giovedì 16 luglio 2009

Mr. Steiner

Joseph Conrad, Lord Jim, cap.XX
(traduzione di Renato Prinzhofer e Ugo Mursia; ed. Mursia e Garzanti)
A sera inoltrata entrai nel suo studio, dopo avere attraversato una stanza da pranzo imponente ma vuota e assai scarsamente illuminata. La casa era silenziosa. Mi precedeva in giacca bianca e sarong giallo a mo' di livrea un servo giavanese anziano e torvo, il quale, spalancata la porta, esclamò a bassa voce : «Oh, padrone!» e, nel farsi da parte, misteriosamente svanì come un fantasma che avesse preso corpo momentaneamente solo per quel particolare servizio.
Stein fece un mezzo giro con la sedia, e nell'atto stesso i suoi occhiali parvero scattargli sulla fronte. Mi accolse con la sua voce quieta e arguta. Un solo angolo dell'ampia stanza, l'angolo ove stava la sua scrivania, era vivamente illuminato da una lampada da tavolo col paralume, e il resto del vasto ambiente si perdeva in un'oscurità informe come un antro.
Stretti scaffali pieni di scatole uguali per forma e colore correvano attorno alle pareti, non dal pavimento al soffitto, bensì formando una fascia scura, alta un metro e venti all'incirca. Catacombe di coleotteri. Sopra erano appese a intervalli irregolari certe tavolette di legno. La luce ne raggiungeva una, e la parola “Coleoptera” scritta a lettere dorate riluceva misteriosamente nella distesa d'ombra.
Le teche di vetro che contenevano la collezione di farfalle erano disposte in tre lunghe file su tavolini dalle gambe esili. Una delle teche tolta dal suo posto stava sulla scrivania, che era cosparsa di liste di carta oblunghe e nereggianti di una fitta scrittura.
«E così mi fate visita - così,» disse. La sua mano indugiava leggera sopra la teca ove in solitaria maestà una farfalla spiegava le ali, di diciassette centimetri e più di apertura, di un color bronzo scuro con delicate venature bianche e uno sgargiante orlo di puntini gialli. «Solo un esemplare come questo hanno nella vostra Londra, e poi basta. Alla mia piccola città natale di questa mia collezione farò lascito. Qualcosa di me. Il meglio.»
Si chinò in avanti sulla poltrona e rimase a guardare assorto, col mento sopra la parte anteriore della teca. Ero in piedi alle sue spalle. «Meravigliosa,» sussurrò, e parve scordare la mia presenza. Singolare storia la sua. Era nato in Baviera, e a ventidue anni aveva preso parte attiva ai moti rivoluzionari del 1848. Gravemente compromesso, riuscì a mettersi in salvo con la fuga, riparando dapprima a Trieste presso un povero orologiaio repubblicano. Di lì si recò a Tripoli con una partita di orologi a buon mercato da vendere, - inizio non eccessivamente brillante in verità, ma che si rivelò fortunato, poiché gli fece conoscere un esploratore olandese - piuttosto famoso, credo, ma di cui non ricordo il nome.
E fu quel naturalista che, avendolo assunto come una specie di assistente, lo portò in Oriente. Viaggiarono per l'Arcipelago, insieme o separatamente, facendo raccolta di insetti e uccelli, per quattro anni o più. Poi il naturalista tornò in patria, e Stein, non avendo una patria ove tornare, restò presso un vecchio mercante conosciuto nei suoi viaggi all'interno di Celebes - ammesso che Celebes abbia un interno. Questo vecchio scozzese, unico bianco cui fosse consentito a quel tempo di risiedere nel paese, aveva il privilegio di essere amico della sovrana che comandava su tutti gli Stati di Wajo. Ho udito spesso narrare da Stein come quel tale, che aveva tutto un lato colpito da lieve paralisi, lo avesse presentato alla corte indigena poco tempo prima che un altro colpo lo portasse via.(...) Grazie a questa semplice formalità Stein ereditò la posizione privilegiata dello scozzese con tutta la sua organizzazione commerciale, unitamente a una casa fortificata sulle rive dell'unico fiume navigabile del paese. Poco tempo dopo anche la vecchia regina, che era così libera nel parlare, morì, e il paese fu turbato da vari pretendenti al trono. Stein si unì al partito di un figlio minore, quello stesso del quale trent'anni dopo non diceva altrimenti che «il mio povero
Mohammed Bonso.» Insieme divennero eroi di gesta innumerevoli, ebbero avventure sorprendenti, e una volta sostennero nella casa dello scozzese un mese di assedio, con appena una ventina di seguaci contro un esercito intero. Credo che gli indigeni parlino ancor oggi di quella guerra.
