.
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