I fiori azzurri, o tendenti al violetto, sono molti: myosotis (nontiscordardime), violette, veroniche, genziane, eccetera. Le violette molto spesso sono state coltivate da qualcuno, magari per bordare le aiuole, e poi sono “scappate” via; i nontiscordadime sono invece gioiosamente selvatici, infestanti anch’essi. E’ un fiore piccolino e molto bello, disprezzato solo perché molto comune. Da bambino mi capitava spesso di indicarlo dicendo appunto che era un bel fiore, ma gli adulti mi rispondevano sempre che era un nontiscordadimè, non valeva la pena di perderci tempo. Adesso scopro perfino, facendo una ricerca su internet, che il suo nome scientifico significa “orecchio di topo”: ohibò, mai visto un topo con le orecchie azzurre; e anche la forma del fiore mi sembra tut’altra cosa. Forse la foglia? Forse perché un topo si può nascondere tra le piantine? Ma no, in quest’ultimo caso “myosotis” potrebbe essere qualsiasi pianta o erbaccia. Meglio allora l’altro nome che gli si dà di solito, il fiorellino della Madonna, un po’ troppo poetico ma il riferimento al colore azzurro del manto della Madonna mi pare più pertinente.
da www.wikipedia.it Il genere Myosotis (termine che in greco significa orecchie di topo, dalla forma della foglia), della famiglia delle Boraginaceae, comprende circa 50 specie di erbe annuali o perenni, alcune conosciute anche come nontiscordardimé e/o occhi della Madonna. Il nome di "non ti scordar di me" pare legato a una storia austriaca, occorsa lungo il Danubio: due giovani stavano scambiandosi le promesse attraverso il simbolo di questo fiore, ma lui cadde nel fiume vorticoso e, prima di morire, le gridò appunto la famosa frase. Gli "occhi della Madonna" potrebbero essere legati allo stesso significato, cioè a quello di affidare, mediante il dono di questo fiore, la persona cara in partenza alla benevolenza divina. Nella Germania del 15simo secolo, chi indossava il fiore non sarebbe stato dimenticato dalla propria amata; mentre le donne lo indossavano come segno di fedeltà. La massoneria usa il "nontiscordardimé" per ricordare quei massoni vittime del regime nazista. (...)
Altri fiori e fiorellini più o meno azzurri, sempre da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio:
nella prima tavola: 1.veronica chamaedrys 2. veronica austriaca 3. veronica officinalis 4. succisa pratensis 5. gentianella ciliata
nella seconda tavola: 1.viola canina 2.lathyrus linifolius o l. montanus 3. aconitum napellus 4. ajuga genevensis 5. ajuga reptans 6. salvia pratensis
(la foto del nontiscordardime viene da un sito internet del quale non mi sono segnato il link, me ne scuso profondamente perché è molto bella.)
giovedì 30 giugno 2011
domenica 26 giugno 2011
Il cardinale di CL
Con l’arrivo del nuovo cardinale a Milano, vicino a CL (Comunione e Liberazione), presto i megaschermi tv arriveranno anche dentro il Duomo: saranno sicuramente posizionati uno ad ogni altare, più altri disposti in luoghi ancora da individuare, ma in modo tale da poter essere visti e ascoltati in ogni parte della Cattedrale.
L’iniziativa, per ora prevista solo nelle chiese milanesi, sarà presto estesa a tutte le chiese della diocesi (compreso quindi il Canton Ticino) e poi a tutte quelle lombarde.
Come hanno più volte fatto notare gli assessori regionali lombardi (anch’essi di CL come il nuovo vescovo), la manutenzione delle chiese ha un costo, e la pubblicità è il modo migliore per ripianare le spese e consentire nuovi investimenti. La pubblicità verrà trasmessa anche di notte e anche quando la chiesa è vuota: si seguirà dunque il modello già applicato nelle stazioni e nelle sale d’attesa di enti pubblici e banche. Mai più una chiesa vuota e silenziosa, mai più quindi il noioso suono dell’organo e il tintinnare dei rosari, ma ci sentiremo tutti come a casa nostra, in pieno comfort, col televisore sempre acceso a trasmettere ciò che più amiamo, cioè gli spot pubblicitari.
E’ allo studio anche un biglietto d’ingresso nelle chiese, con badge e tornelli e l’istituzione di una “tessera del credente” sul modello di quella già in vigore negli stadi del calcio, che consentirà la fidelizzazione dei parrocchiani e la possibilità di sconti presso il vicino outlet di oggetti religiosi, e la costruzione di un parcheggio sotterraneo dentro le principali chiese e cattedrali, al posto delle inutili e obsolete cripte.
Sto scherzando? Non lo so se sto scherzando, alcune di queste cose che scrivo sono già vere e in funzione, altre sono vere e in corso di attuazione, altre infine me le sono inventate ma – siccome vedo che i megaschermi e gli spot ovunque sono ormai realtà comunemente accettate e nessuno protesta e si oppone – penso che presto, prestissimo, diventeranno più vere del vero. E dunque amen, ite missa est: ma prima un po’ di consigli per gli acquisti.
PS: Ovviamente, megaschermi anche nei confessionali: solo un po’ più piccoli ma non troppo che se no si può voltar la testa e cercare di non guardare.
AGGIORNAMENTO al settembre 2012: nel frattempo, è passato un anno e gli scandali degli assessori legati a CL sono venuti a galla con enorme evidenza, al punto che perfino il Cardinale Scola ha pensato bene di prendere almeno un po' le distanze, con dichiarazioni del tipo "con CL ho avuto a che fare solo all'inizio, Formigoni lo vedo solo una volta all'anno". I megaschermi in Duomo non sono ancora arrivati, ma c'è solo da aspettare; probabilmente c'è un po' di crisi anche in pubblicità, ma di sicuro la pubblicità come nelle stazioni arriverà anche nelle nostre chiese.
AGGIORNAMENTO al dicembre 2012: passo da Piazza del Duomo e penso che sarebbe bello entrare e fermarsi un po'; arrivo dal lato di Palazzo Reale, e mi avvio per le scale ma mi fermano: «da qui non può entrare, questa è l'uscita!». Come, al Duomo ci sono le entrate e le uscite, come al supermarket? Ebbene sì. Oltretutto, detto con tono cinguettante e festoso, come se io fossi stato distratto...sono così distratto che per quarant'anni sono sempre entrato dalle porte laterali, pensa un po'. Però prima non c'era mai stato un Cardinale Comunione Liberazione, ecco la novità. Una alla volta, vedrete che le "novità" arriveranno tutte, magari a partire dall'ingresso a pagamento.
L’iniziativa, per ora prevista solo nelle chiese milanesi, sarà presto estesa a tutte le chiese della diocesi (compreso quindi il Canton Ticino) e poi a tutte quelle lombarde.
Come hanno più volte fatto notare gli assessori regionali lombardi (anch’essi di CL come il nuovo vescovo), la manutenzione delle chiese ha un costo, e la pubblicità è il modo migliore per ripianare le spese e consentire nuovi investimenti. La pubblicità verrà trasmessa anche di notte e anche quando la chiesa è vuota: si seguirà dunque il modello già applicato nelle stazioni e nelle sale d’attesa di enti pubblici e banche. Mai più una chiesa vuota e silenziosa, mai più quindi il noioso suono dell’organo e il tintinnare dei rosari, ma ci sentiremo tutti come a casa nostra, in pieno comfort, col televisore sempre acceso a trasmettere ciò che più amiamo, cioè gli spot pubblicitari.
E’ allo studio anche un biglietto d’ingresso nelle chiese, con badge e tornelli e l’istituzione di una “tessera del credente” sul modello di quella già in vigore negli stadi del calcio, che consentirà la fidelizzazione dei parrocchiani e la possibilità di sconti presso il vicino outlet di oggetti religiosi, e la costruzione di un parcheggio sotterraneo dentro le principali chiese e cattedrali, al posto delle inutili e obsolete cripte.
Sto scherzando? Non lo so se sto scherzando, alcune di queste cose che scrivo sono già vere e in funzione, altre sono vere e in corso di attuazione, altre infine me le sono inventate ma – siccome vedo che i megaschermi e gli spot ovunque sono ormai realtà comunemente accettate e nessuno protesta e si oppone – penso che presto, prestissimo, diventeranno più vere del vero. E dunque amen, ite missa est: ma prima un po’ di consigli per gli acquisti.
PS: Ovviamente, megaschermi anche nei confessionali: solo un po’ più piccoli ma non troppo che se no si può voltar la testa e cercare di non guardare.
AGGIORNAMENTO al settembre 2012: nel frattempo, è passato un anno e gli scandali degli assessori legati a CL sono venuti a galla con enorme evidenza, al punto che perfino il Cardinale Scola ha pensato bene di prendere almeno un po' le distanze, con dichiarazioni del tipo "con CL ho avuto a che fare solo all'inizio, Formigoni lo vedo solo una volta all'anno". I megaschermi in Duomo non sono ancora arrivati, ma c'è solo da aspettare; probabilmente c'è un po' di crisi anche in pubblicità, ma di sicuro la pubblicità come nelle stazioni arriverà anche nelle nostre chiese.
AGGIORNAMENTO al dicembre 2012: passo da Piazza del Duomo e penso che sarebbe bello entrare e fermarsi un po'; arrivo dal lato di Palazzo Reale, e mi avvio per le scale ma mi fermano: «da qui non può entrare, questa è l'uscita!». Come, al Duomo ci sono le entrate e le uscite, come al supermarket? Ebbene sì. Oltretutto, detto con tono cinguettante e festoso, come se io fossi stato distratto...sono così distratto che per quarant'anni sono sempre entrato dalle porte laterali, pensa un po'. Però prima non c'era mai stato un Cardinale Comunione Liberazione, ecco la novità. Una alla volta, vedrete che le "novità" arriveranno tutte, magari a partire dall'ingresso a pagamento.
venerdì 24 giugno 2011
Naviglio
1. Un sorprendente fossato di acqua viva, popolata di pesci e di gamberi, circonda questa città. (Bonvesin de la Riva, anno 1200)
2. Sul gorgo viscido, chiazzato e putrido, sghignazza un cinico raggio di sol (Filippo Turati, fine ‘800)
3. Bisognerebbe scoperchiare i navigli, invece svuotano la darsena per farci i garage. (Dario Fo, anno 2006)
(notizie da La Repubblica 19 gennaio 2007, per la pubblicazione di "Il fiume sommerso" dell’architetto Pietro Lembi , ed. Jaca Book, un libro che ripercorre la storia dell’acqua di Milano dal neolitico fino ai nostri giorni)
Il presente? due rive d’acqua sporca, che scorre nel cemento, ma c’è a chi piace. Chissà, forse verso Pavia torna ad essere un corso d’acqua e non lo scolo del cesso, ma chissà per quanto tempo ancora. Di sicuro c’è questo: che i milanesi, se vedono una rana o una cavalletta, chiamano i pompieri; e che se hanno a disposizione un posto come la Darsena, la chiudono e la rendono invivibile.
Dante Isella descrive brevemente i Navigli così, nel commento a “Navili” di Delio Tessa:
Navigli: La fossa che circondava le mura della città antica fu modificata ed ampliata sotto Ludovico il Moro (1496; la tradizione vuole per opera ingegneresca di Leonardo), in modo da introdurvi le acque del Naviglio. L'anello, di circa cinque chilometri, fu detto «Naviglio interno». Il tratto che passava davanti all'Ospedale Maggiore (oggi via Francesco Sforza) era comunemente chiamato «il Naviglio dell'Ospedale». Se ne può avere un'immagine particolareggiata da un disegno del Migliara (riprodotto nella Storia di Milano, XVI, p. 831) e da un quadro di anonimo, pure verso la metà dell'Ottocento, del Museo di Milano (ibid., p. 28).
“Tombon de San March”: cosí si era soliti «chiamare, con una metonimia popolare, lo slargo del Naviglio nei pressi della chiesa di San Marco (...) Ragazze tradite e uomini disperati venivano, fino a pochi anni fa, ad annegar nell'acqua torpida del Tombone le pene dell'amore e quelle della miseria» (Bacchelli, art. cit.).
Vale la pena di osservare che siamo in centro a Milano: la chiesa di San Marco è a Brera, via Sforza è a due passi dal Duomo. Difficile immaginare un corso d'acqua o un laghetto da quelle parti, eppure l'acqua c'è ancora, è stata solamente ricoperta.
Al tempo di Delio Tessa (questo brano è del 1929) il Naviglio era ancora qualcosa di vivo, una via d’acqua fondamentale per le merci e le persone: sono gli stessi anni in cui Jean Vigo gira “L’Atalante”, a Parigi, e l’ambientazione è la stessa. “Navili” doveva essere una composizione a più voci, quasi un quartetto d’archi, ed è rimasta incompiuta; Tessa ha scritto solo le parti dedicate alle prime due voci, e io ne riporto solo l’inizio perché è comunque una parte molto lunga. Si inizia con l’autore ridestato dai rumori nel Naviglio, poi c’è un dialogo tra il Naviglio stesso e l’acqua che vi scorre.
NAVILI
Esuss quella trombetta! Nanca pu
sul fà della mattina poss dormì,
d'ora in ora l'è chì come ona sveja...
me sera giust carpiaa, voltava via
pena, pena on'ideja
e... tracch... quella trombetta besiosa!
Tucc rìven chì... la tosa
che se galena.., el pàder che se spara...
ah, caro ti... el tombon... viva el tombon
de San March... viva i temp d'Ara-Bell'Ara!
...Te dormet eh... te dormet... impastada
de sogn te see... de quand t'hoo cognossuda,
semper insormentida te see stada...
... anca a vess dessedada,
anca a avella veduda
la vita come mi... ah quell fass stringa
della ghirba a tirà
sira!... pàrlomen minga! !
ACQUA
In sto mond birba, pien de travaij,
l'unech remedi l'è de dormì.
NAVILI
Dai brugher de Tesin dove se cobbiom,
acqua e navili num,
là su nassi, me moeuvi;
e da Turbigh a Boffalora poeu
fina al bass de Pavia... acqua... acqua...
(...)
NAVIGLIO. Gesù, quella trombetta! Neanche sul farsi del mattino non posso piú dormire; ogni ora rieccola, come una sveglia... mi ero giusto assopito, mi stavo appena appena appisolando, un'ombra, e.., trac, quella trombetta bisbetica! Arrivano tutti qui: la ragazza che si avvelena, il padre che si spara... Ah, caro mio... il “tombone”..e viva il tombone di San Marco, viva i tempi che Berta filava! ... Tu dormi, eh... tu dormi... sei impastata di sonno..o da quando ti ho conosciuta, sempre intorpidita sei stata... fossi anche sveglia, avessi anche veduto la vita come l'ho vista io... ah quel far stringhe della propria pelle per arrivare a sera!... non parliamone!
ACQUA. In questo mondo furfante, pieno di affanni, l'unico rimedio è dormire.
NAVIGLIO. Dalle brughiere del Ticino dove noi ci congiungiamo, acqua e naviglio, lassù nasco e mi avvio; e da Turbigo a Boffalora, poi, fino alla Bassa di Pavia, acqua... acqua... ti trovo trasognata... ti lascio trasognata... acqua... acqua...
1. Esuss:, “Jesus”, v. la nota a IX tit 42; e cfr. A Carlo Porta, v. 209.
4-6. Cfr. Porta P 65, vv. 141-44: «Domà che reussiss a carpiamm domà on poo, domà on'ombria, soltava subet via giust come quand se insogna de stremíss». Propriamente carpiàss è il primo rapprendersi di un liquido che ghiaccia, il tenue velarsi della sua superficie (cfr. it. carpignare, far congelare), besiosa, « rabbiosa »,« pungente »: altra voce portiana (P 38, v. 141: « duu oeucc de brasca e besios »): da besej, il pungiglione delle vespe o delle api.
8. se galena, «si avvelena»: neologismo. Deverbale di “galena”, un minerale, cristalli di solfuro di piombo. 9-10. caro ti: se non è lezione erronea di PNU (per cara, riferito all'Acqua: v. la nota al v, ri), va inteso come un intercalare fisso, alla stregua di caro mio di VI184 e 105.
Ara-Bell'Ara: inizio di un'antica filastrocca, di senso oscuro (la si veda nel Cherubini), con cui i ragazzi facevano la conta nel gioco del nascondino. Il Porta se ne servi per tradurre il misterioso «Papé Satàn, papé Satàn aleppe» dantesco (cfr. . P 118, v.1 «Ara bell'Ara discesa Cornara»). Per le numerose interpretazioni che se ne sono tentate, piú o meno fantasiose, v. Il Conte Marino e la bella figlia di S. E. Cornara, in «Almanacco della Famiglia Meneghina», Milano 1933.
1 6-t7La ghirba, nel gergo militare (dalla guerra di Libia, 191 1-12), è la pelle. La voce (dall'arabo qirba, otre di pelle o di tela per il trasporto dell'acqua) è entrata anche nell'italiano.
21-23. Dai brugher de Tesin: le brughiere del Ticino, a nord di Milano. Precisamente dal ponte di Oleggio (...)
(dal secondo dei due volumi dedicati a Delio Tessa, pubblicati da Einaudi nel 1985, a cura di Dante Isella, a partire da pag.429)
2. Sul gorgo viscido, chiazzato e putrido, sghignazza un cinico raggio di sol (Filippo Turati, fine ‘800)
3. Bisognerebbe scoperchiare i navigli, invece svuotano la darsena per farci i garage. (Dario Fo, anno 2006)
(notizie da La Repubblica 19 gennaio 2007, per la pubblicazione di "Il fiume sommerso" dell’architetto Pietro Lembi , ed. Jaca Book, un libro che ripercorre la storia dell’acqua di Milano dal neolitico fino ai nostri giorni)
Il presente? due rive d’acqua sporca, che scorre nel cemento, ma c’è a chi piace. Chissà, forse verso Pavia torna ad essere un corso d’acqua e non lo scolo del cesso, ma chissà per quanto tempo ancora. Di sicuro c’è questo: che i milanesi, se vedono una rana o una cavalletta, chiamano i pompieri; e che se hanno a disposizione un posto come la Darsena, la chiudono e la rendono invivibile.
Dante Isella descrive brevemente i Navigli così, nel commento a “Navili” di Delio Tessa:
Navigli: La fossa che circondava le mura della città antica fu modificata ed ampliata sotto Ludovico il Moro (1496; la tradizione vuole per opera ingegneresca di Leonardo), in modo da introdurvi le acque del Naviglio. L'anello, di circa cinque chilometri, fu detto «Naviglio interno». Il tratto che passava davanti all'Ospedale Maggiore (oggi via Francesco Sforza) era comunemente chiamato «il Naviglio dell'Ospedale». Se ne può avere un'immagine particolareggiata da un disegno del Migliara (riprodotto nella Storia di Milano, XVI, p. 831) e da un quadro di anonimo, pure verso la metà dell'Ottocento, del Museo di Milano (ibid., p. 28).