Nel frattempo, a quanto pare, Stein non mancava d'incamerare per proprio conto ogni farfalla o coleottero su cui potesse mettere le mani. Dopo ben otto anni di guerra, negoziati, tregue fallaci, sommosse improvvise, riconciliazioni, tradimenti, e via dicendo, e proprio quando la pace pareva infine ristabilita in modo permanente, il suo «povero Mohammed Bonso» fu assassinato alle porte della sua stessa residenza regale mentre d'ottimo umore smontava da cavallo al ritorno da una fortunata caccia al cervo. Tale evento rese la posizione di Stein assai malsicura, ma forse egli sarebbe rimasto ugualmente se poco tempo dopo non avesse perduto la sorella di Mohammed («la cara principessa mia moglie,» soleva dire con gravità), che gli aveva dato una figlia - madre e piccina rapite entrambe da una febbre infettiva a tre giorni l'una dall'altra. Lasciò il paese, diventatogli intollerabile dopo quella crudele perdita. Così ebbe termine la fase iniziale e avventurosa della sua esistenza.
Ciò che seguì fu tanto differente che, tranne per la realtà di un dolore mai sopito, quella strana fase della sua vita sarebbe sembrata un sogno. Aveva un po' di danaro; ricominciò tutto da capo, e col passar degli anni accumulò una fortuna considerevole. (...) Era l'armatore-di una flottiglia di golette e di naviglio indigeno, e commerciava all'ingrosso prodotti grezzi delle isole. A parte ciò viveva da solitario, ma non da misantropo, in compagnia dei suoi libri e delle sue raccolte, preparando e classificando esemplari, tenendo corrispondenza con entomologi in Europa, stendendo un catalogo ragionato dei suoi tesori. Tale era la storia dell'uomo che ero venuto a consultare senza precise speranze sul caso di Jim.

(...) Ero molto impaziente, ma rispettai la concentrazione intensa, quasi appassionata, con la quale osservava laa farfalla, come se nei riflessi bronzei di quelle fragili ali, in quei bianchi tracciati, in quelle sgargianti macchie, egli vedesse altre cose, un'immagine di cose deperibili ma tali da sfidare la distruzione come quei tessuti delicati e senza vita che mostravano uno splendore non intaccato dalla morte.
«Meravigliosa!» ripeté, alzando gli occhi su di me. «Guardate! La bellezza - ma è ancora niente - guardate la precisione, 1'arrnonia. E così fragile! E così forte! E così esatta! Questa è la Natura - equilibrio di forze colossali. Ogni stella è così - e ogni filo d'erba è così - e il possente Cosmo in perfetto equilibrio produce - questo. Questo portento; questo capolavoro della Natura - grandissima artista.»
- Mai sentito un entomologo esprimersi così, - commentai, allegramente. - Capolavoro! E l'uomo allora?
« L'uomo è stupefacente, ma non è un capolavoro, - disse, con gli occhi fissi alla teca. - Forse l'artista era un po' matto. Eh? Voi che ne pensate? A volte mi sembra che l'uomo sia venuto dove non ce n'era bisogno, dove non c'è posto per lui; perché altrimenti, come mai vorrebbe occupare tutto il posto? Come mai correrebbe qua e là menando gran vanto di sé, ciarlando di stelle, andando a incomodare i fili d'erba? »
- Acchiappando farfalle,- insinuai.
Sorrise, si gettò indietro sulla poltrona, e stese le gambe. «Sedetevi, - disse. - Questo raro esemplare l'ho catturato io stesso in una bellissima mattina. E fu una grandissima emozione. Non sapete che cos'è per un collezionista catturare un esemplare così raro. Non potete saperlo.»
