domenica 16 agosto 2009

Arvo Pärt


Giuseppe Verdi, una volta raggiunto il successo e la tranquillità economica, riprese a studiare. Studiò di tutto, gli antichi e i suoi contemporanei, tenendosi informatissimo su tutte le novità; e riprese in mano Pierluigi da Palestrina, che aveva sempre ammirato. E’ a questo punto che se ne esce con una frase storica, di quelle che si citano sempre: che alle volte per fare qualcosa di nuovo bisogna tornare all’antico.
Un percorso simile lo ha seguito l’estone Arvo Part, con la differenza che Verdi rimase sempre se stesso, soltanto affinandosi nello stile; mentre per Part si tratta di due vere carriere, forse di due vite, differenti. Part (si può scrivere e leggere in due modi: alla tedesca, Pärt, o come l’ho scritto fin qui) nasce come compositore “sovietico” (gran brutta definizione, ma rende l’idea) e scrive sinfonie nello stile novecentesco. E’ un buon compositore, ma non particolarmente interessante né originale. Dagli anni 60, qualcosa cambia nella mente e nella vita di Part: riscopre il gregoriano, il canto russo ortodosso, le Passioni di Bach. E’ qui che nasce la grande novità di Part, che scrive composizioni bellissime, dense e rarefatte, strane e toccanti, come “Fratres”, “Tabula rasa”, “Annum per annum”, “Trivium”, “Pari intervallo”... Io l’ho conosciuto tramite il “Cantus in memory of Benjamin Britten”, scritto in memoria del grande compositore inglese, che è molto utilizzato come sottofondo di documentari, ed è stato copiato più volte (vedi i film di Ozpetek!) e quindi magari lo conoscete senza saperlo. Si tratta di una composizione breve, di cinque minuti, dove gli archi suonano come sospesi nell’aria, e si alternano al suono delle campane. Il brano finisce con una nota tenuta degli archi che sembra non finire mai, e che fa tenere sospeso anche il respiro; e, alla fine, risuona lontana una campana, che va suonata in modo che sia appena percettibile, come se venisse davvero da lontano, così lontano che invita allo stupore, e al raccoglimento.

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