- Eh, il tempo...il tempo passa...
Così dice pensosa mia zia, nell’attimo in cui siamo soli. Poi, un leggero scarto dell’umore, un cambio di tonalità, un ammiccare sorridente (come le capita spesso):
- Menu mal, eh, ch’el passa: se no sarèmm kì tücc incatramàa.
Difficile da rendere per iscritto, l’antico dialetto comasco di questa zona: quella parola finisce con una vocale che è sì una “a”, ma che contiene anche un “oeu” e una “ü”, forse anche un pizzico di “ö”, e mi sun minga bon de dil, porca l’oca, perché io sono nato e cresciuto pochi chilometri più in là, non siamo già più comaschi ma milanesi. Il dialetto dei nostri vecchi, quello vero, era così: una lingua viva, impossibile da contenere in una grammatica. Una lingua viva, cangiante, ognuno lo parlava a modo suo, bastavano due o tre chilometri e il dialetto era già un’altra cosa. Oggi il dialetto non lo parla più nessuno, ed è solo oggi – da ignoranti, e spiace dirlo – che si pensa che il dialetto sia una lingua da imporre. Il dialetto è una cosa personale, tutti sono convinti di essere capaci soltanto loro, di parlare il dialetto; e sono cose che capitano quando, per l’appunto, il dialetto diventa una lingua morta, affidata a poche persone, quasi tutte anziane. Teniamo viva la memoria, dunque, ma intanto prepariamoci a nuovi dialetti, mischiati con l’arabo e con il russo, con il rumeno e con l’albanese: il tempo passa, e meno male che passa, se no saremmo qui tutti incatramati.
Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo. Non è morta la lingua milanese come nessun dialetto morrà. Creda pur taluno, sordo e cieco, che decadenza vi sia perché le vecchie forme, le usate espressioni più non trova, ma decadenza non v'è. In perfetta aderenza con la necessità contingente, la parlata del popolo è simile all'architettura; a nuova vita, nuovo stile; chi non comprende, chi si lamenta, è un sorpassato. (...)
( Delio Tessa, milanese, febbraio 1932 )
Nell'esilio si perdono molte cose, prima fra tutte la propria lingua. Alla prima generazione già vacilla, alla seconda si sgrana, alla terza, verosimilmente, viene inghiottita dal nuovo territorio linguistico. Ciò non accadeva alla lingua che noi vi cantiamo, lo yiddish, che al contrario, dell'esilio e per l'esilio viveva e di esso si alimentava, ribollendo come il mosto a primavera.
Incontrando questa lingua sul suo cammino, cosí ne parlava un grande Saggio di Praga, rivolgendosi a un pubblico della borghesia ebraica praghese di lingua e cultura tedesche:
«Avanti la recita dei primi versi di poeti ebrei orientali vorrei ancora dirvi, egregi signori e signore, che Voi capite molto più yiddish di quel che pensiate... il che non può accadere finché alcuni di Voi hanno, di questo gergo, una tal paura, che quasi gliela leggo in viso. [...] Lo yiddish è la piú giovane lingua europea, non ha che quattrocento anni, e in realtà è ancora più recente. Non ha ancora formato strutture linguistiche cosí nette come ci sono necessarie. Le sue espressioni sono brevi e nervose. Non ha grammatica. Certi amatori tentano di scrivere delle grammatiche, ma lo yiddish viene parlato senza sosta, e non trova pace. Il popolo non lo cede ai grammatici..
Esso si compone solo di parole straniere. Queste però non riposano nel suo seno, ma conservano la fretta e la vivacità con cui sono state accolte. Lo yiddish è percorso da un capo all'altro da migrazioni di popoli. Tutto questo tedesco, ebraico, francese, inglese, slavo, olandese, rumeno e perfino latino che vive in esso è preso da curiosità e da leggerezza, ci vuole una certa energia a tenere unite le varie lingue in questa forma. Perciò nessuna persona ragionevole penserà mai a fare dello yiddish una lingua internazionale, benché l'idea si offra quasi da sé. Solo il linguaggio della malavita vi attinge volentieri, perché gli occorrono non tanto nessi linguistici, quanto singoli vocaboli. E poi, perché lo yiddish è stato a lungo una lingua disprezzata.»
Cosí, Franz Kafka.
In yiddish, lo yiddish si chiama anche mamelushn, che significa «lingua madre» o, per meglio dire, «lingua mamma». «Noi non ce l'abiamo madre e mamma, solo mama ce l'abiamo noi. Da noi si dice "lingua mama" perché quando c'è in giro la mama, il papa non spiacica neanche una parola».
(Moni Ovadia, milanese, dallo spettacolo “Oylem Goylem”) (dvd e libro pubblicati da Einaudi)
Il dialogo che ho riportato qui sopra è avvenuto il giorno di Santo Stefano del 2006: mia zia, vedova del fratello di mio padre (un veneto di Trebaséleghe) aveva allora 95 anni.
Life History of the Forget-me-not
6 ore fa
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