Sorrisi comodamente seduto in una poltrona a dondolo. Egli pareva guardare molto oltre la parete sulla quale fissava gli occhi; e narrò che, una notte, gli era arrivato un messo dal suo “povero Mohammed,” richiedendo la sua presenza alla “residenz” - come egli la chiamava, distante un quindici o sedici chilometri lungo una pista che attraversava una piana coltivata cosparsa qua e là di tratti boscosi. Partì nelle prime ore del mattino dalla sua casa fortificata, dopo aver baciato la piccola Emma, e lasciando il comando alla principessa sua moglie.
Raccontò come ella lo avesse accompagnato fino alla porta, camminando con una mano posata sull'incollatura del cavallo; portava una giacca bianca, spilloni d'oro nei capelli, e sulla spalla sinistra una bandoliera di cuoio marrone con una rivoltella.
«Parlava come parlano le donne,- riferì egli, - dicendomi di stare attento, e cercare di essere di ritorno prima di notte, e che era una gran cattiveria la mia a voler andare da solo. Eravamo in guerra, e il paese non era sicuro; i miei uomini stavano sistemando nella casa delle imposte a prova di proiettile e caricavano i fucili, ed ella mi supplicò di non temere per lei. Era in grado di difendere la casa contro chiunque fino al mio ritorno. Ed io risi un po' per la soddisfazione. Mi piaceva vederla così ardita e giovane e forte. Anch'io ero giovane allora. Sulla porta mi afferrò la mano e me la strinse una volta e si tirò indietro. Fuori tenni fermo il cavallo finché non udii che alle mie spalle avevano sprangato la porta. C'era un mio grande nemico, un gran nobile - e anche un gran furfante - che si aggirava con tutta una banda nei dintorni. Feci sette o otto chilometri al piccolo galoppo; durante la notte era piovuto, ma le nebbie erano salite su, su, - e la faccia della terra era pulita; mi sorrideva, fresca e innocente - come un bambino. A un tratto qualcuno spara una scarica di fucilate - almeno venti colpi mi è parso. Mi sento fischiare le pallottole all'orecchio, e il cappello mi rimbalza sulla nuca. Era un piccolo inganno, capite. Erano riusciti a farmi chiamare dal mio povero Mohammed e poi avevano teso quell'imboscata. In un attimo capisco tutto, e mi dico. ... Qui ci vuole un pochino di astuzia. Il mio cavallino sbuffa, scarta, s'impenna, ed io mi piego lentamente in avanti con la testa sulla sua criniera. Si mette al passo, e di là dal suo collo riesco a scorgere con la coda dell'occhio una nuvoletta di fumo a mezz'aria davanti a un gruppo di bambù sulla mia sinistra. Mi dico. ... Ah, ah! amici miei, perché non avete aspettato un po' prima di sparare? Fin qui non è ancora gelungen. Oh, no! Prendo la rivoltella con la destra - piano - piano. Dopo tutto, erano soltanto in sette quei furfanti. Si alzano su dall'erba e si mettono a correre con i sarong rimboccati, agitando le lance sopra la testa, e strillandosi l'uno con l'altro di badare ad acchiappare il cavallo, perché io ero morto. Li lascio venir vicini come di qui a questa porta, e poi pum, pum, pum - prendendo la mira ogni volta, anche. Un altro colpo lo sparo alla schiena di un uomo, ma lo manco. Già troppo lontano. E allora mi raddrizzo in sella tutto solo sul mio cavallo con il mondo pulito che mi sorride, e i corpi di tre uomini stesi al suolo. Uno era raggomitolato come un cane, uno supino aveva un braccio sugli occhi come per ripararsi dal sole, e il terzo tira su una gamba molto adagio e con un sol calcio la stende di nuovo. Lo osservo con grande attenzione stando a cavallo, ma non succede altro - bleibt ganz ruhig - resta immobile, così.
E nel guardarlo in faccia cercando un eventuale segno di vita notai qualcosa come un'ombra lieve che gli passava sopra la fronte. Era l'ombra di questa farfalla.

