domenica 26 luglio 2020

Oltre il muro

Il primo post di questo blog, del 9 ottobre 2009,
era dedicato a Delio Tessa.
Lo riporto qui come chiusura, De là del mur...

Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là) (scagg si pronuncia con le g dolci, è il plurale di "scaggia", paura, una parola che oggi usano ormai in pochi)
Una mattina di un giorno di festa, nel 1913, l’avvocato milanese Delio Tessa prende la sua bicicletta nuova e va a fare un giro, un giro piuttosto lungo che lo porta all’estremo nord della provincia di Milano, che più o meno corrisponde all’estremo sud dei miei giri personali in bicicletta (non sono mai stato un gran ciclista).
A un certo punto, Tessa si trova davanti a un gran muro, che riconosce: è il muro dell’allora manicomio di Milano, il proverbiale Mombello, vicino a Limbiate. E, di là del muro, cantano. E’ una sorpresa inaspettata: «al de là del mur, cantàven...»

Da quel giro in bicicletta nasce “De là del mur”, poesia scritta nel 1913 e rielaborata (o, meglio, completata) molti anni dopo, nel 1931. Le riflessioni di Tessa sono molto belle e molto profonde, ma non posso riportarle qui per esteso, la poesia completa è troppo lunga, ed è in dialetto milanese: per chi volesse leggerla per intero, rimando ai due volumi pubblicati una decina d’anni fa da Einaudi a cura di Dante Isella.
Foeura de Porta Volta
de paes en paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasina vuna
de sti mattinn passaa:
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?...l’è festa... andemm...
(fuori di Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate. Mi ero svegliato col broncio, con la luna a rovescio, e seduto sul letto pensavo: cosa facciamo oggi? andiamo, via, fuori da queste federe!)
“Di là del muro cantavano”: canzoni semplici, rime e filastrocche popolari, ma cantavano. E c’era una grande serenità.

Allora i matti facevano paura, il manicomio era ancora quello ottocentesco, non solo Basaglia ma anche Freud e Jung erano figure ancora lontane, che cominciavano appena a farsi conoscere. Il manicomio incuteva terrore solo a nominarlo, ma ecco che davanti a quel muro spaventoso il poeta Delio Tessa sente nascere quasi un’invidia per quella condizione, vorrebbe anche lui “avere un coo de gatt”, la testa (cioè i pensieri) di un gatto, ignorare gli scandali finanziari dell’epoca (il Roveda, l’Edison), dimenticarsi della possibilità di una guerra devastante, e anche della “gente balenga” che sembra approvare guerre e violenze. Ma tutto questo non è possibile, rimonta sulla bicicletta e inizia il percorso verso casa, verso Milano. L’arrivo nella grande città è annunciato dalle locandine dei cinema: danno un film western, “Trader Horn”.
Il milanese era la lingua materna dell’avucàtt, che era persona di grande e raffinata cultura: ma allora il dialetto lo parlavano tutti, ed era ancora una lingua viva. Delio Tessa è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, la sua scrittura deve molto alla grande musica, ed è un peccato che siano ormai in pochi a conoscerlo.
E’ un peccato, soprattutto, che chi oggi si erge a paladino del ritorno dei dialetti ne ignori completamente il nome. Ma ignorare i nomi dei grandi è una caratteristica di questi nostri strani tempi: e pensare che Milano, il dialetto milanese e quello di area padana, sono stati di recente insigniti del maggiore premio letterario a livello mondiale: il Premio Nobel.

Grief in my soul


Quando l'amico Larry Beckett scrive il testo di "Grief in my soul", pensando forse a un blues classico, Tim Buckley non trova di meglio che cantarlo in maniera allegra, e così doveva essere, anche perché i due (era il 1966, più o meno) erano così giovani che andavano ancora a scuola.
qui per l'ascolto

Grief In My Soul
(Larry Beckett - Tim Buckley)
I've got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got sorrow.
I'm in a storm that'll spare no travelin' man.
I fear tomorrow.
Got a love that died long before it began.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
Got a cold chain.
I got rain fallin' on my head from above.
I got a bad pain.
I got a gal don't know the meaning of love.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.

sabato 25 luglio 2020

Certe cose si pagano


«Quello lì è un rabbino», mi dice M. con una smorfia: e intende dire che è tirchio. Le lascio finire la frase, poi le chiedo per favore di non usare più quella parola in quel senso. Mi risponde stupita e anche un po' irritata, "ma se lo dicono tutti!". Io le rispondo che non l'avevo mai sentita usare in quel modo, e che so da tempo che un rabbino è di regola una persona di grande cultura, quantomeno in ambito religioso. Un altro ricordo recente: qui su questo blog hanno avuto un discreto successo, che dura da ormai più di dieci anni, i miei post sul "piccolo chimico", cioè la spiegazione, o il tentativo di farlo, di cosa contengono i prodotti che usiamo ogni giorno, dal cibo al detersivo. Tutto bene sul blog, dunque, ma quando ho provato a raccontare qualcosa (ma poco, sia ben chiaro) a un parente di mio cognato, incontrato al supermercato, quello mi ha guardato con aria spaventata e poi le volte successive è svicolato via vedendomi da lontano. L'espressione era proprio quella: "questo pazzo mi sta attaccando un bottone terrificante, dove posso fuggire?". A parte la questione delle simpatie personali (liberissimo di non trovarmi simpatico), era proprio l'argomento a dar fastidio: la composizione degli alimenti. Mettersi a ragionare di chimica e di alimentazione, quando al mondo esistono la formula uno, l'Inter, le canzoni di Claudio Baglioni, Valentino Rossi e Vasco Rossi? Suvvia, solo un pazzo potrebbe farlo. 
Anche un altro dei miei argomenti su questo blog, "l'entomologo-storie naturali", continua ad avere un discreto numero di lettori (soprattutto quelli sulle effimere e sul cervo volante, per chi fosse curioso) ma nella mia vita quotidiana mi tocca da sempre ascoltare aggressioni più o meno isteriche sul ribrezzo per le lucertole e per qualsivoglia altro animale che troviamo in casa, e mi guardano appunto come se solo un pazzo potesse interessarsi queste cose, come se non fossero mai esistiti Fleming, Pasteur, Lorenz, Linneo, gli scopritori della malaria e della penicillina e dei vaccini, queste cosette qui insomma, pazzi che invece di andare a ballare al Tana o a prendere il sole a Rimini studiavano muffe, zanzare, zecche, e quant'altro. Un altro dei miei argomenti preferiti, Charles Darwin e i suoi viaggi e le sue osservazioni, incontra sempre lo stesso muro - non mi ci sono mai rassegnato, ma il muro alzato ogni volta dall'ignoranza sul DNA e su Darwin è mostruoso e temo inespugnabile. Abbiamo gli ogm e l'analisi del DNA è ormai cosa comune, ma quando fai il nome di Darwin spuntano i risolini dei furbi che sanno tutto di tutto: "c'è tutto on line" è stata l'ultima risposta, e qui ho smesso di importunare il prossimo con i miei libri.
Sono solo alcuni esempi di una vasta "crosta" più o meno sotterranea che ho incontrato da sempre, e che ho sempre trovato molto ruvida e molto dura da constatare. Insomma, è come l'asfalto quando vai in bicicletta: sai che c'è, sai che fa male, ma prima o poi è inevitabile caderci sopra.
Quando ho provato a fare questi discorsi, mi hanno quasi sempre risposto "ognuno ha i suoi gusti, non possiamo essere tutti uguali" e che io devo essere più tollerante, come se la Storia dell'Arte e le bestemmie che sento salire dal bar fossero la stessa cosa, come se il quartetto d'archi che ascolto adesso potesse dare fastidio a chi ascolta il rap a diecimila watt di potenza qui sotto la finestra. E ancora: dirsi cristiani ma non leggere il Vangelo, oppure leggere il Vangelo e non capirci nulla magari sapendolo a memoria, come Trump con la Bibbia o come i seguaci di monsignor Lefebvre; pensare che il buce mettesse in galera i criminali (non è vero, in galera metteva De Gasperi) e gridarlo scandendo le parole, dando per scontato che tutti i presenti siano d'accordo. In campo musicale, trovare una ragazza che ti piace, ma poi viene a sapere che sei uno "che gli piace la lirica", che brutta cosa; conoscere e riconoscere il Don Giovanni (compreso il vero significato della parola) e il Rigoletto, e rendersi per questo antipatico; ti guardano come se fossi malato, indegno, peccato, un così bel ragazzo però gli piace Beethoven.
Nel calcio, nei rutti, nel razzismo, nel qualunquismo del "sono tutti uguali", nei bar e nelle discoteche (dove sono finiti i bar di Guccini e di Nanni Svampa? i bar di oggi sono molto differenti), nella movida e nel rumore (io non reggo il rumore), avrei avuto una vita molto più facile se fossi stato così. Un'altra ragazza, che abitava non distante da Maranello, continuava a portare il discorso sulla Ferrari, ma a me non interessa la formula uno e lo sapeva da subito, ma se non ti interessa la formula uno sei strano e quindi ci tornava sopra spesso. Potrei andare avanti per ore, ma non è questo il discorso che mi interessa fare e poi si tratta di piccole cose che si potevano superare (non sempre).
Il discorso che mi interessa fare è questo: ogni tanto leggo l'elogio dei libri, amici blogger ne scrivono, ma anche i libri sono visti male. Leggi tanti libri, hai tanti libri in casa e tanti dischi, e prima o poi la dovrai pagare, soprattutto se non sono libri qualsiasi (magari Primo Levi, o Dostoevskij, o un libro di chimica) e capisci cosa c'è scritto e te ne ricordi.

Un ricordo d'obbligo, a questo proposito, è per Umberto Eco: non l'ho mai conosciuto di persona ma io ho cominciato a pubblicare su internet proprio sulla sua rivista, Golem, quasi vent'anni fa. Eco è stato un pioniere di internet, ne ha scritto molto e ci sono molti articoli e filmati dove ne parla; ne era entusiasta e ne immaginava gli sviluppi possibili con entusiasmo. Ma poi come è andata? Golem era una bella rivista, ben fatta, con collaboratori eccellenti (non io, che ero poco più che un clandestino a bordo - ringrazio la redazione per il passaggio), ma non esiste più da anni. Non si può più nemmeno fare come si faceva con le riviste, andare a cercarle sulle bancarelle o in biblioteca: il mensile Golem è stato proprio cancellato, annichilito, dimenticato. Dimenticato con tutti i suoi articoli e tutti i suoi collaboratori, come se non fosse mai esistito; internet è andato da un'altra parte, quella che vediamo oggi, e il computer (oggi lo smartphone) è diventato di tutto, tranne che quello che auspicava Umberto Eco. E' diventato ufficio (pagare le bollette, home banking, pagare i biglietti, fatturare, eccetera) ma soprattutto internet è diventato il regno della pubblicità, delle spiate, delle fake news, dell'odio e delle cazzate. Svanito il bel sogno di Umberto Eco? Direi proprio di sì, certe cose te le fanno pagare e se ami i libri non sei una persona normale. Golem, dispiace dirlo, è stato un esperimento fallito: troppa qualità, troppe informazioni, troppo umorismo "da intellettuali", meglio una birra con cui farsi due rutti, e poi postare il video su un canale di grande successo.
Per chiudere, una notizia dalla Svizzera di un paio d'anni fa: fu negata la cittadinanza locale a un serio professionista straniero, residente da decenni nel comune, perché "non partecipa alle feste di paese". E' una persona quieta, schiva, non solo non dà nessun fastidio ma paga le tasse in maniera cospicua: perché mai negargli la cittadinanza? Essere quieti e riservati, dunque, è un grave difetto, lo è anche il non bere birra all'Oktoberfest, il non amare i cantanti di Sanremo, il non sapere chi ha vinto in formula uno, eccetera eccetera.