“Tombon de San March”: cosí si era soliti «chiamare, con una metonimia popolare, lo slargo del Naviglio nei pressi della chiesa di San Marco (...) Ragazze tradite e uomini disperati venivano, fino a pochi anni fa, ad annegar nell'acqua torpida del Tombone le pene dell'amore e quelle della miseria» (Bacchelli, art. cit.).
Vale la pena di osservare che siamo in centro a Milano: la chiesa di San Marco è a Brera, via Sforza è a due passi dal Duomo. Difficile immaginare un corso d'acqua o un laghetto da quelle parti, eppure l'acqua c'è ancora, è stata solamente ricoperta.
Al tempo di Delio Tessa (questo brano è del 1929) il Naviglio era ancora qualcosa di vivo, una via d’acqua fondamentale per le merci e le persone: sono gli stessi anni in cui Jean Vigo gira “L’Atalante”, a Parigi, e l’ambientazione è la stessa. “Navili” doveva essere una composizione a più voci, quasi un quartetto d’archi, ed è rimasta incompiuta; Tessa ha scritto solo le parti dedicate alle prime due voci, e io ne riporto solo l’inizio perché è comunque una parte molto lunga. Si inizia con l’autore ridestato dai rumori nel Naviglio, poi c’è un dialogo tra il Naviglio stesso e l’acqua che vi scorre.
NAVILI
Esuss quella trombetta! Nanca pu
sul fà della mattina poss dormì,
d'ora in ora l'è chì come ona sveja...
me sera giust carpiaa, voltava via
pena, pena on'ideja
e... tracch... quella trombetta besiosa!
Tucc rìven chì... la tosa
che se galena.., el pàder che se spara...
ah, caro ti... el tombon... viva el tombon
de San March... viva i temp d'Ara-Bell'Ara!
...Te dormet eh... te dormet... impastada
de sogn te see... de quand t'hoo cognossuda,
semper insormentida te see stada...
... anca a vess dessedada,
anca a avella veduda
la vita come mi... ah quell fass stringa
della ghirba a tirà
sira!... pàrlomen minga! !
ACQUA
In sto mond birba, pien de travaij,
l'unech remedi l'è de dormì.
NAVILI
Dai brugher de Tesin dove se cobbiom,
acqua e navili num,
là su nassi, me moeuvi;
e da Turbigh a Boffalora poeu
fina al bass de Pavia... acqua... acqua...
(...)
NAVIGLIO. Gesù, quella trombetta! Neanche sul farsi del mattino non posso piú dormire; ogni ora rieccola, come una sveglia... mi ero giusto assopito, mi stavo appena appena appisolando, un'ombra, e.., trac, quella trombetta bisbetica! Arrivano tutti qui: la ragazza che si avvelena, il padre che si spara... Ah, caro mio... il “tombone”..e viva il tombone di San Marco, viva i tempi che Berta filava! ... Tu dormi, eh... tu dormi... sei impastata di sonno..o da quando ti ho conosciuta, sempre intorpidita sei stata... fossi anche sveglia, avessi anche veduto la vita come l'ho vista io... ah quel far stringhe della propria pelle per arrivare a sera!... non parliamone!
ACQUA. In questo mondo furfante, pieno di affanni, l'unico rimedio è dormire.
NAVIGLIO. Dalle brughiere del Ticino dove noi ci congiungiamo, acqua e naviglio, lassù nasco e mi avvio; e da Turbigo a Boffalora, poi, fino alla Bassa di Pavia, acqua... acqua... ti trovo trasognata... ti lascio trasognata... acqua... acqua...
1. Esuss:, “Jesus”, v. la nota a IX tit 42; e cfr. A Carlo Porta, v. 209.
4-6. Cfr. Porta P 65, vv. 141-44: «Domà che reussiss a carpiamm domà on poo, domà on'ombria, soltava subet via giust come quand se insogna de stremíss». Propriamente carpiàss è il primo rapprendersi di un liquido che ghiaccia, il tenue velarsi della sua superficie (cfr. it. carpignare, far congelare), besiosa, « rabbiosa »,« pungente »: altra voce portiana (P 38, v. 141: « duu oeucc de brasca e besios »): da besej, il pungiglione delle vespe o delle api.
8. se galena, «si avvelena»: neologismo. Deverbale di “galena”, un minerale, cristalli di solfuro di piombo. 9-10. caro ti: se non è lezione erronea di PNU (per cara, riferito all'Acqua: v. la nota al v, ri), va inteso come un intercalare fisso, alla stregua di caro mio di VI184 e 105.
Ara-Bell'Ara: inizio di un'antica filastrocca, di senso oscuro (la si veda nel Cherubini), con cui i ragazzi facevano la conta nel gioco del nascondino. Il Porta se ne servi per tradurre il misterioso «Papé Satàn, papé Satàn aleppe» dantesco (cfr. . P 118, v.1 «Ara bell'Ara discesa Cornara»). Per le numerose interpretazioni che se ne sono tentate, piú o meno fantasiose, v. Il Conte Marino e la bella figlia di S. E. Cornara, in «Almanacco della Famiglia Meneghina», Milano 1933.
1 6-t7La ghirba, nel gergo militare (dalla guerra di Libia, 191 1-12), è la pelle. La voce (dall'arabo qirba, otre di pelle o di tela per il trasporto dell'acqua) è entrata anche nell'italiano.
21-23. Dai brugher de Tesin: le brughiere del Ticino, a nord di Milano. Precisamente dal ponte di Oleggio (...)
(dal secondo dei due volumi dedicati a Delio Tessa, pubblicati da Einaudi nel 1985, a cura di Dante Isella, a partire da pag.429)
giovedì 23 giugno 2011
Scurrucciata
Stavo parlando di Massimo Troisi, che avevo visto la sera prima in tv, quando il mio collega mi interrompe dicendo così: «Può darsi, ma quando parla Troisi io non capisco niente». Mi dispiace molto per te, ho pensato: non sai cosa ti perdi. Troisi parlava spesso in napoletano, ma non era un napoletano difficile. Se lo capivo io, lo potevano capire tutti. Bastava volere, ne valeva la pena, ed era sempre molto divertente: ma io cosa ci potevo fare, era solo una chiacchierata tra colleghi all’ora di pranzo, ho lasciato perdere. La chiusura verso l’altro, verso lo straniero, verso chi viene da fuori, è presente ovunque e non è una prerogativa dei lombardi: dietro ci sono ragioni comprensibili (come fai a fidarti se non capisci quello che ti dicono?) ma è un difetto che dovremmo imparare a superare.
Io sono contentissimo di capire almeno un po’ il napoletano, e per questo ringrazio di cuore tutti i napoletani e i campani che ho conosciuto qui in Lombardia, senza nemmeno dover viaggiare: al primo posto ovviamente mio cognato (casertano), ma poi tutti i salernitani, beneventani, avellinesi, amalfitani, con cui ho lavorato e sono andato a scuola, magari condividendo i turni di notte in fabbrica.
Comunque sia, anche prima, già a metà degli anni ’70, avevo incontrato Napoli grazie a Roberto De Simone e alla Nuova Compagnia di Canto Popolare: fuori da tutti i luoghi comuni e le banalità, grande musica e grandi musicisti, un ascolto che mi aveva sorpreso e interessato moltissimo.
In seguito, avrei scoperto due o tre cose importanti: che Napoli era stata una delle capitali della grande musica fin dal ‘500, ininterrottamente fino a oggi (il pericolo è nell’oggi, infatti: nei tagli di Tremonti), e che le canzoni proposte dalla NCCP erano già state musicate anche dal veneziano Adrian Willaert (1490-1642, fiammingo di nascita ma veneziano d’adozione). Per esempio questa:
Madonn' io non lo so perché lo fai
che me ti mostr'in tutto scurrucciata.
Perché sei così ingrata
se sai (che) per te son cieco?
Dolor, dolor, sta sempre meco...
O Dio, fammi n'escir de tanti guai
ca non gir campar'aggio io un'altra fiata
Perché sei così ingrata? ...
O mora o camp'homai,
non me ne curo:
'sto mondo latr' è fatto a chi ha ventura.
Perché sei così ingrata,
se sai per te son cieco?
Dolor, dolor, sta sempre meco...
(dalle villanesche di Adrian Willaert)
Willaert non era uno qualsiasi: c’è chi dice che il vertice della musica fu toccato in quegli anni, con compositori che danno ancora oggi le vertigini, e Willaert era uno di quei grandi maestri fiamminghi del contrappunto che fecero scuola in tutta Europa. Le canzoni napoletane erano già così famose, agli inizi del ‘500, che se ne occupò anche un grande maestro come Adrian Willaert.
Nel repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare c’è di tutto, si va dalle villanelle di Willaert (inizi del 1500) fino alla Tammurriata nera (fine della seconda guerra mondiale, 1945 e dintorni) e ai nostri giorni; una delle caratteristiche volute da Roberto De Simone (penso che fosse una cosa voluta) è stata quella di affidare le canzoni più famose alla voce di Giovanni Mauriello, cantante straordinario per tecnica e capacità interpretativa, ed è come ascoltare la voce di Pulcinella in prima persona. Ed è una cosa che raccomando cercare ed ascoltare, per esempio, “Marenariello” (“vicino ‘o mare / facimm’ ammore) proprio dalla voce di Mauriello; però prima di chiudere vorrei ricordare la “mia” formazione della NCCP, quella del mio primo lp (NCCP, anno 1973): Nunzio Areni, Giuseppe Barra, Eugenio Bennato, Roberto De Simone, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere. Ecco, per Fausta Vetere, a suo tempo, avevo fatto quasi una malattia: una delle voci più belle che mi sia mai capitato da sentire.
Altre mie grandi passioni napoletane: Roberto Murolo (voce e chitarra) e cose come “Lo frate ‘nnamurato” di Pergolesi (traduzione: il fratello innamorato), dal quale Igor Stravinskij trasse una delle melodie più belle del suo “Pulcinella”, quella che fa così:
Chi disse ca la femmena / sa cchiù de farfariello / disse la verità...
I pignoli dicono che questa melodia non è di Pergolesi, ma io non li sto ad ascoltare, di chiunque sia è bellissima, altro non voglio sapere, anche perché, a dirla tutta,
...io stongo malinconico e stizzoso,
e fra la stizza e la malinconia
che ti fa questo core, arrasso sia!
sembra una nave in mezzo a un mar cruccioso.
(pergolesi-g.a.federico, lo frate ‘nnamorato, atto secunno)
Io sono contentissimo di capire almeno un po’ il napoletano, e per questo ringrazio di cuore tutti i napoletani e i campani che ho conosciuto qui in Lombardia, senza nemmeno dover viaggiare: al primo posto ovviamente mio cognato (casertano), ma poi tutti i salernitani, beneventani, avellinesi, amalfitani, con cui ho lavorato e sono andato a scuola, magari condividendo i turni di notte in fabbrica.
Comunque sia, anche prima, già a metà degli anni ’70, avevo incontrato Napoli grazie a Roberto De Simone e alla Nuova Compagnia di Canto Popolare: fuori da tutti i luoghi comuni e le banalità, grande musica e grandi musicisti, un ascolto che mi aveva sorpreso e interessato moltissimo.
In seguito, avrei scoperto due o tre cose importanti: che Napoli era stata una delle capitali della grande musica fin dal ‘500, ininterrottamente fino a oggi (il pericolo è nell’oggi, infatti: nei tagli di Tremonti), e che le canzoni proposte dalla NCCP erano già state musicate anche dal veneziano Adrian Willaert (1490-1642, fiammingo di nascita ma veneziano d’adozione). Per esempio questa:
Madonn' io non lo so perché lo fai
che me ti mostr'in tutto scurrucciata.
Perché sei così ingrata
se sai (che) per te son cieco?
Dolor, dolor, sta sempre meco...
O Dio, fammi n'escir de tanti guai
ca non gir campar'aggio io un'altra fiata
Perché sei così ingrata? ...
O mora o camp'homai,
non me ne curo:
'sto mondo latr' è fatto a chi ha ventura.
Perché sei così ingrata,
se sai per te son cieco?
Dolor, dolor, sta sempre meco...
(dalle villanesche di Adrian Willaert)
Willaert non era uno qualsiasi: c’è chi dice che il vertice della musica fu toccato in quegli anni, con compositori che danno ancora oggi le vertigini, e Willaert era uno di quei grandi maestri fiamminghi del contrappunto che fecero scuola in tutta Europa. Le canzoni napoletane erano già così famose, agli inizi del ‘500, che se ne occupò anche un grande maestro come Adrian Willaert.
Nel repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare c’è di tutto, si va dalle villanelle di Willaert (inizi del 1500) fino alla Tammurriata nera (fine della seconda guerra mondiale, 1945 e dintorni) e ai nostri giorni; una delle caratteristiche volute da Roberto De Simone (penso che fosse una cosa voluta) è stata quella di affidare le canzoni più famose alla voce di Giovanni Mauriello, cantante straordinario per tecnica e capacità interpretativa, ed è come ascoltare la voce di Pulcinella in prima persona. Ed è una cosa che raccomando cercare ed ascoltare, per esempio, “Marenariello” (“vicino ‘o mare / facimm’ ammore) proprio dalla voce di Mauriello; però prima di chiudere vorrei ricordare la “mia” formazione della NCCP, quella del mio primo lp (NCCP, anno 1973): Nunzio Areni, Giuseppe Barra, Eugenio Bennato, Roberto De Simone, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere. Ecco, per Fausta Vetere, a suo tempo, avevo fatto quasi una malattia: una delle voci più belle che mi sia mai capitato da sentire.
Altre mie grandi passioni napoletane: Roberto Murolo (voce e chitarra) e cose come “Lo frate ‘nnamurato” di Pergolesi (traduzione: il fratello innamorato), dal quale Igor Stravinskij trasse una delle melodie più belle del suo “Pulcinella”, quella che fa così:
Chi disse ca la femmena / sa cchiù de farfariello / disse la verità...
I pignoli dicono che questa melodia non è di Pergolesi, ma io non li sto ad ascoltare, di chiunque sia è bellissima, altro non voglio sapere, anche perché, a dirla tutta,
...io stongo malinconico e stizzoso,
e fra la stizza e la malinconia
che ti fa questo core, arrasso sia!
sembra una nave in mezzo a un mar cruccioso.
(pergolesi-g.a.federico, lo frate ‘nnamorato, atto secunno)
mercoledì 22 giugno 2011
Trombaio
- Bisognerà chiamare il trombaio. – disse seria l’albergatrice, un po’ perplessa, davanti allo scarico della doccia irrimediabilmente otturato.
I miei due amici me lo raccontavano ridendo, anzi ridacchiando molto allegri, alla fine di una vacanza in Toscana di qualche anno fa. Il fatto è che “trombaio”, per i toscani, è una parola normale: significa “idraulico”, e ha un corrispondente anche qui da noi nel milanese e nel comasco, “ul trombée”. I due mi assicuravano che erano rimasti serissimi e non avevano fatto battute (in fin dei conti, a loro interessava solo che la doccia funzionasse a dovere), ma il fatto che l’albergatrice fosse giovane e di bell’aspetto, e la sua assoluta serietà nel pronunciare quella parola, li aveva messi a dura prova. Adesso, tornati a casa, si sfogavano: un po’ come quei personaggi dei cartoni animati che si danno una martellata sul dito e scappano lontani a urlare dal dolore, sempre per non disturbare.
Il fatto è che “trombe” sono i tubi. La parola è antica, e ha lo stesso significato di “tromba delle scale” o di “tromba di Eustachio”, ma i doppi sensi si sprecano e direi che si potrebbe anche sorvolare, in fin dei conti le trombe e tutti gli strumenti musicali a fiato sono soltanto dei tubi, ben intonati ma tubi.
L’episodio mi è tornato alla mente ascoltando una registrazione del Concerto n.2 in mi bemolle maggiore di Mozart per corno e orchestra fatta da Dennis Brain (1921-1957), grande solista inglese, virtuoso di quello strumento (l’altro grande cornista nella discografia è Barry Tuckwell, entrambi degli anni ’50 e ‘60). La storia che si racconta a proposito di Dennis Brain è questa: nel 1956 Brain stava facendo dei lavori in giardino, e smontando un tubo per l’irrigazione provò a soffiarci dentro. Suonava bene, e con qualche piccolo accorgimento lo utilizzò per eseguire Mozart (Mozart padre, Leopold) in concerto. Sembrerà incredibile, ma è vero: ovviamente suonare Mozart con un tubo per l’irrigazione richiede una bravura tecnica fuori dall’ordinario, e anche una gran fatica, ma che fare. Dev’essere stato qualcosa di simile al richiamo della foresta di cui parlava Jack London, quando ti capita un’idea così mica si può resistere.
Purtroppo per noi, Brain fu sottratto alla nostra compagnia da un incidente stradale, prima di compiere i quarant'anni. La faccia qui sopra è proprio la sua, il corno è quello che usava per davvero e non uno scherzo ben riuscito, e devo dire che mi dispiace molto di non poter essere stato suo contemporaneo.
La storia del corno e di Dennis Brain l’avevo letta su qualche giornale specializzato parecchi anni fa, poi l’ho ascoltata su Radiotre forse da Carlo Majer o forse da Paolo Terni, compreso un brano da quella registrazione: inutile dire che Dennis Brain era impeccabile, tubo o non tubo non sbagliava una nota. Però, già che siamo in tema di trombe e corni, non posso non accennare almeno di sfuggita a “Saps at sea”, Stan Laurel e Oliver Hardy, anno 1940 , in Italia distribuito con il titolo “C’era una volta un piccolo naviglio”.
I miei due amici me lo raccontavano ridendo, anzi ridacchiando molto allegri, alla fine di una vacanza in Toscana di qualche anno fa. Il fatto è che “trombaio”, per i toscani, è una parola normale: significa “idraulico”, e ha un corrispondente anche qui da noi nel milanese e nel comasco, “ul trombée”. I due mi assicuravano che erano rimasti serissimi e non avevano fatto battute (in fin dei conti, a loro interessava solo che la doccia funzionasse a dovere), ma il fatto che l’albergatrice fosse giovane e di bell’aspetto, e la sua assoluta serietà nel pronunciare quella parola, li aveva messi a dura prova. Adesso, tornati a casa, si sfogavano: un po’ come quei personaggi dei cartoni animati che si danno una martellata sul dito e scappano lontani a urlare dal dolore, sempre per non disturbare.