Guardate la forma dell'ala. Questa specie vola in alto con forza. Alzai gli occhi e la vidi svolazzare via. Mi dico... È mai possibile? E poi la persi di vista. Smontai e procedetti molto lentamente, conducendo il cavallo per la briglia e tenendo la rivoltella in una mano mentre gettavo gli occhi su e giù, a destra e a manca, ovunque! Infine la vidi posata su un mucchietto di fango a tre metri da me. Subito cominciò a battermi forte il cuore. Lascio andare il cavallo, continuo a tenere la rivoltella in una mano, e con l'altra mi strappo dalla testa il cappello floscio di feltro. Un passo. Fermo. Un altro passo. Flop! Presa! Quando mi alzai tremavo come una foglia per l'eccitazione, e quando aprii queste belle ali e vidi qual raro e straordinariamente perfetto esemplare avessi catturato, mi girò la testa dall'emozione e mi sentii mancare le gambe tanto che dovetti sedermi per terra. Quando andavo a caccia per il professore avevo desiderato moltissimo un esemplare di questa specie. Avevo fatto lunghi tragitti e sopportato grandi privazioni; l'avevo sognata la notte, ed ecco improvvisamente l'avevo tra le dita - tutta per me! Come dice il poeta (...) 'So halt' ich's endlich denn in meinen Händen, Und nenn' es in gewissen Sinne mein.' (La tengo finalmente tra le mani / e posso in qualche modo dirla mia).
Diede enfasi all'ultima parola abbassando improvvisamente la voce, e lentamente distolse lo sguardo dal mio volto. Si mise a caricare con impegno e in silenzio una pipa dalla lunga cannuccia, poi, sostando col pollice sulla bocca del fornello, tornò a rivolgermi uno sguardo d'intesa.
«Sì, mio buon amico. Quel giorno non mi restava nulla da desiderare; avevo procurato un grosso dispiacere al mio principale nemico; ero giovane, forte; avevo l'amicizia; avevo la passione di una donna, una bambina io avevo, per colmare il mio cuore - e persino ciò che una volta avevo sognato dormendo me lo trovavo tra le mani!»
Sfregò uno zolfanello, che diede una fiamma violenta. Il suo viso calmo e pensoso ebbe una contrazione.
« Moglie, bambina, - disse, adagio, fissando la fiammella -pft! »
Un soffio spense il fiammifero. Egli sospirò e si volse nuovamente verso la teca. Le ali belle e fragili tremolarono debolmente, quasi il suo alito avesse per un attimo richiamato in vita quello sgargiante oggetto dei suoi sogni.
« Il lavoro, - riprese, all'improvviso, additando le ali spiegate, e con il solito tono dolce e allegro, - fa grandi progressi. Ho già finito di descrivere questo raro esemplare. ... Na! E qual buon vento vi porta?»
- A dire il vero, Stein, - feci con uno sforzo che mi sorprese, - sono venuto qui a descrivere un esemplare. ...
« Farfalla?» chiese, con incredula e scherzosa premura.
- Nulla di tanto perfetto, - risposi, sentendomi ad un tratto scoraggiato da ogni sorta di dubbi. -Un uomo!
«Ach so!» mormorò, e il suo viso sorridente, rivolto verso di me, si fece grave. Dopo essere rimasto per un poco a guardarmi disse adagio: «Be' - anch'io sono un uomo.»
Da ciò potete capire com'era fatto; sapeva mostrarsi così generoso e incoraggiante da indurre una persona scrupolosa ad esitare sull'orlo di una confidenza; ma se effettivamente esitai, fu per poco. Mi ascoltò sino in fondo, con le gambe incrociate. A tratti la testa scompariva completamente in mezzo ad una grande eruzione di fumo, ed un brontolio comprensivo usciva da quella nuvola. Quando ebbi finito disincrociò le gambe, posò la pipa, si sporse in avanti molto serio verso di me con i gomiti sui braccioli della poltrona, con le punte delle dita riunite insieme.
« Capisco benissimo. È un romantico.»
Mi aveva fatto la diagnosi del caso, e lì per lì rimasi sorpreso accorgendomi di quanto fosse semplice; bisogna proprio dire che il nostro colloquio aveva tutta l'aria di un consulto medico - Stein dall'aspetto professorale, seduto davanti alla scrivania in una poltrona; io, ansioso, in un'altra, di fronte a lui, ma un po' di lato - e perciò sembrò naturale chiedere:
- Che cosa si può fare?
Alzò un lungo indice.
«C'è un solo rimedio! Una cosa sola ci può guarire dall'essere noi stessi! »
Il dito calò sulla scrivania con un colpo secco. Il caso ch'egli prima aveva reso così semplice divenne se possibile ancora più semplice - e totalmente disperato. Ci fu una pausa.