PS: un altro modo per rendersi antipatici, nella mia vita, è stato questo: "abbiamo scelto apposta la domenica così va bene a tutti", mi dicono parlando di una festa, ma io la domenica lavoravo, c'è tanta gente che lavora di domenica, non è che lo si faccia apposta - ma poi sei bollato, non vai alle feste, stai per conto tuo, eccetera. Eh sì, certe cose te le fanno pagare: fin da quando, da bambino, me ne stavo in disparte per leggere un libro. Sono cose che non si fanno, non fatelo fare ai vostri figli.

venerdì 24 luglio 2020

El nost Milan


El nost Milàn
"El nost Milàn" di Carlo Bertolazzi è un altro dei grandi spettacoli del Piccolo Teatro, tra i più famosi e celebrati; mi chiedo se oggi sarebbe possibile rimetterlo in scena e direi proprio di no, ma mi auguro di sbagliarmi. Rimetterlo in scena, intendo, non in una qualche maniera più o meno raffazzonata ma con quella perfezione e con quella forza: era uno spettacolo avvincente, con attori straordinari in ogni ruolo, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.
Carlo Bertolazzi, nato in provincia di Cremona, visse fra il 1870 e il 1916; giovanissimo, a 23 anni, scrive "El nost Milàn" (La nostra Milano) che ha subito grande successo. Il testo è diviso in due parti, "La povera gent" e "I sciôri"; Strehler mise in scena solo la prima parte, dove una ragazza (Nina) è innamorata del clown di un circo, ma poi cede al Togasso, un mezzo delinquente, un duro insomma. Con il Togasso le cose non andranno bene, e per salvarla dovrà intervenire il padre di lei, Peppòn, in un finale molto drammatico.
Rileggendo il testo mi sono accorto di aver dimenticato molte cose, troppe, di questo spettacolo; oltretutto, non è disponibile neppure una registrazione in video e questo è un vero peccato. Di "El nost Milàn", come a tutti credo, mi sono rimasti nella memoria soprattutto Tino Carraro, che in scena era un titano, e Mariangela Melato. Tino Carraro aveva interpretato il Togasso nelle recite degli anni '50, e in questo nuovo allestimento aveva invece la parte del padre; il Togasso era affidato a Franco Graziosi, un altro grande attore, fedelissimo di Strehler e del Piccolo Teatro. Mariangela Melato non era soltanto brava (questo me lo aspettavo), era anche molto bella e Strehler sottolineava con sapienza con le luci e le ombre la sua figura, difficile dimenticarsela. Avrei rivisto e riascoltato Mariangela Melato qualche anno dopo, senza Strehler, in una (per me) deludentissima Medea; dimostrazione di quanto conti il regista in uno spettacolo.
"El nost Milàn" fa parte del percorso sui dialetti, e sulle lingue, fatto da Giorgio Strehler: comprende il teatro di Goldoni (Il campiello, Le baruffe chiozzotte), e un po' tutte le sue lingue madri o di adozione, dal tedesco al veneziano (Strehler era triestino di nascita), dal francese (memorabile il suo Corneille, "L'illusion comique") al milanese imparato in via Rovello, sede del Piccolo Teatro.
"El nost Milàn" andò in scena al Teatro Lirico, vicino al Duomo, che purtroppo è chiuso da un'eternità. Io ero presente il 3 febbraio 1980, e oltre alla bellezza dello spettacolo ricordo ancora una ragazza che era seduta vicina a me, con la quale ho fatto una lunghissima chiacchierata. Poi ci siamo persi di vista, la persona che l'aveva portata a teatro (un parente, penso fosse lo zio) se la portò via di corsa. Non era ancora il tempo dei telefonini e degli smartphone, insomma; e chissà cosa sarebbe successo, di sicuro ci saremmo lasciati un contatto, si pensava che ci sarebbe stato tempo ma così non è andata.
Con "El nost Milàn" termina la mia fase "di apprendistato" sul teatro; ero già stato alla Scala, per il "Boris Godunov" di Mussorgskij diretto da Claudio Abbado, e ormai sapevo muovermi per conto mio. Il mio interesse principale sarebbe diventata la musica, ma le chiavi del teatro ormai le avevo in mano, e sapevo come muovermi; ma solo da spettatore, sia ben chiaro.



martedì 21 luglio 2020

Super eroi


I fumetti della Marvel li trovavo dal barbiere: mi ci portava mio papà perché ero ancora piccolo, poi ho imparato ad andarci da solo e dovevo star lì anche se mi facevano aspettare un'ora, così mi ero fatto una cultura in merito. Erano nuovissimi, belli, colorati, disegnati bene, con trovate strane sul tipo del supereroe cieco che aveva un costume che usciva dall'anello, e altro ancora. Tutto bello, ma dopo un po' me ne ero stancato e mi sarei portato volentieri un libro da casa. Non è che ci fosse molto, in quei fumetti, dopo la trovata iniziale: anche i Fantastici Quattro, finita la sorpresa, rivelava poi trame appena passabili. L'impressione è che non sapessero più cosa fargli fare dopo i primi tre o quattro episodi, eppure andavano avanti e vanno avanti ancora oggi, con sequel, film, remakes dei remakes.
A casa mia circolavano altri fumetti, più vecchi o più recenti: tra i più vecchi, ristampati su qualche giornale recente come "Il Giorno dei Ragazzi" ricordo ancora L'ombra che cammina, cioè L'Uomo Mascherato, o magari Mandrake e Flash Gordon, roba degli anni '30. Erano fatti meglio, la sceneggiatura era migliore, le trame più belle, e anche i disegni mi piacevano molto di più. Sul Corriere dei Piccoli avrei poi trovato i primi episodi di Corto Maltese (Una ballata del mare salato) e prima ancora Hugo Pratt vi pubblicava riduzioni da Stevenson (Il ragazzo rapito). Insomma, tutta un'altra cosa; e con Hugo Pratt cominciavo a conoscere e a riconoscere Dino Battaglia e Sergio Toppi, e Mino Milani come sceneggiatore; tutto un mondo che mi si apriva davanti. Anni dopo, avrei cominciato a leggere Linus. Oggi quasi nessuno parla più di Battaglia, di Toppi, di Milani; si pubblicano i manga, in libreria trovo le graphic novel, li sfoglio un po' ma poi mi stanco e ritorno a pensare a me stesso bambino davanti ai fumetti Marvel, seduto dal barbiere in attesa del mio turno. Ricordo anche i fumetti Lancio Story: dopo averne letti un po' (io leggevo qualsiasi cosa) avevo imparato a lasciarli perdere, sembravano fotoromanzi.
I disegni erano e sono ancora belli, sono le storie che mi sembrano ripetitive e poco originali. Mi fa un po' impressione anche vedere ancora nuovi episodi di Tex, per esempio. Tex Willer viene pubblicato da settant'anni, cosa ci sarà ancora di nuovo? Ne sto guardando un disegno recente, e Tex non è più Tex, è diventato un mascellone con sospetti di culturismo e chissà cosa ci sarà ancora da raccontare, su Batman, su Tex, su Spiderman, sui Fantastici Quattro, su Dylan Dog e su Martin Mystere. A voi piacciono queste cose? Fate pure, io torno indietro di cent'anni e qualcosa, e apro ancora una volta le porte a Winsor Mc Cay e a Little Nemo. Sono sempre le stesse tavole, ma ogni volta c'è l'entusiasmo della prima volta che le ho viste. (sono sicuro che da qualche parte c'è ancora qualcuno così grande, è impossibile che non ci sia; il difficile sarà trovarlo, o trovarla, visto lo stato dell'editoria italiana).

sabato 18 luglio 2020

Disimparare


"Sto disimparando tutto quello che ho imparato", mi dice l'amico Bellini, un anno dopo aver cambiato lavoro. Si aspettava qualcosa di meglio, ma più che altro il nuovo posto di lavoro gli permetteva di fare meno chilometri e di stare più vicino alla famiglia. Ma il suo non è un caso isolato, è anzi un lamento molto comune: molti di noi si trovano a lavorare in ambienti che richiedono solo un lavoro meccanico e ripetitivo, spesso noioso e burocratico, che con la chimica ha poco a che fare.
E la verità pratica è forse proprio questa: che per lavorare in un'industria chimica aver studiato chimica non è affatto necessario. Spesso basta il buon senso, l'aver vicino un collega che ti dà le dritte giuste; a volte anche questo è superfluo, non necessario: basta una buona raccomandazione, e puoi anche andare in cima al mondo, saldo come una roccia, con tutta la tua ignoranza (quella di partenza e quella guadagnata sul campo). (A proposito, che la raccomandazione valga solo nei posti statali è un altro mito da sfatare: c'è dappertutto e funziona sempre.)
Molto utile è per esempio aver fatto l'idraulico, e averlo fatto bene: chi guarda un impianto chimico da fuori vedrà subito di quanti tubi e valvole e raccordi è fatto, e magari se ne spaventerà. E fondamentale è la caldaia, che produce vapore; i distratti lo scambiano per fumo, ma è acqua allo stato gassoso, cioè vapore. Siccome il vapore è caldo, serve a molti scopi: per evitare che i composti che gelano (cere, grassi) otturino le condutture, oppure per scaldare e pulire le autoclavi.
Ma nemmeno tutte queste cose sono sufficienti ad avere un buon posto di lavoro, o a far carriera. Non conta nemmeno l'impegno, a molti sembrerà assurdo ma invece è spesso così.
Sembrerà strano, ma non sono queste le cose che contano, nel lavoro: conta di più saper dire di sì al capo, per esempio. Tanto, il fesso che lavora anche per te, e magari correndo, lo si troverà sempre.

giovedì 16 luglio 2020

L'operaio stupido e il capo a piede libero


La Ditta distribuisce un libro a fumetti, con suggerimenti per evitare gli infortuni. E' un buon provvedimento, e mi complimento per l'idea; e siccome mi piacciono i fumetti gli do subito un'occhiata.
La veste grafica non è male, e i disegni sono simpatici e ben sceneggiati. Certo non è qui che si possono pretendere finezze, ma il livello è discreto. Soddisfatto del primo esame, e anche della legatura robusta, mi appoggio al muro e leggo con più attenzione.
Nel primo episodio (sono episodi di una pagina ciascuno) un operaio un po' distratto si versa addosso qualcosa. Morale: bisogna stare attenti. Nel secondo episodio, passa una bella ragazza e un operaio, che vuol dimostrare quanto è forte, prova a sollevare un peso eccessivo, rimediando un forte mal di schiena. Nel terzo episodio, un operaio decisamente stupido... Ma è tutto così questo libro? Vado avanti, e la musica non cambia; va avanti così fino alla fine, con operai stupidi o distratti che fanno errori che si potrebbero evitare: e così è la vita, in effetti.
Ma io chiudo il libro e vado a guardare le referenze: non conosco gli autori ma in copertina c'è anche l'approvazione dei sindacati, tutti e tre uniti come capita raramente di questi tempi. Non so bene se tutto questo è giusto, ma appoggio con delicatezza il libro su un tavolo e riprendo a lavorare, ma guardandomi intorno con attenzione. Chissà mai che non ci sia un operaio stupido anche qui nei dintorni, che potrei farne le spese in prima persona...

