domenica 3 maggio 2020

Otello con Orson Welles


Katia ed io avevamo un amico trevigiano, un bravo anglista che è vissuto con noi in Inghilterra per qualche anno, molto tempo fa. Appassionato di Shakespeare, gli piaceva specialmente l’Otello, e una volta siamo andati insieme Katia lui e io, a vedere appunto l’Otello di Shakespeare - si dice «Othello» - in un teatro di Londra, nella messa in scena, credo restata famosa, di Orson Welles, il regista e attore che conoscete. Era davvero un Otello memorabile, questo gigantesco uomo con la blusa aperta sul petto, un metro almeno di larghezza di torace visibile sotto, e quel vocione rugginoso, quegli occhioni roteanti. Il nostro amico però non era affatto contento, l’aspetto sì, ma la recitazione non gli piaceva per niente. Quando siamo usciti diceva: «Non è mica cosi, non è mica questo». E faceva capire che secondo lui Orson Welles aveva sciupato le cose più sublimi che ci sono in quel dramma. Era evidente che sentiva la superiorità schiacciante dei propri ritmi interiori, percepiti leggendo «con gli occhi», rispetto a una banale, melodrammatica resa teatrale.
Gli abbiamo chiesto di darci un esempio, e lui ha scelto quella scena seconda dell’atto quinto, la grande scena in cui Otello arriva nella stanza di Desdemona - si dice « Desdemòna» - sul punto di ucciderla, il grande monologo che comincia «It is the cause, it is the cause, my soul», « E’ la causa, è la causa, anima mia», che non si sa cosa voglia dire, ma è tanto più suggestivo per questa incertezza.
« E’ la causa, è la causa, anima mia»: si capisce e non si capisce. Nella grande poesia succede molto spesso questo, che non capire del tutto stimola il capire. Al nostro amico interessava soprattutto quel quarto o quinto verso del monologo, il famoso «Put out the light, and then put out the light», «Spegni la luce, e poi spegni la luce». Prima «spegni la candela», la candela che ha in mano, e poi «spegni la luce di lei», uccidila. Una di quelle cose intense, squilibrate, potenti che si trovano in Shakespeare. «Put out the light, and then put out the light». Noi diciamo al nostro amico: "Sentiamo"; e lui, un po’ di raccoglimento e poi esce con una vocina stridula, astrale: Pit eit the leit, ind thin pit eit the leit!! E noi ci siamo messi a ridere, ma non avremmo dovuto perché si capiva che lui sentiva lo strido della gelosia omicida, e della disperazione amorosa, in un modo perfettamente degno del testo - e grottesco tuttavia. Non volendo oggi esercitarmi nel grottesco, cercherò di stare attento nella mia lettura a non stridere troppo.

Luigi Meneghello, da "Leda e la schioppa", pag.29 ed. Moretti & Vitali 1989

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