- Sì, - dissi, - a rigor di termini, il problema non è guarire, ma vivere.


« Approvò annuendo, con un po' di tristezza, mi parve. «Ja! ja! In linea generale, applicando le parole del vostro grande poeta : Ecco il problema. ...»
Continuava ad annuire con comprensione. «Essere! Ach! Essere.»
Si alzò in piedi tenendo le punte delle dita posate sulla scrivania.
« Noi vogliamo essere in tanti modi diversi, - riprese. - Questa magnifica farfalla trova da posarsi su un mucchietto di fango e sta ferma; ma l'uomo non c'è verso che voglia stare fermo sul suo mucchio di mota. Vuole essere così, e poi ancora vuole essere così. ...»
Rivolse la mano in su, poi in giù. ... «Vuole essere un santo, e vuole essere un diavolo – e ogni volta che chiude gli occhi vede se stesso come un individuo in gamba - più in gamba di quanto mai possa essere. ... In sogno. ... »
Abbassò il coperchio di vetro, lo scatto automatico si chiuse con un rumore secco, e sollevando la teca a due mani egli la riportò religiosamente a posto, passando dal cerchio luminoso della lampada all'anello di luce più tenue - e infine nell'ombra informe. Fu uno strano effetto - come se quei pochi passi lo avessero trasportato fuori di questo mondo concreto e complicato.
La sua alta figura, come svuotata di materia, fluttuava silenziosa su oggetti invisibili chinandosi in gesti indefiniti; la sua voce, udita da quella lontananza ove lo si intravedeva misteriosamente occupato in cure immateriali, non era più incisiva, pareva rimbombare voluminosa e grave - attenuata dalla distanza.
«E poiché non sempre si può stare ad occhi chiusi ecco che nasce il male reale - la sofferenza del cuore - la sofferenza del mondo. Caro amico, ve lo dico io, non fa piacere scoprire che non si è in grado di tramutare il proprio sogno in realtà, perché non si ha forza abbastanza, o abbastanza intelletto. Ja.!... E intanto si continua a credere perennemente di essere un individuo in gamba, anche! Wie? Was? Gott in Himmel! Come mai? Ah! ah! ah! »
L'ombra che s'aggirava fra quelle tombe di farfalle rise fragorosamente.
«Sì! Questa cosa terribile è molto buffa. Chi nasce cade in un sogno come si cade in mare. Se si annaspa per uscire all'aria come cercano di fare gli inesperti, si affoga - nicht wahr?... No! Ve lo dico io! Bisogna all'elemento distruttore sottomettersi, e industriandosi con mani e piedi nell'acqua far sì che il profondo, profondo mare ci sorregga. Così se chiedete a me - come si può essere? »
La sua voce scattò con forza straordinaria, quasi che laggiù nell'ombra avesse ricevuto in un bisbiglio un suggerimento di saggezza.
«Ve lo dirò io! Anche per questo c'è un modo solo! »
Con un frettoloso stropiccio di pantofole si delineò nell'anello di luce debole, e improvvisamente apparve nel cerchio luminoso della lampada. La mano protesa mi si appuntava al petto come una pistola; gli occhi infossati sembravano passarmi da parte a parte, ma le labbra contratte non dissero sillaba, e dal volto svanì l'esaltazione austera di quella certezza scorta nell'ombra. Lasciò ricadere la mano puntata contro il mio petto, e subito, fattosi vicino d'un passo, me la posò piano sulla spalla. C'erano cose, disse mestamente, di cui forse non si doveva parlare, ma lui aveva vissuto tanto solo che qualche volta dimenticava - dimenticava.
La luce aveva distrutto la sicurezza che lo aveva ispirato laggiù nell'ombra. Sedette e, appoggiato alla scrivania con i due gomiti, si passò la mano sulla fronte.
«Eppure è vero - è vero. Nell'elemento distruttore immersi...»
Parlava in tono sommesso, senza guardarmi, con il viso tra le palme.
«Il modo è quello che dicevo. Seguire il sogno, e ancora seguire il sogno - e così - ewig - usque ad finem. »
La sua convinzione pareva aprire dinanzi a me in un bisbiglio una prospettiva vasta e indeterminata, come l'orizzonte crepuscolare di una pianura all'alba - oppure, chissà, al calar della notte?