PS: Rileggo questo mio appunto dopo quasi vent'anni, e ripenso all'acciaieria Thyssen di Torino, alle sentenze su Porto Marghera, a Casale Monferrato e all'infinita serie di rimandi sulla lavorazione dell'amianto, alle discariche abusive in Lombardia (in Lombardia, tra Pavia e Cremona)... Anche in ferrovia, la colpa - si sa - è sempre del macchinista, o dell'addetto agli scambi. I capi la fanno sempre franca, anche questo si sa: se sono stupidi o impreparati, c'è sempre qualcuno che li protegge.


martedì 14 luglio 2020

Anidride solforosa


Ebbene sì, sono ancora nell'ufficio del Direttore, l'ultimo in fondo, in alto, nella palazzina degli uffici. Il Direttore dice che sto diventando noioso, che i miei colleghi non mi sopportano più, e che insomma, anche il mio capo merita più rispetto, che diamine.
Al fatto che il mio capo sia una brava persona, ma del tutto inesperta e incompetente non posso ovviamente accennare, in questa sede: soprattutto perché il Direttore lo sa benissimo, visto che è stata una sua scelta. Adesso si è fatto male uno dei miei colleghi e il Direttore è molto arrabbiato, soprattutto con me che ho osato obiettare qualcosa riguardo ai suoi provvedimenti (è per questo che sono qui).
- C'è un problema grosso con lo smaltimento dei campioni usati per le analisi, questo non lo può negare – dico allora al Direttore: che non può negare, perché lo sa benissimo. E' per questo che è successo l'incidente al mio collega, e non per altro: un vasetto di acido solforico abbandonato in mezzo ad altri innocui. Un vasetto che non doveva assolutamente essere lì, e che non doveva assolutamente essere un vasetto ma un contenitore più idoneo a un acido così concentrato e pericoloso: due gravi incurie, inconcepibili in un laboratorio e in una fabbrica bene organizzate.
E così, visto che non può farmi niente, il Direttore si sfoga dando l'incarico di organizzare bene lo smaltimento dei campioni al mio capo, che ovviamente non ne sa molto e non si fa ben consigliare.
Infatti, la maggior parte dei campioni viene spostata fuori, all'esterno e all'aperto, dentro a dei bei bidoni azzurri ben etichettati; ma l'acido dodecilbenzensolfonico, chissà perché, no. Lui, il prodotto dell'impianto di solfonazione, rimane dentro al laboratorio: va tenuto da parte, dentro ad un secchiello.
Ed ecco dunque Angelo che si volta verso di me col viso rosso, soprattutto sugli zigomi e intorno agli occhi, un eritema che mi allarma.
- Che cos'hai fatto, Angelo? – gli dico subito.
- Perché? – chiede lui, e va a vedersi allo specchio.
La soluzione è subito chiara: Angelo ha smaltito un vasetto di acido dodecilbenzensolfonico (è un detersivo, che neutralizzato e diluito serve per i lavapiatti e i lavapavimenti) vuotandolo nel secchiello appoggiato sul bancone. Naturalmente, per farlo ha dovuto aprire il secchiello: mica si può versare qualcosa dentro un secchio chiuso. E lì, in agguato, stava un gas: l'anidride solforosa, e forse anche solforica, a quel punto. Si sviluppa sempre qualcosa, dall'acido dodecilbenzensolfonico non neutralizzato. E' per questo che, in una ditta chimica ben organizzata, l'acido dodecilbenzensolfonico lo si tratta con una certa attenzione, anche se di per sé non è pericoloso come altri acidi: quanto meno, lo si mette sotto una cappa. L'anidride solforosa, e quella solforica, a contatto con l'acqua o anche solo con l'umidità, danno acido solforico e solforoso: è il principio ben noto al quale si deve la corrosione di tanti monumenti, per via delle piogge acide. Il marmo dei nostri palazzi antichi, e delle statue, è magari millenario e ha resistito benissimo al tempo fino alla nostra epoca, nella quale abbiamo bruciato più zolfo di quello che avremmo dovuto; e i risultati si vedono, anche sul Duomo di Milano.
E dunque anche il mio collega Angelo, come il David di Michelangelo e come gli angeli del Duomo, è particolarmente sensibile alla corrosione. Non sopporta l'aggressione degli acidi, e la sua pelle lo sta gridando con molta evidenza. Il secchiello finisce subito fuori dalla porta, lo portiamo fuori subito e lì resterà: fino al prossimo incidente o inconveniente, quanto meno. Nel qual caso, vedremo quale altre sorpresa ci riserverà quest’allegra combriccola che ci governa.

sabato 11 luglio 2020

L'ossido di etilene e la libido dei ratti


Arrivo un po' in ritardo, leggermente trafelato, in sala riunioni. La lezione sta per cominciare, e ovviamente i primi arrivati si sono già accaparrati i posti migliori: quelli in fondo e un po' defilati, come è giusto e naturale che sia.
Il Professore ha già iniziato la sua lezione, che fa parte di un "corso". Fare corsi è un po' diventata una moda, o forse una mania; spesso sono utili, e a volte indispensabili. Certo è, quantomeno, un tantino esagerato definire "corso" una lezione di un'ora, ma passi. Sono tutti contenti: non c'è bisogno di studiare, non ci sono esami alla fine e poi, soprattutto, si può riposare un'oretta. Sempre meglio che lavorare, insomma.
Comunque il Professore è un Professore vero, con tanto di laurea e cattedra universitaria: conosce bene la sua materia e si vede, difatti inizia subito con il riempire la lavagna di formule chimiche anche un po' complesse. Mi guardo intorno: c'è il Direttore e c'è un altro laureato, o forse due; ci siamo io e un altro diplomato; poi ci sono gli operai (terza media, se va bene: compresi i capiturno), e infine, proprio dietro di me, i due addetti dell'impresa spurgo pozzi neri.
Non c'è niente da ridere: primo, perché gli addetti allo spurgo pozzi neri servono, eccome, in questa società. Se si fermano loro, sorgono subito dei problemi; se invece si ferma il Direttore del Personale, tanto per fare un esempio, il mondo va avanti lo stesso, e forse va anche meglio. E poi, in una Ditta come questa, solo loro hanno le pompe e le attrezzature giuste per vuotare le vasche di contenimento e per bonificare i serbatoi: e quindi sono quasi sempre qui, e magari gli tocca di lavorare vicino a serbatoi o reattori pericolosi. Sono quindi i benvenuti, ed è bene che anche loro conoscano i pericoli cui vanno incontro.
Il professore pensa di contenersi, e di fare una lezione un po' all'acqua di rose; e invece dopo la prima formula chimica la platea è già andata in tilt, io compreso perché mi sono alzato alle cinque e ho un gran sonno. Forse il nostro conferenziere se ne accorge, e prova un po' ad alleggerire.
- E' cancerogeno l'ossido di etilene? Non si sa con certezza. Studi ne sono stati fatti, ma quello che si sa di certo è solo che l'ossido di etilene distrugge completamente i tessuti che tocca, e quindi non si può parlare di mutazioni...
Beh, un po' di attenzione l'ha ottenuta. Adesso è contento e si lancia, conscio della sua esperienza in situazioni simili.
- Ha effetti sulla libido l'ossido di etilene? Esperimenti condotti sui ratti parrebbero dimostrare di sì.
L'uditorio sorride, e si fanno battute sottovoce. La vita sessuale dei ratti è un argomento che si presta, e nascono anche delle domande, alle quali il Professore risponde contento.
Ma ormai l'ora di riposo è passata, il foglio bianco della lavagna è tutto coperto da disegni e da formule, ed è ora di andare. Il Direttore è molto contento, sorride soddisfatto e anche un po' orgoglioso.
- Bella lezione, Professore! Complimenti...
Anche il Professore è contento, e gli operai possono tornare a lavorare.

mercoledì 8 luglio 2020

Per un’applicazione corretta delle norme antinfortunistiche


Ieri mattina sono andato in banca, dopo mesi, e mi sono reso conto che con le nuove norme sul covid è peggio che entrare in ospedale (lo dico per esperienza diretta, entrare in un ospedale è davvero più semplice); a parte questo, mi ha colpito osservare, e non è la prima volta, che sulla scrivania c'erano due pacchi di carta da fotocopie sotto il monitor del computer. Non è la prima volta che mi capita di osservarlo, e ogni volta mi torna in mente come è cominciata quest'usanza, all'apparenza innocente. Io c'ero, dunque, e se avete un po' di pazienza posso raccontarlo.

La ditta dove lavoro è parte di una multinazionale che presta molta attenzione alla sicurezza e all'ambiente di lavoro. Perciò si fanno molti corsi, o magari brevi lezioni, su come funziona l'azienda, coinvolgendo tutto il personale: ed è di certo una bella cosa. E' per questo motivo che lunedì mattina ci troviamo convocati in sala mensa, ad ascoltare il medico di fabbrica che ci spiega come vanno utilizzati i terminali video, e soprattutto come vanno posizionati. L'informazione è esauriente e l'esposizione buona: come regolare la luce nei locali per evitare affaticamento visivo, e come posizionare il video e la tastiera per evitare problemi alla spina dorsale, artrosi cervicale, e via dicendo. Tutte cose che magari si sanno già, o alle quali magari si può arrivare con un po' di attenzione; ma è bello che vengano ripetute e soprattutto è bello che sia propria l'azienda dove lavori a promuovere queste iniziative.

Due giorni dopo, arrivo sul mio posto di lavoro e trovo tutto rivoluzionato: scrivanie spostate, armadi divelti dai loro posti e sovrapposti in maniera strana, eccetera. Il mio capo ha deciso che la disposizione dei banconi e delle scrivanie com'era prima non andava più bene, e ha deciso di cambiare. Fin qui nulla di male, ma io entro nel locale e non credo ai miei occhi: i terminali video sono stati collocati molto in basso (a 70 cm da terra, per l'esattezza), per arrivare a leggere quello che c'è scritto sullo schermo bisogna fare contorsioni impossibili, e in più il corpo del computer, quello che contiene l'hard disk, è stato posto lontano dallo schermo. Motivo di quest'ultima trovata? I cavi elettrici non sono abbastanza lunghi per supportare la nuova collocazione del video.
Non so se abbandonarmi alla rabbia o alla sconforto, o magari mettermi a ridere visto che il mio capo è anche membro delle commissioni sulla sicurezza all'interno della ditta. Che fare? Risolvo il problema in modo creativo: prendo una grossa scatola di cartone e la metto sotto il video del pc che devo usare. E' una cosa molto vistosa e non proprio comoda, io stesso faccio molta fatica a leggere i caratteri perché adesso lo schermo è molto alto: ma quanto meno si devono tenere le spalle diritte e bisogna alzare bene la testa. La mia soluzione viene molto criticata, e alla fine si trova una soluzione alternativa: il mio scatolone viene tolto, e al suo posto si mettono due pacchi di carta per fotocopie.
E' passato un anno, e la zona ufficio è ancora così; e nel frattempo il nostro medico di fabbrica ha completato il suo giro di istruzione sull'uso dei terminali, e sta per iniziarne un altro...