Il fatto è che “trombe” sono i tubi. La parola è antica, e ha lo stesso significato di “tromba delle scale” o di “tromba di Eustachio”, ma i doppi sensi si sprecano e direi che si potrebbe anche sorvolare, in fin dei conti le trombe e tutti gli strumenti musicali a fiato sono soltanto dei tubi, ben intonati ma tubi.
L’episodio mi è tornato alla mente ascoltando una registrazione del Concerto n.2 in mi bemolle maggiore di Mozart per corno e orchestra fatta da Dennis Brain (1921-1957), grande solista inglese, virtuoso di quello strumento (l’altro grande cornista nella discografia è Barry Tuckwell, entrambi degli anni ’50 e ‘60). La storia che si racconta a proposito di Dennis Brain è questa: nel 1956 Brain stava facendo dei lavori in giardino, e smontando un tubo per l’irrigazione provò a soffiarci dentro. Suonava bene, e con qualche piccolo accorgimento lo utilizzò per eseguire Mozart (Mozart padre, Leopold) in concerto. Sembrerà incredibile, ma è vero: ovviamente suonare Mozart con un tubo per l’irrigazione richiede una bravura tecnica fuori dall’ordinario, e anche una gran fatica, ma che fare. Dev’essere stato qualcosa di simile al richiamo della foresta di cui parlava Jack London, quando ti capita un’idea così mica si può resistere.
Purtroppo per noi, Brain fu sottratto alla nostra compagnia da un incidente stradale, prima di compiere i quarant'anni. La faccia qui sopra è proprio la sua, il corno è quello che usava per davvero e non uno scherzo ben riuscito, e devo dire che mi dispiace molto di non poter essere stato suo contemporaneo.
La storia del corno e di Dennis Brain l’avevo letta su qualche giornale specializzato parecchi anni fa, poi l’ho ascoltata su Radiotre forse da Carlo Majer o forse da Paolo Terni, compreso un brano da quella registrazione: inutile dire che Dennis Brain era impeccabile, tubo o non tubo non sbagliava una nota. Però, già che siamo in tema di trombe e corni, non posso non accennare almeno di sfuggita a “Saps at sea”, Stan Laurel e Oliver Hardy, anno 1940 , in Italia distribuito con il titolo “C’era una volta un piccolo naviglio”.
martedì 21 giugno 2011
Erbacce ( IV )
I fiori gialli sono moltissimi, nei prati: i più comuni sono probabilmente il tarassaco (che poi diventa il soffione) e i ranuncoli, ma elencarli tutti sarebbe un’impresa titanica.
I ranuncoli li vedo sempre volentieri, anche se io non li ho mai chiamati così, e francamente mi sembra un nome poco adatto (non so perché, ma al suono della parola “ranuncolo” io associo immediatamente il colore azzurro, o magari il verde delle ranocchie), ed è comunque un fiore piccolo e comunissimo, ma molto bello. Mi sento anzi di dire qui, pubblicamente, che il ranuncolo è molto più bello di quasi tutti i fiori che espongono i fiorai, e che costano un occhio della testa – ma pazienza, che dire, non sono certo io a dettare la tendenza, e poi dal 13 febbraio del 2004 mi sono ripromesso di non regalare mai più dei fiori, quindi sono fuori partita, lascio fare. Però questi fiorellini sono così belli che vorrei averli inventati io...Non li tocco, li lascio lì nei prati, ho deciso: mai più fiori recisi nelle mie mani.
Alcuni fiorellini gialli dei nostri prati, sempre da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio:
nella prima tavola: 1) Caltha palustris 2) Ranunculus montanus 3) Ranunculus acris o R. acer 4) Ranunculus bulbosus 5. Ranunculus repens. (sono tutte Ranunculaceae)
nella seconda tavola: 1) Caltha palustris 2. Ranunculus repens 3. Ranunculus lingua 4. Ranunculus flammula 5. Ranunculus sceleratus 6. Potentilla anserina. Il numero 6, la potentilla, è una rosacea; gli altri sono tutti ranunculaceae.
I ranuncoli li vedo sempre volentieri, anche se io non li ho mai chiamati così, e francamente mi sembra un nome poco adatto (non so perché, ma al suono della parola “ranuncolo” io associo immediatamente il colore azzurro, o magari il verde delle ranocchie), ed è comunque un fiore piccolo e comunissimo, ma molto bello. Mi sento anzi di dire qui, pubblicamente, che il ranuncolo è molto più bello di quasi tutti i fiori che espongono i fiorai, e che costano un occhio della testa – ma pazienza, che dire, non sono certo io a dettare la tendenza, e poi dal 13 febbraio del 2004 mi sono ripromesso di non regalare mai più dei fiori, quindi sono fuori partita, lascio fare. Però questi fiorellini sono così belli che vorrei averli inventati io...Non li tocco, li lascio lì nei prati, ho deciso: mai più fiori recisi nelle mie mani.
Alcuni fiorellini gialli dei nostri prati, sempre da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio:
nella prima tavola: 1) Caltha palustris 2) Ranunculus montanus 3) Ranunculus acris o R. acer 4) Ranunculus bulbosus 5. Ranunculus repens. (sono tutte Ranunculaceae)
nella seconda tavola: 1) Caltha palustris 2. Ranunculus repens 3. Ranunculus lingua 4. Ranunculus flammula 5. Ranunculus sceleratus 6. Potentilla anserina. Il numero 6, la potentilla, è una rosacea; gli altri sono tutti ranunculaceae.
lunedì 20 giugno 2011
Erbacce ( III )
Il re delle erbacce è sicuramente lui, il soffione, il tarassaco: ha un nome diverso quasi in ogni posto d’Italia ma lo conosciamo tutti. E’ un’erba così comune che ha mille nomi, tanti quanti sono i suoi impieghi, sia come gioco che come fiore che come cicoria da mangiare. Il suo nome ufficiale è tarassaco, “taraxacum officinale”, dal punto di vista botanico è una Composita e fa parte delle Cicoriacee: un nome che mi piace tantissimo, sono contento che in natura esistano le Cicoriacee.
I nostri prati sono pieni di cicorie (basta guardare la foglia) e di fiori gialli più o meno diversi l’uno dall’altro e che, una volta fecondati, esplodono in morbidi soffi di semini che volano col paracadute.
Io l’ho sempre chiamato soffione, e da bambino non riuscivo a credere che il soffione fosse la stessa cosa di quel fiore giallo, ma mi sono dovuto ricredere quando ne ho aperto e sezionato qualche esemplare. E mi sono sorpreso molto, quando mi hanno dato da mangiare i carciofi (asteracee), nel ritrovare quella stessa struttura morbida e pelosa in tutt’altro fiore, e che fiore. Ma la natura fa di queste sorprese, e il carciofo non ha molto a che vedere con la cicoria, a parte il fatto che è buono da mangiare. Però attenzione: alcune specie di queste cicorie non sono buone da mangiare, e quasi tutte – oggi – sono sporche dei gas di scarico degli aerei, degli elicotteri, delle moto, delle BMW e dei TIR, per tacere delle discariche abusive (a Milano l’anno scorso scavando per il metrò hanno dovuto fermarsi e bonificare: sotto terra non c’era più la terra, era tutto discarica abusiva).
Sul “taraxacum officinale” non c’è bisogno di spiegazioni, questa piantina la conosciamo tutti, ed è così resistente e gloriosamente infestante che viene da pensare che sia una specie immortale: cosa della quale, a pensarci bene, sono molto contento.
So che qualcuno lo chiama dente di leone, però è un nome che io non ho mai sentito; mia mamma che è di Parma lo chiama da sempre pitaciò, col pitaciò si può suonare (contiene due diversi strumenti musicali) e c’è anche una filastrocca che fa così:
Pitaciò ro ro
Sa t’in völ at t’ne darò
Sa t’n’in vöt mia
at farò sonär la piva
Chiedo scusa per la trascrizione, ma il pramsàn non si può trascrivere, tutte le trascrizioni sono penose, la mia inclusa: forse ci vorrebbero gli ideogrammi cinesi, chissà. La traduzione è comunque questa: «Pitaciò ro ro, se ne vuoi te ne darò, se non ne vuoi mica ti farò suonar la piva»
E la piva è il gambo del pitaciò, che all’interno è cavo e che si può suonare come una piva, una canna d’organo o della zampogna, per l’appunto. Un altro uso musicale del pitaciò (e di tante altre piante e piantine) è nella foglia, che va stretta fra le dita e poi bisogna soffiarci dentro: ma bisogna stare attenti, non riesce a tutti (io non ci sono mai riuscito, mia mamma ci riesce sempre) e, soprattutto, bisogna fare attenzione prima di appoggiarci le labbra a scolar via bene il lattice bianco, che è amaro.
Le illustrazioni vengono da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio.
Nella prima tavola: 1) Hieracicum sylvaticum o H. murorum 2) Leontodon autumnalis 3) Solidago canadensis, non una cicoria ma della Asteracee 4) Lapsana communis 5)Matricaria discoidea (asteracee)
Nella seconda tavola: 1) Tanacetum vulgare o Chrysantemum tanacetum (asteracee) 2) Lactuca scariola o L.serriola 3) Senecio viscoso (asteracee) 4) Senecio vulgaris (asteracee) 5) Senecio jacobaea 6) Senecio erucifolius
Nella terza tavola: 1) Sonchus asper (cicoria) 2) Sonchus arvensis 3) Artemisia vulgaris (asteracee) 5) Anthyllis vulneraria (leguminose)
I nostri prati sono pieni di cicorie (basta guardare la foglia) e di fiori gialli più o meno diversi l’uno dall’altro e che, una volta fecondati, esplodono in morbidi soffi di semini che volano col paracadute.
Io l’ho sempre chiamato soffione, e da bambino non riuscivo a credere che il soffione fosse la stessa cosa di quel fiore giallo, ma mi sono dovuto ricredere quando ne ho aperto e sezionato qualche esemplare. E mi sono sorpreso molto, quando mi hanno dato da mangiare i carciofi (asteracee), nel ritrovare quella stessa struttura morbida e pelosa in tutt’altro fiore, e che fiore. Ma la natura fa di queste sorprese, e il carciofo non ha molto a che vedere con la cicoria, a parte il fatto che è buono da mangiare. Però attenzione: alcune specie di queste cicorie non sono buone da mangiare, e quasi tutte – oggi – sono sporche dei gas di scarico degli aerei, degli elicotteri, delle moto, delle BMW e dei TIR, per tacere delle discariche abusive (a Milano l’anno scorso scavando per il metrò hanno dovuto fermarsi e bonificare: sotto terra non c’era più la terra, era tutto discarica abusiva).
Sul “taraxacum officinale” non c’è bisogno di spiegazioni, questa piantina la conosciamo tutti, ed è così resistente e gloriosamente infestante che viene da pensare che sia una specie immortale: cosa della quale, a pensarci bene, sono molto contento.
So che qualcuno lo chiama dente di leone, però è un nome che io non ho mai sentito; mia mamma che è di Parma lo chiama da sempre pitaciò, col pitaciò si può suonare (contiene due diversi strumenti musicali) e c’è anche una filastrocca che fa così:
Pitaciò ro ro
Sa t’in völ at t’ne darò
Sa t’n’in vöt mia
at farò sonär la piva
Chiedo scusa per la trascrizione, ma il pramsàn non si può trascrivere, tutte le trascrizioni sono penose, la mia inclusa: forse ci vorrebbero gli ideogrammi cinesi, chissà. La traduzione è comunque questa: «Pitaciò ro ro, se ne vuoi te ne darò, se non ne vuoi mica ti farò suonar la piva»
E la piva è il gambo del pitaciò, che all’interno è cavo e che si può suonare come una piva, una canna d’organo o della zampogna, per l’appunto. Un altro uso musicale del pitaciò (e di tante altre piante e piantine) è nella foglia, che va stretta fra le dita e poi bisogna soffiarci dentro: ma bisogna stare attenti, non riesce a tutti (io non ci sono mai riuscito, mia mamma ci riesce sempre) e, soprattutto, bisogna fare attenzione prima di appoggiarci le labbra a scolar via bene il lattice bianco, che è amaro.
Le illustrazioni vengono da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio.
Nella prima tavola: 1) Hieracicum sylvaticum o H. murorum 2) Leontodon autumnalis 3) Solidago canadensis, non una cicoria ma della Asteracee 4) Lapsana communis 5)Matricaria discoidea (asteracee)
Nella seconda tavola: 1) Tanacetum vulgare o Chrysantemum tanacetum (asteracee) 2) Lactuca scariola o L.serriola 3) Senecio viscoso (asteracee) 4) Senecio vulgaris (asteracee) 5) Senecio jacobaea 6) Senecio erucifolius
Nella terza tavola: 1) Sonchus asper (cicoria) 2) Sonchus arvensis 3) Artemisia vulgaris (asteracee) 5) Anthyllis vulneraria (leguminose)
domenica 19 giugno 2011
Calcioscommesse
Gli sponsor: tre delle più grandi squadre di calcio d’Europa (Real Madrid, Milan, Juventus) negli ultimi due anni hanno portato sulle magliette, bene in vista, il marchio di una società di scommesse. La nostra vecchia e cara serie B viene ormai chiamata B-win: è il nome di una società di scommesse.
Andiamo invece a vedere gli sponsor degli anni ’80 e ’90: elettrodomestici, alimentari, marchi di fabbrica, un po’ di tutto. Il fatto che oggi gli sponsor principali del calcio siano gli scommettitori qualche dubbio dovrebbe farlo venire, ma guai a dirlo. Non voglio certo dire che siano le società di scommesse a pilotare il campionato, ci mancherebbe altro: voglio dire che è un segno dei tempi, non tanto nel mondo del calcio quanto in tutta la struttura del nostro Paese. Vent’anni fa gli sponsor erano Danone, Sony, Ariston; oggi sono le società di scommesse. Qualcosa vorrà pur dire.
Ci sono notizie che arrivano a farsi leggere, ma poi vengono subito fatte sparire dai giornali: una società, forse di Singapore o di Hong Kong, che controllava le partite del campionato del Belgio. Non i campionati importanti, ma quelli minori: per scommettere basta e avanza. Ho letto due o tre articoli in merito, su Repubblica o sull’Espresso, forse un anno fa, poi è sparito tutto e non se ne è più parlato. Cosa significa questa notizia? Significa che le partite di quei campionati venivano decise dall’altra parte del mondo, un boss faceva un sms dall’Asia e una squadra di calcio europea segnava un gol o sbagliava un rigore. Cose che capitano, e mica solo in Belgio: se ha funzionato lì, vuoi che non funzioni altrove?
Mi dicono: ma sì, i campionati minori. Siete sicuri che succeda solo nei campionati minori?
Torniamo indietro al primo scandalo scommesse, trent’anni fa: nel 1980 le scommesse erano vietate, si era sempre fatto così. In Italia di legale c’erano solo il totocalcio e la schedina dell’enalotto, poi il totip per i pochi appassionati alle corse dei cavalli, poi ogni sei mesi la lotteria di Capodanno e quella di Merano. Le ricevitorie del lotto c’erano solo a Napoli, nessuna traccia di videopoker e di gratta e vinci, per passare il tempo nei bar c’erano ancora i biliardi, stecca e goriziana e boccette. Eppure, già in quel 1980 c’erano calciatori che giocavano contro la propria squadra. Come si procedette, in quel caso? Colpendo un po’ a caso, chi capita capita, giusto per far vedere che si prendevano provvedimenti (il motto “tolleranza zero” non era ancora di moda, altrimenti lo avrebbero detto di sicuro). Alcuni calciatori sembravano davvero colpevoli, altri furono tirati dentro sulla base di indizi ridicoli, e squalificati senza pietà per due o tre anni. Faccio un nome solo, perché la sua storia ha un lieto fine: Paolo Rossi, che fu squalificato dalla FIGC perché i suoi compagni di squadra (al Perugia) stavano giocando non so più se a carte o a tombola, e qualcuno gli chiese: “Ci stai?”. Il disgraziato rispose sì, e per questo fu squalificato: probabilmente serviva un nome famoso, per mostrare di aver colpito duro, e Paolo Rossi era il bersaglio ideale. Ancora oggi si prosegue così, si squalifica questo e quello, si fa retrocedere o si penalizza in classifica qualche squadra, i giornalisti sportivi esultano “perché si è fatta pulizia”, e poi tutto continua come prima; ma forse sarebbe meglio prendere i dvd del “Padrino” (The Godfather, regia di Francis Ford Coppola) e dargli un’occhiata. I metodi sono quelli, e funzionano: se c’è da spartirsi il mercato della droga in una grande città, per esempio, e c’è un concorrente che mi disturba, io posso fare in due modi: o lo elimino fisicamente, con tutti i rischi che comporta, oppure passo delle informazioni alla polizia, da anonimo cittadino. Il mio concorrente finisce in galera, e io prendo il controllo della sua zona; da allora in poi ci sarà meno violenza visibile, ma per il resto tutto continuerà come prima.
Gli ingenui pensano ancora che siano gli arbitri a determinare il risultato di una partita, in realtà (da sempre) è più facile mettersi d’accordo tra giocatori: ma anche qui, guai a dirlo, i tifosi sono permalosissimi e non vogliono nemmeno iniziare a pensare che forse quello che guardano non è propriamente uno spettacolo leale ed onesto. Insomma, concludendo (ma il discorso potrebbe andare avanti all’infinito), se non vi piace Luciano Moggi posso capirvi: ma avete mai guardato gli altri? Oltretutto, torna comodo leggere bene le sentenze dei tribunali civili, non quelli frettolosi della FIGC: Moggi per ora in tribunale ha subito una condanna (non definitiva) che riguarda non i taroccamenti delle partite, cosa dalla quale è stato assolto con formula piena, ma le procure dei calciatori. Luciano Moggi controllava gli ingaggi dei calciatori, cioè i soldi veri, le percentuali: per gli agenti dei calciatori si tratta di soldi pesanti. Fatto fuori Moggi, gli altri (magari peggiori di lui) si sono spartiti la torta, ed è questo che volevano. E, se io fossi un magistrato, farei indagini accurate in questa direzione: gli ingaggi dei calciatori. Se voglio spostare dei capitali senza dare nell’occhio, ingaggiare un calciatore brasiliano o svedese o magari giapponese è un’ottima trovata: sparo cifre grosse, magari cinquanta milioni di euro, poi farne fermare una trentina alle Cayman o ad Antigua è facilissimo. E anche questa, ormai, è storia – o cronaca, fate voi: ma guai a parlarne, se si rompe il giocattolo a molta gente toccherebbe di andare a lavorare.