Non si aveva il coraggio di decidere; ma la luce era incantevole e ambigua, col suo scarso chiarore copriva di una poesia impalpabile i trabocchetti – le tombe.
La sua vita era cominciata nel sacrificio, nell'entusiasmo per ideali generosi; egli si era spinto molto lontano, per vie diverse, per strani sentieri, e qualunque fosse il cammino l'aveva seguito senza vacillamenti, e perciò senza vergogna e senza rimpianti.
Fin qui aveva ragione lui. Il modo era quello, indubbiamente. Ma ciò non toglieva che la grande pianura dove gli uomini vagano fra tombe e trabocchetti fosse pur sempre molto sconsolata sotto la poesia impalpabile di quella luce crepuscolare, piena d'ombra al centro, circondata da un cerchio vividamente luminoso come se fosse in mezzo ad un abisso colmo di fiamme.
Quando alla fine ruppi il silenzio espressi il parere che non c'era nessuno più romantico di lui. Scrollò il capo adagio, e poi mi rivolse uno sguardo paziente e scrutatore.
Era una vergogna, disse. Eccoci là seduti a parlare come due ragazzini, invece di unire i nostri sforzi mentali per trovare qualcosa di pratico - un rimedio pratico - per quel male - per quel gran male - ripeté, con un sorriso scherzoso e indulgente.
A dispetto di ciò, la nostra conversazione non assuse un carattere più pratico. Evitavamo di pronunciare il nome di Jim come se avessimo voluto tener fuori della nostra discussione la sua entità fisica, o come se egli altro non fosse che uno spirito errante, un'ombra dolente e anonima.
« Na! - fece Stein, alzandosi. - Stanotte dormite qui, e domattina combineremo qualcosa di pratico - di pratico. »
Accese un candelabro a due bracci e mi fece strada. Attraversammo stanze buie e vuote, accompagnati dai riflessi dei lumi sorretti retti da Stein. Scivolavano lungo i pavimenti a cera, qua e là scorrendo sopra la superficie lustra della tavola, guizzando sullo spigolo sagomato di un mobile, o passavano con un balenio verticale in specchi lontani, mentre nelle profondità del vuoto cristallo si scorgevano per un attimo le figure di due uomini e il tremolio di due fiammelle sgusciare silenziosi. Egli camminava lentamente precedendomi di un passo con deferente cortesia, e sul viso c'era una quiete profonda, per così dire vigile; le lunghe ciocche di capelli biondi misti a fili bianchi gli ricadevano sparse e rade sul collo leggermente piegato.
« È un romantico - un romantico, - ripeté. convenni con un riso leggero, che suscitò un'eco sonora e inattesa da farmi subito abbassare la voce;
Con la testa piegata sul petto e reggendo alto il lume egli riprese a camminare.
<> disse.
Mi precedeva. I miei occhi ne seguivano i movimenti, ma in realtà vedevo non il capo della ditta, il gradito ospite dei ricevimenti pomeridiani, il corrispondente di società scientifiche, l'anfitrione dei naturalisti di passaggio; vedevo soltanto la realtà del suo destino, che egli aveva saputo seguire con passo che non vacilla, quella sua vita uscita da un ambiente umile, ricca di entusiasmi generosi, di amicizia, di amore, di guerra - di tutti i requisiti altamente romantici.
Sull'uscio della mia camera mi si fermò di fronte.
- Sì,- dissi, come proseguendo un discorso, - e tra l'altro avevate fatto sogni assurdi a proposito di una certa farfalla; ma quando un bel mattino il sogno vi è capitato a portata di mano non vi siete lasciata sfuggire la splendida occasione. Vero? Mentre lui...
Stein alzò una mano. «Ma lo sapete forse quante occasioni mi sono lasciato sfuggire; quanti sogni ho perduto che si erano presentati a portata di mano?>
Scrollò il capo con rimpianto.

- Fossero belli oppure no i suoi, - dissi, - egli ne conosce uno che certamente non ha afferrato.
<> disse Stein ;<>
« Mi strinse la mano sulla soglia, di sotto al braccio alzato diede un'occhiata nella mia camera.
<>
« Benché la sua camera fosse ancora oltre la mia lo vidi riprendere la via dalla quale venivamo. Tornava alle sue farfalle. »
Joseph Conrad LORD JIM capitolo XX

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