Forse Ravel è davvero il Novecento in musica. Nessun altro come lui è riuscito a fondere in maniera così perfetta l’alto e il basso, il jazz e il classico, la canzone e il canto lirico, l’orchestrazione raffinata e la semplicità assoluta nel porgerla. Le interviste ai musicisti, a partire dai mostri sacri come Benedetti Michelangeli, sono piene di ammirazione per Ravel; dicono sempre che anche i passaggi all’apparenza più semplici rivelano poi difficoltà inaspettate. Sia per chi esegue che per chi ascolta, possiamo aggiungere. Potrei fare un esempio perfino ridicolo: l’imitazione del verso del gatto innamorato, un bel gattone dalla voce baritonale, nell’operina “L’enfant e les sortileges”. Non si sa se ridere o se restare ammirati, e forse è proprio questo l’effetto che voleva Ravel: divertire o commuovere, ma senza scendere a compromessi o perdere di valore.
L’elenco dei capolavori di Ravel è lunghissimo, da “La valse” (che un po’ riprende la formula del “Bolero”, ma con il valzer), ai “Valzer nobili e sentimentali”, alla “Pavane pour une infante défunte”, al “Concerto per la mano sinistra” dedicato all’amico pianista rimasto mutilato nella Grande Guerra; ma se devo scegliere una composizione, e soltanto una, allora prendo le tre “Canzoni di Don Chisciotte”, cioè “Don Quichotte à Dulcinée” su testo di Paul Morand; possibilmente nell’esecuzione di uno dei grandi baritoni francofoni, Josè van Dam o Gérard Souzay.

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