Ma il vero problema, direi, riguarda i dirigenti del calcio, e dello sport in generale. Se non si accorgono di cosa c’è sotto, è meglio che se ne vadano. Meglio che diano le dimissioni, se i dirigenti non si accorgono di niente allora lascino il posto a qualcun altro, chiunque saprà governare meglio di loro.
Andiamo invece a vedere gli sponsor degli anni ’80 e ’90: elettrodomestici, alimentari, marchi di fabbrica, un po’ di tutto. Il fatto che oggi gli sponsor principali del calcio siano gli scommettitori qualche dubbio dovrebbe farlo venire, ma guai a dirlo. Non voglio certo dire che siano le società di scommesse a pilotare il campionato, ci mancherebbe altro: voglio dire che è un segno dei tempi, non tanto nel mondo del calcio quanto in tutta la struttura del nostro Paese. Vent’anni fa gli sponsor erano Danone, Sony, Ariston; oggi sono le società di scommesse. Qualcosa vorrà pur dire.
Ci sono notizie che arrivano a farsi leggere, ma poi vengono subito fatte sparire dai giornali: una società, forse di Singapore o di Hong Kong, che controllava le partite del campionato del Belgio. Non i campionati importanti, ma quelli minori: per scommettere basta e avanza. Ho letto due o tre articoli in merito, su Repubblica o sull’Espresso, forse un anno fa, poi è sparito tutto e non se ne è più parlato. Cosa significa questa notizia? Significa che le partite di quei campionati venivano decise dall’altra parte del mondo, un boss faceva un sms dall’Asia e una squadra di calcio europea segnava un gol o sbagliava un rigore. Cose che capitano, e mica solo in Belgio: se ha funzionato lì, vuoi che non funzioni altrove?
Mi dicono: ma sì, i campionati minori. Siete sicuri che succeda solo nei campionati minori?
Torniamo indietro al primo scandalo scommesse, trent’anni fa: nel 1980 le scommesse erano vietate, si era sempre fatto così. In Italia di legale c’erano solo il totocalcio e la schedina dell’enalotto, poi il totip per i pochi appassionati alle corse dei cavalli, poi ogni sei mesi la lotteria di Capodanno e quella di Merano. Le ricevitorie del lotto c’erano solo a Napoli, nessuna traccia di videopoker e di gratta e vinci, per passare il tempo nei bar c’erano ancora i biliardi, stecca e goriziana e boccette. Eppure, già in quel 1980 c’erano calciatori che giocavano contro la propria squadra. Come si procedette, in quel caso? Colpendo un po’ a caso, chi capita capita, giusto per far vedere che si prendevano provvedimenti (il motto “tolleranza zero” non era ancora di moda, altrimenti lo avrebbero detto di sicuro). Alcuni calciatori sembravano davvero colpevoli, altri furono tirati dentro sulla base di indizi ridicoli, e squalificati senza pietà per due o tre anni. Faccio un nome solo, perché la sua storia ha un lieto fine: Paolo Rossi, che fu squalificato dalla FIGC perché i suoi compagni di squadra (al Perugia) stavano giocando non so più se a carte o a tombola, e qualcuno gli chiese: “Ci stai?”. Il disgraziato rispose sì, e per questo fu squalificato: probabilmente serviva un nome famoso, per mostrare di aver colpito duro, e Paolo Rossi era il bersaglio ideale. Ancora oggi si prosegue così, si squalifica questo e quello, si fa retrocedere o si penalizza in classifica qualche squadra, i giornalisti sportivi esultano “perché si è fatta pulizia”, e poi tutto continua come prima; ma forse sarebbe meglio prendere i dvd del “Padrino” (The Godfather, regia di Francis Ford Coppola) e dargli un’occhiata. I metodi sono quelli, e funzionano: se c’è da spartirsi il mercato della droga in una grande città, per esempio, e c’è un concorrente che mi disturba, io posso fare in due modi: o lo elimino fisicamente, con tutti i rischi che comporta, oppure passo delle informazioni alla polizia, da anonimo cittadino. Il mio concorrente finisce in galera, e io prendo il controllo della sua zona; da allora in poi ci sarà meno violenza visibile, ma per il resto tutto continuerà come prima.
Gli ingenui pensano ancora che siano gli arbitri a determinare il risultato di una partita, in realtà (da sempre) è più facile mettersi d’accordo tra giocatori: ma anche qui, guai a dirlo, i tifosi sono permalosissimi e non vogliono nemmeno iniziare a pensare che forse quello che guardano non è propriamente uno spettacolo leale ed onesto. Insomma, concludendo (ma il discorso potrebbe andare avanti all’infinito), se non vi piace Luciano Moggi posso capirvi: ma avete mai guardato gli altri? Oltretutto, torna comodo leggere bene le sentenze dei tribunali civili, non quelli frettolosi della FIGC: Moggi per ora in tribunale ha subito una condanna (non definitiva) che riguarda non i taroccamenti delle partite, cosa dalla quale è stato assolto con formula piena, ma le procure dei calciatori. Luciano Moggi controllava gli ingaggi dei calciatori, cioè i soldi veri, le percentuali: per gli agenti dei calciatori si tratta di soldi pesanti. Fatto fuori Moggi, gli altri (magari peggiori di lui) si sono spartiti la torta, ed è questo che volevano. E, se io fossi un magistrato, farei indagini accurate in questa direzione: gli ingaggi dei calciatori. Se voglio spostare dei capitali senza dare nell’occhio, ingaggiare un calciatore brasiliano o svedese o magari giapponese è un’ottima trovata: sparo cifre grosse, magari cinquanta milioni di euro, poi farne fermare una trentina alle Cayman o ad Antigua è facilissimo. E anche questa, ormai, è storia – o cronaca, fate voi: ma guai a parlarne, se si rompe il giocattolo a molta gente toccherebbe di andare a lavorare.
Ma il vero problema, direi, riguarda i dirigenti del calcio, e dello sport in generale. Se non si accorgono di cosa c’è sotto, è meglio che se ne vadano. Meglio che diano le dimissioni, se i dirigenti non si accorgono di niente allora lascino il posto a qualcun altro, chiunque saprà governare meglio di loro.
sabato 18 giugno 2011
Il presente, il futuro, e le stragi degli anni '70
Quale è la differenza fra oggi e gli anni ’70? E’ vero che oggi non c’è più futuro, o era peggio vivere negli anni ’70 quando c’era il terrorismo?
La questione, interessante ma posta malissimo, è stata formulata in tv la settimana scorsa da due ministri in carica nel governo Berlusconi, il leghista Castelli e il veneziano Brunetta. La domanda è stata posta malissimo perché, come insegnano a scuola fin dalle elementari, non si possono mettere insieme cose diverse, a meno di fare pasticci o semplificazioni. Le semplificazioni possono essere utili per qualche istante, i pasticci (e i pasticcini) possono essere buoni da mangiare, ma se si vuole fare un discorso serio è meglio cominciare a distinguere, e ad osservare i diversi aspetti della cosa che si sta osservando. Provo a mettere qui sotto qualche osservazione, che spero possa servire a chi non era ancora nato in quel periodo, o a chi non se lo ricorda più o è stato confuso dalla propaganda.
1) Negli anni ’70, il terrorismo spaventava ma fino a un certo punto: facevamo la nostra vita normale, perché era chiaro a tutti che si trattava di una minoranza pericolosa ma molto isolata, senza possibilità di sviluppo ulteriore. Tutti i partiti in Parlamento avevano preso posizione decisa contro il terrorismo: nel 1975 il PCI di Berlinguer e la DC di Andreotti e Cossiga rappresentavano da soli il 70% degli italiani, poi c’erano il PSI (10%), il PRI, il PLI, tutti ben lontani dal terrorismo. Facevano paura, e molta, le stragi e le bombe nelle piazze e sui treni: potevano colpire chiunque, a prescindere dalle idee politiche o dalla professione. Bastava passare da quella piazza, entrare in una stazione o in una banca: a partire dal 1969 di Piazza Fontana a Milano, il terrore quotidiano era soprattutto quello, e va ricordato che ancora oggi gli autori di quelle stragi possono contare su complicità e silenzi anche molto in alto. In quella trasmissione, la penultima puntata di Annozero di Michele Santoro, erano presenti i figli (oggi quarantenni) di tre persone che furono uccise negli anni ’70: due erano magistrati, uno era l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che fu ucciso non da un terrorista ma da un killer mafioso. L’avvocato Ambrosoli era il curatore fallimentare del Banco Ambrosiano, il consiglio è di andare a cercare informazioni in merito, magari anche solo su http://www.wikipedia.it/ . Si scoprirà che, oltre al terrorismo di matrice neofascista (NAR e Ordine Nuovo, responsabili di molte stragi e omicidi, come quello del giudice Occorsio), oltre alle BR e a Prima Linea, c’era ampio spazio per la banda della Magliana a Roma, per il conflitto tra ‘ndrangheta e mafia a Milano (una vera e propria guerra, bombe e morti ammazzati, alla fine ha vinto la ‘ndrangheta), per i sequestri di persona: delinquenza comune, ma con frequentazioni importanti, come si sa da sempre (e qui bisogna tornare ancora sull’omicidio dell’avvocato Ambrosoli, e al Banco Ambrosiano).
2) Negli anni ’70 c’era disoccupazione, ma trovare un lavoro era molto più facile di oggi, e per un motivo molto semplice: c’erano le fabbriche, e ce ne erano tante. Il problema più grosso riguardava i giovani del Sud, che spesso erano costretti a emigrare; ma quasi tutti quelli che avevano un lavoro in quegli anni hanno potuto farsi una famiglia, avere un mutuo per la casa, e penso che basti guardarsi in giro, in famiglia, per accorgersi che è andata così. Oggi le fabbriche non ci sono quasi più, i loro proprietari le hanno spostate all’estero perché pensavano che qui da noi operai e impiegati guadagnavano troppo. I posti di lavoro residui sono pochi e poco specializzati, per esempio cassiere di supermercati invece di disegnatori meccanici; pochissimi insegnano un mestiere, e le tutele sono ridotte quasi a zero in termini di precarietà ma anche riguardo alla maternità, alla malattia, eccetera. Negli anni ’80 e ’90 era anche possibile mettersi in proprio, magari sfruttando interessi personali e competenze, per esempio aprendo un negozio: oggi questo è diventato quasi impossibile, a causa della spietata concorrenza dell’enorme numero di iper e supermercati, che vendono soprattutto (fateci caso) merce di origine estera e non italiana. Avere un prestito dalle Banche era ancora possibile anche senza avere tassi da usura, eccetera: poi la classe dirigente è cambiata, i vecchi bancari sono andati in pensione e ha trionfato l’ideologia liberista, eccetera.
E’ questo che si intende quando si parla di “mancanza di un futuro”, e penso che i ventenni e i trentenni di oggi ne siano ben consapevoli. Evidentemente, mettendo insieme questi due problemi, tra loro diversissimi anche se tra loro contemporanei, si vuole solo far confusione e disinformazione.
Si potrebbe aggiungere ancora una cosa, che è questa:
3) Il terrorismo era ampiamente finanziato e sostenuto, e non solo in Italia. Un’operazione come il sequestro di Aldo Moro è chiaramente di stampo militare: non è una cosa che si improvvisa, richiede tempo, molti mesi di istruzione attenta, armi e automobili, attenzione meticolosa ai minimi dettagli, e anche qualche supporto interno. Non sono cose che si fanno da soli, insomma; così come è impossibile che le stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, della stazione di Bologna, avvenute fra il 1969 e il 1980, siano state preparate da sporovveduti volenterosi. Dietro c’erano campi di addestramento, la guerra fredda, Gladio, la P2, la Cia e il Kgb (uno dei capi del Kgb era Putin), insomma un discorso molto complesso che non si può risolvere parlando di “rossi” e di “neri”, di “loro” e di “noi”. Senza campi di addestramento militare, senza finanziamenti, senza conoscenza approfondita di tecniche militari e di uso degli esplosivi, e soprattutto senza appoggi più o meno ministeriali e governativi, si possono far danni ma non si va molto lontano. Sono vent’anni, per esempio, che Umberto Bossi parla di insurrezione armata e di centomila fucili pronti a sparare: ma il massimo che ne è uscito sono state le ronde e quattro mona che sono saliti sul campanile di San Marco. Ci fosse stata dietro la CIA o il KGB, come succedeva negli anni ’70, sarebbero stati guai grossi: ma per nostra fortuna non c’è più la guerra fredda, i finanziamenti al terrorismo si sono spostati altrove, anche i cattolici dell’IRA e gli indipendentisti dell’ETA sono stati tranquilli in questi anni, e speriamo che duri.
La questione, interessante ma posta malissimo, è stata formulata in tv la settimana scorsa da due ministri in carica nel governo Berlusconi, il leghista Castelli e il veneziano Brunetta. La domanda è stata posta malissimo perché, come insegnano a scuola fin dalle elementari, non si possono mettere insieme cose diverse, a meno di fare pasticci o semplificazioni. Le semplificazioni possono essere utili per qualche istante, i pasticci (e i pasticcini) possono essere buoni da mangiare, ma se si vuole fare un discorso serio è meglio cominciare a distinguere, e ad osservare i diversi aspetti della cosa che si sta osservando. Provo a mettere qui sotto qualche osservazione, che spero possa servire a chi non era ancora nato in quel periodo, o a chi non se lo ricorda più o è stato confuso dalla propaganda.
1) Negli anni ’70, il terrorismo spaventava ma fino a un certo punto: facevamo la nostra vita normale, perché era chiaro a tutti che si trattava di una minoranza pericolosa ma molto isolata, senza possibilità di sviluppo ulteriore. Tutti i partiti in Parlamento avevano preso posizione decisa contro il terrorismo: nel 1975 il PCI di Berlinguer e la DC di Andreotti e Cossiga rappresentavano da soli il 70% degli italiani, poi c’erano il PSI (10%), il PRI, il PLI, tutti ben lontani dal terrorismo. Facevano paura, e molta, le stragi e le bombe nelle piazze e sui treni: potevano colpire chiunque, a prescindere dalle idee politiche o dalla professione. Bastava passare da quella piazza, entrare in una stazione o in una banca: a partire dal 1969 di Piazza Fontana a Milano, il terrore quotidiano era soprattutto quello, e va ricordato che ancora oggi gli autori di quelle stragi possono contare su complicità e silenzi anche molto in alto. In quella trasmissione, la penultima puntata di Annozero di Michele Santoro, erano presenti i figli (oggi quarantenni) di tre persone che furono uccise negli anni ’70: due erano magistrati, uno era l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che fu ucciso non da un terrorista ma da un killer mafioso. L’avvocato Ambrosoli era il curatore fallimentare del Banco Ambrosiano, il consiglio è di andare a cercare informazioni in merito, magari anche solo su http://www.wikipedia.it/ . Si scoprirà che, oltre al terrorismo di matrice neofascista (NAR e Ordine Nuovo, responsabili di molte stragi e omicidi, come quello del giudice Occorsio), oltre alle BR e a Prima Linea, c’era ampio spazio per la banda della Magliana a Roma, per il conflitto tra ‘ndrangheta e mafia a Milano (una vera e propria guerra, bombe e morti ammazzati, alla fine ha vinto la ‘ndrangheta), per i sequestri di persona: delinquenza comune, ma con frequentazioni importanti, come si sa da sempre (e qui bisogna tornare ancora sull’omicidio dell’avvocato Ambrosoli, e al Banco Ambrosiano).
2) Negli anni ’70 c’era disoccupazione, ma trovare un lavoro era molto più facile di oggi, e per un motivo molto semplice: c’erano le fabbriche, e ce ne erano tante. Il problema più grosso riguardava i giovani del Sud, che spesso erano costretti a emigrare; ma quasi tutti quelli che avevano un lavoro in quegli anni hanno potuto farsi una famiglia, avere un mutuo per la casa, e penso che basti guardarsi in giro, in famiglia, per accorgersi che è andata così. Oggi le fabbriche non ci sono quasi più, i loro proprietari le hanno spostate all’estero perché pensavano che qui da noi operai e impiegati guadagnavano troppo. I posti di lavoro residui sono pochi e poco specializzati, per esempio cassiere di supermercati invece di disegnatori meccanici; pochissimi insegnano un mestiere, e le tutele sono ridotte quasi a zero in termini di precarietà ma anche riguardo alla maternità, alla malattia, eccetera. Negli anni ’80 e ’90 era anche possibile mettersi in proprio, magari sfruttando interessi personali e competenze, per esempio aprendo un negozio: oggi questo è diventato quasi impossibile, a causa della spietata concorrenza dell’enorme numero di iper e supermercati, che vendono soprattutto (fateci caso) merce di origine estera e non italiana. Avere un prestito dalle Banche era ancora possibile anche senza avere tassi da usura, eccetera: poi la classe dirigente è cambiata, i vecchi bancari sono andati in pensione e ha trionfato l’ideologia liberista, eccetera.
E’ questo che si intende quando si parla di “mancanza di un futuro”, e penso che i ventenni e i trentenni di oggi ne siano ben consapevoli. Evidentemente, mettendo insieme questi due problemi, tra loro diversissimi anche se tra loro contemporanei, si vuole solo far confusione e disinformazione.
Si potrebbe aggiungere ancora una cosa, che è questa:
3) Il terrorismo era ampiamente finanziato e sostenuto, e non solo in Italia. Un’operazione come il sequestro di Aldo Moro è chiaramente di stampo militare: non è una cosa che si improvvisa, richiede tempo, molti mesi di istruzione attenta, armi e automobili, attenzione meticolosa ai minimi dettagli, e anche qualche supporto interno. Non sono cose che si fanno da soli, insomma; così come è impossibile che le stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, della stazione di Bologna, avvenute fra il 1969 e il 1980, siano state preparate da sporovveduti volenterosi. Dietro c’erano campi di addestramento, la guerra fredda, Gladio, la P2, la Cia e il Kgb (uno dei capi del Kgb era Putin), insomma un discorso molto complesso che non si può risolvere parlando di “rossi” e di “neri”, di “loro” e di “noi”. Senza campi di addestramento militare, senza finanziamenti, senza conoscenza approfondita di tecniche militari e di uso degli esplosivi, e soprattutto senza appoggi più o meno ministeriali e governativi, si possono far danni ma non si va molto lontano. Sono vent’anni, per esempio, che Umberto Bossi parla di insurrezione armata e di centomila fucili pronti a sparare: ma il massimo che ne è uscito sono state le ronde e quattro mona che sono saliti sul campanile di San Marco. Ci fosse stata dietro la CIA o il KGB, come succedeva negli anni ’70, sarebbero stati guai grossi: ma per nostra fortuna non c’è più la guerra fredda, i finanziamenti al terrorismo si sono spostati altrove, anche i cattolici dell’IRA e gli indipendentisti dell’ETA sono stati tranquilli in questi anni, e speriamo che duri.
venerdì 17 giugno 2011
Mozart, K 560
Un piccolo gioco per gli amici appassionati di musica è far ascoltare il canone K559 di Mozart e chiedere che cos’è. La risposta è ovvia, automatica: tono solenne e ispirato, lingua latina, senza dubbio musica sacra. E invece no, è uno scherzo che Mozart fece a un amico cantante.