PS: sono passati vent'anni, il mio capo di allora è poi andata in giro a fare corsi e conferenze sulla sicurezza in fabbrica (magari l'avete anche incontrata), e i due pacchi di carta da fotocopie, come dicevo all'inizio, sono ormai diventati uno standard operativo.

lunedì 6 luglio 2020

Boiacca e Buricchio


La parola "buricchio" salta fuori da un quiz televisivo: bisogna indovinare cosa significa. Io indovino subito, perché mia nonna a Parma aveva un gatto che si chiamava così, ma con la maiuscola: Buricchio. Scoprire che "buricchio" è una parola che si trova sui dizionari un po' mi sconcerta, sarà vero? Sul mio Zingarelli, per esempio, non c'è. Provo a fare una ricerca on line, e su wikipedia trovo quel che cercavo: non c'è una voce a nome "buricchio", come mi aspettavo, ma trovo comunque un rimando a un libro per bambini che si chiama "Sussi e Biribissi", scritto da Paolo Lorenzini nel 1902. Paolo Lorenzini è figlio di Carlo Collodi, come a dire il fratello di Pinocchio (Collodi è uno pseudonimo, per chi non lo sapesse), e Buricchio è un gatto amico dei due protagonisti del libro. Forse è proprio da quel libro che mia nonna aveva preso il nome del gatto che dormiva sereno sul centrotavola della sua casa.
 

I dizionari, si sa, riservano molte sorprese: una volta sistemato Buricchio, devo dire che la sorpresa più grande per me è stata trovare la voce "boiacca" sullo Zingarelli. Non me l'aspettavo proprio, e dopo tanti anni non mi sono ancora ripreso. Ho sempre pensato che fosse una voce gergale, dialettale, e invece ecco cosa mi dice il dizionario: «Boiàcca (etimologia incerta): nell'edilizia, malta cementizia fluida usata durante la messa in opera di mattoni e piastrelle di rivestimento, per farli aderire tra i loro interstizi, al pavimento o alla parete.»
Che dire, ho avuto molti muratori in famiglia, boiacca è una parola che ho ascoltato spesso e dentro di me ero ben convinto che fosse una parola veneta, magari una storpiatura di termini tecnici come "calcedrà" (calcio idrato, la calce). Invece no, boiacca ha il suo posto nello Zingarelli e adesso che lo so ne sono ben contento, perché è una parola legata al mondo del lavoro e a persone che mi sono state care.

PS: il gattino è del 1902, ma non è Buricchio.

lunedì 29 giugno 2020

Pensieri in fase 3


Siamo ormai molto avanti nella cosiddetta "fase 3", e il mio primo pensiero è per quelli e quelle che non rispettano le norme più elementari di sicurezza: anch'io non vedo l'ora di buttar via le mascherine e di non vederne più in giro, ma adesso stiamo finalmente ricominciando a respirare, avete nostalgia del lockdown? Nel resto del mondo va molto peggio, tutto potrebbe ricominciare, stiamo molto attenti ai nostri comportamenti. 
Detto questo, metto in fila qualcuno fra gli altri pensieri di questo mese di giugno:
- Un po' dappertutto mi misurano la febbre. Li lascio fare, ma penso che con la febbre a 37,5 perfino i dottori mi hanno sempre detto che non è febbre, e se con 37,5 provavi a chiedere qualche giorno di malattia eri bollato come uno scansafatiche e un furbastro. Ricordo ancora con preoccupazione e sgomento un mio conoscente, un ragazzo di vent'anni, che andò a lavorare infettato da un virus intestinale: lavorava come cuoco in una mensa. Se si fosse messo in malattia lo avrebbero lasciato a casa, non licenziato perché licenziare non serve più nel Nuovo Millennio, ma così è andata e così continua ad andare. Quasi tutti i lavoratori dipendenti non hanno tutele, e il 37,5 di oggi immagino che sia vissuto come un incubo. Magari è solo un raffreddore da fieno...
- Ricordo anche un mio parente, da bambino, che si ritrovò con febbre alta e macchie rosse sulla pelle: il medico di famiglia, interpellato al telefono, rispose "me lo porti in ambulatorio", e in casa sembrava assurdo, una cosa inaccettabile: e se è varicella o rosolia, e se ci sono donne incinte in ambulatorio? Il fatto è successo più di vent'anni fa, ma poi è diventata routine, i medici di base raramente vanno a fare visite a domicilio e rivolgersi alla Guardia Medica è quasi inutile. Di fatto, tutte le riforme sanitarie degli ultimi vent'anni, fortemente volute anche dai sindacati dei medici di base, spingono verso il Pronto Soccorso. Se volete assistenza medica, insomma, siete di fatto obbligati al Pronto Soccorso: per poi sentirvi dire, magari in tv, di "non rivolgersi al Pronto Soccorso se non per situazioni gravi". Ma io che non sono un medico come faccio a sapere se è grave o se non è grave? E se a star male è un bambino piccolo, che si fa?
- Quando io ero bambino era ancora attiva la rete dei dispensari, di fatto oggi smantellati: strutture che sarebbero state utilissime nell'odierna epidemia. I dispensari degli anni '60 curavano soprattutto la tbc, poi scomparsa grazie ai vaccini, ma sarebbe stato necessario conservarli e convertirli in strutture per la prevenzione e la cura di altre malattie potenzialmente contagiose. I dispensari, almeno di nome, esistono ancora: ma di fatto hanno subito la stessa fine dei consultori per le donne e delle strutture di sostegno per le malattie mentali, previsti dalle leggi ma mai realizzati o boicottati di continuo. Insomma, se avete dei dubbi sulla vostra salute e su quella di chi vi sta vicino rivolgetevi al Pronto Soccorso (vedi quanto scritto nel punto precedente).
- Le misure previste nel lockdown comprendevano, tra gli anziani, gli over 65 che "devono stare a casa": ma oggi bisogna lavorare fino a 67 o anche 70 anni, che si fa? Ripenso a quante volte ho sentito dire negli ultimi vent'anni che la pensione è un privilegio, che chi prende la pensione è un furbetto che danneggia i giovani, eccetera eccetera. Mah.
- Leggo delle misure per la ripresa delle scuole, a settembre: ma moltissime scuole erano fatiscenti o non sicure, ricordo bene gli articoli allarmati dopo qualche crollo di soffitto, i servizi del tg... e adesso?
- C'è spazio (e tempo) anche per David Quammen e il suo "Spillover", libro del 2013 che ha previsto l'odierna epidemia: non conosco Quammen, ne ho solo letto qualcosa sui giornali in queste ultime settimane, ma sono decenni che gli studiosi di scienze naturali, magari i sociobiologi come Edward O. Wilson, dicono le stesse cose senza che nessuno li stia ad ascoltare. Edward O. Wilson si occupa di formiche, avete idea di quanti sghignazzi susciterebbe presso i furbi che la sanno lunga? Ecco cosa hanno osservato gli studiosi come Wilson, detto molto in breve: in una comunità, la sovrappopolazione conduce a tre cose sicure: calo della natalità, aumento della violenza, e infine epidemie. Nelle prime due eravamo già dentro fino al collo (le violenze in famiglia si preferisce farle passare alla voce "femminicidio"), la terza è infine arrivata e non è detto che sia finita qui.
- avendo del tempo da perdere (il negozio in cui volevo entrare apriva alle dieci e non alle nove e trenta come avrei pensato) ho pensato bene di andare dal barbiere, cosa che non faccio ormai da trent'anni (ma ero curioso). Mi hanno chiesto dieci euro (ma io non ho quasi più capelli, ai bambini ne chiedevano sei...) e mi hanno messo davanti un foglio dove lasciare nome e cognome e numero di telefono. Ho risposto che avrei fatto da solo, ma intanto mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se avessi firmato Giuseppe Garibaldi improvvisando un numero di telefono a caso, magari con la data della battaglia di Calatafimi. Ci sarà poi qualcuno che controlla? Chiedetelo a chi abita vicino a un bar: c'è qualcuno che controlla? Il bar è chiuso, ma fuori c'è gente che fa festa fino alle tre di notte, e nessuno interviene. Intanto, il governatore della Lombardia (Attilio Fontana) preannuncia l'obbligo della mascherina all'aperto fino a metà luglio. Mah.
- Ancora ieri ho trovato su un quotidiano molto diffuso (molti anni fa ne ero un fedele lettore e lo avrei definito "autorevole") l'ennesimo "articolo-sputacchio" molto dettagliato. Sotto il titolo "Dedicato a chi non porta la mascherina" c'erano le foto delle capsule petri con gli sputacchi ottenuti da un virologo americano starnutendo e bofonchiando con e senza mascherina. Caspita che impressione, peccato che si tratti del mondo in cui tutti noi siamo nati e cresciuti: forse che quando ci si bacia si sta a pensare a queste cose? Che il bacio (e il sesso) siano uno scambio più che certo di virus, batteri, e quant'altro (cioccolatini e mentine inclusi) lo sappiamo tutti da sempre, c'è da sempre il rischio di prendere malattie ma nessuna ragazza mi ha mai chiesto un certificato prima di iniziare, né io l'ho mai chiesto a lei... Insomma, sono cose che si sanno e per questo quando uno starnuta gli si chiede da sempre di coprirsi: c'è davvero bisogno di questi articoli?
- Aggiungerei alla lista i guanti da disinfettare, anche chi porta i guanti deve disinfettarsi e sanificarsi e sa il Cielo quanto sia giusto, ma poi tra le corsie del supermarket vedo che nessuno controlla e ognuno fa quello che gli pare. Poi, all'uscita, vedo guanti monouso buttati per terra un po' dappertutto (anche nel parcheggio dell'ospedale). A questo punto, non sarebbe meglio togliere l'obbligo dei guanti e disinfettarsi direttamente le mani?
- Infine, auspico che venga introdotto un premio per i virologi che sono rimasti zitti durante questi mesi. Magari solo un attestato su carta semplice, giusto per ringraziarli.

