Sto guardando una trasmissione televisiva sul calcio, di quelle che si guardano giusto per ammazzare il tempo (come faceva il Cappellaio Matto, più o meno: a mio rischio e pericolo, perché poi so cosa capita, quando il Tempo si vendica) quando il giornalista romano se ne esce con un’espressione idiomatica, qualcosa del tipo “quello lì ormai è buono solo per mangiarsi le pérsiche”, per indicare un calciatore che non rende più. L’interista di Milano, un giovinotto sui 35-40 anni, salta su, si stupisce, si inalbera, e gli dice: “Ma fatti capire anche in Lombardia!”.
E poi chiede in giro “Ma cosa sono ‘ste persiche??”. Nessuno dei presenti in studio (eppure non sono tutti romani, e l’emittente ha sede a Milano) spiega al lombardo interista che “andà a catàa i pèrsigh” è lombardissimo, e il fatto che nessuno glielo spieghi un po’ mi dispiace. I “pèrsigh” delle mie parti e le “pérsiche” romanesche (che immagino saporitissime: vengono buone anche qui, ma più c’è sole e più vengono dolci e profumate) hanno infatti un’identica etimologia, dato che le piante di pesco sono arrivate fino a noi dall’antica Persia, provenendo dalla Cina di dove erano originarie. Le piante di pesco sono con noi da così tanto tempo che viene da pensare che siano sempre state nostre, e invece vengono dall’Estremo Oriente. Probabilmente, anche la parola “pesco” è una contrazione di “persiano, persico”: persico come il Golfo Persico, insomma.
“Andà a catàa i pèrsigh”, sia in senso metaforico che in senso letterale, l’ho sentito dire tante di quelle volte che per me è un’espressione molto più che familiare: parole simili si usano anche in Veneto, in Emilia...Eppure io non sono molto più vecchio di questo giornalista , la differenza vera forse sta qui: che io sono cresciuto in provincia, e lui a Milano città.
Il fatto delle pèrsiche mi torna in mente l’altro giorno, pochi giorni fa, quando sulla stessa emittente il leghista Gibelli, capataz della Lega Nord, se la prende a muso duro con il siciliano Leoluca Orlando, che nega l’esistenza del lombardo inteso come lingua. “Tu stai offendendo il popolo lombardo!!” grida e scandisce ad alta voce Gibelli, e forse era meglio se qualcuno gli abbassava il volume nel microfono, invece di tenerlo più alto (capita), perché tutti sanno che un lombardo di Bergamo e uno di Varese, uno di Mantova e uno di Tremezzo, mica si capiscono se parlano insieme. Mio padre (che in casa non parlava mai in dialetto) si divertiva molto a fare l’imitazione dei dialetti altrui: e non era mica il siciliano, era la parlata dei paesi di fianco al nostro, magari confinanti. Ma il dialetto era diversissimo, e chi studia i dialetti (e chi li parla veramente, e chi sa ascoltare) sa bene che basta fare due o tre chilometri per vedere il dialetto cambiare, e di molto. I milanesi di cent’anni fa addirittura riconoscevano le parlate dei diversi quartieri di Milano: tu sei della Comasina, tu sei del Corvetto, quello là è un “milanese arioso” (cioè della Bovisa, che l’è semper Milàn). E chiedete a uno della Franciacorta se per caso sia bergamasco, vedete come si offende: eppure a me sembrano più bergamaschi che bresciani, ma io sono uno di fuori e non ho orecchio per giudicare. Secondo me, a dirla tutta, Bergamo è nel Veneto (parte della Serenissima), Novara è in Lombardia; e Cremona e Mantova, e forse anche Lodi e Pavia, sono in Emilia. Datemi torto, se avete un minimo di orecchio per i dialetti.
La sintesi di quanto ho esposto potrebbe essere questa: che oggi, anno 2011, sotto i cinquant’anni nessuno sa più cosa sia il dialetto, qui in Lombardia. E anche i cinquantenni li vedo messi male, quanto a dialetto parlato. Forse ci conviene di più imparare un po’ di cinese, per il futuro, invece de stà kì a fa i bauscia e a cercar voti rincoglionendo la gente...
(fatti successi in tv tra fine marzo 2007 e aprile 2011)
Life History of the Forget-me-not
5 ore fa
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