Ecco come viene ricostruito lo scherzo da Poggi e Vallora in “Il catalogo è questo”, un bellissimo libro che racconta in questo modo tutte le composizioni di Mozart, pubblicato da Einaudi.
Ecco lo scherzo al povero Peierl, nel racconto di Paumgartner: «Questo signor Peierl, un tenore di Monaco, aveva un difetto di pronunzia per cui gli amici spesso lo prendevano in giro. Una sera, trovandosi riunita l'allegra brigata, a M, venne l'idea di scrivere un canone sulle parole latine "Difficile lectu mihi Mars" che avrebbero preso comico risalto quando Peierl, con la sua pronunzia difettosa, le avesse cantate (lo scherzo consisteva nell'assonanza tra la frase latina "Difficile lectu mihi Mars" e quella tedesca "Difficile leckst du mich im Arsch" ossia "Difficilmente mi lecchi il culo"). Facendo in modo che questi non se ne avvedesse e cadesse nel tranello, scrisse a tergo dello stesso foglio l'altro canone che inizia "Oh asino d'un Peierl!" Lo scherzo riuscí. Non appena, fra l'ilarità generale, le insidiose parole latine uscirono dalle labbra di Peierl nel modo previsto, M. voltò il foglio e tutti trionfalmente intonarono:
O Peierl asinesco, O asino peierlesco!
Il seguito non è difficile da indovinare. Alle parole "Nepomuk Peierl, perdonami!" il tono del canone si fa implorante: è la riconciliazione col mortificatissimo tenore».
K559-K560
CANONE per voci: « Difficile lectu mihi Mars »
CANONE per voci: «O du eselhafter Peierl» («Oh asino d'un Peierl» )
TONALITÀ Fa maggiore - Fa maggiore
ORGANICO K 559: n, 3 voci K 560: n. 4 voci
DATA 2 settembre 1788 (32 anni)
LUOGO Vienna
EDIZIONE Breitkopf & Härtel, Leipzig 1804
TESTO K 559:
Difficile lectu mihi Mars
Et jonicu difficile
K 560: O asino d'un Peierl! O Peierl asinesco! O asino, peierlesco! Sei sfaticato come un ronzino
che non ha né testa né garretti (...)
NOTE Questi due Canoni, anch'essi concepiti nel corso dell'estate del 1788 e riuniti da Mozart nel suo catalogo personale sotto la data del 2 settembre, fanno parte della serie di dieci Canoni - compresi fra il K 553 e il K 562 - inventati da Mozart, nei momenti di svago e di divertimento fra amici. Un esempio della passione mozartiana per i giochi goliardici e gli scherzi scurrili (quelli che già avevano colorato le lettere alla cuginetta Bäsle di Augusta) ci viene proprio offerto da queste due pagine concatenate - piccoli capolavori sotto il profilo musicale - che vennero architettate come pesante scherzo alle spalle del tenore viennese Peierl. Si segnala che esiste anche un'altra versione del K 560, musicalmente identica ma «dedicata» a un'altra vittima di Mozart, precisamente il famoso tenore tedesco Philip Jacob Martin («Oh asino d'un Martin, O Martin asinesco»).
È curioso che Saint-Foix, dinanzi a certe intemperanze, si sia chiesto se l'origine della «truculenza dei testi mozartiani » non fosse da ascrivere all'esempio di M. Haydn, amico e collega salisburghese, noto per la sua volgare personalità.
COMMENTO Paumgartner: «In essi il maestro, messo di buonumore dagli amici buontemponi, rinnova gli stravaganti scherzi della commedia dell'arte, trasponendoli nella Vienna del suo tempo».
(“Il catalogo è questo”, di Poggi e Vallora, un libro con tutte le composizioni di Mozart in ordine cronologico, pubblicato da Einaudi)
Si tratta quindi, nelle intenzioni dell’autore, di una paginetta buttata giù per scherzo: ma è musica bellissima, chissà quanti compositori pagherebbero per averla scritta. Mozart poteva permetterselo, e non è nemmeno l’unica volta che “butta via” una melodia meravigliosa: si pensi all’aria di Barbarina nelle “Nozze di Figaro”, meno di due minuti, un personaggio secondario, una scena che si potrebbe anche eliminare, eppure è qualcosa che va subito a toccare nell’anima chi la ascolta. Lo stesso discorso si potrebbe fare per il mottetto “Ave verum corpus”, pochi minuti di musica semplice e indimenticabile.
Non è stato nemmeno il solo Mozart a potersi permettere di questi “sprechi”: mi vengono in mente esempi simili per Puccini, per Prokofiev, ma anche per Britten o per Nino Rota, e tutto il Falstaff di Verdi è fatto di melodie come queste, brevissime e meravigliose, buttate là quasi per scherzo.
Mi viene da dire (e chiedo scusa per il termine, ma Mozart mi capirebbe) che quello in cui viviamo è un tempo di ingegni stitici, in cui si incensa e si dà del maestro e del capolavoro a questo e a quello, e in cui si copia a man bassa e si rifanno sempre le stesse quattro cose, ma guai ad ammetterlo.
Mozart era uno che poteva permettersi di “buttare via” un canone come questo, valutandolo cosa da poco: ed è un pensiero che ogni volta mi lascia stupefatto.
(nelle immagini, la prima riga dei due frammenti mozartiani, sempre dal libro citato, e due immagini dei divertimenti di Mozart con i suoi amici, nella ricostruzione - penso molto fedele - fatta da Milos Forman nel film "Amadeus").
Ecco come viene ricostruito lo scherzo da Poggi e Vallora in “Il catalogo è questo”, un bellissimo libro che racconta in questo modo tutte le composizioni di Mozart, pubblicato da Einaudi.
Ecco lo scherzo al povero Peierl, nel racconto di Paumgartner: «Questo signor Peierl, un tenore di Monaco, aveva un difetto di pronunzia per cui gli amici spesso lo prendevano in giro. Una sera, trovandosi riunita l'allegra brigata, a M, venne l'idea di scrivere un canone sulle parole latine "Difficile lectu mihi Mars" che avrebbero preso comico risalto quando Peierl, con la sua pronunzia difettosa, le avesse cantate (lo scherzo consisteva nell'assonanza tra la frase latina "Difficile lectu mihi Mars" e quella tedesca "Difficile leckst du mich im Arsch" ossia "Difficilmente mi lecchi il culo"). Facendo in modo che questi non se ne avvedesse e cadesse nel tranello, scrisse a tergo dello stesso foglio l'altro canone che inizia "Oh asino d'un Peierl!" Lo scherzo riuscí. Non appena, fra l'ilarità generale, le insidiose parole latine uscirono dalle labbra di Peierl nel modo previsto, M. voltò il foglio e tutti trionfalmente intonarono:
O Peierl asinesco, O asino peierlesco!
Il seguito non è difficile da indovinare. Alle parole "Nepomuk Peierl, perdonami!" il tono del canone si fa implorante: è la riconciliazione col mortificatissimo tenore».
K559-K560
CANONE per voci: « Difficile lectu mihi Mars »
CANONE per voci: «O du eselhafter Peierl» («Oh asino d'un Peierl» )
TONALITÀ Fa maggiore - Fa maggiore
ORGANICO K 559: n, 3 voci K 560: n. 4 voci
DATA 2 settembre 1788 (32 anni)
LUOGO Vienna
EDIZIONE Breitkopf & Härtel, Leipzig 1804
TESTO K 559:
Difficile lectu mihi Mars
Et jonicu difficile
K 560: O asino d'un Peierl! O Peierl asinesco! O asino, peierlesco! Sei sfaticato come un ronzino
che non ha né testa né garretti (...)
NOTE Questi due Canoni, anch'essi concepiti nel corso dell'estate del 1788 e riuniti da Mozart nel suo catalogo personale sotto la data del 2 settembre, fanno parte della serie di dieci Canoni - compresi fra il K 553 e il K 562 - inventati da Mozart, nei momenti di svago e di divertimento fra amici. Un esempio della passione mozartiana per i giochi goliardici e gli scherzi scurrili (quelli che già avevano colorato le lettere alla cuginetta Bäsle di Augusta) ci viene proprio offerto da queste due pagine concatenate - piccoli capolavori sotto il profilo musicale - che vennero architettate come pesante scherzo alle spalle del tenore viennese Peierl. Si segnala che esiste anche un'altra versione del K 560, musicalmente identica ma «dedicata» a un'altra vittima di Mozart, precisamente il famoso tenore tedesco Philip Jacob Martin («Oh asino d'un Martin, O Martin asinesco»).
È curioso che Saint-Foix, dinanzi a certe intemperanze, si sia chiesto se l'origine della «truculenza dei testi mozartiani » non fosse da ascrivere all'esempio di M. Haydn, amico e collega salisburghese, noto per la sua volgare personalità.
COMMENTO Paumgartner: «In essi il maestro, messo di buonumore dagli amici buontemponi, rinnova gli stravaganti scherzi della commedia dell'arte, trasponendoli nella Vienna del suo tempo».
(“Il catalogo è questo”, di Poggi e Vallora, un libro con tutte le composizioni di Mozart in ordine cronologico, pubblicato da Einaudi)
Si tratta quindi, nelle intenzioni dell’autore, di una paginetta buttata giù per scherzo: ma è musica bellissima, chissà quanti compositori pagherebbero per averla scritta. Mozart poteva permetterselo, e non è nemmeno l’unica volta che “butta via” una melodia meravigliosa: si pensi all’aria di Barbarina nelle “Nozze di Figaro”, meno di due minuti, un personaggio secondario, una scena che si potrebbe anche eliminare, eppure è qualcosa che va subito a toccare nell’anima chi la ascolta. Lo stesso discorso si potrebbe fare per il mottetto “Ave verum corpus”, pochi minuti di musica semplice e indimenticabile.
Non è stato nemmeno il solo Mozart a potersi permettere di questi “sprechi”: mi vengono in mente esempi simili per Puccini, per Prokofiev, ma anche per Britten o per Nino Rota, e tutto il Falstaff di Verdi è fatto di melodie come queste, brevissime e meravigliose, buttate là quasi per scherzo.
Mi viene da dire (e chiedo scusa per il termine, ma Mozart mi capirebbe) che quello in cui viviamo è un tempo di ingegni stitici, in cui si incensa e si dà del maestro e del capolavoro a questo e a quello, e in cui si copia a man bassa e si rifanno sempre le stesse quattro cose, ma guai ad ammetterlo.
Mozart era uno che poteva permettersi di “buttare via” un canone come questo, valutandolo cosa da poco: ed è un pensiero che ogni volta mi lascia stupefatto.
(nelle immagini, la prima riga dei due frammenti mozartiani, sempre dal libro citato, e due immagini dei divertimenti di Mozart con i suoi amici, nella ricostruzione - penso molto fedele - fatta da Milos Forman nel film "Amadeus").
giovedì 16 giugno 2011
A musical Bloomsday
L’Ulisse di James Joyce è ricco di musica, e del resto “Chamber Music”, “musica da camera”, è stato il primo libro pubblicato da Joyce. In questa pagina di musica ce ne è molta, però non inganni il tono alto della discussione, Joyce ci sta prendendo un po’ in giro. Anche noi, spesso, ci perdiamo in discorsi serissimi, e poi c’è sempre la realtà quotidiana a rimetterci al nostro posto. Che sia triste, o che sia una fortuna, è comunque così che funziona.
...E quindi passarono a parlare di musica, una forma d'arte per cui Bloom in qualità di semplice dilettante era posseduto di grande amore, nell'incamminarsi a braccetto attraverso Beresford place. La musica di Wagner, grandiosa nel suo genere, bisognava riconoscerlo, era un po' troppo pesante per Bloom e difficile da seguire alle prime, ma per la musica degli Ugonotti di Mercadante, “Le sette ultime parole di Cristo in Croce” di Meyerbeer, e la Dodicesima Messa di Mozart, ne andava pazzo, il Gloria di quest'ultima essendo per lui l'acme della musica di prim'ordine in quanto tale, che tutto il resto non gli lega neppure i lacci delle scarpe.
Preferiva infinitamente la musica sacra della chiesa cattolica a qualsiasi cosa avesse da offrire quell'altra bottega quanto ad articoli del genere come quegli inni di Moody e Sankey oppure “Dimmi di vivere e vivrò protestante d'esser tuo”. Egli poi non era secondo a nessuno nella sua ammirazione dello Stabat Mater di Rossini, opera veramente strabocchevole di pezzi immortali, in cui sua moglie, Madam Marion Tweedy, aveva fatto colpo, una vera sensazione, non arrossiva a dirlo, aggiungendo una fronda alla sua corona di lauro, e mettendo totalmente in ombra le rivali nella chiesa dei padri gesuiti in Upper Gardiner street, essendo il sacro edificio affollato fino alla porta, per sentirla, di “virtuosos” o piuttosto di “virtuosi”. Unanime fu il giudizio che nessuno le stesse a pari e, basti dire che pur in un luogo di culto e per musica di carattere sacro, unanime fu il desiderio universalmente espresso a gran voce di un bis. Tutto sommato, per quanto prediligesse nettamente l'opera leggera tipo il Don Giovanni, e la Marta, un gioiello nel suo genere, egli aveva un penchant, per quanto frutto d'una conoscenza solo superficiale, per la severa scuola classica come Mendelssohn.
E già che siam dietro a parlarne, dando per certo che egli conosceva tutto di quelle vecchie arie celebri, egli mentovò par excellence l'aria di Lionello nella Marta, M'apparì, che, abbastanza stranamente, egli aveva sentito, o sentito a metà, per esser più precisi, il giorno prima, fortunata coincidenza di cui vivamente si rallegrava, dalle labbra del riverito padre di Stephen, cantata alla perfezione, un'esecuzione invero magistrale, che dava la polvere a tutte le altre. Stephen, in risposta a una domanda cortesemente formulata, affermò di non conoscerla e si imbarcò a fare lodi sperticate delle canzoni di Shakespeare, almeno di quelle del tempo o giù di lì, il liutista Dowland che viveva in Fetter lane accanto a Gerard il botanico, che “anno ludendo hausi, Doulandus”, strumento che aveva in animo di acquistare da Mr Arnold Dolmetsch, di cui Bloom non si ricordava bene, per quanto il nome non gli suonasse certamente nuovo, per sessantacinque ghinee, e Farnaby e Figlio coi loro concetti su dux e comes e Byrd (William) che sonava i virginali egli disse, nella cappella della Regina e ogni dove ne trovasse uno e un certo Tomkins che faceva divertimenti o arie e John Bull.
Sulla strada selciata cui si andavano avvicinando nel parlare, al di là della catena, un, cavallo che trainava una scopatrice misurava il lastrico, spazzando un cumulo allungato di detriti cosicché dal gran rumore Bloom non era del tutto certo d'aver compreso appieno l'allusione alle sessantacinque ghinee e a John Bull. S'informò se non fosse John Bull la notissima celebrità politica di quel nome, come l'idea lo colpiva, essendo i due nomi identici, per singolare coincidenza.
Lungo la catena il cavallo lentamente dette di banda per voltare, il che vedendo, Bloom, che vegliava all'erta come il solito, tirò pian piano l'altro per la manica, osservando scherzosamente:
- Le nostre vite sono in pericolo stanotte. Attenzione al rullo compressore.
Al che si fermarono. Bloom guardava la testa di quel cavallo che non valeva davvero sessantacinque ghinee e che spiccò a un tratto nel buio a lui d'accanto, sì da sembrare altra cosa, un diverso aggruppamento d'ossa e perfino di carne, perché era palesemente un quadrupedante, uno scuotiterga, un chiappenere, un dondolacoda, un ciondolatesta, che avanzava la gamba di dietro mentre il suo signore e creatore era appollaiato lassù a pensare ai casi suoi. Però una brava bestia dopo tutto, gli dispiaceva di non avere una zolletta di zucchero, ma, come saggiamente rifletté, non si può sempre esser pronti a ogni evenienza che dar si può. Era proprio un gran giuggiolone di cavallo nervoso, senza un sol pensiero al mondo. Ma anche un cane, egli rifletté, per esempio quel bastardo da Barney Kiernan, se fosse delle stesse dimensioni, sarebbe un orrore a vedersi. Ma non era colpa di nessun animale in particolare se era costruito in quel modo, come il cammello, nave del deserto, che distilla l'uva in whisky irlandese nella groppa. Nove decimi se ne potevano mettere in gabbia o ammaestrare, nessuno che non fosse soggetto all'arte dell'uomo, se si eccettuano le api; la balena con l'arpone arpione, l'alligatore, fargli il pizzicorino alla coda e sta allo scherzo; traccia un cerchio in terra per il galletto; la tigre, il mio occhio d'aquila. Queste riflessioni di circostanza al riguardo degli animali del creato occupavano la sua mente, alquanto distratta dalle parole di Stephen, mentre la nave della strada stava facendo manovra e Stephen continuava a parlare di quelle interessantissime vecchie...
- Cosa mai stavo dicendo? Ah, sì! Mia moglie, dette a intendere piombando in medias res, sarebbe lietissima di far la sua conoscenza essendo appassionatissima d'ogni genere di musica.
Riguardò di lato amichevolmente il profilo di Stephen, ritratto di sua madre, che non era affatto quel solito tipo di teppista dietro il quale, non c'è dubbio, corrono tutte in frotta e forse non c'era neppure tagliato.
Pure, al supporlo dotato come il padre, ed era qualcosa più che un sospetto il suo, nuove prospettive gli si aprivano in mente, sul tipo del concerto di Lady Fingall a beneficio delle industrie irlandesi del lunedì precedente, e l'aristocrazia in generale.
Si diffondeva ora sulle deliziose variazioni sull'aria Qui gioventù finisce di Jans Pieter Sweelinck, un olandese di Amsterdam, dove fanno le frau. Ancor più gli piaceva una vecchia canzone tedesca di Johannes Jeep sul mare limpido e le voci delle sirene, dolci assassine d'uomini, che rese un po' perplesso Bloom:
Von der Sirenen Listigkeit
Tun die Poeten dichten.