AGGIORNAMENTO al 16 agosto 2020: le teorie sull'inesistenza del virus sono prive di senso, così come le relative manifestazioni (un po' in tutta Europa e anche negli Usa) di questi giorni; è evidente che non ci può essere un complotto su scala planetaria, e i morti di Bergamo e Brescia purtroppo ci sono stati veramente. Lascia invece perplessi il modo in cui vengono date le informazioni in merito, per esempio si passa da 250 a 260 contagi e si legge "aumento dei contagi", e se si passa da 260 a 280 si legge "aumento dei contagi", in realtà la situazione in questi casi è stazionaria e non dovrebbe servire una laurea in statistica per capirlo. Poi si passa a 500 o a 600 contagi, ma si scopre (con molta fatica, bisogna cercare a lungo) che si sono fatti più controlli; si torna sotto 300 e verrebbe spontaneo un sospiro di sollievo, ma poi si scopre che era domenica e si sono fatti meno controlli. Eccetera, e mai una spiegazione precisa che faccia capire cosa succede; l'unico dato a cui aggrapparsi  è che molti ormai guariscono, e che in rianimazione non siamo più alla situazione di marzo e aprile. Davanti a questo modo di fare informazione qualche domanda viene, e io metto qui l'ipotesi più leggera, cioè che ci sono molti giornalisti improvvisati o poco professionali. Vorrei aggiungere qualcosa, ma mi fermo per non ricevere querele - non si sa mai, ce ne è in giro di gente permalosa.

venerdì 26 giugno 2020

Arlecchino


L'Arlecchino del Piccolo lo hanno visto tutti, o almeno così credo; è uno spettacolo così famoso, e con così tante recite, che è quasi impossibile averlo perso: a meno che a teatro proprio non ci si vada mai. E' uno spettacolo che continua a rimanere in cartellone: Marcello Moretti non c'è più, Ferruccio Soleri potrebbe ancora farlo ma ha deciso di prendere un po' di tempo per sè, i sostituti sono bravi e hanno avuto un'ottima scuola, lo spettacolo è sempre bello e divertente. Strehler era bravissimo nel mettere in scena Goldoni, direi inarrivabile: tra i suoi spettacoli vanno ricordati almeno "Il campiello" e "Le baruffe chiozzotte", due capolavori sia nel testo che nella messa in scena. Per nostra fortuna, alcune di queste serate sono state filmate e ne esiste la registrazione; non è come essere a teatro, soprattutto per Arlecchino, ma è comunque bello che si possa continuare a rivedere spettacoli così belli e con attori così grandi.
"Arlecchino servitore di due padroni" è andato in scena con molti cast differenti; il giorno in cui io ero al Piccolo Teatro di via Rovello, 28 gennaio 1979, oltre a Ferruccio Soleri come protagonista c'erano Gianfranco Mauri (Brighella), Ettore Conti (Pantalone), Enzo Tarascio (il Dottore), Roberto Chevalier (Silvio), Franco Graziosi (Florindo), Elio Veller e Riccardo Magherini (camerieri), Carlo Boso (facchino), Armando Benetti (suggeritore). Le donne erano Susanna Marcomeni (Clarice), Marisa Minelli (Smeraldina) e Anna Saia (Beatrice). Scene e costumi di Ezio Frigerio, musiche di Fiorenzo Carpi, maschere di Amleto Sartori, movimenti mimici di Marise Flach. Carlo Boso, che interpretava una piccola parte, era anche il sostituto di Ferruccio Soleri e interpretò Arlecchino in diverse recite. Non c'è molto altro da aggiungere, se non il ricordo degli applausi a scena aperta per Armando Benetti nel ruolo del suggeritore: anche in un piccolo ruolo un bravo attore si nota, e i suoi duetti con Ferruccio Soleri sono da antologia, perché il teatro vive anche di queste invenzioni.



martedì 23 giugno 2020

La Tempesta


"La Tempesta" di Shakespeare nella regia di Giorgio Strehler è un altro degli spettacoli straordinari, probabilmente irripetibili, di quelli che ti fanno pensare che un'altra "Tempesta" sarà sempre deludente - ma poi il teatro va avanti, le nuove generazioni non sanno nemmeno di cosa stai parlando e pensano che si tratti di nostalgia (no, non è nostalgia) e magari non vanno nemmeno a teatro. Del resto, il tempo è impietoso e il teatro è fatto della sostanza di cui sono fatti i nostri sogni; della "Tempesta" diretta da Strehler esiste una buona registrazione video, più che consigliabile, ma non rende l'idea di essere lì in mezzo durante la rappresentazione, magari nella tempesta iniziale, o nei volteggi aerei di Giulia Lazzarini come Ariel (volava per davvero, un prodigio teatrale degno di Leonardo), o nel finale quando Tino Carraro nei panni di Prospero spezza la sua bacchetta, e la scenografia crolla, ormai senza vita, inutile orpello a questo punto (un colpo di scena simile a quello del finale dei "Giganti della montagna" di Pirandello, sempre con la regia di Strehler). Per chi volesse avere un'idea di cosa succedeva nella scena iniziale, con il mare in tempesta, si può consigliare un film di Maurizio Nichetti di quegli anni, "Ho fatto splash" (uscito nel 1980), dove due dei protagonisti sono coinvolti nello spettacolo; si vede anche Giulia Lazzarini, che si è prestata allo scherzo.
Io ero presente nel novembre 1978, e sarei tornato a vederlo in anni successivi. Lo spettacolo era al Teatro Lirico, e non al Piccolo Teatro di via Rovello; il Lirico era di maggiori dimensioni e si prestava meglio all'allestimento, e soprattutto ai voli di Ariel / Giulia Lazzarini. C'erano tanti ottimi attori: Massimo Foschi aveva rimpiazzato Michele Placido nel ruolo di Calibano (Placido fece solo le primissime recite, se non ricordo male), Fabiana Udenio era Miranda, Massimo Bonetti era il principe, Mimmo Craig e Armando Marra erano i due clowns, la corte reale era composta da Claudio Gora, Luciano Virgilio, Osvaldo Ruggieri, Mario Carrara, Luciano Mastellari, Marco Marelli. Il capitano della nave era Bruno Noris, il nostromo Alvaro Caccianiga; scene e costumi di Luciano Damiani, movimenti mimici di Marise Flach (importantissimi in questo spettacolo), musiche di Fiorenzo Carpi. La traduzione utilizzata era quella di Agostino Lombardo.



Prospero: ... We are such stuff
as dreams are made on ;
and our little life
is rounded with a sleep.
(William Shakespeare, La tempesta, atto 4 scena 1 )

Prospero: Now my charms are all overthrown ,
and what strength I have is my own,
which is most faint : now, 'tis true,
I must be here confined by you,
or sent to Naples.
(William Shakespeare, La tempesta, il finale)

sabato 20 giugno 2020

Re Lear


"Re Lear" nella regia di Strehler è uno degli spettacoli più famosi e celebrati, direi quasi leggendario. Ne esiste una buona registrazione, quindi si può ancora vedere (c'è anche su youtube), e anche se la magia del teatro non si può ripetere questa è comunque una buona notizia.
Io ero presente nel dicembre 1977, non avevo letto quasi nulla di Shakespeare a parte l'Amleto, e lo spettacolo mi fece una grande impressione. Ancora oggi, ripensandoci, tre particolari mi sono rimasti in memoria: l'impianto scenico spoglio, quasi inesistenti le scenografie, eppure geniale (lo scenografo è Ezio Frigerio), l'interpretazione di Tino Carraro, che in teatro diventava un gigante (il cinema e la tv lo hanno troppo spesso relegato in ruoli dimessi o minori), e poi Ottavia Piccolo.
Strehler aveva avuto un'intuizione geniale, nata forse dall'avere a disposizione proprio Ottavia Piccolo: aveva notato che Cordelia e il Matto non sono mai in scena nello stesso momento, e aveva scelto di far interpretare i due personaggi dalla stessa attrice. Il risultato fu straordinario, anche perché Cordelia e il Matto vogliono bene al vecchio Re; il Matto non lo abbandona mai, Cordelia è costretta a starne lontano ma alla fine scenderà in battaglia per aiutarlo.
Il cast completo vedeva Renato De Carmine come Gloucester, Antonio Fattorini e Giuseppe Pambieri nei panni dei due fratelli Edgar ed Edmund, Franco Alpestre (bravissimo) come Kent. Luciano Virgilio, Orlando Mezzabotta e Franco Patano erano i tre re che sposano le figlie di Lear; le due sorelle di Cordelia, Regan e Goneril, erano Anna Rossini e Lia Tanzi. Nel resto del cast, composto da attori eccellenti (Franco Sangermano, Ottavio Fanfani, Ernesto Rossi, Agostino De Berti, Fulvio Ricciardi), spicca una curiosità: uno dei tre servi era Massimo Ghini, che in seguito avrebbe avuto parti da protagonista al cinema e in tv. Le musiche erano di Fiorenzo Carpi, grande compositore troppo spesso dimenticato, che fu accanto a Strehler in moltissimi spettacoli oltre che autore di colonne sonore importanti.
Anche a questo spettacolo ero arrivato quasi per caso, in compagnia, il classico "vuoi venire anche tu?"; l'impressione fu enorme fin dall'inizio, con quel velo trasparente che simboleggiava la mappa del regno, e con Tino Carraro che vi indicava le parti spettanti alle tre figlie - ma qui vi lascio, se ancora non avete letto Re Lear vi consiglio di iniziare a conoscerlo, magari (ripensando alle scelte di Strehler) proprio da una delle battute finali, dove è davvero difficile capire se Lear stia parlando di Cordelia o del Matto:
And my poor fool's hanged...




sabato 13 giugno 2020

« Libertà è partecipazione »

Due immagini che mi tornano alla memoria dopo un servizio tv per un libro su Giorgio Gaber: la prima è un Roberto Formigoni nei suoi anni felici, trionfante e contento, che canta, anzi urla, una canzone di Gaber: "libertà è partecipazione", sottolineando e ripetendo più volte con forza il concetto, "libertà è partecipazione" (ci dev'essere ancora il filmato, in qualche teca Rai). Partecipazione agli utili, viene da dire pensando all'oggi, con Formigoni in galera per questioni legate alla Sanità.

La seconda immagine, sovrapposta alla prima, è la grande tristezza di Gaber negli ultimi anni della sua vita. Avevo conosciuto Giorgio Gaber in tv, come tutti, quand'ero bambino; e in casa circolava da sempre un 45 giri con "La ballata del Cerutti", dovrei averlo ancora in cantina. Gaber era una persona allegra, era bello, faceva subito simpatia, ed è rimasto così per tutti gli anni '60; negli anni '70 ha iniziato un percorso più riflessivo, con spettacoli in teatro e testi impegnativi, ma sempre con un sorriso di fondo. Ma poi, negli ultimi anni, Gaber non stava bene e si vedeva. Non sembrava solo una malattia fisica, la malattia c'era ma Gaber non era più lo stesso, e non credo che fosse solo la vecchiaia. Altri attori e cantanti famosi, come Enzo Jannacci e Dario Fo, pur invecchiando e ammalandosi, e subendo gravi lutti, erano comunque rimasti simili a se stessi. Nei giorni scorsi ho guardato le interviste a Francesco Guccini per i suoi ottant'anni, e Guccini è ancora Guccini anche se gli anni cominciano a pesare. Per Giorgio Gaber invece non è andata così.
Che cos'era successo a Gaber? Mi capita ancora di chiedermelo, ovviamente io non posso saperlo perché sono stato solo uno spettatore come tanti, ma quella profonda tristezza mi aveva colpito, ed è ben testimoniata anche dal suo ultimo disco. Provo a fare qualche ipotesi, per quel che vale: Gaber era deluso dalla situazione politica creatasi in quegli anni, e anche dalle persone intorno a lui. E poi, sempre visto dal di fuori, dalla tv, Gaber appariva innamoratissimo della moglie, e credo che lo sia sempre stato. Forse è qui che c'è qualcosa che non torna. Sempre ragionando da lontano (da molto lontano) vedere Ombretta Colli nello stesso partito di Formigoni penso che non sia stato piacevole. Ripenso a spettacoli come "Il signor G", e l'accostamento di quei testi di Gaber con i Formigoni e i Berlusconi, con i La Russa e i Bossi, mi provoca uno stridore insopportabile.

