Si può coniugare il dramma con la buffoneria, la tragedia con il clownesco? E' quello che ha fatto, per tutta la sua vita, Dimitri Sciostakovic. E' per questo che, rovistando tra i pareri critici da trent'anni in qua, ne ho sempre trovati molti sconcertati o perplessi; ed è per questo che è fin troppo facile trovare appiccicati a Shostakovic una lunga sequela di luoghi comuni, come mai a nessun altro, a partire da quell'aggettivo: sovietico. Conosco Shostakovic da un tempo immemorabile, ma non per modo di dire: da prima del 1975, quando ascoltai qualcosa di suo per radio, e me ne innamorai all'istante. Ero andato a cercarlo sull'enciclopedia, cercando conferma per un nome così strano: forse con le trascrizioni moderne non l'avrei mai trovato, ma Sciostakovic, sulla mia vecchia enciclopedia, c'era; e scopersi che era ancora vivo, e nemmeno troppo vecchio, classe 1906. Da giovane, ha un viso da bambino, con gli occhiali rotondi e i lineamenti fini che, visti oggi, rimandano stranamente ai film di Harry Potter; andando avanti con l'età, lo troviamo chiuso e preoccupato, e per le ottime ragioni che possiamo ben immaginare. Perché la biografia di Shostakovic corre parallela, per più di 30 anni, a quella di Stalin; e Stalin faceva davvero paura, in quegli anni. Come per Bulgakov, la vicenda di Shostakovic (artistica e personale) è strettamente legata a quella di Stalin. Stalin era un diavolo grande e grosso, molto potente, di quelli che si possono trovare leggendo "Il Maestro e Margherita"; per lo scrittore e per il musicista aveva un rapporto quasi protettivo, ben confermato da lettere e testimonianze; li lasciava fare, ma ogni tanto si faceva sentire, quasi sempre un po' da lontano: "Come mai, caro compagno Dimitri, mi scrive di queste cose?" Ed erano brividi giù per la schiena dello scrittore, o del musicista. Zhdanov, cioè Stalin, bocciò molte opere di Shostakovic. Come sia possibile bocciare, per motivi politici, un quartetto d'archi o una sinfonia, è un mistero per me insondabile; trovo un paragone possibile solo con avvenimenti recenti, relativi alla programmazione delle tv e delle radio commerciali. Va bene solo ciò che si può vendere, oppure solo ciò che piace al popolo: in entrambe le posizioni, è severamente vietato essere originali e cercare strade nuove, è vietato essere troppo cupi, ed anche scherzare diventa pericoloso. Di Shostakovic, che quest'anno compirebbe cent'anni, sono famose le sinfonie n.5, le n.7 e n.8 (scritte in tempo di guerra, sotto l'assedio nazista), ed è diventato famosissimo, dopo l'ultimo film di Kubrick, uno dei suoi valzer dalle "Suites per orchestra jazz". Il catalogo delle opere di Sciostakovic è molto vasto, per fortuna, e non saprei cosa consigliare d'altro, a chi non lo conosce: sicuramente la bellezza e la profondità dei suoi Adagi, forse i due Concerti per pianoforte, soprattutto il secondo, tra Ravel e Gershwin, che è un'oasi di pace in mezzo a un periodo cupo e terribile. Perché Shostakovic, come Stravinskij e come Prokofiev, aveva una caratteristica che ai critici non piace, e spesso neanche al pubblico: è eclettico, non etichettabile, sa far di tutto e tutto bene, e sempre con grande originalità e personalità. E quello che io amo di più nella sua musica è ciò che più sconcerta al primo ascolto: il tragico fuso con il comico, il clown e l'Amleto, il Matto e il Re, come in Shakespeare, come in Beckett, e come nella nostra vita.
Giuliano 30 aprile 2006
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