Queste battute d'apertura egli cantò e tradusse ex-tempore. Bloom, annuendo, disse di aver perfettamente capito e lo pregò in tutti i modi di proseguire, il che egli fece.
Una così bella voce di tenore, fenomenale, il più bel dono di natura, che Bloom apprezzò fin dalla prima nota udita, poteva benissimo, se affidata alle sapienti cure di qualche autorità riconosciuta in materia di canto, come Barraclough, e capace di leggere la musica per soprammercato, pretendere quel che voleva dove i baritoni erano a dieci un soldo e procurare al fortunato proprietario in un prossimo futuro una entrée nei salotti alla moda dei quartieri alti, dei magnati della finanza che fanno affari all'ingrosso e gente titolata dove, col suo diploma universitario di B. A. (un buon asso nella manica dopo tutto) e la sua aria distinta, tale da rinforzare ancora la buona impressione, egli certo si sarebbe assicurato un successo non comune, essendo ricco anche di doni intellettuali che avrebbero potuto essere utilizzati all'uopo in questo e altri casi, se qualcuno si fosse curato un po' del suo vestiario, in modo da poter meglio insinuarsi nelle loro grazie, poiché lui, recluta imberbe in fatto di sottigliezze sartoriali dell'alta società, non arrivava davvero a capire quanto una cosa così insignificante mal vi deponga contro. Era in effetti solo una questione di qualche mese e già gli sembrava di vederlo prender parte alle loro conversaziones artistiche e musicali durante le festività della stagione natalizia, a preferenza, provocando un lieve brivido nelle colombaie del gentil sesso ed essendo portato in palma di mano da signore a caccia di sensazioni, ed erano casi, quelli, di cui, ben lo sapeva, si serbava testimonianza, e in effetti, senza voler vantarsi, anche lui, ai bei tempi, se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo... A ciò si aggiunga naturalmente, l'emolumento pecuniario davanti a cui non bisogna torcere il naso, e insieme la remunerazione professionale. Non che, aggiunse a mo' di parentesi, per amor del vile metallo egli dovesse di necessità abbracciare la carriera di cantante come modus vivendi per molti anni a venire, quello era solo un passo nella giusta direzione, non c'era discussione, e sia da un punto di vista monetario sia mentale la cosa non influiva per nulla sulla sua dignità, e spesso cadeva enormemente acconcio ricevere un assegno al momento della necessità quando anche un nonnulla serviva. Inoltre, benché il gusto da ultimo si fosse notevolmente deteriorato, una musica originale, come quella, differente dall'usata, sarebbe divenuta rapidamente di gran moda, e sarebbe stata certamente una novità per il mondo musicale di Dublino, dopo una serqua di tenori a effetto che Ivan St Austell e Hilton St Just e il loro genus omne avevano imposto a un pubblico accomodante. Sì, senza l'ombra di un dubbio, poteva benissimo riuscirci, con tutte quelle briscole in mano, e aveva una magnifica occasione di farsi un nome e conquistarsi un posto elevato nella considerazione dei concittadini dai quali poteva pretendere delle belle somme di danaro, e, su prenotazione, dare un gran concerto per i frequentatori della sala di King street, se trovava chi lo sosteneva, qualcuno che gli desse una mano ad arrampicarsi in alto, per così dire, - c'era questo gran se - con un po' di slancio o la va o la spacca che compensasse l'inevitabile procrastinazione in cui spesso restano impigliati i ragazzi viziati dalla gloria e la cosa non avrebbe impedito il resto di un ette, poiché, essendo padrone di se stesso, avrebbe avuto un sacco di tempo per coltivare la letteratura nei ritagli di tempo, quando gliene venisse voglia senza che ciò contrastasse alla sua carriera canora o implicasse qualcosa di men che onesto poiché la faccenda riguardava lui solo. In effetti, non aveva che a stendere la mano ed era
proprio questa la ragione per cui l'altro, che aveva un fiuto fenomenale peggio di un cane da tartufi, gli si era messo alle calcagna.
Il cavallo proprio in quel momento... e più tardi, quando se ne desse l'occasione egli aveva in animo (Bloom, s'intende) senza voler per questo ficcare il naso nei suoi affari privati, sulla base del principio che gli sciocchi si avventurano là dove gli Angeli, di consigliarlo a romperla con un certo praticone in erba il quale, egli aveva notato, era incline a denigrarlo, e persino, fino a un certo punto, col pretesto di celiare, quando non era presente, a disprezzarlo, o comunque si voglia dire, il che a modesto avviso di Bloom, caratterizzava il carattere di quel signorino - scusate il gioco di parole. Il cavallo non sapendo più dove batter la testa, per così dire, si fermò e sollevando il superbo pennacchio della coda, volle aggiungere il suo obolo lasciando cadere al suolo, che la scopatrice avrebbe presto ripulito e messo a nuovo, tre stronzi globosi e fumanti. Lentamente, tre volte, uno dopo l'altro, giù dal grosso deretano, venne scacazzando. E umanamente il suo conducente attese finché lui (o lei) avesse finito, paziente nel suo carro falcato.
Fianco a fianco Bloom, approfittando del contretemps, passò con Stephen attraverso il varco nelle catene, divise da un pilastrino, e, saltando sopra a un lago di lordura, s'incamminò verso Gardiner street inferiore mentre Stephen cantava più baldanzosamente, ma a voce più bassa, la fine della ballata:
Und alle Schiffe brücken.
Il conducente non fece motto né buono né cattivo né indifferente. Si limitò a osservare le due figure, rimanendo seduto sulla vetturetta, ambedue nere - una pingue l'altra esile - che camminavano verso il ponte della ferrovia a farsi sposare da Padre Maher. Nel camminare a volte si fermavano e si riincamminavano continuando il loro téte-à-téte (dal quale, si capisce, egli era tagliato fuori), circa le sirene, nemiche della ragione umana, mescolando insieme diversi altri argomenti analoghi, gli usurpatori, i vari casi che la storia ci tramanda in quel campo, mentre l'uomo della scopatrice o tanto varrebbe dire sonnecchiatrice, che in ogni caso non poteva sentire perché erano troppo lontani, non faceva che rimanere sul suo sedile quasi in fondo a lower Gardiner street “e con gli occhi seguia la vetturetta”.
(James Joyce, Ulysses, traduzione di Giulio de Angelis, pag.585 edizione Oscar Classici Mondadori da me comperato il giorno 11.03.1976).
...E quindi passarono a parlare di musica, una forma d'arte per cui Bloom in qualità di semplice dilettante era posseduto di grande amore, nell'incamminarsi a braccetto attraverso Beresford place. La musica di Wagner, grandiosa nel suo genere, bisognava riconoscerlo, era un po' troppo pesante per Bloom e difficile da seguire alle prime, ma per la musica degli Ugonotti di Mercadante, “Le sette ultime parole di Cristo in Croce” di Meyerbeer, e la Dodicesima Messa di Mozart, ne andava pazzo, il Gloria di quest'ultima essendo per lui l'acme della musica di prim'ordine in quanto tale, che tutto il resto non gli lega neppure i lacci delle scarpe.
Preferiva infinitamente la musica sacra della chiesa cattolica a qualsiasi cosa avesse da offrire quell'altra bottega quanto ad articoli del genere come quegli inni di Moody e Sankey oppure “Dimmi di vivere e vivrò protestante d'esser tuo”. Egli poi non era secondo a nessuno nella sua ammirazione dello Stabat Mater di Rossini, opera veramente strabocchevole di pezzi immortali, in cui sua moglie, Madam Marion Tweedy, aveva fatto colpo, una vera sensazione, non arrossiva a dirlo, aggiungendo una fronda alla sua corona di lauro, e mettendo totalmente in ombra le rivali nella chiesa dei padri gesuiti in Upper Gardiner street, essendo il sacro edificio affollato fino alla porta, per sentirla, di “virtuosos” o piuttosto di “virtuosi”. Unanime fu il giudizio che nessuno le stesse a pari e, basti dire che pur in un luogo di culto e per musica di carattere sacro, unanime fu il desiderio universalmente espresso a gran voce di un bis. Tutto sommato, per quanto prediligesse nettamente l'opera leggera tipo il Don Giovanni, e la Marta, un gioiello nel suo genere, egli aveva un penchant, per quanto frutto d'una conoscenza solo superficiale, per la severa scuola classica come Mendelssohn.
E già che siam dietro a parlarne, dando per certo che egli conosceva tutto di quelle vecchie arie celebri, egli mentovò par excellence l'aria di Lionello nella Marta, M'apparì, che, abbastanza stranamente, egli aveva sentito, o sentito a metà, per esser più precisi, il giorno prima, fortunata coincidenza di cui vivamente si rallegrava, dalle labbra del riverito padre di Stephen, cantata alla perfezione, un'esecuzione invero magistrale, che dava la polvere a tutte le altre. Stephen, in risposta a una domanda cortesemente formulata, affermò di non conoscerla e si imbarcò a fare lodi sperticate delle canzoni di Shakespeare, almeno di quelle del tempo o giù di lì, il liutista Dowland che viveva in Fetter lane accanto a Gerard il botanico, che “anno ludendo hausi, Doulandus”, strumento che aveva in animo di acquistare da Mr Arnold Dolmetsch, di cui Bloom non si ricordava bene, per quanto il nome non gli suonasse certamente nuovo, per sessantacinque ghinee, e Farnaby e Figlio coi loro concetti su dux e comes e Byrd (William) che sonava i virginali egli disse, nella cappella della Regina e ogni dove ne trovasse uno e un certo Tomkins che faceva divertimenti o arie e John Bull.
Sulla strada selciata cui si andavano avvicinando nel parlare, al di là della catena, un, cavallo che trainava una scopatrice misurava il lastrico, spazzando un cumulo allungato di detriti cosicché dal gran rumore Bloom non era del tutto certo d'aver compreso appieno l'allusione alle sessantacinque ghinee e a John Bull. S'informò se non fosse John Bull la notissima celebrità politica di quel nome, come l'idea lo colpiva, essendo i due nomi identici, per singolare coincidenza.
Lungo la catena il cavallo lentamente dette di banda per voltare, il che vedendo, Bloom, che vegliava all'erta come il solito, tirò pian piano l'altro per la manica, osservando scherzosamente:
- Le nostre vite sono in pericolo stanotte. Attenzione al rullo compressore.
Al che si fermarono. Bloom guardava la testa di quel cavallo che non valeva davvero sessantacinque ghinee e che spiccò a un tratto nel buio a lui d'accanto, sì da sembrare altra cosa, un diverso aggruppamento d'ossa e perfino di carne, perché era palesemente un quadrupedante, uno scuotiterga, un chiappenere, un dondolacoda, un ciondolatesta, che avanzava la gamba di dietro mentre il suo signore e creatore era appollaiato lassù a pensare ai casi suoi. Però una brava bestia dopo tutto, gli dispiaceva di non avere una zolletta di zucchero, ma, come saggiamente rifletté, non si può sempre esser pronti a ogni evenienza che dar si può. Era proprio un gran giuggiolone di cavallo nervoso, senza un sol pensiero al mondo. Ma anche un cane, egli rifletté, per esempio quel bastardo da Barney Kiernan, se fosse delle stesse dimensioni, sarebbe un orrore a vedersi. Ma non era colpa di nessun animale in particolare se era costruito in quel modo, come il cammello, nave del deserto, che distilla l'uva in whisky irlandese nella groppa. Nove decimi se ne potevano mettere in gabbia o ammaestrare, nessuno che non fosse soggetto all'arte dell'uomo, se si eccettuano le api; la balena con l'arpone arpione, l'alligatore, fargli il pizzicorino alla coda e sta allo scherzo; traccia un cerchio in terra per il galletto; la tigre, il mio occhio d'aquila. Queste riflessioni di circostanza al riguardo degli animali del creato occupavano la sua mente, alquanto distratta dalle parole di Stephen, mentre la nave della strada stava facendo manovra e Stephen continuava a parlare di quelle interessantissime vecchie...
- Cosa mai stavo dicendo? Ah, sì! Mia moglie, dette a intendere piombando in medias res, sarebbe lietissima di far la sua conoscenza essendo appassionatissima d'ogni genere di musica.
Riguardò di lato amichevolmente il profilo di Stephen, ritratto di sua madre, che non era affatto quel solito tipo di teppista dietro il quale, non c'è dubbio, corrono tutte in frotta e forse non c'era neppure tagliato.
Pure, al supporlo dotato come il padre, ed era qualcosa più che un sospetto il suo, nuove prospettive gli si aprivano in mente, sul tipo del concerto di Lady Fingall a beneficio delle industrie irlandesi del lunedì precedente, e l'aristocrazia in generale.
Si diffondeva ora sulle deliziose variazioni sull'aria Qui gioventù finisce di Jans Pieter Sweelinck, un olandese di Amsterdam, dove fanno le frau. Ancor più gli piaceva una vecchia canzone tedesca di Johannes Jeep sul mare limpido e le voci delle sirene, dolci assassine d'uomini, che rese un po' perplesso Bloom:
Von der Sirenen Listigkeit
Tun die Poeten dichten.
Queste battute d'apertura egli cantò e tradusse ex-tempore. Bloom, annuendo, disse di aver perfettamente capito e lo pregò in tutti i modi di proseguire, il che egli fece.
Una così bella voce di tenore, fenomenale, il più bel dono di natura, che Bloom apprezzò fin dalla prima nota udita, poteva benissimo, se affidata alle sapienti cure di qualche autorità riconosciuta in materia di canto, come Barraclough, e capace di leggere la musica per soprammercato, pretendere quel che voleva dove i baritoni erano a dieci un soldo e procurare al fortunato proprietario in un prossimo futuro una entrée nei salotti alla moda dei quartieri alti, dei magnati della finanza che fanno affari all'ingrosso e gente titolata dove, col suo diploma universitario di B. A. (un buon asso nella manica dopo tutto) e la sua aria distinta, tale da rinforzare ancora la buona impressione, egli certo si sarebbe assicurato un successo non comune, essendo ricco anche di doni intellettuali che avrebbero potuto essere utilizzati all'uopo in questo e altri casi, se qualcuno si fosse curato un po' del suo vestiario, in modo da poter meglio insinuarsi nelle loro grazie, poiché lui, recluta imberbe in fatto di sottigliezze sartoriali dell'alta società, non arrivava davvero a capire quanto una cosa così insignificante mal vi deponga contro. Era in effetti solo una questione di qualche mese e già gli sembrava di vederlo prender parte alle loro conversaziones artistiche e musicali durante le festività della stagione natalizia, a preferenza, provocando un lieve brivido nelle colombaie del gentil sesso ed essendo portato in palma di mano da signore a caccia di sensazioni, ed erano casi, quelli, di cui, ben lo sapeva, si serbava testimonianza, e in effetti, senza voler vantarsi, anche lui, ai bei tempi, se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo... A ciò si aggiunga naturalmente, l'emolumento pecuniario davanti a cui non bisogna torcere il naso, e insieme la remunerazione professionale. Non che, aggiunse a mo' di parentesi, per amor del vile metallo egli dovesse di necessità abbracciare la carriera di cantante come modus vivendi per molti anni a venire, quello era solo un passo nella giusta direzione, non c'era discussione, e sia da un punto di vista monetario sia mentale la cosa non influiva per nulla sulla sua dignità, e spesso cadeva enormemente acconcio ricevere un assegno al momento della necessità quando anche un nonnulla serviva. Inoltre, benché il gusto da ultimo si fosse notevolmente deteriorato, una musica originale, come quella, differente dall'usata, sarebbe divenuta rapidamente di gran moda, e sarebbe stata certamente una novità per il mondo musicale di Dublino, dopo una serqua di tenori a effetto che Ivan St Austell e Hilton St Just e il loro genus omne avevano imposto a un pubblico accomodante. Sì, senza l'ombra di un dubbio, poteva benissimo riuscirci, con tutte quelle briscole in mano, e aveva una magnifica occasione di farsi un nome e conquistarsi un posto elevato nella considerazione dei concittadini dai quali poteva pretendere delle belle somme di danaro, e, su prenotazione, dare un gran concerto per i frequentatori della sala di King street, se trovava chi lo sosteneva, qualcuno che gli desse una mano ad arrampicarsi in alto, per così dire, - c'era questo gran se - con un po' di slancio o la va o la spacca che compensasse l'inevitabile procrastinazione in cui spesso restano impigliati i ragazzi viziati dalla gloria e la cosa non avrebbe impedito il resto di un ette, poiché, essendo padrone di se stesso, avrebbe avuto un sacco di tempo per coltivare la letteratura nei ritagli di tempo, quando gliene venisse voglia senza che ciò contrastasse alla sua carriera canora o implicasse qualcosa di men che onesto poiché la faccenda riguardava lui solo. In effetti, non aveva che a stendere la mano ed era
proprio questa la ragione per cui l'altro, che aveva un fiuto fenomenale peggio di un cane da tartufi, gli si era messo alle calcagna.
Il cavallo proprio in quel momento... e più tardi, quando se ne desse l'occasione egli aveva in animo (Bloom, s'intende) senza voler per questo ficcare il naso nei suoi affari privati, sulla base del principio che gli sciocchi si avventurano là dove gli Angeli, di consigliarlo a romperla con un certo praticone in erba il quale, egli aveva notato, era incline a denigrarlo, e persino, fino a un certo punto, col pretesto di celiare, quando non era presente, a disprezzarlo, o comunque si voglia dire, il che a modesto avviso di Bloom, caratterizzava il carattere di quel signorino - scusate il gioco di parole. Il cavallo non sapendo più dove batter la testa, per così dire, si fermò e sollevando il superbo pennacchio della coda, volle aggiungere il suo obolo lasciando cadere al suolo, che la scopatrice avrebbe presto ripulito e messo a nuovo, tre stronzi globosi e fumanti. Lentamente, tre volte, uno dopo l'altro, giù dal grosso deretano, venne scacazzando. E umanamente il suo conducente attese finché lui (o lei) avesse finito, paziente nel suo carro falcato.
Fianco a fianco Bloom, approfittando del contretemps, passò con Stephen attraverso il varco nelle catene, divise da un pilastrino, e, saltando sopra a un lago di lordura, s'incamminò verso Gardiner street inferiore mentre Stephen cantava più baldanzosamente, ma a voce più bassa, la fine della ballata:
Und alle Schiffe brücken.