Sono molti, ancora oggi, quelli che storpiano Gaber, quelli che citano "cos'è la destra e cos'è la sinistra" come se Gaber fosse stato un qualunquista qualsiasi, quelli che cantano "la libertà non è star sopra un albero" ma poi pensano solo a riempirsi la pancia, ma Gaber non aveva niente a che fare con il "Polo della Libertà" berlusconiano, basta leggere o ascoltare i suoi testi per capire che era sicuramente di sinistra e la sua era una critica interna alla sinistra, relativa al comportamento di amici e conoscenti che vedeva sempre più lontani dagli ideali di una società migliore.
Questi sono anche giorni in cui mi torna in mente un altro spettacolo di Gaber, "Polli d'allevamento": guarda caso, sono gli anni in cui nascevano Salvini, Di Maio, Renzi, la Meloni, eccetera. Ovviamente, dato che lo spettacolo è degli anni '70, Gaber stava pensando ad altre persone; ma dire che aveva visto lontano mi sembra più che giusto. Già la mia generazione, quelli nati quando Gaber e Jannacci cominciavano a suonare, non è stata un gran che; ma subito dopo di me sono arrivati i paninari (quelli per cui la cosa che conta di più nella vita è la marca del giubbotto e se non hai le calze firmate sei un tamarro) e poi i figli dei paninari, e ormai siamo già alla terza generazione - aveva visto lontano Gaber... Polli d'allevamento, che non sanno che cos'è per davvero la vita, che non hanno mai lavorato, che non si sono mai sporcati le mani in fabbrica o nei campi, pronti a ridere di chi glielo fa notare. Ormai anch'io ho quasi raggiunto l'età di Gaber nei suoi ultimi anni, e comincio a capire perché fosse diventato così triste, al di là delle malattie e dell'invecchiare in sè e per sè.
 
qui per ascoltare Giorgio Gaber, e in ottima compagnia.

giovedì 11 giugno 2020

I due interisti

Devo essere in fabbrica per le 22, ma come al solito arrivo mezz’ora prima. Non è una mia prerogativa: lo fanno tutti, per antica e sana consuetudine. Si arriva presto, così il collega che sta finendo il turno ha il tempo di tirare un po’ il fiato, di prepararsi per le consegne, magari anche di andare a fare la doccia prima di tornare a casa. La mattina dopo, il collega renderà il favore, e così via. Beh, non lo fanno proprio tutti: le pecore nere ci sono, non manca mai chi se ne approfitta – ma questo è un altro discorso.
Dunque, sono le 21:40 e sono già in laboratorio, pronto per mettermi a lavorare nel turno di notte in fabbrica. Ma i miei due giovani colleghi sono distratti: è una sera di maggio del 1998, e c’è la finale di Coppa dei Campioni. I due hanno portato un piccolo televisore, lo hanno sistemato in bagno e lo stanno guardando con attenzione e partecipazione: la partita è Real Madrid-Juventus, a me non interessa molto ma a loro sì. C’è una cosa che non torna: lo juventino sono io, i miei due colleghi sono interisti...

Sono ormai le 22:10, ma i miei due colleghi non se ne vanno. Sono ancora lì, a “gufare”; ogni tanto il più giovane dei due esce dal cesso (pardon, spogliatoio) e mi fa dei gestacci, soprattutto quando lo jugoslavo Mijatovic segna un gol per il Real Madrid. Rifletto, intanto che vado avanti con il lavoro: il minore dei due interisti ha 22 anni, abita a quindici minuti da qui, fossi in lui me ne andrei a casa, o al bar, o meglio ancora a morosa. Il maggiore ha 31 anni, è sposato, ha una moglie giovane e bella e abita anche lui a dieci minuti da qui: cosa ci sta a fare, a quest’ora, vicino al cesso, a sbirciare in un televisore così piccolo?
E ora veniamo alle mie colpe: avendo a che fare con persone più giovani di me, quando la Juve ha sconfitto l’Inter, una ventina di giorni fa, avevo ritenuto opportuno ricordare alcune cose fondamentali nello sport, e cioè – per esempio – che le partite durano 90 minuti, che l’Inter perdeva a dieci minuti dalla fine, che non ci si può appoggiare ad un rigore dato o non dato, che l’Inter schierava Ronaldo e Zamorano e che la difesa della Juve era fatta da giocatori logori o mediocri, a parte Ciro Ferrara: le cose che mi diceva mio padre quando io avevo quattordici anni, insomma, e guardavamo le partite insieme (mio padre non era juventino). Ma, niente: ne avevo ricavato solo una serie di insulti che stasera sto riascoltando in sequenza e con varianti, e con gestacci irripetibili rivolti alla mia persona. Adesso io non sono più l’amico e collega con cui tanto si andava d’accordo, quello che se hai bisogno ti cambia sempre il turno anche di domenica, sono solo un perfido gobbo juventino come tanti altri: il che, secondo me, non giustifica il fatto che loro due siano ancora chiusi qui dentro, alle 22:40, invece di andare a casa o a morosa. Tra l'altro, mentre loro guardavano il primo tempo della partita il lavoro è rimasto fermo, e adesso io devo correre per rimettermi in pari. Ben mi sta, così imparo ancora qualcosa della vita, all’alba dei 40 anni: così sono fatti gli operai, purtroppo, e dovevo ancora impararlo. Altre sorprese mi sarebbero arrivate negli anni successivi, e anche se sono sempre rimasto amico dei miei colleghi, da allora ho quasi smesso di parlare di calcio e anche di interessarmene. Purtroppo, del calcio non si può fare a meno, non in un ambiente quasi completamente maschile.

Quando finalmente se ne vanno, ormai verso le 23, mi siedo e penso: penso al ‘68, all’autunno caldo, alle grandi manifestazioni che hanno portato allo Statuto dei Lavoratori. Forse non ce lo meritiamo, forse hanno ragione i padroni che chiedono di ricontrattare tutto, forse – se queste sono le nuove leve della fabbrica - abbiamo dato troppe cose per scontate, democrazia compresa.
 
PS: sono passati più di vent'anni, sono successe tante cose ma questo piccolo fatto continua a darmi fastidio e a tornarmi alla memoria. All'epoca mi sembravano piccole cose, questa e le altre che mi sono successe, invece segnavano un cambiamento epocale. In quello stesso periodo, dal 1998 in poi, sono arrivate le nuove norme sul lavoro: il precariato, insomma, del quale oggi ci si lamenta. Io ormai sono fuori dal mondo del lavoro, i due interisti (Enzo e Stefano) invece ci sono ancora ben dentro. Sono loro, quelli che con te si lamentano ma poi davanti ai capi abbassano la testa e dicono sempre di sì, a mantenere il posto di lavoro mentre gli altri vengono buttati fuori - almeno finché la multinazionale non decide di chiudere e trasferire la produzione altrove, s'intende; e sono cose che capitano, ma lamentarsene a cose fatte è un po' ipocrita, a meno di non avere vent'anni ed essere appena entrati in questa gabbia di matti che è il mondo del lavoro.


martedì 9 giugno 2020

Karl Fischer


- Dai, fammi un calfisch veloce così spedisco via subito nel serbatoio - mi dice Tùtolo, insinuandosi tra i banconi del laboratorio.
- Non posso, sto facendo le analisi sull'impianto e sono urgenti. Lascia qui il campione che poi ti telefono.
- E dai, un calfiscerino, che ci vuole?
Una volta specificato che "calfisch" e "calfiscerino" sono in realtà delle analisi con il reattivo di Karl Fischer (una iodometria, che serve a determinare il contenuto d'acqua in un liquido), capisco le ragioni di Tùtolo ma io proprio non posso mollare quello che sto facendo per dare retta a lui.
- Se mi dai dieci minuti di tempo...
Ma lui sbuffa, forse anche impreca, e si attacca a qualcun altro dei miei colleghi, lamentandosi del mio comportamento.

Il Karl Fischer è un'analisi che si può fare anche a mano, ma noi abbiamo (come tutti, ormai) un apparecchietto molto utile che fa quasi tutto da solo. Quasi tutto, perché la manutenzione dobbiamo farla noi analisti: tenere pulito, prima di ogni altra cosa. Non solo c'è un elettrodo che è piuttosto delicato, ma la vaschetta in cui è immerso ogni tanto si riempie e va vuotata. Andrebbe vuotata ogni volta, a essere pignoli, ma non siamo in un'industria farmaceutica e qualche margine d'errore ci può stare. Oltre a curare che la vaschetta non trabocchi, bisogna anche controllare che le due bottiglie con i reattivi siano piene: sembrerà banale, ma lasciare le bottiglie da riempire a quello che viene dopo è una pratica molto comune e qui con me a lavorare ci sono almeno due specialisti in materia, veri virtuosi dello scaricabarile. Difatti, la mia collega che ha preso in consegna il "calfiscerino veloce" di Tutolo adesso ne avrà per almeno un quarto d'ora, perché sono capitate le due cose nello stesso tempo: le bottiglie dei reattivi vuoti, e la vaschetta strapiena e strabordante. Una volta riempite le bottiglie ed effettuata la pulizia dell'elettrodo, bisognerà calcolare il fattore di correzione; e dopo si potrà fare l'analisi. Dieci minuti è già un tempo ottimistico.

La scena si ripete diverse volte, Tùtolo viene da me e io non posso sempre dargli retta, anche perché lui lavora in un reparto che si chiama "miscele": lì non ci sono reazioni chimiche in corso, non c'è un impianto di solfatazione che produce diecimila litri di prodotto in un'ora, da Tutolo ci sono solo pentoloni dove miscelare due o tre cose e secondo logica è lui quello che deve aspettare, non gli altri reparti. Far attendere una resina epossidica in macchina può significare un mezzo disastro, se la resina si solidifica nella macchina poi servirà il martello pneumatico per tirarla fuori; se Tutolo arriva e mi chiede di fargli subito il calfiscerino io lo faccio aspettare, perché questo è il modo in cui bisogna lavorare. A me sembra ovvio, glielo spiego, penso che i miei colleghi capiscano, e invece no.
Tutolo va in giro a dire che io non lo sopporto, che non capisce perché lo mando sempre via (non è vero, quando ho tempo lo accontento), e i miei colleghi abboccano. A me sembra semplice: se ti dico che in produzione stanno aspettando questi dati d'analisi, perchè insisti? Ma i miei colleghi tutti si convincono, perchè glielo dice lui, dice che mi sta antipatico ed è per questo che gli dico sempre di mettere lì il campione che poi ti telefono: invece c'è il dottor Biribò (direttore di produzione) che aspetta proprio da me questi dati d'analisi che sto facendo, e che è già un bel po' in ansia. Possibile che sia così difficile da capire? Possibile che dopo 15 anni passati in questo posto pensino queste cose di me? In mezzo a che gente sono vissuto?

Ma, eccolo qui di nuovo. Ed ecco arrivare Christian, che dopo averlo servito mi dà una pacca sulla spalla e mi fa la battuta:
- Ecco, Giuliano, è andato via, il Tùtolo cattivo.
Queste cose, nel corso del tempo, fanno del male. Me ne accorgerò a suo tempo, il lavoro di Tùtolo è stato costante e Tùtolo, anche se è soltanto un operaio di livello medio basso, è molto ascoltato, anche in direzione. Tutolo è uno di quelli che sanno cercare e trovare appoggi e simpatie, cosa per la quale io sono negato; in ditta fa un po' di tutto, piccoli commerci, sigarette, confidenze, non per nulla prima di venire qui faceva il rappresentante di commercio. Così, dunque, imparo quanto sia sbagliato ragionare quando lavoro, dare delle precedenze non in base alle simpatie personali (io non ho niente contro Tùtolo) ma secondo le istruzioni dei miei capi e l'ormai lunga esperienza. Alle volte, sembrerà strano ma è proprio così, la cosa peggiore da fare sul lavoro è seguire le istruzioni dei superiori. La prossima volta che rinasco, mi dedicherò di più alle pubbliche relazioni - è così che si fa carriera.