Il conducente non fece motto né buono né cattivo né indifferente. Si limitò a osservare le due figure, rimanendo seduto sulla vetturetta, ambedue nere - una pingue l'altra esile - che camminavano verso il ponte della ferrovia a farsi sposare da Padre Maher. Nel camminare a volte si fermavano e si riincamminavano continuando il loro téte-à-téte (dal quale, si capisce, egli era tagliato fuori), circa le sirene, nemiche della ragione umana, mescolando insieme diversi altri argomenti analoghi, gli usurpatori, i vari casi che la storia ci tramanda in quel campo, mentre l'uomo della scopatrice o tanto varrebbe dire sonnecchiatrice, che in ogni caso non poteva sentire perché erano troppo lontani, non faceva che rimanere sul suo sedile quasi in fondo a lower Gardiner street “e con gli occhi seguia la vetturetta”.
(James Joyce, Ulysses, traduzione di Giulio de Angelis, pag.585 edizione Oscar Classici Mondadori da me comperato il giorno 11.03.1976).
mercoledì 15 giugno 2011
Erbacce ( II )
Tra le erbe che crescono spontanee, nei prati e ai bordi delle strade, molte appartengono alle graminacee, cioè producono spighe e chicchi, varianti selvatiche e talvolta antenati di specie che vengono da secoli selezionate e coltivate. Una di queste è stata uno dei miei giochi da bambino, una spiga molto appuntita che si usava come freccetta: si infilava benissimo nei maglioni e nelle magliette tipo quelle che oggi si chiamano polo, la maglieria si prestava benissimo, le camicie e le magliette di cotone molto meno.
Ho scoperto non molti anni fa (da adulti a tante cose si smette di pensarci, ed è un peccato) che è una variante dell’orzo, addirittura il nome è molto simile: Hordeum disticum è la spiga selvatica, Hordeum volgare è l’orzo coltivato (la differenza sta in quel “disticum”, ma spiegarlo bene è roba da botanici). In italiano, la mia spiga selvatica prende il nome di “forasacchi”, una parola che io non ho mai sentito usare. Anzi, a dire il vero, non mi risulta che qui da noi questa spiga abbia un nome, nemmeno in dialetto: è una spiga, un’erbaccia, e basta. Se una cosa non è buona da mangiare, o non serve per qualcosa di utile, per i nostri vecchi non meritava nemmeno un nome.
C’è anche un’avena selvatica, tra le erbacce: ne esistono anzi diverse varietà, che si chiamano Avena fatua (bel nome), Avena pratensis, Avena pubescens, Avena sativa. Molte di queste varietà “infestanti” sono l’alimentazione delle mucche al pascolo, però per giocare con le freccette l’avena non va bene; al massimo, si possono raccogliere i chicchi nella mano e poi buttarli addosso agli altri bambini, ma così è molto meno divertente.
Le illustrazioni vengono da Wikipedia, e da vari siti in rete che al momento non saprei rintracciare (me ne scuso).
Ho scoperto non molti anni fa (da adulti a tante cose si smette di pensarci, ed è un peccato) che è una variante dell’orzo, addirittura il nome è molto simile: Hordeum disticum è la spiga selvatica, Hordeum volgare è l’orzo coltivato (la differenza sta in quel “disticum”, ma spiegarlo bene è roba da botanici). In italiano, la mia spiga selvatica prende il nome di “forasacchi”, una parola che io non ho mai sentito usare. Anzi, a dire il vero, non mi risulta che qui da noi questa spiga abbia un nome, nemmeno in dialetto: è una spiga, un’erbaccia, e basta. Se una cosa non è buona da mangiare, o non serve per qualcosa di utile, per i nostri vecchi non meritava nemmeno un nome.
C’è anche un’avena selvatica, tra le erbacce: ne esistono anzi diverse varietà, che si chiamano Avena fatua (bel nome), Avena pratensis, Avena pubescens, Avena sativa. Molte di queste varietà “infestanti” sono l’alimentazione delle mucche al pascolo, però per giocare con le freccette l’avena non va bene; al massimo, si possono raccogliere i chicchi nella mano e poi buttarli addosso agli altri bambini, ma così è molto meno divertente.
Le illustrazioni vengono da Wikipedia, e da vari siti in rete che al momento non saprei rintracciare (me ne scuso).
martedì 14 giugno 2011
Erbacce ( I )
Nel regno dei diserbanti, cioè quel posto disperato in cui mi è toccato vivere da adulto, le erbacce sono diventate qualcosa di commovente. Nel regno dell’asfalto e del cemento, nel mondo in cui una lucertola o una cavalletta possono fare spavento, mi tocca andare in cerca delle erbacce sopravvissute: chi mai l’avrebbe detto.
Molte di queste sono erbe officinali, usate da secoli in erboristeria: oggi non so se mi azzarderei a raccoglierle e ad usarle per tisane e infusi, l’uomo ha versato troppi veleni, ormai anche raccogliere e mangiare la cicoria selvatica (come si fa da sempre) è diventato un rischio troppo grande. Ma, comunque, le erbacce sono robuste e crescono lo stesso.
Da bambino mi chiedevo perché le chiamassero erbacce: sono quasi tutte erbe belle, d’aspetto gentile, con dei bei fiori. Mi avevano spiegato che sono “erbe infestanti”: quando si coltiva qualcosa, vanno tolte perché tolgono spazio e nutrimento ai pomodori, all’insalata, al frumento. Così è tutto più chiaro, “erbe infestanti” mi era sembrato da subito un nome più giusto, più esatto: anche perché rimetteva le cose al loro posto, “infestanti” era il nostro punto di vista, quello degli umani, dei coltivatori. Per avere i pomodori in giardino, dunque, era lecito togliere via le erbe infestanti; che comunque potevano crescere rigogliose nei prati, nei fossi, tra i sassi dei muri, dovunque fosse loro consentito e dove non davano fastidio.
E’ stato così per millenni, ma questa nostra ultima generazione appare decisa a non tollerarne l’esistenza; l’invenzione dei diserbanti e la loro messa in commercio spesso impedisce che si vedano. E poi, là dove passavo tutti i giorni uscendo di casa per andare a scuola, o al lavoro, adesso hanno costruito; nei prati dove andavo a giocare c’è il parcheggio di un supermercato, lì vicino scorrono le terze, quarte, quinte, seste, settime, millesime corsie di una qualche autostrada.
La nascita, la crescita, e la fioritura delle erbacce sono quindi diventate una specie di miracolo, qui in Lombardia: una volta era solo Milano, oggi è così dappertutto. Nelle aiuole e nei parchi ancora esistenti, scorrazzano cani sempre più grossi che lasciano ricordi ovunque; il comune decide di dare multe, costringe a girare con i guanti e i sacchetti, ma che mondo è mai diventato? Quando mai si è visto il padrone di un cane girare a raccogliere gli escrementi? La risposta è semplice: da quando si è costruito ovunque, da quando sono scomparsi i prati, i campi, i muri di mattoni; da quando abbiamo perso il contatto con la natura. Ormai è tardi per correggersi, dal cemento e dall’asfalto non si torna più indietro; però le erbacce sono resistenti, quando noi non ci saremo più loro potranno riprendere a crescere come hanno sempre fatto.
Comincio questo mio giro tra le erbacce (delle quali cerco da sempre di ricordare i nomi senza mai riuscirci, domani me li sarò di nuovo dimenticati), dal cuoricino. Io l’ho sempre chiamato così, la pianta dei cuoricini: in seguito ho scoperto che la chiamano “borsa del pastore”, ma a me è sempre sembrato un nome sbagliato. Magari la forma è quella, ma una borsa è qualcosa che si consuma, che si sporca, che si piega e si deforma: invece questi “cuoricini” sono sempre nuovi, sempre belli lucenti, pieni di vita. I cuoricini piacciono molto ai canarini, e da bambino mi avevano insegnato a raccoglierli per questo scopo; il loro nome scientifico è “capsella bursa-pastoris”, fanno parte delle crocifere (brassicacee) e crescono nei terreni sabbiosi.
Le illustrazioni vengono da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio.
Molte di queste sono erbe officinali, usate da secoli in erboristeria: oggi non so se mi azzarderei a raccoglierle e ad usarle per tisane e infusi, l’uomo ha versato troppi veleni, ormai anche raccogliere e mangiare la cicoria selvatica (come si fa da sempre) è diventato un rischio troppo grande. Ma, comunque, le erbacce sono robuste e crescono lo stesso.
Da bambino mi chiedevo perché le chiamassero erbacce: sono quasi tutte erbe belle, d’aspetto gentile, con dei bei fiori. Mi avevano spiegato che sono “erbe infestanti”: quando si coltiva qualcosa, vanno tolte perché tolgono spazio e nutrimento ai pomodori, all’insalata, al frumento. Così è tutto più chiaro, “erbe infestanti” mi era sembrato da subito un nome più giusto, più esatto: anche perché rimetteva le cose al loro posto, “infestanti” era il nostro punto di vista, quello degli umani, dei coltivatori. Per avere i pomodori in giardino, dunque, era lecito togliere via le erbe infestanti; che comunque potevano crescere rigogliose nei prati, nei fossi, tra i sassi dei muri, dovunque fosse loro consentito e dove non davano fastidio.
E’ stato così per millenni, ma questa nostra ultima generazione appare decisa a non tollerarne l’esistenza; l’invenzione dei diserbanti e la loro messa in commercio spesso impedisce che si vedano. E poi, là dove passavo tutti i giorni uscendo di casa per andare a scuola, o al lavoro, adesso hanno costruito; nei prati dove andavo a giocare c’è il parcheggio di un supermercato, lì vicino scorrono le terze, quarte, quinte, seste, settime, millesime corsie di una qualche autostrada.
La nascita, la crescita, e la fioritura delle erbacce sono quindi diventate una specie di miracolo, qui in Lombardia: una volta era solo Milano, oggi è così dappertutto. Nelle aiuole e nei parchi ancora esistenti, scorrazzano cani sempre più grossi che lasciano ricordi ovunque; il comune decide di dare multe, costringe a girare con i guanti e i sacchetti, ma che mondo è mai diventato? Quando mai si è visto il padrone di un cane girare a raccogliere gli escrementi? La risposta è semplice: da quando si è costruito ovunque, da quando sono scomparsi i prati, i campi, i muri di mattoni; da quando abbiamo perso il contatto con la natura. Ormai è tardi per correggersi, dal cemento e dall’asfalto non si torna più indietro; però le erbacce sono resistenti, quando noi non ci saremo più loro potranno riprendere a crescere come hanno sempre fatto.
Comincio questo mio giro tra le erbacce (delle quali cerco da sempre di ricordare i nomi senza mai riuscirci, domani me li sarò di nuovo dimenticati), dal cuoricino. Io l’ho sempre chiamato così, la pianta dei cuoricini: in seguito ho scoperto che la chiamano “borsa del pastore”, ma a me è sempre sembrato un nome sbagliato. Magari la forma è quella, ma una borsa è qualcosa che si consuma, che si sporca, che si piega e si deforma: invece questi “cuoricini” sono sempre nuovi, sempre belli lucenti, pieni di vita. I cuoricini piacciono molto ai canarini, e da bambino mi avevano insegnato a raccoglierli per questo scopo; il loro nome scientifico è “capsella bursa-pastoris”, fanno parte delle crocifere (brassicacee) e crescono nei terreni sabbiosi.
Le illustrazioni vengono da “Che fiore è questo” di D.Aichele e M.Golte-Bechle, editore Franco Muzzio.
lunedì 13 giugno 2011
Toporagno
Il toporagno sembra proprio un topo, e infatti al topo somiglia moltissimo, anch’io pensavo di aver preso in trappola uno di quei topini di campagna che da sempre abitano nei dintorni del mio garage, e invece no, era un toporagno: e di questo mi dispiace moltissimo. Mi dispiace sempre per i topini, figuriamoci per il toporagno. I topi sono invadenti, sporcano, rosicchiano; il toporagno no, lui mangia solo insetti e vermi, vive nella terra morbida dei prati, e se è entrato nel mio garage è solo perché stava inseguendo una qualche sua preda.
Bisogna guardargli il muso: il toporagno è parente della talpa e del riccio. Il toporagno è infatti un insettivoro (famiglia dei soricidi, o soriformi), non è un roditore e quindi non ha i denti da topo, o da coniglio. Si muove velocissimo, frenetico; ed è ben strano, a pensarci, che non sia mai stato protagonista di un cartone animato: lo avrei visto benissimo al fianco di Bugs Bunny, o meglio ancora come amico di Speedy Gonzales. Del resto, si sa, Gatto Silvestro non sarebbe stato lì a far tanto il sofistico: se sembra un topo, è un topo. O no?
PS: in Africa esiste anche il toporagno elefante, che ha la testa rotonda e il musetto meno lungo, ma con il naso così proteso da sembrare davvero una proboscide: più che a un topo somiglia a un criceto, o magari a un ratto (dipende dalle dimensioni...).
PPS: faccio notare che io continuo a usare la terminologia in uso negli anni ’60: non perché io ci sia particolarmente affezionato, ma perché trovo la nuova classificazione inutilmente complicata. Invece di inserire nuove categorie, di smembrare ordini e famiglie, sarebbe stato meglio continuare a giocare sulle specie e sui loro nomi, come si faceva prima. Alle volte si pensa di essere più precisi aumentando le categorie e spezzettando in più volumi quello che prima stava in uno solo, ma più si complicano le cose, più si fa confusione. Chiedo scusa per la piccola polemica e la chiudo subito, però prima devo dire che sono contento di non dover passare esami all’università. E’ venuta su una tal categoria di burocrati...(una generazione intera, forse anche due: e in ogni campo, mica solo nei toporagni).
(le immagini vengono da wikipedia e da libri e riviste, salvo miei errori di catalogazione)
Bisogna guardargli il muso: il toporagno è parente della talpa e del riccio. Il toporagno è infatti un insettivoro (famiglia dei soricidi, o soriformi), non è un roditore e quindi non ha i denti da topo, o da coniglio. Si muove velocissimo, frenetico; ed è ben strano, a pensarci, che non sia mai stato protagonista di un cartone animato: lo avrei visto benissimo al fianco di Bugs Bunny, o meglio ancora come amico di Speedy Gonzales. Del resto, si sa, Gatto Silvestro non sarebbe stato lì a far tanto il sofistico: se sembra un topo, è un topo. O no?
PS: in Africa esiste anche il toporagno elefante, che ha la testa rotonda e il musetto meno lungo, ma con il naso così proteso da sembrare davvero una proboscide: più che a un topo somiglia a un criceto, o magari a un ratto (dipende dalle dimensioni...).
PPS: faccio notare che io continuo a usare la terminologia in uso negli anni ’60: non perché io ci sia particolarmente affezionato, ma perché trovo la nuova classificazione inutilmente complicata. Invece di inserire nuove categorie, di smembrare ordini e famiglie, sarebbe stato meglio continuare a giocare sulle specie e sui loro nomi, come si faceva prima. Alle volte si pensa di essere più precisi aumentando le categorie e spezzettando in più volumi quello che prima stava in uno solo, ma più si complicano le cose, più si fa confusione. Chiedo scusa per la piccola polemica e la chiudo subito, però prima devo dire che sono contento di non dover passare esami all’università. E’ venuta su una tal categoria di burocrati...(una generazione intera, forse anche due: e in ogni campo, mica solo nei toporagni).
(le immagini vengono da wikipedia e da libri e riviste, salvo miei errori di catalogazione)
domenica 12 giugno 2011
Pubblicità 18
Di scemenze in pubblicità ormai ne ho viste tante, ma tra gli spot più inaspettati della mia vita metterei sicuramente quello della fascia colorata che ti segnala quando la lametta del rasoio è da cambiare. Ma fin qui come avevamo fatto, mi sono chiesto; e la risposta è semplice, si fa così: quando passi la lametta sulla guancia e toccando la pelle con le dita ti accorgi che non taglia più e che i peli sono rimasti lì, cambi la lametta. Rischi non se ne corrono: una lametta che non taglia, in fin dei conti, è soltanto una lametta che non taglia. Qualche rischio lo corro con la lametta nuova, che è molto affilata: ma, prima che ci mettano su un segnale che indica “attenzione lametta affilata” dico subito che mi rado regolarmente dal 1972, quindi qualche esperienza ce l’ho, mica sto parlando a vanvera e – anzi – adesso che ci penso dovrei farmi pagare per questa importantissima consulenza, e invece la do via a gratis, pensa un po’ che roba.
Mi ha divertito molto anche vedere la pubblicità che metto qui sopra, che è del genere di quelle che ti fanno dire “Ah, ecco...”. Vale a dire: “ah, ecco: l’avevo detto io che il rasoio elettrico mi irrita la pelle” (è per questo che uso le lamette), e invece loro mi spiegavano (scuotendo la testa, come si fa coi bambini) che ero io a sbagliare. Adesso ecco qui, ci hanno messo una decina d’anni ma finalmente ammettono che avevo ragione io: il rasoio elettrico “adesso non irrita”. E hanno anche quantificato il difetto: il cinquanta per cento in meno di rossore. Caspita, sono stati bravi, hanno addirittura dimezzato l'irritazione: a me sarebbe bastato anche il ventisei-ventisette e mezzo, o il trentadue per cento, invece sono arrivati fino al cinquanta. Coraggio, ancora qualche ricerca di laboratorio e arriveremo al sessantanove virgola cinque per cento, alleluia!
E’ un po’ la stessa cosa che capita con il caffè decaffeinato, tutti lì a spiegarti che il sapore non cambia, per anni, finché non arriva lo spot che dice a chiare lettere: “adesso è come il caffè normale”. E anche qui viene da dire: “ah, ecco...”. Erano anni che lo dicevo, che il sapore era meno buono, e adesso mi state dando ragione... Va beh, meglio tardi che mai.
Un altro segnale colorato lo hanno messo sugli spazzolini da denti: ecco un’altra cosa indispensabile, e io che pensavo che bastasse guardargli addosso, alle setole... Come abbiamo fatto a sopravvivere, fin qui, a questa mancanza? Certo che se ne imparano di cose, guardando la pubblicità.
Però sugli spazzolini da denti una cosa seria da dire ce l’ho: ho già girato tre supermercati e due farmacie, ho perso tre quarti d’ora a guardare bene sugli scaffali, ma lo spazzolino da denti normale non esiste più. Lo spazzolino che ho sempre comperato e che funzionava benissimo, senza gadget e che costava pochissimo: non c’è più, ci sono solo spazzolini intergalattici e spazzolini da formula uno. Ne ho parlato di recente con la mia dentista, dopo una pulizia accurata, e mi ha confermato che gli spazzolini intergalattici e super accessoriati non servono a niente. E mi ha fatto vedere lo spazzolino da denti più normale del mondo: “E’ questo!” ho detto io, e le ho spiegato che non si trova più da nessuna parte, nemmeno ai discount. “E’ perché costa troppo poco”, ha concluso lei, e non mi è rimasto che darle ragione.
Mi ha divertito molto anche vedere la pubblicità che metto qui sopra, che è del genere di quelle che ti fanno dire “Ah, ecco...”. Vale a dire: “ah, ecco: l’avevo detto io che il rasoio elettrico mi irrita la pelle” (è per questo che uso le lamette), e invece loro mi spiegavano (scuotendo la testa, come si fa coi bambini) che ero io a sbagliare. Adesso ecco qui, ci hanno messo una decina d’anni ma finalmente ammettono che avevo ragione io: il rasoio elettrico “adesso non irrita”. E hanno anche quantificato il difetto: il cinquanta per cento in meno di rossore. Caspita, sono stati bravi, hanno addirittura dimezzato l'irritazione: a me sarebbe bastato anche il ventisei-ventisette e mezzo, o il trentadue per cento, invece sono arrivati fino al cinquanta. Coraggio, ancora qualche ricerca di laboratorio e arriveremo al sessantanove virgola cinque per cento, alleluia!
E’ un po’ la stessa cosa che capita con il caffè decaffeinato, tutti lì a spiegarti che il sapore non cambia, per anni, finché non arriva lo spot che dice a chiare lettere: “adesso è come il caffè normale”. E anche qui viene da dire: “ah, ecco...”. Erano anni che lo dicevo, che il sapore era meno buono, e adesso mi state dando ragione... Va beh, meglio tardi che mai.
Un altro segnale colorato lo hanno messo sugli spazzolini da denti: ecco un’altra cosa indispensabile, e io che pensavo che bastasse guardargli addosso, alle setole... Come abbiamo fatto a sopravvivere, fin qui, a questa mancanza? Certo che se ne imparano di cose, guardando la pubblicità.
Però sugli spazzolini da denti una cosa seria da dire ce l’ho: ho già girato tre supermercati e due farmacie, ho perso tre quarti d’ora a guardare bene sugli scaffali, ma lo spazzolino da denti normale non esiste più. Lo spazzolino che ho sempre comperato e che funzionava benissimo, senza gadget e che costava pochissimo: non c’è più, ci sono solo spazzolini intergalattici e spazzolini da formula uno. Ne ho parlato di recente con la mia dentista, dopo una pulizia accurata, e mi ha confermato che gli spazzolini intergalattici e super accessoriati non servono a niente. E mi ha fatto vedere lo spazzolino da denti più normale del mondo: “E’ questo!” ho detto io, e le ho spiegato che non si trova più da nessuna parte, nemmeno ai discount. “E’ perché costa troppo poco”, ha concluso lei, e non mi è rimasto che darle ragione.
sabato 11 giugno 2011
Pubblicità 17
Mi tocca guardare un po’ in giro perché non la riconosco subito, ci sono tante marche al supermercato che trovare quello che cerchi diventa difficile: ed è una fortuna, sia ben chiaro, ma bisogna avere buona vista e anche essere alto un metro e novanta mi aiuta. Ogni tanto trovo una signora piccolina che mi chiede se le posso prendere quella scatola lì in alto, e io aiuto sempre: mi fa piacere, così come sono contento quando i bambini piccoli mi salutano contenti (forse pensano che io sia Bud Spencer, cosa della quale sono ben lieto: anzi, un giorno di questi mi faccio ricrescere la barba).
Comunque sia, prendo dallo scaffale la marca di verdura in scatola che conosco e che so già che è buona, mi fido, controllo comunque il prezzo, metto in borsa e porto a casa. Arrivato a casa capisco cosa c’era che non mi tornava: hanno cambiato la confezione, quella da tre scatole, l’involucro di cartoncino, che prima era molto più semplice. Adesso è più colorato e ci sono sopra delle figurine, delle personcine, delle fotografie: meraviglia delle meraviglie, sono proprio loro, gli agricoltori che coltivano i fagioli!
Avevo una gran voglia di conoscerli: si chiamano Loris, Stefania e Luigi. Loris ha in mano un vasetto con una piantina, Stefania ha un catino (no, forse è un cesto, ma di plastica), e Luigi è laggù in fondo con la zappa, che lavora (uno che lavora ci vuole, bravo Luigi). Era ora! Finalmente un po’ di spazio alle persone che lavorano e che producono, che caspita!
Ma poi guardo meglio, e più guardo più mi convinco che quelli lì non possono essere Loris, Stefania e Luigi. A me sembrano più Beppe, Antonio e Lucia: oltretutto, Loris ha sposato mia cugina, l’ho visto due giorni fa, sta bene, è alto e slanciato, elegante, non somiglia per niente a questo qui della foto. Questo signore qui invece ha una faccia simpatica ma è tarchiato, un po’ goffo, impacciato. No, non può essere Loris: secondo me è Beppe, ma potrei sbagliarmi. Aspetta che guardo meglio. Il terzo della fila potrebbe essere Carletto: ma no, Carletto era uno che veniva a scuola con me, adesso fa il gommista a Milano. No no, niente Carletto: devo ammetterlo, Carletto era una falsa pista.
No, secondo me quelli lì sono proprio Beppe, Antonio e Lucia. Più guardo quella bella signora mora, e più mi convinco che è Lucia: la conoscevo vent’anni fa, potrebbe essere davvero lei. Andavano sempre insieme, Lucia con Beppe e con Antonio: Antonio è suo fratello, Beppe è il cognato. Il marito di Lucia si chiama Filippo, ma è sempre stato un tipo un po’ schivo, non mi stupisce che nelle foto non ci sia: forse è quella là che lavora in mezzo all’erba, sull’altro lato della confezione. Non che io sia sicuro al cento per cento, ma, come direbbe l'armigero Ferrando nel “Trovatore”, “ragionando sugli anni trascorsi...”
PS: adesso che guardo meglio, Luigi non sta lavorando: si è fermato, guarda gli altri due, e sembra dire: «Ma allora, quand’è che la finiamo con questa pagliacciata?».
PPS: guardando ancora meglio, leggo che questi fagioli sono prodotti da Loris, da Luigi, e persino da Stefania (chi l'avrebbe mai detto!) utilizzando energia eolica: chissà cosa ne direbbe Alvaro Vitali. Mah, meglio non pensarci...che dire, questi sono dettagli, sorvoliamo.
Comunque sia, prendo dallo scaffale la marca di verdura in scatola che conosco e che so già che è buona, mi fido, controllo comunque il prezzo, metto in borsa e porto a casa. Arrivato a casa capisco cosa c’era che non mi tornava: hanno cambiato la confezione, quella da tre scatole, l’involucro di cartoncino, che prima era molto più semplice. Adesso è più colorato e ci sono sopra delle figurine, delle personcine, delle fotografie: meraviglia delle meraviglie, sono proprio loro, gli agricoltori che coltivano i fagioli!
Avevo una gran voglia di conoscerli: si chiamano Loris, Stefania e Luigi. Loris ha in mano un vasetto con una piantina, Stefania ha un catino (no, forse è un cesto, ma di plastica), e Luigi è laggù in fondo con la zappa, che lavora (uno che lavora ci vuole, bravo Luigi). Era ora! Finalmente un po’ di spazio alle persone che lavorano e che producono, che caspita!
Ma poi guardo meglio, e più guardo più mi convinco che quelli lì non possono essere Loris, Stefania e Luigi. A me sembrano più Beppe, Antonio e Lucia: oltretutto, Loris ha sposato mia cugina, l’ho visto due giorni fa, sta bene, è alto e slanciato, elegante, non somiglia per niente a questo qui della foto. Questo signore qui invece ha una faccia simpatica ma è tarchiato, un po’ goffo, impacciato. No, non può essere Loris: secondo me è Beppe, ma potrei sbagliarmi. Aspetta che guardo meglio. Il terzo della fila potrebbe essere Carletto: ma no, Carletto era uno che veniva a scuola con me, adesso fa il gommista a Milano. No no, niente Carletto: devo ammetterlo, Carletto era una falsa pista.
No, secondo me quelli lì sono proprio Beppe, Antonio e Lucia. Più guardo quella bella signora mora, e più mi convinco che è Lucia: la conoscevo vent’anni fa, potrebbe essere davvero lei. Andavano sempre insieme, Lucia con Beppe e con Antonio: Antonio è suo fratello, Beppe è il cognato. Il marito di Lucia si chiama Filippo, ma è sempre stato un tipo un po’ schivo, non mi stupisce che nelle foto non ci sia: forse è quella là che lavora in mezzo all’erba, sull’altro lato della confezione. Non che io sia sicuro al cento per cento, ma, come direbbe l'armigero Ferrando nel “Trovatore”, “ragionando sugli anni trascorsi...”
PS: adesso che guardo meglio, Luigi non sta lavorando: si è fermato, guarda gli altri due, e sembra dire: «Ma allora, quand’è che la finiamo con questa pagliacciata?».
PPS: guardando ancora meglio, leggo che questi fagioli sono prodotti da Loris, da Luigi, e persino da Stefania (chi l'avrebbe mai detto!) utilizzando energia eolica: chissà cosa ne direbbe Alvaro Vitali. Mah, meglio non pensarci...che dire, questi sono dettagli, sorvoliamo.
venerdì 10 giugno 2011
Balle romane
Mi è piaciuto molto questo titolo in prima pagina del quotidiano di Como “La Provincia”, e lo riporto qui così come l’ho trovato: “TRASPORTI SEMPRE PEGGIO PER I TAGLI ROMANI – TRENI E BUS ARRIVA UN’ALTRA STANGATA”. Tagli romani, o “balle romane”, come si diceva una volta? Sono tagli valtellinesi, mi vien da dire: cioè di Sondrio, casa Tremonti. Faccio un breve riepilogo della “romanità” di questo governo, e poi lascio a voi decidere: è di Sondrio il ministro per l’Economia, è di Varese il ministro degli Interni, è di Bergamo il ministro della Semplificazione, è di Gemonio il ministro delle Riforme, è di Brescia il ministro dell’Istruzione, e – ciliegina sulla torta – il Presidente del Consiglio è milanese e abita a Monza Brianza, provincia di Arcore. Ma di sicuro me ne sono dimenticato qualcuno, magari la signora Brambilla o la cuneese Santanché, il veneziano Brunetta, il lecchese Castelli, o magari Ignazio La Russa, milanese da più di quarant’anni, ministro della Difesa.
Che dire? Una volta sulla testata della “Provincia” c’era scritto “quotidiano indipendente”, oggi quella scritta non c’è più, e direi che hanno fatto bene a toglierla. Ma fosse tutto qui, il problema, fosse solo per quello che scrivono sui giornali...Magari fosse tutto qui, magari...
Che dire? Una volta sulla testata della “Provincia” c’era scritto “quotidiano indipendente”, oggi quella scritta non c’è più, e direi che hanno fatto bene a toglierla. Ma fosse tutto qui, il problema, fosse solo per quello che scrivono sui giornali...Magari fosse tutto qui, magari...
giovedì 9 giugno 2011
Altri miracoli postali
Tiro fuori la posta dalla cassetta e faccio la distribuzione: questa è per Aldo, questa è per Gino, questa è per la signora del terzo piano...E per me, niente? Eppure la cassetta della posta è la mia, almeno una busta me la sarei meritata.
La settimana scorsa è successo il contrario, cioè che Aldo è venuto giù da me con una busta che era mia: quando passa il postino della XXX (cioè la concorrenza di Poste Italiane) fa sempre così, prende le buste e le infila tutte nella prima cassetta che trova, così si fa prima. Ieri ho trovato una busta infilata nel citofono: non so come ha fatto, ha trovato chiuso e doveva consegnare la busta, nel citofono c’era una fessurina e ce l’ha infilata dentro. Era lì che svolazzava, ma che fare? Non era mia, magari la mia era già volata via lontano, ma che fare? Intanto io (e non è la prima volta, né sarà l’ultima) sono qui che ho in mano la corrispondenza di altre persone, sono cose della Banca, potrei aprire e curiosare e poi buttar via tutto, tanto chi se ne accorge; e la stessa cosa potrebbe capitare con la mia, di corrispondenza. La cosa divertente (si fa per dire: dipende dall’umore della giornata) è quando ti cade l’occhio sul posto dove una volta c’era il francobollo: c’è un’elegante miniatura in colore lieve e la dicitura “posta certa”. Ah, questa dunque sarebbe la famosa posta certa. Con i privati, si sa, le cose funzionano meglio: vuoi mettere rispetto alla sonnolenta burocratica statalizzazione di una volta? Adesso invece sì che si va benone, lo ripetono tutti i giorni in tv e dai giornali, e questo ne è un magnifico esempio – tenuto conto che si tratta quasi soltanto della corrispondenza con la Banca e l’Assicurazione, tocco ferro e faccio gli scongiuri: speriamo che non succeda niente...(e se invece tornassimo al corriere a cavallo?)
L'ultima novità a cui ho assistito è questa: prima di buttare le lettere a casaccio sulle scale, o di infilarle nel battente del portone d'ingresso, l'incaricato della Posta Certa tira fuori un lettore di codici a barre e fa "plip!" su ogni busta. Penso che voglia dire che la busta è stata consegnata, ma magari si potrebbe risparmiare ulteriormente, fare "plip!" in ufficio e buttare via direttamente le buste - lo dico perché ne ho già raccolte due o tre, di queste buste "Posta Certa", e poi il postino l'ho fatto io, ma i "plip!", ve l'assicuro, li ho visti e ascoltati.
Non che le cose vadano meglio con Poste Italiane: che ormai fanno passare il postino due volte alla settimana, o magari anche meno. Ero abbonato a diverse riviste da quand’ero bambino, ma da un paio d’anni, ormai, ho dismesso tutti gli abbonamenti: una settimana la rivista arriva, l’altra no, poi ne arrivano quattro tutte insieme, poi niente, poi chissà. E mi viene sempre più in mente l’aneddoto dell’ufficiale delle colonie inglesi, nell’Ottocento, che era su un’isola sperduta e si vedeva arrivare il Times una volta ogni tre mesi, e davanti al pacco di tre mesi di giornali si chiedeva: “da dove comincio, dal numero più recente o da quello più vecchio?”.
Le Poste Italiane si sono invece inventate la “posta massiva”, come documenta il timbro-francobollo qui sotto: cosa mai significa, “massiva”? E’ un neologismo per me incomprensibile; giro la busta e leggo che, in caso di mancato recapito, “pregasi restituire al mittente”. Che non è il mio ufficio postale qui a trecento metri da casa, è la “d.b.-centro servizi-piazza del calendario, 3 – 20126 milano”. Cioè, se trovo per strada una busta come questa devo prender su, andare fino a Milano e la devo riportare in quel posto lì? Faccio prima a buttarla via, tanto se non c’è su il mio nome, chi se ne frega.
Intanto che penso a dov’è la piazza del calendario, mi viene in mente una soluzione dell’enigma: posta massiva va sicuramente letto alla francese, con l’accento sull’ultima vocale: “massivà”. Cioè: posta? ma sì, va...Lassa che la vaga, la posta, ma sì...
La settimana scorsa è successo il contrario, cioè che Aldo è venuto giù da me con una busta che era mia: quando passa il postino della XXX (cioè la concorrenza di Poste Italiane) fa sempre così, prende le buste e le infila tutte nella prima cassetta che trova, così si fa prima. Ieri ho trovato una busta infilata nel citofono: non so come ha fatto, ha trovato chiuso e doveva consegnare la busta, nel citofono c’era una fessurina e ce l’ha infilata dentro. Era lì che svolazzava, ma che fare? Non era mia, magari la mia era già volata via lontano, ma che fare? Intanto io (e non è la prima volta, né sarà l’ultima) sono qui che ho in mano la corrispondenza di altre persone, sono cose della Banca, potrei aprire e curiosare e poi buttar via tutto, tanto chi se ne accorge; e la stessa cosa potrebbe capitare con la mia, di corrispondenza. La cosa divertente (si fa per dire: dipende dall’umore della giornata) è quando ti cade l’occhio sul posto dove una volta c’era il francobollo: c’è un’elegante miniatura in colore lieve e la dicitura “posta certa”. Ah, questa dunque sarebbe la famosa posta certa. Con i privati, si sa, le cose funzionano meglio: vuoi mettere rispetto alla sonnolenta burocratica statalizzazione di una volta? Adesso invece sì che si va benone, lo ripetono tutti i giorni in tv e dai giornali, e questo ne è un magnifico esempio – tenuto conto che si tratta quasi soltanto della corrispondenza con la Banca e l’Assicurazione, tocco ferro e faccio gli scongiuri: speriamo che non succeda niente...(e se invece tornassimo al corriere a cavallo?)
L'ultima novità a cui ho assistito è questa: prima di buttare le lettere a casaccio sulle scale, o di infilarle nel battente del portone d'ingresso, l'incaricato della Posta Certa tira fuori un lettore di codici a barre e fa "plip!" su ogni busta. Penso che voglia dire che la busta è stata consegnata, ma magari si potrebbe risparmiare ulteriormente, fare "plip!" in ufficio e buttare via direttamente le buste - lo dico perché ne ho già raccolte due o tre, di queste buste "Posta Certa", e poi il postino l'ho fatto io, ma i "plip!", ve l'assicuro, li ho visti e ascoltati.
Non che le cose vadano meglio con Poste Italiane: che ormai fanno passare il postino due volte alla settimana, o magari anche meno. Ero abbonato a diverse riviste da quand’ero bambino, ma da un paio d’anni, ormai, ho dismesso tutti gli abbonamenti: una settimana la rivista arriva, l’altra no, poi ne arrivano quattro tutte insieme, poi niente, poi chissà. E mi viene sempre più in mente l’aneddoto dell’ufficiale delle colonie inglesi, nell’Ottocento, che era su un’isola sperduta e si vedeva arrivare il Times una volta ogni tre mesi, e davanti al pacco di tre mesi di giornali si chiedeva: “da dove comincio, dal numero più recente o da quello più vecchio?”.
Le Poste Italiane si sono invece inventate la “posta massiva”, come documenta il timbro-francobollo qui sotto: cosa mai significa, “massiva”? E’ un neologismo per me incomprensibile; giro la busta e leggo che, in caso di mancato recapito, “pregasi restituire al mittente”. Che non è il mio ufficio postale qui a trecento metri da casa, è la “d.b.-centro servizi-piazza del calendario, 3 – 20126 milano”. Cioè, se trovo per strada una busta come questa devo prender su, andare fino a Milano e la devo riportare in quel posto lì? Faccio prima a buttarla via, tanto se non c’è su il mio nome, chi se ne frega.
Intanto che penso a dov’è la piazza del calendario, mi viene in mente una soluzione dell’enigma: posta massiva va sicuramente letto alla francese, con l’accento sull’ultima vocale: “massivà”. Cioè: posta? ma sì, va...Lassa che la vaga, la posta, ma sì...
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