Da wikipedia:  Karl Fischer (Monaco di Baviera, 24 marzo 1901 – 16 aprile 1958) è stato un chimico tedesco, inventore del metodo omonimo. Karl Albert Otto Franz Fischer studiò dal 1918 al 1924 alla Universität Leipzig di chimica. Nel 1925 con la tesi "Untersuchungen über den Einfluß verschiedener Magnesiumoxydpräparate hinsichtlich ihrer Wirkung auf Vulkanisation und Eigenschaften des Kautschuks" si laureò dottore in chimica. Rimase fino al 1927 come assistente Hochschulassistent a Lipsia. Successivamente entrò nell'industria petrolchimica. Noto è lo sviluppo nel 1935 di un sistema di titolazione per la quantificazione del contenuto d'acqua in fluidi e materiali solidi (Karl-Fischer-Verfahren), ancora oggi impiegato nell'analisi chimica nei laboratori di tutto il mondo e divenuto standard per la farmacopea. Il suo lascito è presso l'Institut für Geschichte der Pharmazie der Philipps-Universität Marburg.

domenica 7 giugno 2020

Nicola


Sono le due di notte, e in laboratorio arriva Nicola, con due vasetti in mano.
- Devi farmi subito la prova su questo Forlanit P.
- Nicola, sono le due di notte… Ho qui da fare l'impianto, i finitori da sistemare…
-  No, no, ma questo qui è urgente. Lo devi fare subito, lo ha detto il dottor Biribò.
- Ma se è in lavorazione da tre giorni!
- Appunto. E' urgente, deve andare in consegna domani.
- Ma non è un lavoro che spetta a me. E' una cosa complicata, ci vorrà almeno un'ora.
- Eh, ma cosa ci vuole. Questi sono i due intermedi, li devi mescolare secondo le proporzioni, fare la viscosità e il pH, vedere se va corretto e con che cosa, fare le prove con il TPF oppure se si deve usare qualche altra cosa, fai tutte le prove e poi…
- Nicola, ma è proprio necessario? Non potevano farle di giorno, queste prove, quando sono qui tutti? E tutto il lavoro che ho qui? E gli impianti che vanno?
- No, no, lascia lì tutto e fai questo.
Tiro un sospiro, che fare. Contro Nicola non si può combattere, ma non posso nemmeno lasciar lì il resto del lavoro: non è vero che gli impianti li posso lasciare lì senza controllarli, anzi è vero il contrario, cioè che questo benedetto fosfonato, comunque vadano le cose, è fermo in una macchina, dentro un pentolone da 5000 Kg, e invece l'impianto va, va, va sempre e bisogna tenerlo controllato, e se si ferma sono dolori.
Comunque faccio meglio che posso, mi sbrigo velocemente (conosco il mestiere), prendo i due intermedi e li mescolo nelle debite proporzioni: ma subito diventa tutto duro, quasi di perla, e devo ricominciare. Eh sì, dovevo aspettarmelo: ma, non avendolo mai fatto prima… Per fortuna, tempo ce n'è, almeno stanotte: gli impianti vanno tranquilli, è una notte quieta. E' sempre duro fare il turno di notte, ma almeno qui in laboratorio, ogni tanto, arriva la notte serena.
E dunque finisco la mia prova, e ci metto, per l'appunto, un'oretta; comunico i dati a Nicola, per telefono, e mi metto subito al lavoro perché è arrivato un nuovo campione d'impianto, e altre due o tre cosette da sistemare.

Ma ecco Nicola di ritorno: ha preso il messaggio col telefonino, ed è arrivato subito.
- E' alto di viscosità, mi hai detto?
- Sì, Nicola, è molto alto.
- Hai fatto la prova col TPF?
- No, Nicola, non l'ho fatta: mi è arrivato il campione d'impianto e lo sto analizzando.
- Lascia perdere l'impianto, e fai la prova sul fosfonato.
- Ma come faccio a lasciar perdere l'impianto? Stai scherzando, Nicola?
- No, no, dico davvero.
- Ma se Mario mi ha detto che ha dei problemi con le portate, e di farlo subito…
- No, no: lascia stare l'impianto, così ha detto il dottore. Dai la precedenza al fosfonato.
- Senti, per fare quella prova lì dovrei andare nell'altro laboratorio, qui non abbiamo il miscelatore adatto, dovrei proprio andar via e stare di là ancora per almeno mezzora.
- E tu vacci.
- Sì, ma non è il mio laboratorio, capisci? Dovrei chiedere il permesso, eccetera.
- Te lo do io il permesso.
Ma proprio in quel momento (nel frattempo ho finito l'impianto, e ho telefonato i dati a Mario) ecco che arriva una piccola valanga di campioni dall'altro reparto. Guardo Nicola, che allarga le braccia.
- E va bene, allora la prova col TPF la faccio io, - dice Nicola, e mi lascia da solo alle prese con gli altri campioni.

Nicola è un bravo ragazzo, del tipo che tutti vorrebbero come vicino di casa: silenzioso, tranquillo, piacevole nell'aspetto e di compagnia. Ma sul lavoro diventa così, soprattutto da quando lo hanno fatto capo: non cattivo, non aggressivo come tanti altri capi, ma tignoso, noioso, insistente. Leggermente ma continuamente insistente, che è forse la cosa peggiore, quella alla quale non puoi resistere: non si può litigare con Nicola, come si farebbe con altri; prima o poi devi cedere e fare quello che vuole lui.
Ed ecco Nicola di ritorno, trionfante, col bicchiere da 300 cc in mano:
- Ecco. Fammi la viscosità.
Che dire, che fare? Mollo tutto, e faccio la viscosità del fosfonato, che però è prima da centrifugare e da raffreddare. Intanto ripenso a questo benedetto prodotto, il fosfonato per l'industria tessile: lo si fa da una vita, forse da più di 40 anni. E' stato uno dei cavalli di battaglia della Ditta, oggi è un po' in declino ma lo si continua a produrre con buon successo. Insomma, lo si è sempre fatto: non è un prodotto facile, da cuocere: ma lo si è sempre fatto senza troppi problemi. Cos'è successo, oggi, che non ci riusciamo più? Si è forse perso il segreto, come diceva per scherzo uno dei vecchi, uno di quelli che oggi sono andati in pensione? C'è forse davvero un segreto dietro al vecchio fosfonato, un segreto alchemico o mistico, del tipo di quelli dei fonditori di campane o dei fabbricatori del vetro blu e dei cristalli?

Ma intanto verso il prodotto nelle provette della centrifuga, e nel versarlo mi accorgo che c'è un curioso paesaggio sul fondo del becker. Ci sono in Turchia, mi pare, dei paesaggi così: in Cappadocia, credo. Si tratta di montagnette bianche, a forma di cono o di sfera, coperte dal fosfonato che – di per sé, e soprattutto a queste viscosità – ha un aspetto e una consistenza vetrosa che rende il fondo del becker simile a un paesaggio misterioso e innevato, quasi dei minuscoli trulli argentati.
- Nicola, ma sei sicuro di aver sciolto bene il tripolifosfato? – chiedo, con una certa cautela.
- Certo! Perché me lo chiedi?
Esibisco sconsolato il mio becker, e c'è poco da eccepire. Il TPF, che è una polvere simile al bicarbonato, non si è sciolto. E' finito tutto sul fondo, e in questi casi neppure il potente miscelatore del laboratorio accanto può farci qualcosa. Bisognerebbe rifare tutto da capo, ma questa volta Nicola cede e si allontana mestamente, un po' preoccupato per la mancata bella figura e per quello che gli dirà il dottor Biribò, che lo aspetterà di sicuro la settimana prossima, quando potrà vederlo, per chiedergli conto del ma perché e del ma come mai, come è sua usanza.

Intanto sono arrivate le cinque del mattino, e il turno di notte (l'ennesimo: sono 15 anni che faccio il turno di notte) sta per finire. Così mi appresto a lavare tutto e a mettere in ordine, provette e centrifuga comprese; ma prima accendo la radio. Anzi, visto che ho portato con me un paio di cassette, metto sul registratore l'opera di Verdi che stavo ascoltando a casa: I Vespri Siciliani.
Ed ecco che inizia l'opera, e Placido Domingo, nelle vesti del tenore, viene sfidato a duello dal baritono Guido di Monforte: in realtà sono padre e figlio, ma a questo punto non lo sanno ancora. E, soprattutto, il tenore non può rispondere alla sfida: il governatore normanno ha proibito ai siciliani di portare armi.
- Ah, non poss'io, - canta sconsolato Domingo – A me fu tolto il Brando!
- Beato te! – non posso non commentare. E mi siedo, finalmente quieto, ad aspettare l'alba.

giovedì 4 giugno 2020

Pensieri in fase due ( II )

Proseguo con i pensieri raccolti nelle ultime settimane, la cosiddetta "fase due":

2.
- L'uso della mascherina anche all'aperto: da qui alla farmacia, cinquecento metri, non trovo nessuno. Quale mai contagio dovrei subire, o provocare? Quelli che fanno queste ordinanze vivono a Milano, Roma, Napoli, dove basta che una persona per palazzo scenda in strada per creare assembramento; ma non è così dappertutto. Capisco che scrivere ordinanze non è facile, ma mi viene da pensare che questi non sappiano cosa c'è al di fuori di Milano o della città dove abitano, e intanto c'è sempre in agguato un vigile pronto a multarti, 400 euro, magari anche l'ergastolo o la condanna a morte con esecuzione immediata sul posto. Nel frattempo, medici e infermieri continuano a non avere le mascherine; ma io sono obbligato da un'ordinanza a portarla anche se non c'è nessuno nel raggio di trecento metri intorno a me.
- prendo nota con dispiacere delle uscite scomposte del governatore De Luca in Campania: c'è modo e modo di dire le cose, e De Luca ha gli stessi modi dei leghisti. Non è l'unico: ecco perché non voto PD. Anche a Milano, Sala è un buon manager ma con la sinistra non c'entra niente e ad ogni occasione me lo ricorda. Che fare?

- ci sono quelli che sembrano contenti, non vedevano l'ora di mettersi la mascherina. Anche molti giornalisti e politici tengono la mascherina anche quando non sarebbe necessaria, si vede proprio che a loro piace. E i guanti, che magari sono sporchi ma chi vuoi che ci faccia caso. Guanti e mascherina sono protocolli che sono giusti nelle corsie d'ospedale, magari nel reparto infettivi; ma nella vita quotidiana basterebbe averli con sè e usarli quando servono. Per esempio, perché tenere i guanti per tre o quattro ore anche se non si tocca nulla? in metrò o sui treni ci si potrebbe tranquillamente togliere i guanti quando ci si è seduti, spero che lo si possa fare.
- molto compiacimento anche nelle uscite di alcuni virologi, del tipo "nonni e nipoti non potranno più abbracciarsi" oppure "il vaccino non riporterà alla normalità", "abituatevi a portare la mascherina anche in casa" e via di seguito. E' una questione di modi anche questa: c'è modo e modo di dire le cose. Poi per fortuna arriva Garattini che dice quasi le stesse cose ma con miglior maniera e togliendo un po' di angoscia.  C'è chi sembra davvero contento di questa situazione, e la cosa non finisce di stupirmi. Io invece penso che è come essere tutti malati, per un certo periodo prenderemo le medicine o metteremo una doccia gessata, se è necessario si fa ma non è certo il caso di esserne felici.
- mi impressionano anche le corrispondenze dalla Cina di Giovanna Botteri, per esempio l'enfasi quando parla degli asintomatici. Sembra che non avere sintomi sia un crimine. I virologi seri usano modi diversi: "Esistono infatti pazienti asintomatici: portatori sani che pur non mostrando alcun segno della malattia sono stati contagiati e possono contagiare altre persone. Una verifica su tutti i potenziali malati, quindi, sarebbe auspicabile proprio sulla base delle indicazioni della comunità scientifica internazionale", dice il professor Crisanti. Ma se ascolto le cronache di Giovanna Botteri da Pechino mi preoccupo, sembra che sia in corso la caccia all'asintomatico: "Sto bene non ho nulla, neanche una lineetta di febbre" "Linciamolo!!!"
 
- mi segno anche l'intervista tv a uno che se l'è vista brutta ma è guarito e dice "mi ha contagiato uno che stava bene, insegnerò ai miei figli a usare sempre guanti e mascherine, a non toccare i tasti del citofono o dell'ascensore". Ne ho il massimo rispetto, immagino cosa avrà passato, ma è una persona traumatizzata e avrà bisogno di un supporto psicologico, come capita a chi ha subito una disgrazia. Spero che tra un anno sia guarito anche da questa malattia e non solo dal covid. Quello che gli è successo è la stessa cosa che è capitata a chi ha avuto un incidente stradale grave, a chi ha avuto un figlio morso da un cane, o come capitò al cestista Ossola che non voleva viaggiare in aereo perché suo padre era morto a Superga nella tragedia del Grande Torino del 1949. Sono traumi da cui è difficile uscire, ma bisogna saper tornare alla vita normale e si può fare.

- assisto allibito alla proliferazione di articoli e di video sul "droplet": a quanta distanza può arrivare una goccia di saliva? Lì per lì penso che gli studi in merito siano inglesi o americani, si sa che con l'inglese succede, basta dire "Thatcher" correttamente e lo schizzo di saliva arriva; in italiano è meno probabile, anche dicendo "Renzi" o "Salvini" o "Meloni" lo sputacchio, se uno vuole s'intende, bisogna farlo a parte. L'ipotesi di una prossima nascita di un campionato mondiale di sputo e starnuto nasce in me dopo aver visto il dodicesimo dettagliatissimo servizio sul droplet, e magari c'è anche chi si sta già allenando.

Qui inizia la "fase tre", che si preannuncia ancora triste:
- mi dicono che la CRI ti telefona a casa, per chiedere se sei disposto a uno screening: e c'è chi si meraviglia perché nessuno risponde. E' ancora quella maledetta e invasiva mentalità da marketing, ormai siamo abituati a chiudere rapidamente il telefono per le troppe molestie telefoniche di chi cerca di venderci qualcosa, e quindi non c'è da stupirsi se anche alla CRI si attacca il telefono in faccia. Mi viene da pensare che sarebbe stato più semplice chiedere ai medici di base di trovare le persone per il test, ma forse esagero...
- infine, ma non finisce qui, se non si cambia strada avremo scuole, spiagge, palestre, piscine, piste da sci, musei, e quant'altro, riservate solo ai ricchi, come negli anni '30. Messi alla porta quelli che non possono prenotare o che non hanno i soldi, i ricchi si godranno delle vacanze da favola. Per sapere cosa faranno gli altri, i non ricchi, potete provare a leggere o rileggere George Orwell: i prolet di "1984", proprio loro.

martedì 2 giugno 2020

Pensieri in fase due ( I )

1.
Siamo usciti dalla cosiddetta "fase due", con la speranza che il peggio sia alle spalle. Mi sfogo quindi con un po' di pensieri raccolti durante l'ultimo mese.
 
- Ha suscitato entusiasmi l'ormai famosa "dad", didattica a distanza", le lezioni di scuola via tubo insomma. Mi sono ritrovato a guardare un dibattito tv, tra gridolini d'entusiasmo e voci di "indietro non si torna" e io che ho il diploma di perito chimico mi chiedo: ma con i laboratori, come si fa? Nella mia scuola si fanno 20-30 ore di laboratorio a settimana, non è possibile fare il laboratorio in streaming, serve la manualità. Lo stesso vale per chi studia elettrotecnica: come si fa a saldare un circuito via streaming? Oppure le scuole d'arte, i bambini delle elementari che devono imparare a scrivere bene... Ma nessuno ne parla, evidentemente hanno tutti fatto il classico; e solo a metà dibattito arriva Landini della CGIL a ricordare che la banda larga non c'è in molte zone d'Italia. In queste settimane di "lockdown", io ho provato a fare videochiamate con mio fratello ma ho dovuto rinunciare e servirmi del telefono fisso. Non è che noi si viva tra le montagne: abitiamo entrambi nella zona tra Como, Milano e Varese. Figuriamoci cosa succede, con le lezioni in streaming, a chi abita in Valtellina; a parte questo, però, il mio pensiero principale (triste, va detto) è che mi ritengo fortunato di essere fuori da questo futuro, dato che non ho figli né nipoti.

- l'incremento dell'e-commerce, presentato anch'esso con gridolini di gioia così come la "didattica a distanza"; gridolini che raddoppiano quando si nota che stiamo usando poco contante, "la moneta elettronica!!!". Insomma, tutti contenti: ma in realtà non si è usato contante perché la gente non ha speso e con il lockdown molti sono rimasti senza soldi, senza lavoro e senza prospettive future. Il pensiero che chi scrive certi articoli e fa certi servizi in tv sia un coglione mi sorge inesorabile; oltretutto c'è stato un incremento anche delle truffe on line, soprattutto quelle legate all'emergenza, ma è così bello inneggiare all'e-commerce, mica vorrai rovinargli la festa. Intanto, scendo in cortile e constato che dovremo rifare un tombino e anche una parte di selciato: quanti furgoni e camion sono entrati in cortile in queste settimane? Come saranno le strade di fuori, quante buche nuove? E, soprattutto, qualcuno ha mai visto come guidano gli autisti dell'e-commerce? Mamma mia, se ci penso rottamerei l'auto e butterei via la patente, ma poi penso che anche da pedone la mia situazione non migliorerebbe.
- la novità del fare tutto on line coinvolge anche poste e banche: si realizza quindi il sogno dei dirigenti d'azienda del Nuovo Millennio, licenziare e chiudere e ridurre il personale. E' l'unica cosa che sanno fare, è il loro momento, lo faranno di certo. Con l'ottima scusa dell'on line e dello home banking, ecco qualche altro migliaio di disoccupati in più.
- In tv regna ovunque la soprascritta "Programma registrato prima del DPCM del 4.3.2020", che a me sembra la dichiarazione ufficiale che la Rai prende per imbecilli i suoi utenti. Ho visto perfino un Alberto Lionello del 1965, "La coscienza di Zeno", con questa scritta sopra...

- un altro pensiero, da appassionato di musica, è per "la Scala in streaming" come idea per il futuro. Chi lo ha proposto ha firmato la propria dichiarazione di aperta incompetenza in materia: prima di tutto, perché le dirette (che cos'è lo streaming se non una trasmissione in diretta?) si sono sempre fatte, via radio e via tv, da quando esistono la radio e la tv; e poi - soprattutto - perché l'acustica di una sala da concerto o di un teatro sette-ottocentesco è qualcosa di unico e di irripetibile. Un esempio: ho guardato di recente la registrazione (audio e video) del "Macbeth" di Verdi diretto da Claudio Abbado. Io ero in teatro, e il finale del primo atto era un'onda sonora che travolge tutto; e prima del finale c'è il notturno tutto a mezza voce, sussurrato, quasi in silenzio. Come si fa a rendere con dei microfoni tutto questo? La soluzione tecnica, l'unica per non far saltare tutto l'impianto di registrazione, è di abbassare il volume al momento del concertato finale. Ovviamente, così facendo, salta tutto il lavoro non solo di Giuseppe Verdi ma anche del direttore d'orchestra. Che il tecnico del suono diventi più importante del direttore d'orchestra è qualcosa che ha sempre disturbato gli appassionati di musica; a meno che non si intenda per musica un tizio o una tizia che canta qualcosa nel microfono, ma in questo caso sarebbe meglio astenersi dal parlare - che è il metodo più certo per non dire scemenze.

(continua)

domenica 31 maggio 2020

Carosello

Quando si affronta la questione della pubblicità in tv la regola è porre una specie di aut-aut apocalittico: via tutta la pubblicità, oppure tutta pubblicità e senza regole. Ma questo è il modo sbagliato di porsi il problema (c'è anche chi non se lo pone affatto, il problema, e sguazza felice nella melma: ma se loro sono contenti così, noi altri poveri disgraziati mica dobbiamo seguirli come scemi, finché c'è vita c'è speranza di migliorare). Il modo giusto è dire che la pubblicità serve ed è importante, ma deve rispettare alcune regole; e la prima regola è che abbia degli spazi ben definiti, o meglio che resti dentro spazi ben definiti, da non travalicare. Il che mi riporta ai tempi di Carosello, cioè alla tv come l'ho conosciuta io, la Rai di prima dell'invasione delle tv commerciali.

Evocare Carosello è pericoloso perché parte subito una raffica di luoghi comuni da far spavento: "altri tempi, nostalgia, la durata degli spot", eccetera eccetera; ma almeno qui su questo mio blog posso fermare subito l'ondata di stupidaggini che tutti ripetono a palla, e provo a fare un discorso più ragionato. La tv devono farla i funzionari tv (e che siano ben preparati, persone colte e non raspausc), e i pubblicitari devono solo badare alla loro pubblicità. Tutto qui. Il problema, insomma, non è "pubblicità sì pubblicità no", ma usare un minimo di buon senso e di intelligenza.

Bruno Bozzetto, in un'intervista recente, ricorda quegli anni e dice che negli spot di carosello non si poteva dire il nome del prodotto: lo definisce come una cosa assurda, invece io trovo che sia stata un'idea geniale, Carosello non sarebbe stato così bello e non lo ricorderemmo ancora oggi se fosse stato puro e semplice spot. La pubblicità allora era in mano a dei veri "creativi", come Bozzetto, Pagot, Marcello Marchesi (chiedo scusa a chi mi sto dimenticando), e ancora oggi tutti si ricordano dei personaggi associati al prodotto, non solo i cartoons (molto divertenti) ma anche gli attori, Mimmo Craig, Virna Lisi, Ernesto Calindri, Cesare Polacco... Ai tempi di Carosello succedeva ogni tanto di dire "ma chi è quel cretino che se l'è inventata?". Allora succedeva ogni tanto di chiederselo, oggi succede ogni tanto di NON chiederselo. La soluzione vera, per tagliar corto, sarebbe dunque mandare via i cretini e tornare ad avere i creativi: è possibile? Direi di no, ogni volta che mi tocca guardare la pubblicità mi ritrovo sconfortato e depresso, compro certi prodotti solo perché li conosco, ma se fosse per gli spot ne farei subito a meno. Così si va verso il peggio, la gente si lamenta della qualità dei programmi ma poi non fa niente per migliorare le cose; la mia è solo una modesta proposta, rimettere (per legge) la pubblicità dentro gli appositi recinti. Tutto qui.

PS: raspausc è parola lombarda, le ultime tre lettere vanno pronunciate ush, come "uscio" insomma. Il significato penso che sia chiaro, e spero che i quattro quinti dei funzionari tv e dei "creativi" pubblicitari si riconoscano in questa parola. Se si offendono, pensino alle scemenze di cui sono responsabili, e alle cose belle e utili che si potrebbero fare avendo a disposizione un mezzo così potente.